La testimonianza scritta nel processo tributario riformato
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa. - 2. I limiti di ammissibilità della prova. - 3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta. - 4. Conclusioni.
1. Premessa.
Una significativa novità della riforma del processo tributario è rappresentata dall’introduzione della prova testimoniale in forma scritta ad opera del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, applicabile ai giudizi introdotti con ricorsi notificati dopo l’entrata in vigore della L. n. 130/2022 (ossia dal 16 settembre 2022 in poi)[1].
Anzitutto, è apprezzabile, di per sé, la rimozione del divieto di prova testimoniale che finora ha limitato il diritto di difesa e violato il principio, di rilevanza costituzionale ed europea, del giusto processo.
Infatti, nel giudizio tributario hanno sempre trovato ingresso elementi probatori aventi natura analoga alla prova testimoniale ma non acquisiti con le cautele e le garanzie del rispetto del contraddittorio che invece caratterizzano, nel processo civile, l’assunzione della prova finora vietata.
Si tratta delle dichiarazioni di terzi sulle vicende di causa raccolte – generalmente prima e comunque fuori del giudizio – essenzialmente dall’ente impositore e talora pure dal contribuente.
La giurisprudenza[2] ritiene che tali dichiarazioni siano meri indizi, dovendosi perciò a esse affiancare prove ulteriori per dimostrare quanto ne forma oggetto; inoltre, occorre che il giudice ne disponga la verificazione se sorgono contestazioni in proposito.
Pertanto, il giudice, che se ne voglia servire per risolvere la lite, deve riscontrarne l’attendibilità, nel rispetto del contraddittorio: per l’esattezza, stando alla sentenza n. 18\2000 della Corte Costituzionale, ove le dichiarazioni introdotte dall’ente impositore siano messe in discussione, la Commissione tributaria – se non reputi la pretesa controversa confortata da altri mezzi di prova – “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l’attività istruttoria svolta dall’ufficio”.
Tuttavia, siamo ben lungi dall’acquisizione di una prova che offra le garanzie di quella testimoniale. Basta pensare che solo il giudice individua i soggetti da sentire e formula le richieste di chiarimenti.
Non può, quindi, che essere salutata con favore la possibilità per le parti del processo tributario di avvalersi della prova testimoniale: esse vedono così significativamente rafforzato il loro diritto di tutela giurisdizionale.
Non v’era alcun motivo, d’ordine sistematico o logico, che sorreggesse il divieto di assunzione della prova per testi.
Non solo, al posto di questo mezzo istruttorio se ne è sempre impiegato un altro – la dichiarazione del terzo, appunto – che ne è una sorta di succedaneo, del tutto inadeguato alla luce dei ricordati valori del diritto di difesa e del giusto processo.
Se poi si considera quanto è diffuso nella prassi il ricorso alle presunzioni semplici, ci si avvede facilmente che la prova testimoniale potrà essere utilmente impiegata dalla parte – di regola, il contribuente – contro cui dette presunzioni vengono fatte valere per contrastarne la valenza probatoria.
Resta ferma, invece, l’inammissibilità del giuramento, nelle varie forme che può assumere nel processo civile. E ciò è ben comprensibile, siccome incompatibile con la natura non disponibile – per la parte pubblica – del credito tributario controverso.
Inoltre, la scelta per la forma scritta è adatta al giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, stante la natura spiccatamente documentale dell’istruttoria processuale medesima.
Va altresì condivisa l’eliminazione del limite, presente nel disegno di legge di iniziativa governativa che ha condotto all’adozione della L. n. 130/2022, rappresentato dall’ammissibilità della prova qualora la pretesa tributaria fosse “fondata su verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso”.
Ora, questa prova può trovare ingresso in ogni giudizio. Ed è corretto, potendo essa risultare necessaria anche nelle cause che non traggano origine dall’impugnazione di atti basati sui menzionati verbali.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova testimoniale emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente, recepite nei menzionati verbali e atti facenti fede fino a querela di falso.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze.
Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe avere rilevanza decisiva chiamare a teste il dipendente dell’acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Oppure si pensi alla controversia relativa alla determinazione sintetica del reddito, nel cui ambito potrebbe risultare essenziale la testimonianza del familiare del contribuente che ha provveduto a sostenerne determinate spese o gli ha elargito denaro contante. O, ancora, si consideri la causa vertente sulla pretesa di collocare in Italia la residenza fiscale di una persona fisica, traente origine – come, di nuovo, l’esperienza insegna – da corrispondenza o documenti che ne collocherebbero nel nostro Paese il centro dei relativi interessi personali e/o economici: anche qui potrebbero assumere dirimente rilievo le testimonianze di coloro che hanno avuto continuativi rapporti all’estero con tale individuo.
Gli esempi potrebbero proseguire, ma è agevole rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato contraddittorio porre una limitazione del genere di quella che si leggeva nel ricordato disegno di legge.
In sintesi, si è soppresso un limite di esperibilità della prova che sarebbe stato in contrasto con i ricordati valori della tutela giurisdizionale e del giusto processo.
2. I limiti di ammissibilità della prova.
Residuano, invece, due limiti oggettivi, uno processuale e l’altro sostanziale.
In virtù del primo, la Corte di giustizia tributaria può ammettere la prova “ove lo ritenga necessario ai fini della decisione”.
Nel disegno di legge, ciò sarebbe potuto accadere solo se la prova fosse stata ritenuta “assolutamente” necessaria.
Adesso, si è opportunamente soppresso l’avverbio “assolutamente”, evitando così le difficoltà interpretative che avrebbe suscitato ed elidendo altresì un palese e ingiustificato indice di ostilità nei riguardi di questa prova.
L’attuale versione coincide con quella recepita dall’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, per cui “il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione”.
Cosicché, per ammettere la prova testimoniale, si potrà fruire dell’interpretazione offerta all’art. 58, comma 1 e ritenere, quindi, che il giudice possa avvalersene ove essa sia l’unica – poiché non surrogabile con altri mezzi istruttori – idonea a dirimere l’incertezza sui fatti decisivi per risolvere la lite.
In sostanza, in difetto di questo mezzo istruttorio, il giudizio sul fatto imporrebbe il ricorso alla regola dell’onere della prova.
Pertanto, la prova testimoniale può dirsi “straordinaria” poiché ammissibile solo in mancanza di altri elementi istruttori.
Sarebbe stato preferibile consentirne l’impiego senza il limite della “necessità”, ossia quando il Giudice l’avesse ritenuta semplicemente rilevante per provare il fatto controverso. Detta “necessità” può comprendersi nell’istruttoria in appello per evitare che le parti riservino indebitamente al secondo grado l’esercizio delle facoltà esperibili nel primo, ma non per rendere più ardua l’ammissibilità della prova testimoniale.
Il secondo limite, sostanziale, consiste nell’ammettere la prova “soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale” quando “la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso”.
Si tratta di una previsione ovvia. Per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale occorre la querela di falso.
Né può ipotizzarsi che la norma intenda altro.
È impensabile – poiché sarebbe eversivo della disciplina delle prove legali nel nostro ordinamento – che questo precetto, circoscrivendo la prova testimoniale ai fatti diversi da quelli attestati dal pubblico ufficiale, possa assegnare valore probatorio privilegiato al contenuto intrinseco di quanto il pubblico ufficiale afferma di aver compiuto.
Per esemplificare, il processo verbale di constatazione fa prova fino a querela di falso della veridicità del rinvenimento di un documento, di cui dà conto il pubblico ufficiale, ma non della veridicità del relativo contenuto. Potrà quindi ammettersi ogni prova, compresa quella testimoniale, per contrastare quanto rappresentato in tale documento.
Da segnalare, per terminare, che il nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 impiega, in termini innovativi, l’espressione “pretesa tributaria”.
Ciò potrebbe indurre a pensare che il legislatore abbia inteso assecondare l’interpretazione per cui il processo tributario ha quale oggetto il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, a meno che il contribuente non abbia dedotto uno o più vizi di legittimità del provvedimento impugnato.
Tale indicazione ermeneutica, tuttavia, è smentita da un’altra norma introdotta dalla L. n. 130/2022.
Si tratta del secondo periodo del nuovo comma 5-bis dello stesso art. 7, D.Lgs. n. 546, in base al quale “Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Questa disposizione, pur menzionando nuovamente la “pretesa impositiva”, prevede che il giudice annulli l’atto impugnato quando difetta la prova della pretesa medesima. E questo contraddice l’idea che l’oggetto del giudizio sia il rapporto sostanziale, assecondando invece la diversa impostazione secondo cui il provvedimento opposto rappresenti, sempre e comunque (ossia anche quando non vengano dedotti motivi di sua illegittimità), l’oggetto del processo tributario.
Infatti, non ravvisando vizi dell’atto impugnato e ritenendo non provata la contestazione ivi recepita, il giudice, lungi dall’annullare l’atto, dovrebbe limitarsi a dichiarare priva di fondamento la pretesa con esso avanzata, disattendendola a ogni effetto.
Quanto precede dimostra come sia, il più delle volte, arduo trovare puntuale conferma nel dettato normativo di determinate impostazioni teoriche.
Ciò non toglie che il complessivo e sistematico apprezzamento della disciplina processualtributaria conduca alla riconduzione del nostro giudizio fra quelli di “impugnazione – merito”, per usare un’efficace espressione di frequente impiegata dalla giurisprudenza, “in quanto non diretto alla mera eliminazione dell’atto impugnato ma alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria”[3].
3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta.
Ora, merita esaminare le modalità di assunzione di questa prova.
In proposito, il comma 4 dell’art. 7 richiama l’art. 257-bis cod. proc. civ[4].
Tale rinvio va inteso in termini compatibili con il regime processualtributario.
In particolare, la Corte di giustizia tributaria potrà ammettere la testimonianza, pur in difetto dell’accordo delle parti previsto dall’art. 257-bis: infatti, nel processo civile la testimonianza scritta è alternativa rispetto a quella orale, mentre nel nostro giudizio essa è l’unica forma in cui risulta ammessa.
Ben ha fatto, quindi, il legislatore – nel riformare il comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 – a precisare che non occorre l’accordo delle parti affinché questa prova sia ammessa.
Né si può pensare che il mancato accordo dei contraddittori possa pregiudicare la legittimità della disciplina testé introdotta dal punto di vista del rispetto del diritto di difesa e del principio del giusto processo.
Sebbene il contraddittorio sia attenuato nella fase di formazione della prova in ragione delle relative modalità di assunzione (sulle quali fra breve ci soffermeremo), è indubbio che il contraddittore possa opporsi all’ammissione del mezzo istruttorio invocato dall’altra parte e, nel caso in cui la deposizione testimoniale sollevi dubbi, possa chiedere al giudice di convocare il teste affinché renda oralmente le risposte ai quesiti postigli. Si aggiunga, come subito vedremo, che la controparte può chiedere che il medesimo teste si pronunci sugli stessi o su altri fatti, necessitanti di prova.
Vuol dire, allora, che il contraddittorio è posticipato, ma non disatteso. Ed è innegabile come sia ben più conforme ai menzionati principi della tutela giurisdizionale e del giusto processo la testimonianza scritta disciplinata dal comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 rispetto all’invalsa consuetudine di immettere nel processo tributario dichiarazioni di soggetti terzi, rese in difetto del benché minimo controllo da parte del giudice e senza alcun coinvolgimento dei contraddittori.
Sempre con riferimento alle parti, occorre segnalare che, rispetto alla proposta dello scorso anno della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria (ma non al disegno di legge di iniziativa governativa), questa prova può essere invocata da ciascun contraddittore e non solamente dal ricorrente in primo grado, ossia dal contribuente.
Vi è da chiedersi se, tramite la testimonianza, l’ente impositore possa sviluppare la propria attività istruttoria nella fase processuale, contravvenendo la regola, che si ritrae dal vigente quadro normativo, per cui l’avviso di accertamento rappresenta – in linea di principio e con le eccezioni dell’atto “parziale” e della sopravvenuta conoscenza di elementi precedentemente non conoscibili, che ammette l’adozione dell’avviso “integrativo o modificativo” – l’espressione compiuta e tendenzialmente definitiva della funzione di controllo degli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Non solo, se si riconoscesse questa facoltà all’ente impositore, si violerebbe il principio, di rilevanza costituzionale, di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa di repressione degli illeciti tributari.
Viene così da pensare che tale ente possa chiedere l’assunzione della testimonianza solo nei giudizi di rimborso per provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi della domanda avanzata dal privato, indicati nelle proprie controdeduzioni. E ciò a condizione che non li abbia già dedotti nell’eventuale provvedimento di diniego del rimborso, dovendo in tal caso aver previamente svolto la relativa attività istruttoria.
In casi eccezionali, nei processi generati dall’impugnazione di atti impositivi, l’ente impositore potrebbe invocare questa prova solo per dimostrare fatti dedotti a fronte di quelli impeditivi, estintivi o modificativi addotti dal contribuente per respingere la pretesa tributaria, purché essi non siano qualificabili come costitutivi di detta pretesa. Difatti, la deduzione dei fatti costitutivi della pretesa si “cristallizza” nell’atto impugnabile e non può esserne più consentita l’introduzione e la prova.
Questo mezzo istruttorio non potrà essere acquisito d’ufficio dal giudice, cui non è consentito svolgere un ruolo di supplenza o di assistenza della parte che non si è adeguatamente difesa.
L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio è ristretto ai casi nei quali le parti abbiano almeno fornito, oltre ai fatti rilevanti per la decisione, pure i relativi temi di prova.
In tali occasioni, prima di risolvere la lite ricorrendo alla regola di giudizio dell’onere della prova, il giudice deve acquisire d’ufficio i mezzi istruttori ai quali le parti abbiano fatto riferimento e che non siano in grado di fornire.
Quindi, i poteri istruttori d’ufficio sono utilizzabili solo quando (a) sia impossibile o assai difficile acquisire, da parte di chi vi è tenuto, la prova, (b) quest’ultima sia stata indicata e (c) si prospetti un’oggettiva incertezza sui fatti di causa.
Un esempio è quello del contribuente che ha dedotto un fatto risultante da un documento che non rientra nella sua disponibilità e tale fatto non sia accertabile grazie ad altre prove acquisite agli atti di causa. In tale evenienza, la Corte può ordinare, d’ufficio, l’acquisizione di siffatto documento.
Emerge, quindi, come sia da escludere l’assunzione d’ufficio della prova testimoniale. Anche ove la parte abbia indicato il potenziale testimone, il giudice non può sostituirsi ad essa, superandone inerzia, per acquisire la relativa deposizione scritta.
Una conferma in tal senso si ritrae dalla formulazione letterale del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546. Ivi si legge che la Corte di giustizia tributaria “può ammettere” la prova di cui trattasi. L’espressione, diversa da quelle che si rinvengono nei precedenti commi 1 e 2 (ove, rispettivamente, si prevede che le Corti di giustizia tributaria “esercitano” le facoltà istruttorie e “possono richiedere” determinati mezzi probatori), lascia chiaramente intendere che debba essere la parte a promuovere l’assunzione della prova per testi e spetti, poi, al giudice deciderne l’ammissibilità.
Per altro verso, la scelta della Corte di non ammettere questa prova è censurabile sia in appello che nel giudizio di legittimità.
Applicando l’art. 257-bis, il giudice, ritenuta ammissibile la prova e individuati con ordinanza i relativi capitoli, disporrà che la parte istante predisponga il modello di testimonianza sui fatti necessitanti di essere accertati e lo notifichi al testimone.
Tale modello dovrà precisare gli elementi identificativi del processo e dell’ordinanza, nonché il termine entro cui la risposta dovrà essere resa.
Il Giudice indicherà alla parte istante un termine per la notifica del modello al teste unitamente – è ragionevole ritenere – all’ordinanza di ammissione della prova. Il mancato rispetto di detto termine comporterà la decadenza – pronunciabile d’ufficio dal giudice – dal diritto di acquisire questa prova, a meno che la controparte dichiari di volerla comunque assumere o la Corte reputi giustificata – si pensi a un impedimento legittimante la remissione in termini – tale omissione. Si deve, infatti, applicare anche nel processo tributario l’art. 104 disp. att. cod. proc. civ., che sancisce quanto precede.
Il teste, poi, compilerà il modello, rispondendo separatamente a ciascuno dei quesiti ammessi dal giudice e indicando, chiarendone la ragione, a quali non potrà rispondere.
Nel processo civile, la disciplina del modello di testimonianza e delle relative istruzioni di compilazione si rinviene nell’art. 103-bis disp. att. cod. proc. civ. e nel d.m. 17 febbraio 2010: occorrerà adattare tali disposizioni attuative al giudizio tributario con un apposito regolamento.
Nel rispetto del principio del contraddittorio e come poc’anzi anticipato, se più parti intendano rivolgere diversi quesiti al medesimo teste (anche su circostanze di fatto diverse), ognuna di esse dovrà notificare un apposito modello di testimonianza recante le domande, previamente ammesse dal giudice, di rispettiva pertinenza. Non solo, potrà accadere che la richiesta di assunzione della prova testimoniale ad opera di una parte induca l’altra o le altre a formulare analoga istanza affinché siano acquisite le deposizioni di altri soggetti.
Ciò, ovviamente, avendo riguardo ai limiti, sopra evidenziati, entro i quali l’ente impositore può valersi di questo strumento istruttorio.
Il teste, poi, sottoscriverà la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ogni facciata del modello di testimonianza e lo spedirà in busta chiusa con plico raccomandato o lo consegnerà alla segreteria della Corte.
Laddove intenda astenersi, ai sensi dell’art. 249 cod. proc. civ. (che, a sua volta, richiama gli artt. 200, 201 e 202 cod. proc. pen., relativi alla facoltà di astensione dei testimoni nel processo penale), il teste dovrà comunque compilare il modello di testimonianza, indicando le proprie complete generalità e i motivi di astensione.
Secondo il comma 7 dell’art. 257-bis, se la testimonianza avrà ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, l’assunzione avverrà in termini semplificati. Ossia mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al menzionato modello. Trattasi, peraltro, di un’ipotesi che sembra di ardua verificazione nella nostra materia, essa concernendo la deposizione testimoniale volta a confermare i menzionati documenti di spesa, per tali dovendosi intendere i documenti che rappresentano l’esborso di somme di denaro sostenuto da una parte processuale e formante oggetto della materia del contendere.
Qualora il testimone non spedisca o non consegni le risposte scritte nel termine stabilito, la Corte potrà condannarlo alla pena pecuniaria non inferiore a euro 100 e non superiore a euro 1.000, contemplata dall’art. 255, comma 1, cod. proc. civ.
Se il teste non risponderà nel termine indicato dal giudice, non vi sarà alcuna conseguenza sulla possibilità di acquisirne la deposizione scritta. Il mancato rispetto del termine da parte di un soggetto terzo, infatti, non può pregiudicare la posizione della parte che ha fatto istanza per l’acquisizione del mezzo istruttorio.
Se la Corte, a seguito dell’esame delle risposte, lo riterrà opportuno, potrà sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre oralmente dinanzi a essa: ciò potrà verificarsi ove le risposte appaiano ambigue, contraddittorie o incomplete oppure se sussistano elementi che facciano sospettare dell’attendibilità del teste o dell’integrità o veridicità della deposizione resa per scritto.
Dunque, l’introduzione della testimonianza scritta tramite il richiamo all’art. 257-bis non esclude che la Corte, seppur nella sola (eccezionale) evenienza descritta, possa assumere questo mezzo istruttorio attraverso la diretta audizione del testimone, applicando – per quanto di ragione – gli artt. 244 e ss., cod. proc. civ.
L’istanza per l’acquisizione della testimonianza scritta potrà essere contenuta nel ricorso introduttivo della lite tributaria, nelle controdeduzioni della parte resistente o anche in un successivo atto difensivo, non ostandovi alcuna preclusione.
Peraltro, qualora tale istanza venga avanzata con la memoria di cui all’art. 32, comma 2, d.lgs. n. 546 o in occasione della discussione in pubblica udienza e la controparte non abbia la possibilità di svolgere i conseguenti rilievi o iniziative istruttorie, il giudice dovrà disporre un differimento della trattazione della controversia, onde consentire l’adeguato svolgimento del contraddittorio.
Nel caso in cui la parte non formuli l’istanza nel primo grado del processo, bisogna tener presente che l’art. 58, comma 1, d.lgs. 546 permette l’assunzione della nuova prova in appello solo se si dimostri di non averla potuta fornire nella precedente fase per causa non imputabile oppure qualora il giudice la ritenga “necessaria” per decidere la lite.
In ragione della coincidenza della “necessità” della prova nell’art. 7, comma 4 e nell’art. 58, comma 1, si potrebbe pensare che la condizione di ammissibilità della testimonianza sia identica nei due gradi del giudizio.
Però, se così fosse, si tradirebbe la ratio dell’art. 58, comma 1, che ha inteso comprimere lo svolgimento dell’istruttoria in appello.
Pertanto, non solo la testimonianza in appello dovrà risultare l’unica prova in grado di risolvere le incertezze sussistenti su un fatto decisivo per risolvere la causa, ma occorrerà anche dimostrare di non averla potuta invocare in primo grado per un motivo scusabile.
In pratica, si può ipotizzare che le due condizioni poste dall’art. 58, comma 1 in via alternativa per ammettere nuove prove in appello debbano, per la sola testimonianza e in via eccezionale, ricorrere congiuntamente.
Ancora, nel giudizio di rinvio cosiddetto “prosecutorio”, a seguito dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza impugnata per i motivi enunciati dall’art. 360, comma 1, n. 3) (violazione o falsa applicazione di norme di diritto) e n. 5) (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio formante oggetto di discussione tra le parti) cod. proc. civ., la testimonianza scritta non richiesta nelle pregresse fasi di merito non potrà essere acquisita. Lo si ritrae dall’art. 63, comma 4, D.Lgs. n. 546, che preclude nel processo di rinvio la formulazione di richieste diverse da quelle prese nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza cassata. Unica eccezione può essere rappresentata dal caso in cui la Corte Suprema fornisca una diversa impostazione giuridica della controversia che renda rilevanti fatti diversi da quelli precedentemente allegati dalle parti nelle fasi di merito. In tale peculiarissima circostanza potrebbe ipotizzarsi l’assunzione della testimonianza scritta non richiesta precedentemente.
Diverso è il discorso per il giudizio di rinvio cosiddetto “restitutorio”, allorché la sentenza impugnata sia stata cassata per uno degli altri motivi di ricorso per cassazione, ossia per ragioni attinenti alla giurisdizione, per violazione delle norme sulla competenza e per nullità della sentenza o del procedimento. In questo caso, le parti possono avvalersi di tutte le facoltà di cui non hanno potuto fruire nel giudizio di merito a causa del vizio riscontrato dalla Corte di Cassazione. Pertanto, volendo fare un esempio, se – a seguito dell’esame preliminare del ricorso in primo grado – fosse stato rilevato il difetto di giurisdizione del giudice tributario e la Corte di secondo grado lo avesse confermato, la cassazione della sentenza di appello non escluderebbe, nel conseguente giudizio di rinvio, la proposizione dell’istanza di acquisizione della testimonianza scritta.
4. Conclusioni.
In conclusione, la prova testimoniale è senz’altro benvenuta, sia pur con l’evidenziata nota critica sulla “necessità” della relativa assunzione.
Si tratta di una previsione avente il deliberato fine di circoscrivere la facoltà delle parti di disporre di questo mezzo istruttorio, di cui non si avvertiva l’esigenza.
Le cause nelle quali si porrà la concreta possibilità di ammettere la testimonianza saranno relativamente poche. Saranno, però e con ogni probabilità, quelle più complesse da decidere – per la molteplicità e la complessità dei fatti controversi – e, come l’esperienza insegna, quelle aventi ad oggetto le pretese impositive o le richieste di rimborso più cospicue.
Perché, allora, ostacolare il pieno esercizio delle facoltà difensive delle parti nelle liti più delicate prevedendo il menzionato limite processuale?
Oltretutto, tale eccessiva parsimonia nel consentire l’ingresso di questa prova può essere letta come un messaggio di sfiducia nelle capacità del giudice di discernere i mezzi istruttori ammissibili e di apprezzarne correttamente gli esiti. Messaggio contraddittorio se si tiene presente che, nel contesto del medesimo disegno riformatore, ha finalmente trovato spazio l’istituzione di una Magistratura tributaria professionale.
Ad ogni modo, l’esperienza dimostrerà se e in quale misura la prova per testi sarà apprezzata dal giudice tributario nel perseguire la doverosa aspirazione di appurare la verità reale delle vicende controverse in una materia di così decisiva rilevanza economica e sociale qual è quella su cui è chiamato a statuire.
Se questa esperienza sarà positiva, non potrà escludersi l’estensione, in via pretoria o grazie a un intervento legislativo, delle maglie troppo strette di ammissibilità della prova in oggetto.
Da ultimo, con l’introduzione della prova per testi, quale sarà la sorte delle dichiarazioni dei terzi, da tempo ammesse nel giudizio tributario?
Nulla osterà alla loro acquisizione e non potrà che trovare conferma il rammentato indirizzo giurisprudenziale che ad esse assegna valore indiziario, stante la piena efficacia probatoria che invece avrà la testimonianza scritta.
Questa, in ultima istanza, è la profonda e incolmabile differenza fra la prova testimoniale e tali dichiarazioni: la prima, a differenza delle seconde, non necessiterà di altre risultanze istruttorie per consentire al giudice di accertare la verità dei fatti controversi.
In sostanza, grazie alla riforma, si arricchisce la platea dei mezzi istruttori utilizzabili dai contraddittori senza comprimere alcuna delle facoltà finora esperibili.
[1] Sull’argomento, v. G. Melis, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia Insieme, 30 giugno 2022 e A. Giovanardi, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo avanti o disastrosa iattura?, in Riv. dir. trib., 8 luglio 2022.
[2] Cfr. Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18 e, più di recente, Cass., sez. V, 2 ottobre 2019, n. 24531 e Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903.
[3] V. Cass., sez. V, 6 agosto 2008, n. 21184; questo indirizzo ha trovato costante conferma nella giurisprudenza successiva.
[4] Sulla testimonianza scritta nel processo civile, fra gli altri, v. G. Balena, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della Legge sul processo civile n. 69/2009, Milano, 2009, pp. 77 ss.; G. Palmieri – M. Angelone, La testimonianza scritta nel processo civile, in Judicium 2009; U. Berloni, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di C. Consolo e M. De Cristofaro, Milano, 2009, pp. 175 ss.; R. Crevani, L’istruzione probatoria, in AA.VV., Il processo civile riformato, diretto da M. Taruffo, Bologna, 2010, pp. 325 ss.; E. Fabiani, Note sulla nuova figura di testimonianza (c.d. scritta) introdotta dalla legge n. 69 del 2009, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 823 ss.