ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario
di Salvatore Muleo
Sommario: 1. Una norma improvvisa. - 2. La disciplina dell’onere della prova. - 3. Il raffronto con altri settori dell’ordinamento. - 4. Il superamento di alcune derive giurisprudenziali. - 5. Il giudizio secondo gli “elementi di prova che emergono in giudizio”. - 6. I criteri di valutazione degli elementi di prova. - 7. I profili probatori non affrontati.
A prima lettura
1. Una norma improvvisa.
Con mossa inaspettata il legislatore della mini riforma della giustizia e del processo tributari del 2022 ha inserito all’art. 7 d. lgs. 546 del 1992 un comma 5bis, il quale si incarica di disciplinare espressamente, e per la prima volta, l’onere della prova ed i criteri di valutazione degli elementi di prova emersi nel processo, intervenendo altresì sugli elementi che il giudice deve porre a base della propria decisione.
La formulazione, va detto subito, appare poco lineare ed, anzi, particolarmente contorta, distaccandosi in tal modo dai canoni classici enucleabili dalle previsioni codicistiche.
Considerata la sofferta evoluzione della c.d. mini riforma del processo e della giustizia tributaria, si può forse immaginare che le modalità di redazione siano dovute ad una repentina inserzione di queste regole nel testo in discussione (non si trova, difatti, riferimento alcuno ad esse nella relazione parlamentare) e di un compromesso tra le forze politiche. Si ha quasi la suggestione che si sia trovato l’accordo per un’unica disposizione; e che si sia redatto, pertanto, un solo articolo nel quale sono stati inseriti più precetti, anche fortemente eterogenei, in parte rivenienti da taluni emendamenti proposti. Anzi, le modalità di redazione suggerirebbero addirittura una sorta di inserimento a sorpresa delle regole poste al secondo periodo. Ma ovviamente le considerazioni storiche circa la genesi dell’addizione normativa costituiscono argomento interpretativo debolissimo; le illazioni poi, appena accennate, rappresentano un argomento nullo. Giacché è evidentemente con il testo di legge positivo che occorre confrontarsi.
2. La disciplina dell’onere della prova.
Le statuizioni sulla regola di giudizio dell’onere della prova sono riportate nel primo e nel terzo periodo del neonato comma 5bis, racchiudendo in una sorta di sandwich le altre disposizioni in tema di prova, di cui si dirà in seguito.
Le regole sono quindi le seguenti:
- l’amministrazione finanziaria “prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”;
- “spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.
Dissolvendo la formulazione ellittica, la più probabile esegesi della norma è nel senso che incombe sull’amministrazione finanziaria l’onere della prova dei fatti, la cui sussistenza fonda la legittimità della pretesa fiscale portata dall’atto impugnato.
Ed in tal senso pare muoversi entro conosciutissime, pienamente condivisibili, posizioni dottrinarie. Sembra dar difatti attuazione al precetto alloriano secondo cui l’amministrazione deve dare a se stessa la prova della fondatezza dell’atto impositivo, prima della sua emissione[1]. Come è stato sottolineato[2], a siffatta conclusione l’insigne Autore era giunto essenzialmente sulla scorta della considerazione dell’ampio numero di presunzioni poste a favore della stessa amministrazione finanziaria.
Peraltro, l’osservazione delle previsioni normative aggiuntesi nell’ordinamento hanno indotto a ritenere che la stessa conclusione potesse esser raggiunta riflettendo in particolare sull’ingigantimento dei poteri previsti a favore dell’amministrazione finanziaria, e così prendendo le mosse dal criterio della vicinanza della prova[3].
Vicinanza della prova che assurge a criterio di rilievo costituzionale ed europeo, alla luce del quale dev’esser verificata la tenuta del sistema e dev’esser orientata l’interpretazione di eventuali norme sull’onere della prova[4].
Seguendo questa impostazione, quindi, il legislatore ordinario non è libero di disporre dell’onere della prova ad libitum, essendogli senz’altro precluso di valicare il limite della vicinanza della prova.
In altri termini, non può addossare ad una delle parti un onere (della prova) che essa non riesce facilmente a soddisfare se in uno specifico caso concreto i mezzi di prova sono maggiormente disponibili per l’altra parte. E tanto meno lo è il giudice[5].
Se queste impostazioni sono condivisibili, la regola appena scolpita nell’art. 5bis deve confrontarsi con quel criterio, al fine di non provocare difetti di tenuta del sistema, massimamente sotto i profili del diritto di difesa, dell’effettività della tutela e del giusto processo.
In tal senso, la previsione secca dell’addossamento perenne dell’onere della prova in capo all’amministrazione finanziaria – che pure, oltre ad essere chiara, è convincente poiché in genere rispettosa del principio della vicinanza della prova - può finire per provocare problemi allorquando i suoi poteri siano affievoliti. Ad esempio, poiché tutta o parte della fattispecie si è realizzata all’estero, nel caso in cui i fatti, anche eventualmente legittimanti presunzioni, siano di difficile prova da parte dell’amministrazione finanziaria utilizzando i propri poteri[6].
Ancora, la statuizione netta sull’addossamento dell’onere della prova in capo al contribuente in tutte le cause di rimborso dev’esser stemperata (o disapplicata) in relazione alla prova dei fatti la cui disponibilità non sia del contribuente.
Non si vuole, in tal modo, estendere alla fase processuale il principio procedimentale di non aggravamento, stabilito dall’art. 6, quarto comma, dello Statuto dei diritti del contribuente. Quella, infatti, è una regola che incide sui poteri dell’amministrazione finanziaria, precludendone alcune modalità di esercizio allorquando gli elementi di prova siano nella disponibilità dell’amministrazione in genere, al duplice fine di garantire la genuinità delle prove e di non porre inutili pesi al contribuente. La non addossabilità al contribuente dell’onere della prova nella fase processuale nel caso in cui gli elementi di prova non siano in suo possesso, ma egli ne indichi il punto di reperimento, è invece una applicazione, proprio, del criterio della vicinanza della prova.
In altri termini, l’art. 5bis esprime la ricaduta positiva, ed un indiretto riconoscimento, del criterio di vicinanza della prova, addossando l’onere alla parte che ordinariamente ha maggiore disponibilità degli elementi di prova. Ma, nei casi eccezionali in cui detta disponibilità non coincida con la regola generale, se ne dovranno trarre le conseguenze.
Ad avviso di chi scrive, difatti, il criterio di vicinanza della prova, in quanto strumentale rispetto all’effettività della tutela ed al diritto di difesa, è principio generale, come già detto, a valenza costituzionale ed europea. Il giudice domestico, pertanto, qualora nel singolo caso il precetto posto dal comma 5bis si ponga in conflitto con la regola superiore, dovrà non applicarlo[7] per violazione dell’art. 47 della Carta europea dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dell’art. 6 § 1 CEDU o denunciarne la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.
La novella non è in realtà sconvolgente, poiché l’atto impositivo è, non a caso, il prodotto finale dell’istruttoria procedimentale, che, a sua volta, si interfaccia con l’attività svolta dal contribuente, che, a seconda delle varie leggi d’imposta, ha vari obblighi ed oneri[8].
Come detto, il procedimento amministrativo è connotato da obblighi ed oneri del contribuente (che si configurano anche prima del suo inizio e dai quali discendono le relative preclusioni), da un lato, ed esercizi di potere dell’amministrazione finanziaria, dall’altro. Profili, questi, non toccati dalla novella.
La permanenza di un impianto così articolato induce ad escludere che la novella di per sé, tranne i casi limite ai quali ci si riferiva, possa comportare un vulnus all’attività difensiva dell’amministrazione finanziaria.
3. Il raffronto con altri settori dell’ordinamento.
L’occasione più recente in cui il legislatore era intervenuto sull’onere della prova è costituita dal codice del processo amministrativo introdotto con il d. lgs. 104 del 2010, in attuazione della legge n. 69 del 2009, ed ispirato dal principio di vicinanza della prova.
Nell’art. 64 c.p.a., difatti, è stato indicato al primo comma che spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano “nella loro disponibilità” riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. Sebbene nei commi successivi sia stato mantenuto il riferimento al principio acquisitivo, con la previsione di poteri officiosi per il giudice, pare a chi scrive che il criterio della vicinanza della prova rivesta in quell’ordinamento un ruolo decisamente primario.
La conferma del potere acquisitivo da parte del giudice amministrativo, ad opera del terzo comma dell’art. 64 c.p.a., permetterebbe, secondo parte della dottrina[9], al giudice amministrativo di distribuire l’onere della prova a seconda dell’andamento del processo e provocherebbe, secondo altra parte[10], un certo sincretismo.
Pare preferibile l’impostazione di chi ha sostenuto che, a seguito della riforma del 2010, anche nel processo amministrativo è centrale il criterio della vicinanza alla prova”[11]. Essendo peraltro il metodo acquisitivo strumentale al depotenziamento della diseguaglianza di posizioni tra la p.a. ed i privati. Così come è condivisibile l’affermazione di chi ha sostenuto che nel processo amministrativo l’onere “sussiste nei limiti della disponibilità e non oltre”[12]; asserzione che conferma che l’onere di provare è in capo a chi ha la disponibilità della prova e che è evidentemente supportata anche dalla presenza di poteri officiosi in quello schema processuale.
Nel rito tributario, invece, la positivizzazione della regola sull’onere della prova non è stata accompagnata da eguale previsione, giacché il legislatore del 2022 non è intervenuto sui poteri officiosi del giudice tributario, rimasti inalterati ed in genere ritenuti limitatissimi a causa dell’inciso del primo comma dell’art. 7 d. lgs. 546/1992. Nessuna interferenza con la regola sul riparto dell’onere della prova è stata introdotta, quindi.
Più risalente la regola nel processo civile, prevista, come notissimo, nell’art. 2697 c.c., in cui l’onere della prova è addossato a colui il quale “dice” (i.e. allega) dei fatti. Regola, però, superata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che, a far data dalla ben nota sentenza n. 13533 del 2001, emessa a Sezioni Unite, ha superato il dato positivo, in nome del criterio della vicinanza della prova, fornendo, nei casi eccezionali in cui sia necessario, un’interpretazione esattamente contraria al testo.
Come si è già osservato[13], sebbene ciò non emerga dalla sentenza ricordata, una tale interpretazione presuppone, da un punto di vista tecnico-giuridico, la (condivisibile) disapplicazione della norma interna, siccome ritenuta in contrasto con una regola europea, che in tal caso è ravvisabile nel principio di effettività della difesa.
4. Il superamento di alcune derive giurisprudenziali.
Alla luce di quanto detto, l’addossamento dell’onere della prova all’amministrazione finanziaria avrà certamente ripercussioni sulla giurisprudenza che negli ultimi anni si è andata formando a proposito della deducibilità dei costi e della loro inerenza.
Adottando un criterio non condivisibile, sia in tema di costi in relazione alle imposte sui redditi sia in tema di detrazioni iva, è stata seguita una sorta di “esplosione” (o scomposizione) della fattispecie imponibile in elementi positivi ed elementi negativi, addossando al contribuente l’onere della prova della sussistenza e della deducibilità di questi ultimi, come se fossero fatti impeditivi od estintivi[14].
In tal senso si vedano, ad esempio Cass. 15 luglio 2022 n. 22449, per l’addossamento al contribuente dell’onere della prova della infondatezza o della irrilevanza dei movimenti bancari, Cass. 12.4.2022 n. 11737, in relazione alla fonte legittima della detrazione, Cass. 21 novembre 2019 n. 30366, in tema di esistenza e natura del costo nonché relativi fatti giustificativi e la concreta destinazione alla produzione (in senso conforme Cass. 2596 del 28 gennaio 2022, Cass. n. 450 del 11 gennaio 2018, Cass. n. 18904 del 17 luglio 2018, Cass. n. 902 del 17 gennaio 2020), Cass 17 gennaio 2020 n. 902, in relazione alla prova della correlazione tra i costi di un contratto di swap e le finalità di copertura di operazioni attinenti all’attività di impresa (in senso conforme Cass. n. 10269 del 26 aprile 2017, Cass. n. 450 del 11 gennaio 2018, Cass. n. 30366 del 21 novembre 2019, Cass. 18896 del 5 luglio 2021), Cass. n. 20303 del 23 agosto 2017, in tema di presupposti dei costi inclusa l’inerenza, e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi nonché la loro congruità rispetto ai ricavi.
È proprio questa (forzata) separazione degli elementi negativi da quelli positivi a non convincere.
La fattispecie impositiva è difatti molte volte consistente in un fatto complesso, qual è, per esempio, il possesso di un reddito d’impresa. In tali casi, è l’intera realizzazione del presupposto in capo al contribuente a dover esser provata. L’onere della prova di ogni modificazione delle prospettazioni di fatto desumibili dalla (e sottostanti la) dichiarazione del contribuente, ad avviso dello scrivente, andava già posto a carico dell’amministrazione finanziaria, contrariamente da quanto concluso dalla giurisprudenza prevalente sin qui formatasi[15].
La novella quindi induce ora a ridiscutere su molti temi che sembravano acquisiti ed a ritenere, in ogni caso di rettifica di imponibile o di imposta, che l’onere della prova sia a carico dell’amministrazione finanziaria, atteso che è venuta meno ogni possibilità di interpretazione differente. E perciò a concludere che non vi sono appigli per una prosecuzione di quell’orientamento giurisprudenziale.
5. Il giudizio secondo gli “elementi di prova che emergono in giudizio”. E l’art. 115 c.p.c.?
Per altro verso, occorre domandarsi se e quale possa essere il significato della frase, riportata nella prima proposizione del secondo periodo, per cui “il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio”.
In specie, bisogna chiedersi se il legislatore abbia voluto modificare l’intero impianto del sistema tributario sino al punto da rendere la fenomenologia probatoria come esclusivamente appartenente alla sfera processuale, e non più a quella procedimentale. Se, quindi, debba anche per l’ordinamento tributario, come già per quello penale, potersi dirsi che la prova si forma solo nel processo, con contraddittorio per la (ammissione e formazione della) prova e non semplicemente sulla prova. E se, ancora, persino le regole sulla motivazione degli atti tributari, di cui ad esempio all’art. 7 dello Statuto, debbano intendersi superate, essendo tenuta l’amministrazione finanziaria a fornire la prova solo nel giudizio e non nel procedimento, con l’ovvio corollario della caduta dell’obbligo della motivazione sulla parte che ricollega gli elementi di prova alla pretesa tributaria (oltre che, nel caso dell’iva, con l’implicita abrogazione della regola, posta dall’art. 56 d.p.r. 633 del 1972, a mente della quale devono esser indicati gli elementi di prova negli atti di rettifica).
La risposta è, ad avviso di chi scrive, negativa.
Anzitutto va valutato l’argomento letterale: la norma fa riferimento ad elementi di prova emersi nel giudizio e non generalmente alla formazione della prova in giudizio.
Il richiamo alla “emersione” nel processo degli elementi probatori appare, piuttosto, la modalità con la quale il legislatore può aver ripetuto, in modo invero non necessario, che il giudice deve decidere juxta probata, ribadendo e sottolineando l’impronta fortemente dispositiva del rito nonché l’inesistenza di poteri officiosi al fine di ottenere elementi probatori che non siano stati allegati ed offerti dalle parti. E gli elementi possono esser emersi nel procedimento (con l‘onere dell’amministrazione finanziaria di riversarli nel processo) ovvero, a seguito della novella del 2022, formarsi nel processo, e per tale via emergere (si pensi alla testimonianza scritta, appena introdotta). Una tale lettura sarebbe quindi tranquillizzante per quel che concerne la supposta rivoluzione dell’intero ordinamento tributario.
Peraltro, ed anche in correlazione con un’interpretazione sistematica, una rivoluzione così ampia – come sarebbe quella sopra tratteggiata – potrebbe fondarsi solo con un comando più chiaro ed inequivocabile. E, pure dal punto di vista storico, l’esser frutto di una inaspettata inserzione difficilmente appare compatibile con uno stravolgimento totale dell’ordinamento tributario ab imis.
Senonché, se è corretta tale lettura “minimale”, occorre anche chiedersi se la disciplina inerente a come il giudizio dev’essere fondato finisca per escludere l’applicazione (pure, a partire dal 2007, pacifica) dell’art. 115 c.p.c. al processo tributario.
Tale applicazione, difatti, riposava sulla mancanza di previsione espressa da parte del d.lgs. 546/1992 e sulla non incompatibilità della regola processualcivilistica.
Ma la previsione secca - secondo cui il giudice tributario deve fondare il giudizio sugli elementi probatori emersi - significa che il giudizio deve esser basato solo su quelli? E, ancora, significa che il principio di non contestazione ex art 115 c.p.c.[16] non è più applicabile? E che il giudice non può/non deve nemmeno tener conto delle nozioni di comune esperienza?
La risposta potrebbe esser ad avviso di chi scrive negativa, riflettendo sul contenuto e sulla struttura dell’art. 115 c.p.c.. Esso in realtà racchiude tre regole: la prima sulla corrispondenza biunivoca che si crea tra il materiale probatorio offerto dalle parti (e dal pubblico ministero) e quello che deve esser esaminato dal giudice; la seconda e la terza (seppur in tale ultimo caso con diversa gradazione, atteso che il giudice “può” e non “deve” attingere ai fatti notori) sull’esclusione dal thema probandum di taluni fatti, per via della mancata contestazione dalla parte costituita o dell’esser di comune conoscenza.
Sulla scorta di tale considerazione si potrebbe allora ritenere che il legislatore del 2022 abbia inteso intervenire sulla prima statuizione, ma non sulla seconda e la terza. Se questo è corretto, dovrebbe rilevarsi che l’effetto della novella sarebbe, quanto al contenuto del precetto normativo, “ultraminimale”, poiché la statuizione dell’art. 5bis non sarebbe significativamente differente da quella dell’art. 115 c.p.c. in parte qua (elementi probatori emersi nel giudizio in luogo di prove offerte dalle parti e dal pubblico ministero). La funzione della previsione normativa riportata nell’art. 5bis potrebbe esser, allora, quella di completezza; vale a dire, di riepilogo della regola generale in una sede, l’art. 5bis, in cui le norme sulle prove sono racchiuse. E non sarebbe, del resto, la prima volta che nel decreto legislativo n. 546 del 1992 le norme processualcivilistiche sono ripetute, nonostante l’insussistenza di una tale necessità grazie al rinvio contenuto nel secondo comma dell’art. 1.
L’effetto sostitutivo – della focalizzazione, con solo diversa prospettiva, sugli elementi probatori emersi in giudizio anziché sulle prove offerte dalle parti e dal pubblico ministero – non intaccherebbe quindi l’applicabilità delle regole sulla esclusione dal thema probandum dei fatti non contestati e dei fatti notori che il giudice ritenga utilizzabili. Regole la cui compatibilità con il processo tributario è stata da lungo tempo accettata.
6. I criteri di valutazione degli elementi di prova. E l’art. 116 c.p.c?
Più articolata è la previsione dei criteri di valutazione degli elementi di prova introdotta nell’art. 5bis, che obbliga il giudice all’annullamento dell’atto impositivo (e di quello sanzionatorio, ovviamente) “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziale e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Qui il raffronto è, ovviamente, con l’art. 116 c.p.c., ai sensi del quale il giudice deve valutare gli elementi probatori in genere “secondo il suo prudente apprezzamento” (di cui poi deve dar conto in motivazione anche nel processo civile) e può desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti in relazione alle risposte fornite dalle stesse in sede di interrogatorio non formale, dal rifiuto alle ispezioni giudiziali disposte ed in genere dal contegno, processuale e non, tenuto dalle parti.
La novella sostituisce allora una valutazione rigorosa – in cui la dimostrazione probatoria dev’esser ben presente, non affetta da contraddizioni quanto all’inferenza dei vari elementi e raggiunga un livello di sufficiente attendibilità sulla scorta di riscontri circostanziali e puntuali – alla “prudente” ponderazione sancita dalla regola processualcivilistica.
Peraltro, l’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale” esprime la forte indicazione di non voler svellere l’intero impianto probatorio procedimentale tributario, che, come noto, ricorre spesso a presunzioni semplici e talora anche semplicissime, allontanandosi dagli ordinari canoni in tema di accertamento dei fatti. Qui la volontà del legislatore è chiara ed indica inesorabilmente che non sono smantellate le regole (e talora le micro-regole) previste per il procedimento di accertamento dei fatti rilevanti ai fini impositivi.
Come già era capitato proprio al primo comma dello stesso art. 7 a proposito dell’inciso “ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”, l’inciso è veramente centrale, ai fini della comprensione della disciplina. E vale a depotenziare totalmente ogni velleità interpretativa radicalmente rivoluzionaria del sistema esistente.
Ed allora, preso atto di questo forte vincolo, i criteri di valutazione imposti al giudice dall’art. 5bis si risolvono, in fin dei conti, ad un richiamo all’obbligo di valutare gli elementi probatori in modo estremamente più prudente.
La “prudenza” dell’art.116 c.p.c. significa già, in realtà, rigore nella valutazione, affidamento a ponderazioni non avventate, ma in cui le probabilità di verificazione dei fatti siano superiori; e l’obbligo di scartare soluzioni accertative in cui le probabilità (che l’enunciazione di un fatto sia vera) siano minori di altre pure possibili.
Il richiamo alla dimostrazione “in modo circostanziato e puntuale” significa, non diversamente, che l’apprezzamento degli elementi probatori dev’esser basato su elementi riscontrati precisamente, mentre i lemmi precedenti obbligano ad un nesso inferenziale forte (tra gli elementi di fatto accertati e la prova da fornire).
Anche qui, quindi, vanno scartate soluzioni che raggiungano un livello di affidabilità non alto.
E pure questa disposizione non sembra rivoluzionaria[17], ma piuttosto appare finalizzata ad evitare derive giurisprudenziali, dettagliando le operazioni di valutazioni degli elementi di prova emersi nel processo. Ed, in tale ottica, innovativa. Sebbene, come detto, non rivoluzionaria.
7. I profili probatori non affrontati.
Se l’intento del legislatore era quello di intervenire sulla disciplina della prova in genere, non si può omettere di rilevare come diversi temi restino tuttora privi di disciplina espressa.
Valga solo accennare, ad esempio, alla mancanza di un catalogo probatorio (giacché l’art. 7 d.lgs. 546/1992 si limita a vietare alcuni mezzi di prova), con la conseguente difficoltà di configurazione di mezzi di prova atipici. In tal caso la mancata previsione normativa potrebbe non esser particolarmente problematica, esistendo la possibilità di ricostruire la disciplina[18].
Tuttavia, e soprattutto, difetta una regola espressa che disciplini la conseguenza delle patologie, come fa l’art. 191 c.p.p., certamente inapplicabile al processo tributario ed invece applicabile, ad avviso di chi scrive, alla sfera procedimentale per opera del rinvio simmetrico effettuato dagli artt. 70 d.p.r. 600/1973 e 75 d.p.r. 633/1972.
[1] Cfr. E. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1966, p. 363
[2] V. F. TESAURO, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 81, ora in Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Torino, 2022, p. 272
[3] Sia consentito rinviare, in tal senso, a S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, p. 603 s., nonché a S. MULEO, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle presunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti dei poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 685 s.
[4] Ancora S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova, cit.
[5] L’idea che il giudice potesse fissare di volta in volta a chi addossare l’onere della prova era stata esposta da G. A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1942, p. 243, ma poi è stata rigettata dallo stesso Autore nella prefazione alla ristampa del 1966.
[6] Come si dirà appresso, ad avviso di chi scrive, la previsione esplicita della regola sull’onere della prova ex art. 5bis dell’art. 7 d. lgs. 546/1992 non comporta un superamento delle copiose presunzioni, persino non qualificate, esistenti nell’ordinamento tributario.
[7] Similmente a quanto avviene nel processo civile e del lavoro, in cui l’art. 2697 c.c. è letto, nelle eccezionali ipotesi in cui sia necessario in ossequio al criterio della vicinanza della prova, in modo opposto rispetto alla norma positiva. Si veda, per sintetici riferimenti, nel paragrafo successivo.
[8] Come sottolineano F. TESAURO, L’onere della prova, cit., p. 276, e G. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 588 s.
[9] C. LAMBERTI, Disponibilità ed onere della prova, relazione al convegno su: La disponibilità della domanda nel processo amministrativo, Roma 10 – 11 giugno 2011, p. 22 s. del dattiloscritto
[10] A. ROMANO TASSONE, Poteri del giudice e poteri delle parti nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., Scritti in onore di P. Stella Richter, Napoli, 2013, I, p. 467
[11] F. SAITTA, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 911 s.
[12] G. VELTRI, Gli ordini istruttori del giudice amministrativo e le conseguenze del loro inadempimento, in https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/gli-ordini-istruttori-del-giudice-amministrativo, 2013, § 2
[13] Sia consentito rinviare, ancora una volta, a S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. Trim. Dir. Trib., cit., ove anche riferimenti alla successiva giurisprudenza della Corte di cassazione, in diversi settori.
[14] Per la negazione della distinzione tra fatti costitutivi, modificativi, estintivi, etc. si veda ancora F. TESAURO, op. cit., p. 276 s., il quale ha negato l’applicabilità dell’art. 2697 c.c. al processo tributario, affermando che “esistono soltanto fatti, che giustificano l’emissione del provvedimento, il che ha un suo particolare rilievo in materia di prova delle componenti negative della situazione base (costi, in materia reddituale), di prova nei giudizi avverso dinieghi di esenzione ecc.“, e chiarendo ulteriormente, in nota, che “emanato che sia un atto, spetta all’amministrazione dimostrare in giudizio di averlo emanato legittimamente, sulla base d’una soddisfacente acquisizione dei mezzi istruttori relativi all’accertamento dei presupposti di fatto”.
[15] Per talune acute critiche v. A. MARCHESELLI, Onere della prova e diritto tributario: una catena di errori pericolosi e un “case study” in materia di “transfer pricing”, in Riv. tel. dir. trib., 2020, p. 213 s.
[16] Su cui, per tutti, cfr. I. DE PASQUALE, L’onere di contestazione specifica nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2013, I, p. 545 s.
[17] Per quanto il codice di procedura penale non sia norma applicabile al processo tributario, per mero raffronto valga solo ricordare che l’art. 192 c.p.p. obbliga il giudice a tener conto degli indizi solo se questi sono gravi, precisi e concordanti. Modificando così la regola antecedente la riforma del 1988 ed intervenendo sulla sua libertà di giudizio.
[18] Il tema, veramente interessante, non può esser qui che solamente accennato.
Mutilazioni genitali femminili (MGF) e riconoscimento dello status di rifugiato per appartenenza a particolare gruppo sociale (nota a margine di Tribunale di Firenze, Sezione Specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, decreto collegiale del 4 maggio 2022)
di Cristina Correale*
Il Tribunale di Firenze, Sezione Specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, con una interessante pronuncia del 4 maggio 2022, ha ritenuto, ponendosi in linea di continuità con una recente ordinanza della Corte di Cassazione[1], che “Tutte le forme di mutilazione genitale femminile, al di là dell’età in cui vengono compiute, rappresentano una grave violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne. In particolare, del loro diritto alla non discriminazione, all’autodeterminazione, alla protezione dalla violenza fisica e psicologica, alla salute e, nei casi più estremi, alla vita”.
Il Tribunale ha, quindi, concluso che la mutilazione genitale femminile rappresenta una forma di persecuzione nei confronti della ricorrente, in quanto appartenente ad un particolare gruppo sociale in base al genere e, valutata l’attualità del rischio in caso di rimpatrio, le ha riconosciuto lo status di rifugiata.
1. Il fatto
La ricorrente ha dichiarato di essere cittadina nigeriana, di essere nata e cresciuta a Benin City, di professare la religione cristiana e di appartenere al gruppo etnico esan. Ha concluso la scuola media e nel suo Paese ha lavorato come parrucchiera. La sua famiglia di origine è costituita dal padre, una sorella e due fratelli. Ha riferito di non poter tornare nel suo Paese per paura della ritorsione del suo ex fidanzato. In particolare ha raccontato che il giorno del loro fidanzamento, il 2 giugno 2015, suo padre aveva comunicato al suo ragazzo che, per tradizione, egli avrebbe dovuto pagare le spese necessarie all’infibulazione. La ricorrente si era rifiutata di sottoporsi a tale pratica, poiché già sua sorella era morta a seguito di tale intervento, come risultante dal certificato di morte esibito in giudizio. Poiché il suo ragazzo aveva nel frattempo già comprato tutto il necessario, questi le chiedeva di rimborsargli tutte le spese sostenute, comprese quelle per festeggiare il fidanzamento, già annunciato alla comunità. Una settimana dopo il rifiuto della giovane, il ragazzo si era presentato presso il suo negozio di parrucchiera, nuovamente pretendendo il pagamento delle spese affrontate. Non avendo ottenuto ciò che voleva, aveva distrutto il negozio. Lo stesso giorno vi era stata una colluttazione tra il ragazzo e il padre della ricorrente. Per questo ella aveva deciso di lasciare il Paese il 30 giugno 2015 per raggiungere la Libia grazie ad un trafficante, fino ad arrivare in Italia nel 2016.
La Commissione territoriale ha rigettato la domanda sul presupposto dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla ricorrente, ritenute estremamente vaghe, nonché prive di coerenza con le fonti internazionali consultate, secondo le quali la mutilazione genitale femminile viene praticata nella maggioranza dei casi su bambine e adolescenti, mentre la richiedente era già in età da marito.
2. La motivazione del Tribunale
La pronuncia in esame evidenzia in primis la necessità che, a fronte di allegazioni nel complesso esaustive e plausibili, come quelle rese dalla richiedente nella fattispecie, il giudice faccia opportuna applicazione del dovere di cooperazione del giudice e del principio di attenuazione dell’onere della prova, discendenti dall’art. 3 d.lgs.n.251/2007 e dall’ art. 8 d.lgs. n25/2008, ma più in generale in applicazione del principio del rimedio effettivo, previsto dall’art. 47 Carta di Nizza, oltre che dagli artt. 6 e 13 CEDU, necessità ribadita, per la materia della protezione internazionale, dall’art. 46, par. 1 della direttiva 2013/32/UE.
L’acquisizione officiosa delle COI (Country of Origin Information) ha consentito ai giudici fiorentini di verificare l’attendibilità del narrato della giovane donna, atteso che dalle fonti internazionali è risultato che, sebbene tra gli Esan di Uromi- etnia della ricorrente- il momento preferito per la FGM sia l’adolescenza, circa il 25% del campione, intervistato dai ricercatori ed estensori del report, ha dichiarato di aver subito la mutilazione in una età che va dai 16 ai 21 anni, come dichiarato dalla richiedente in udienza. Da altro report è emerso, inoltre, che in quasi tutti i casi segnalati la mutilazione non era avvenuta in giovanissima età, ma in coincidenza del matrimonio o addirittura durante la gravidanza e che, per i gruppi etnici localizzati nell’Edo State – da cui proveniva la ricorrente - il momento della mutilazione era prima del matrimonio.
L’attività istruttoria officiosa[2] compiuta dal Tribunale, anche attraverso l’audizione giudiziale della ricorrente, ha, dunque, consentito di verificare sia l’attendibilità delle dichiarazioni poste a fondamento della domanda di protezione internazionale, nel pieno rispetto del principio del rimedio effettivo di cui all’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e degli obiettivi posti agli Stati dalla Convenzione di Istanbul del 2011, sia l’attualità del pericolo in caso di rimpatrio, giacchè dalle COI è emerso che le ragazze, che rifiutano di sottoporsi alla pratica di MGF, rischiano di essere ostracizzate, evitate o picchiate dalla loro famiglia e dalla comunità, come riferito dalla richiedente.
Il Tribunale ha riconosciuto alla ricorrente lo status di rifugiata poiché, in caso di rientro nel suo paese, rischierebbe di essere discriminata e di subire atti di persecuzione in quanto appartenente ad un particolare gruppo sociale[3].
Sotto il profilo dell’inquadramento sostanziale, il collegio fiorentino richiama, tra l’altro, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica siglata ad Istanbul in data 11 maggio 2011[4].
Nel preambolo, la suddetta Convenzione definisce la violenza contro le donne come species della più ampia fattispecie della violenza di genere, e le MGF e i matrimoni forzati (insieme con la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore”) come gravi violazioni dei diritti umani delle donne e delle ragazze e principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi, sancendo poi espressamente una serie di delitti caratterizzati da violenza contro le donne e richiamando gli Stati ad includerli nei loro codici penali o in altre forme di legislazione, qualora non sono già esistenti nei loro ordinamenti giuridici; tra di esse le mutilazioni genitali femminili (art. 38).
Essa sancisce all’art. 60 che gli Stati firmatari adottino «le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A(2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare/sussidiaria». L’art. 60 par. 2, inoltre, sollecita gli Stati ad applicare un’interpretazione sensibile al genere (gender-sensitive interpretation) per ciascuno dei motivi menzionati dalla Convenzione di Ginevra. In più l’Explanatory Report richiama le Linee Guida dell’UNHCR sulla Protezione Internazionale N. 2: “Appartenenza a un determinato gruppo sociale” nel contesto dell’art. 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo Status dei Rifugiati, 7 maggio 2002, (HCR/GIP/02/02).
Tali linee guida, così come la “Nota orientativa sulle domande d’asilo riguardanti la mutilazione genitale femminile” dell’UNHCR del maggio 2009, evidenziano la gravità e la pericolosità della mutilazione genitale femminile, che viene ripetuta in occasione del matrimonio e di gravidanze, con conseguenze estremamente negative per le donne, sia fisiche che mentali, di lungo periodo, giungendo a considerarla come “una forma di violenza basata sul genere che infligge grave danno, sia fisico che mentale, e costituisce fondato motivo di persecuzione”.
Come ha di recente evidenziato la S.C.[5], le pratiche di mutilazione genitale femminile, che certamente costituiscono motivo di riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria, ai sensi dell'art. 14, lettera b), del D. Lgs. n. 251 del 2007, rappresentando, per la persona umana che le subisce o rischia di subirle, un trattamento oggettivamente inumano e degradante, possono configurare anche motivo di riconoscimento dello status di rifugiato “ove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, al fine di realizzare un trattamento ingiustamente discriminatorio, diretto o indiretto, della donna, in relazione alla previsione di cui all'art. 7, lettere a) ed f), del D. Lgs. n. 251 del 2007. In tema di protezione internazionale, infatti, vige il principio per cui gli atti di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato possono essere integrati da qualsiasi comportamento discriminatorio realizzato in danno di una determinata categoria di soggetti, ancorché in esecuzione di provvedimento legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13932 del 06/07/2020, Rv. 658240) o comunque con modalità idonee a limitare, direttamente o indirettamente, l'autodeterminazione ed il dissenso dei soggetti discriminati (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 25567 del 12/11/2020, Rv. 659674).”.
È pertanto necessario che il giudice, attraverso l’analisi del caso concreto, verifichi tutti i fatti pertinenti del paese di origine, come ha fatto il collegio fiorentino, “compresa l'esistenza di disposizioni normative o di pratiche tollerate, o comunque non adeguatamente osteggiate, nell'ambito del contesto sociale e culturale esistente nel predetto Paese di provenienza, al fine di accertare se, effettivamente, una determinata categoria -nel caso di specie, le donne- sia di fatto discriminata nel libero godimento e nell'esercizio dei suoi diritti fondamentali.”
Da ultimo, va affrontata la questione della possibilità di riconoscere lo status di rifugiato (o al limite la protezione sussidiaria) nell’ipotesi in cui la donna, diversamente dal caso all’esame del Tribunale di Firenze, sia scappata dal paese di origine dopo aver subito una mutilazione genitale, poiché in alcune pronunce di merito si è pervenuto al rigetto della domanda in tali fattispecie, sull’assunto che la MGF sia un’azione che si verifica una volta sola, che non può essere ripetuta sulla stessa ragazza o donna, con difetto di un rischio attuale in caso di rimpatrio[6].
Invero, oltre al caso in cui la persecuzione patita sia stata particolarmente atroce e la donna o ragazza stia ancora vivendo perduranti effetti traumatici o psicologici, che rendano intollerabile il rinvio nel paese d’origine, i presupposti per il riconoscimento dello status ricorrerebbero, alla luce della giurisprudenza di merito e di legittimità sinora esaminata, anche quando la donna, che abbia già subito tale pratica, in base alle circostanze individuali del suo caso e della specifiche usanze della sua comunità, sia esposta al rischio di essere sottoposta a un’altra forma di FGM e/o soffrire conseguenze di lungo periodo particolarmente gravi derivanti dalla pratica iniziale[7] oppure essere sottoposta ad altra forma di persecuzione in quanto donna e, quindi, appartenente ad un particolare gruppo sociale legato al genere, alla luce delle pertinenti informazioni sul paese di origine.
La pratica, infatti, oltre ad essere di per sé lesiva di diversi diritti compresi nel nucleo inalienabile delle prerogative fondamentali dell'individuo, quali quello all'integrità personale, alla libera scelta sessuale - poste le conseguenze, fisiche e psicologiche, che la mutilazione comporta per la successiva vita sessuale ed intima della donna - ed alla salute, con riferimento ai gravi ed inutili rischi che da tale pratica derivano, comporta un trattamento discriminatorio, perché essa costituisce un simbolo di diseguaglianza della donna rispetto all'uomo.”[8]
*Giudice della Sezione Specializzata in materia di Immigrazione, Protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea del Tribunale di Napoli.
[1] La S.C. ha affermato che “gli atti di mutilazione genitale femminile (che rappresentano violazioni dei diritti delle donne alla non discriminazione, alla protezione dalla violenza sia fisica che psicologica, alla salute e financo alla vita) costituiscono atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale che giustificano il riconoscimento dello status di rifugiato” (cfr. Cass. civ. Sez. 3 Ordinanza n. 8980 del 18/03/2022).
[2] Sul dovere di cooperazione istruttoria in un caso analogo, si veda Cass. Sez. 1, ordinanza n. 29836 del 18/11/2019, secondo cui "In tema di protezione internazionale, nel caso in cui il ricorrente alleghi l'effettuazione nel Paese d'origine (Guinea) dell'infibulazione della figlia minorenne, l'esercizio del potere dovere di cooperazione istruttoria non può limitarsi alla verifica dell'obbligatorietà del ricorso a tale pratica a livello legale o religioso, ma deve estendersi fino all'acquisizione di informazioni accurate e aggiornate sul costume sociale cogente nel Paese, acquisendole dagli organismi internazionali che si occupano del monitoraggio della pratica dell'infibulazione, in modo da accertare se sussista un condizionamento collettivo in base al quale essa sia comunque percepita come doverosa"
[3] Ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, “è riconosciuto rifugiato colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”.
[4] Reperibile al seguente indirizzo del COE: https://rm.coe.int/16806b0686
[5] Cass. Sez. 1, ordinanza n.29971/21 del 15.9.21
[6] In proposito, si rammenta tuttavia come, all'art. art. 3, comma IV del D. Lgs. 251/2007 sia così stabilito: "il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, salvo che si individuino elementi o motivi per ritenere che le persecuzioni o i danni gravi non si ripeteranno […]”.
[7] In questo senso si esprime la Nota orientativa dell’UNHCR già citata.
[8] Così Cass. ord. 29971/21 cit.
La dirigenza giudiziaria in un’organizzazione al servizio del cittadino[i]
di Andrea Mascherin
Sommario: 1. Il punto di vista - 2. Comune cultura della giurisdizione - 3. Modelli giudiziari - 4. La scelta del dirigente giudiziario - 5. Le correnti - 6. Nota conclusiva.
1. Il punto di vista
Il mio intervento sull’argomento integra naturalmente un punto di vista personale, certo non tale da poter essere considerato come la posizione dell’avvocatura. Posso aggiungere che le mie valutazioni derivano dall’esercizio della professione, ma anche dalle cariche istituzionali ricoperte, dapprima come presidente di Consiglio dell’Ordine degli avvocati, dappoi come presidente del Consiglio Nazionale Forense. In tali vesti ho avuto modo di analizzare gli argomenti inerenti il funzionamento dei Consigli Giudiziari, del Direttivo della Cassazione, del Consiglio Superiore della Magistratura. In particolare, come presidente del CNF, ho sottoscritto il 13 luglio 2016, un protocollo con il CSM.
Richiamo questa esperienza per alcuni passaggi di interesse reperibili in tale documento: “…CSM e CNF intendono sviluppare una collaborazione, al fine di concordare iniziative comuni tra magistratura e avvocatura per individuare le reali necessità del sistema giustizia, tenendo conto delle effettive esigenze che emergono presso ciascun ufficio giudiziario…”; “si ritiene opportuno sviluppare azioni sinergiche per favorire il miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia italiana”; “…concordare iniziative comuni per la promozione di una comune cultura della giurisdizione tra magistratura e avvocatura sui temi di riforma della giustizia, dell’organizzazione giudiziaria del processo civile e penale, e del processo telematico, ovvero finalizzate a individuare le reali necessità del sistema giustizia…”; “…favorire lo studio e la più ampia condivisione delle buone pratiche in uso presso gli uffici giudiziari per favorire la diffusione sul territorio nazionale della positiva esperienza di innovazione organizzativa e di miglioramento della qualità dei servizi della giustizia penale e civile, di suggerire il funzionale utilizzo delle risorse economiche e di personale…”. Non è questa la sede per illustrare la successiva applicazione operativa del protocollo, quelli evidenziati sono spunti per le riflessioni che seguiranno, e che si limitano all’argomento della scelta della dirigenza, senza entrare negli altri, numerosi ambiti, riferibili all’Ordinamento giudiziario.
2. Comune cultura della giurisdizione
Il tema della scelta della dirigenza giudiziaria è tema che può prestarsi a valutazioni formalistiche, burocratiche, politiche, “sindacali”, ecc…, ma in realtà è argomento che non deve essere disgiunto dall’idea di giurisdizione, divenendo così un tassello di un quadro molto più ampio e culturalmente di grande rilievo. Il modello di giurisdizione, che viene a delinearsi in uno Stato, riflette il grado di evoluzione di una democrazia, più o meno compiuta. Certo la giurisdizione va intesa come uno spazio di libertà senza sovrani, strumento di giustizia e pacificazione per i cittadini, e all’interno di questo spazio ogni attore è chiamato a garantire un tanto. Centrale risulta essere l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione stessa, con ciò intendendosi dire che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, come quella dell’avvocatura, sarebbero principi e valori privi del necessario “respiro”, se ridotti a momenti rivendicativi di categoria, e se non considerati elementi complementari di quella giustizia che uno Stato evoluto deve assicurare. Una giurisdizione libera da ogni potere e condizionamento, è una conquista e un privilegio che va custodito come un bene molto prezioso, non scontato, e assai fragile al tempo stesso.
La nostra Costituzione reagisce a un periodo storico in cui l’accesso al giudice non era uguale per tutti, in cui esistevano leggi speciali, in cui addirittura la diseguaglianza assurgeva a principio ordinamentale, giuridicamente teorizzato e applicato. Dobbiamo fare tutti molta attenzione al pendolo della storia, assicurarci che l’equilibrio, voluto dalla nostra Carta, non inizi a sbilanciarsi, che il sistema giustizia non divenga “zona a traffico limitato”, accessibile solo a chi può, né terreno di scontro di potere interno al sistema stesso, né che l’idea di efficienza si confonda con quella di efficientismo a tutti i costi, né che i custodi del processo, magistrati e avvocati, si contrappongano ideologicamente piuttosto che tecnicamente. Soprattutto, dobbiamo vegliare affinché i contrappesi costituzionali non vengano esasperati al di fuori della giurisdizione stessa. Non a caso ho usato il termine contrapposizione tecnica, piuttosto che ideologica, intendendo sostenere, con ciò, che l’indipendenza della magistratura deve trovare riflesso in quella dell’avvocatura, il potere del magistrato deve cioè incontrare un forte “equilibratore” tecnico nell’ambito del processo. Il cittadino ha diritto ad un giudizio non condizionato, ma altresì a una difesa a sua volta non compressa da agenti politici, economici, mercatistici, mediatici.
La giurisdizione è questa, sistema di applicazione giusta ed eguale del diritto, assicurata da un potere dello Stato, quello giudiziario, bilanciato dalla garanzia del contradditorio di cui agli artt. 24 e 111 della nostra Costituzione, il diritto di giusta difesa in giusto processo, appunto. Sappiamo come l’autonomia della giurisdizione possa essere minacciata da diversi fattori culturali, e no, quali, per esempio, la primazia di un’idea economista della giustizia, per cui non vale la pena tutelare diritti antieconomici, i diritti cioè dei soggetti più deboli; da un’idea, esasperata oltre il dettato costituzionale, di ragionevole durata del (giusto) processo, che rischia di divenire velocità fine a se stessa, con sacrificio della qualità del decidere e del rispetto dei presidi difensivi; dall’invasività del “processo mediatico”, che sostituisce al principio del dubbio quello della “certezza populista”; dal moltiplicarsi incontrollato di norme, non di rado oscure; dalla convivenza con diverse Autorità indipendenti, che tendono alle volte a sovrapporsi alla stessa giurisdizione, senza le relative garanzie; dai costi di accesso al giudice, usati come filtri impropri, ecc… Pensiamo anche quanto sia importante una visione condivisa di fronte allo sviluppo della intelligenza artificiale (giustizia predittiva), da coniugarsi con la nomofilachia, da un lato, e l’ innovazione giurisprudenziale, dall’altro. Temi in grado di impattare sulla attualizzazione delle regole di convivenza tra i cittadini, e che richiedono sviluppi dialettico-processuali idonei a salvaguardare nuovi approdi giuridici.
Da qui la necessità, innanzitutto, di distinguere la contrapposizione tecnica da quella ideologica. L’errore principale consiste nel confondere il diritto di accesso al giudice da parte di chiunque, con l’idea che trattasi di patrimonio riferibile a valori contrapposti tra magistrati e avvocati. L’esigenza valoriale deve essere unica, garantire l’applicazione del diritto come strumento risolutivo di conflitti, poi, certo, le costruzioni giuridiche, e ordinamentali, possono essere varie, su questo può e deve esserci dibattito all’interno delle categorie e tra le categorie, e poi confronto, il più sinergico possibile, con il decisore politico.
Sicuramente, quando si ragiona di dibattito tra avvocatura e magistratura, deve privilegiarsi un fine comune, e ciò vuol dire anche reciproche “cessioni di sovranità”, avendo ben chiaro che la rigidità di posizionamento porterà, inevitabilmente, a compromettere il ruolo costituzionale sia di magistrati che di avvocati. Ferme le rispettive prerogative, il “partito della giurisdizione”, ovvero di coloro che praticano concretamente il diritto nei tribunali, godrebbe di maggior autorevolezza e ascolto, presso la politica.
Alle volte, al contrario, si palesano distanze e trinceramenti su questioni certamente superabili, forse siamo troppo ben abituati, ma basterebbe guardare a realtà molto vicine al nostro Paese, anche solo Polonia e Ungheria, per capire quanto sia fragile la libertà di cui per fortuna godiamo, come possa bastare un tratto di penna del Legislatore per sbilanciare il pendolo della storia. Così che da noi si può discutere di argomenti che, in altri Paesi, avvocati e magistrati non possono permettersi di affrontare, per i limiti posti alla loro indipendenza, ovvero per deficit di democrazia.
È chiaro che, a monte di quanto detto, vi debba comunque essere la consapevolezza che separazione tra i poteri dello Stato non può significare che gli stessi non interagiscano tra di loro, pur nella doverosa osservanza dei rispettivi confini costituzionali (questione che da noi dovrebbe porsi anche nel rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo, su cui ci sarebbe molto da dire). Proprio da ciò la necessità di strumenti di compensazione anche interni all’esercizio dei singoli poteri.
Fissato quanto sopra, non posso non considerare come ogni discussione sulle forme di autogoverno della magistratura, sulle modalità di valutazione, sulle c.d. correnti, sugli incarichi dirigenziali, siano discussioni importanti, ma che troveranno sempre un terreno fragile, se non finalizzate all’obiettivo di una elevata qualità democratica della giurisdizione. Uno schema giustizia corretto, richiede interpreti all’altezza, assolutamente maturi, consapevoli delle proprie prerogative e di quelle altrui, pronti a riconoscerle e difenderle. Se detto schema non dovesse trovare attori sufficientemente formati dal punto di vista culturale, morale, tecnico, insomma professionale, non si eviterebbero comunque disfunzioni, emersioni di limiti, difetti, forme di chiusura e di autoreferenzialità, ma soprattutto si consegnerebbe ad altre “forze” la gestione, e il condizionamento, di quello spazio di libertà di cui abbiamo parlato in apertura. In sintesi, avvocati e magistrati possono, e in parte devono, vivere in stanze con arredi diversi, ma nella medesima casa, da frequentare e custodire insieme, o altri la occuperanno.
3. modelli giudiziari
Riprendo il protocollo CSM e CNF, laddove si fa riferimento alla necessità di sviluppare una collaborazione per individuare le reali necessità del sistema giustizia, tenendo conto delle esigenze che emergono presso ciascun ufficio giudiziario, per favorire lo studio e la più ampia condivisione delle buone pratiche in uso presso gli uffici giudiziari, per suggerire il funzionale utilizzo delle risorse economiche e di personale. Si tratta della questione che, dal punto di vista organizzativo, precede ogni altra, la necessità di risorse.
Non può bastare certo la scelta del giusto dirigente giudiziario, se, a monte, non vi sono investimenti in concorsi per magistratura, personale amministrativo, strumentazione, edilizia giudiziaria, sviluppi telematici semplificati. In assenza, neppure il miglior dirigente può ottenere i dovuti risultati. Dunque, da parte dei governi, stanziamenti economici in favore della giustizia, riforme di lunga prospettiva temporale, e attenta analisi dell’esistente. Vi sono uffici giudiziari che funzionano meglio di altri a parità di organici di magistratura e di personale; vi sono realtà dalle grandi dimensioni, eppure diverse nel grado di efficienza, altre, ridotte nelle dimensioni, lasciate a se stesse, in una sorta di agonia, o eutanasia, che dir si voglia; ancora, i territori, in genere, hanno distinte caratteristiche sociali, distinte economie, distinti fenomeni di criminalità, ma anche una diversa qualità dei servizi, si pensi alle reti informatiche, ai mezzi di collegamento e trasporto, alla sicurezza, all’edilizia pubblica.
Allora, considerato tutto questo, bisogna capire perchè qualche ufficio sia più organizzato di altri, approfondendone il profilo, e deducendone quanto di “esportabile” e adattabile anche altrove.
Come anticipato, pare evidente l’importanza di disporre di personale amministrativo altamente qualificato e di dotazioni strumentali sufficienti e tecnologicamente aggiornate, come pure l’importanza di fruire di sedi giudiziarie “agibili”, pensate per la specifica funzione, non ricavate da edifici destinati a tutt’altro, per di più, e non di rado, carenti di spazi e manutenzione.
Torniamo così all’esigenza che un progetto sulla efficienza del sistema giustizia sia di lunga prospettiva temporale, non può pensarsi che ogni governo disconosca, di volta in volta, quanto appena fatto dal precedente. Anzi, dovessi aggiungere una (grossa) banalità, “vieterei” l’intestazione di riforme, in ogni settore (economia, giustizia, lavoro, ecc…), al nome del ministro o del parlamentare proponente di turno, eliminerei anche prefissi vari, del genere “salva”. Minor personalizzazione e, soprattutto, valore salvifico si riconosce alle norme, meglio è. Sulla giustizia, così come su altri temi, quali l’ambiente, l’energia, la sanità, l’istruzione, il lavoro, è necessaria grande responsabilità e visione profonda da parte del Legislatore.
Si tratta di interventi strutturali che, per essere efficaci, devono fruire di tempi di sviluppo adeguati e non certo brevi, destinati ad attraversare più esecutivi e maggioranze diverse tra loro. E poi, a proposito di norme “salvifiche”, non deve pensarsi di “velocizzare” i processi semplicemente intervenendo sui codici di rito, con relativo “effetto annuncio”, così non si va lontano, e chi opera sul campo lo sa bene. Ecco perché auspico un autorevole “partito della giurisdizione”. Ho richiamato anche le “buone pratiche”, raccolte e valorizzate negli ultimi anni dal CSM, queste devono essere però fonte d’ispirazione di innovazione organizzativa, e non soluzioni lasciate alla buona volontà e alla situazione emergenziale di chi opera. Possono esserci tutte le buone pratiche immaginabili, ma se mancano personale e strumenti, le stesse saranno utili, ma non certo strutturalmente risolutive per il sistema.
4. La scelta del dirigente giudiziario
Voglio premettere che, a titolo esclusivamente personale, non ho mai sposato un’idea esageratamente “aziendalista” dell’ufficio giudiziario, o del toccasana del “Court Manager” motivatore in obiettivi, né ho mai pensato che il patrimonio di democrazia della giurisdizione possa essere misurato in PIL, o che l’economia e il mercato debbano governare il diritto, vero piuttosto il contrario.
Penso anche che i modelli di organizzazione della giurisdizione debbano comunque rifarsi alla cultura e tradizione giuridica di un Paese, alle volte abbiamo assistito alla maldestra importazione di istituti non adattabili alla nostra storia e alla idea di una società solidale ed eguale.
In tutto questo, chiamiamolo con presunzione ragionamento, si inserisce il tassello della scelta della dirigenza giudiziaria. Chiaro che, per quanto esposto, la selezione sarebbe la naturale conseguenza di un’idea non negoziabile di giurisdizione, solida nei valori, e dotata delle necessarie risorse. Ciò significa anche che il dirigente, sollevato da problemi di carenza di personale e mezzi, dovrebbe individuarsi in un magistrato che conosca i tanti ingranaggi interni ed esterni al processo, coordinatore degli equilibri giurisdizionali, non dovendosi proporre come tutore di alcuni operatori di giustizia, piuttosto che di altri, dotato di capacità organizzative trasversali tra le varie componenti, magistrati, avvocati, funzionari, personale amministrativo.
Sappiamo, quanto alla scelta, come da sempre il tema della discrezionalità del CSM sia centrale. Discrezionalità da arginare, o da ampliare, necessità di criteri oggettivi, od elastici, pericoli di contaminazioni correntizie (quanto ai togati) o partitiche (quanto ai laici), voto palese o segreto, e in generale, circa la gestione dei singoli uffici giudiziari, rigorosa concezione del giudice naturale, o valorizzazione delle singole attitudini, tabelle rigide, o flessibili, ecc… In realtà, per le scelte che deve operare il CSM, la questione verte sulla fiducia da riconoscere alle categorie che lo compongono, togati e laici.
Penso che in presenza delle più volte richiamate risorse, e di evoluti modelli di sistema, sarebbe più semplice accettare senza timori una trasparente “elasticità” nella individuazione del dirigente giudiziario.
Non può negarsi che in ogni situazione vi sia un soggetto maggiormente adatto di altri ad affrontarla, e non può negarsi che sarebbe poco razionale rinunciarvi in nome di una più “deresponsabilizzante” rigidità di percorso selettivo. Insomma, non sono così d’accordo con chi predica la necessità di criteri assolutamente oggettivi, che, peraltro, rischiano di moltiplicarsi, e, intersecandosi tra loro, più che “ingabbiare” la valutazione, paradossalmente finirebbero con l’aumentare le fonti di contestazione, “con vista” sul giudice amministrativo. In concreto, trovo preferibile un esercizio della discrezionalità consapevole, con analisi di dati essenziali e rilevanti allo scopo, vertenti anche sulla tempestiva emersione di indici, ragionati e non equivocabili, aventi ad oggetto possibili controindicazioni ad un ruolo organizzativo, direttivo o semidirettivo.
Ciò porterebbe a scelte meno curriculari (comunque si denomini o si intenda composto il curriculum), e più mirate alle specifiche esigenze e alla loro variabilità. Sicuramente è un indirizzo che può prestarsi a inevitabili riserve, fondate anche sulle ripercussioni dei c.d. “fatti dell’hotel Champagne”, però non penso che un uso trasparente della discrezionalità, comunque ancorata a irrinunciabili indicatori di base, porterebbe ad aumentare il rischio di scelte “errate”, tutt’altro.
Le valutazioni, del resto, rientrano nell’ambito di una importante assunzione di responsabilità per chi riveste determinati ruoli, di cui è necessario farsi carico. Così come, chi si propone per un incarico dovrà poter contare sulla tecnicità e serenità del giudizio che lo riguarderà, pur se negativo. Per esempio, il fatto di non essere considerato “abile” per una funzione organizzativa, non dovrebbe essere visto come “bocciatura”, un grande giurista, magari redattore di sentenze fondamentali, potrebbe non essere un buon organizzatore, senza che ciò ne scalfisca minimamente l’alta statura professionale. Così come un genio della matematica potrebbe non avere le caratteristiche di un bravo divulgatore della materia.
L’incarico dirigenziale andrebbe inteso quale ulteriore servizio alla collettività, e, se riconosciuto, dovrebbe essere considerato come un onere aggiunto, più che una “promozione”.
Quanto appena osservato implica certamente le necessarie riflessioni sulle fasi, i tempi, i modi di raccolta dei dati da vagliare, ma alla fine si tratterà sempre di decidere se avere fiducia in chi è chiamato a comporre il CSM, e quindi nell’esercizio da parte sua di una corretta e verificabile capacità valutativa. Del resto, a mio avviso, il tema della fiducia riguarda tutto il sistema di governo del nostro Paese, la mancanza della stessa nel cittadino ha comportato, e comporta, la moltiplicazione di controlli preventivi, di lunghi percorsi autorizzativi, di normative in numero incontrollato e incontrollabile, di selezioni procedimentalizzate in eccesso, più apparenza (impraticabile), che sostanza.
In poche parole, l’affermazione di una burocrazia soffocante, grondante formalismi, che alla fine favorisce, in ogni settore, la ricerca di “scorciatoie”, di “raccomandazioni”, o peggio. A ciò consegue, poi, un generale approccio, da parte del cittadino, fondato sul pregiudizio nei confronti dello Stato e delle sue articolazioni. Ma davvero siamo un popolo di disonesti, arrampicatori sociali, votati all’illegalità (come per il vero qualcuno sostiene), e, restando al CSM, possiamo davvero ritenere che le categorie di magistrato, avvocato, accademico, non siano composte in gran maggioranza da soggetti assolutamente consapevoli dell’alta responsabilità di appartenere all’organo disegnato dalla Costituzione?
Non a caso il CSM è previsto dalla Carta come ente di autogoverno, garanzia di autonomia e indipendenza per la magistratura, non a caso a capo vi è il presidente della Repubblica, e non il ministro della giustizia o il primo presidente della Cassazione, come pure si era ipotizzato in assemblea costituente, e, forse, non a caso tale struttura è stata sostenuta con forza da un avvocato, Piero Calamandrei. Diversamente, per la scelta del dirigente basterebbe utilizzare un buon algoritmo (salve le inevitabili discussioni circa i dati su cui costruirlo). Come già osservato, fiducia nella professionalità di un membro del CSM significa affidamento nella competenza tecnica, nel rigore deontologico, nell’autonomia da pressioni irrituali, non ritengo proprio che la selezione di consiglieri togati e laici abbia difficoltà ad attingere a individui dotati di tali qualità. Basta volerlo.
5. Le correnti
Il fatto di esercitare da qualche decennio la professione di avvocato comporta, probabilmente, una visione disincantata del sistema giustizia, dettata da concrete esperienze quotidiane, non da ideologie o da teoremi qualunquisti. Ed infatti una delle maggiori afflizioni per un operatore del diritto, è l’assistere, di volta in volta, a estenuanti dibattiti tra opinionisti, privi di competenza specifica, in grado di affermare di tutto, e il contrario di tutto, su un singolo istituto giuridico, sul processo, su qualsiasi reato, sul ruolo del magistrato o dell’avvocato, e, quel che è peggio, è che ciò fa opinione, raccoglie o meno consenso, accende tifoserie, e, anche grazie all’uso sconsiderato di social e mezzi smart di comunicazione, trasmette certezze “improbabili” all’utente cittadino.
Per un avvocato, il magistrato è una componente della giurisdizione, con cui confrontarsi e, possibilmente, convincere della fondatezza della propria tesi. Una componente che deve essere autonoma e indipendente, altrimenti non avrebbe neppure senso esercitare la professione legale, ma che non può certo considerarsi infallibile, o priva di convinzioni politiche, o impedita a ogni manifestazione di pensiero, o impermeabile ad emozioni, accadimenti personali, e così via.
Serve allora poter contare sul fatto che il magistrato si attenga alle regole del rito, civile o penale, che fondi le proprie valutazioni e decisioni sul contradditorio, sull’onere della prova, sul dubbio. Da qui l’importanza del ruolo dell’avvocato nella giurisdizione, come “portatore” di eccezioni, tesi, contro tesi, e dubbi.
Torniamo così alla questione della professionalità, che vale per tutti noi operatori del diritto, e che, unica, può garantire la credibilità del sistema giustizia. Premesso l’approccio pragmatico alla figura del magistrato, la domanda è in quale misura un soggetto, imparziale per definizione, possa sostenere e appartenere a correnti diverse per pensiero, cultura giuridica, idea di società, e in che misura possa esternare le proprie convinzioni.
La risposta, a mio avviso, è che non debba esservi impedimento a tutto ciò, fermo che, come detto, quando indossi la toga decida secondo i principi elaborati sulle fondamenta della Carta. Il problema non è come “la pensi culturalmente” il giudice o il pubblico ministero, quel che conta è che applichi la legge e le garanzie difensive. Non mi è mai capitato di calibrare una mia difesa sulla base dell’inclinazione correntizia del giudicante, anzi non me ne sono neppure mai informato, e ciò, credo, valga per la assoluta generalità degli avvocati. Da parte del difensore, la critica (positiva o negativa) all’operato di un magistrato è rivolta al rispetto del principio del ragionevole dubbio, dell’onere della prova, del contraddittorio, della corretta conduzione d’udienza, della preparazione tecnica, della conoscenza del fascicolo, dell’impegno nel motivare, ma francamente, è assai difficile che sia rivolta all’appartenenza a una corrente, intesa come “la causa-il movente” della decisione.
Questa la regola, poi, potranno esservi episodi devianti anche in tal senso. In questo caso, però, bisogna ragionare di un fenomeno, gravissimo, derivante da un uso distorto del concetto di “appartenenza”, è quest’uso la “malattia”, non l’esistenza in sé delle correnti. Ma qui si aprirebbe un altro particolarissimo capitolo, diverso dal tema da trattarsi in questa sede.
Tornando alla questione che ci sta occupando, mi confidò una volta un presidente di collegio, all’esito di un dibattimento celebrato per una rapina, “eravamo tutti e tre intimamente convinti della colpevolezza dell’imputato, ma l’abbiamo assolto perché mancava la prova”, laddove convinzioni o intuizioni personali cedono alle regole del processo. Certo, per chi riveste un incarico così delicato si prospettano, venendo alle esternazioni, motivi di opportunità più incisivi che per altri, e ciò trova riflesso nel codice deontologico e nelle regole comportamentali enucleate nel tempo.
Il principio della serie, un po’ abusata, “oltre che esserlo (imparziale) bisogna apparire tale”, o della ultracitata “moglie (ideale) di Cesare”, deve indubbiamente applicarsi, però, con realismo, senza enfasi, e senza ipocrisie. Inutile sottolineare come la degenerazione di ogni forma di associazionismo sia questione altra, che, come più sopra anticipato, si è posta prepotentemente negli ultimi tempi per la magistratura. L’analisi dell’accaduto da parte della stessa è opportuno sia attenta, non superficiale e non indulgente. L’esistenza e il palesarsi delle correnti non può essere un tabù, l’uso distorto per fini carrieristici, si.
Detto ciò, francamente non saprei proprio immaginare quanti incarichi dirigenziali in tanti lustri siano stati assegnati senza merito, quante ingiustizie siano state consumate a danno di altri colleghi maggiormente idonei, o in quanti casi l’incarico sia andato alla persona più capace, che, tuttavia, senza “accordo correntizio” non ce l’avrebbe fatta, e ancora quanti ci siano riusciti pur senza “appoggi” di sorta. In realtà è probabile che il saldo, nei grandi numeri e nel lungo periodo, non sia negativo o impietoso, ma è certo che la indipendenza debba essere tale da ogni potere, anche da quello di appartenenza.
6. Nota conclusiva
Due osservazioni sulla riforma del CSM, solo di metodo, e sempre limitatamente al problema del “carrierismo”.
La prima è che il testo normativo mi sembra sia stato affrontato, un po’ da tutte le componenti interessate, come un rimedio “di contrasto”, contro il potere delle correnti. Su questa ratio poggiano spesso tanto le argomentazioni favorevoli (ne limita il potere), che quelle sfavorevoli (non ne limita il potere, anzi ne aumenta l’influenza, e così via). Credo che la cultura giuridica del contrasto, e il relativo linguaggio, vadano assecondati con prudenza, e, ovviamente, in determinati campi. Diversamente, l’analisi delle riforme, in particolare di una Istituzione, rischia di perdere di vista il quadro e l’equilibrio del tutto, risolvendosi in forme “parcellizzate” di esame e dibattito. Finisce così che la lettura di un singolo articolo “regge” l’insieme del testo, e non viceversa, ostacolando la individuazione armonica dei necessari pesi e contrappesi. Per il vero, in tema di stesura di norme bisognerebbe discutere anche della “famigerata”, ma ovviamente legittima, ricerca del compromesso tra forze politiche, obiettivo di certo dovuto in una democrazia parlamentare. La reclamata sintesi “compositiva”, più che mai necessiterebbe di una raffinata tecnica legislativa, e del resto non va dimenticato come la nostra Costituzione sia il frutto di un alto compromesso tra opposte ideologie. Discutere qui di tecnica legislativa aprirebbe un capitolo di lunga trattazione, però anche questo è uno snodo importante, e troppo sottovalutato, per garantire norme “di qualità”. Quando la sostanza (se c’è) deve sposare la forma.
La seconda osservazione si riferisce alla convinzione, che pare emergere in particolare dalla discussione sul sistema elettorale del CSM, della esistenza ineluttabile di maggioranze e minoranze, un’idea di suddivisione tra “parti”, che, a mio avviso, non dovrebbe riferirsi, neppure in via ipotetica, al funzionamento del Consiglio. Così, e di conseguenza, finalmente verrebbero meno gli immancabili “pronostici” sui conferimenti di incarichi, raramente formulati guardando alla competenza dei candidati, ma piuttosto alla contiguità tra le aree di appartenenza dei votanti. Da ciò vaticinandosi che questi si esprimeranno a favore, questi altri contro, questi altri ancora, forse, si asterranno. Già solo poter ipotizzare dinamiche proprie (e lecite) della diversa dimensione politica, finisce con l’essere un vulnus alla attendibilità dell’Organo.
In conclusione, credo che qualsiasi riforma elettorale del CSM vada interpretata, e applicata, superando la prospettiva di maggioranze precostituite, o alleanze stabili, o variabili a seconda delle opportunità. Sono convinto che debba pensarsi al CSM non come realtà composta da schieramenti, ma come uno schieramento compatto a favore di una giurisdizione servente il cittadino. L’idea culturale, che si ha dell’organo di autogoverno della magistratura, non deve esser puro, e magari demagogico, esercizio intellettuale, ma il primo fondamentale mattone su cui costruire e garantire la solidità dell’intero edificio, e relative “pertinenze” (leggi organizzazione degli uffici giudiziari).
Ringrazio la rivista Giustizia Insieme per la cortese ospitalità.
[i] Al momento dell’inoltro del seguente contributo alla redazione della rivista, il decreto legge sulla riforma del CSM era ancora in fase di esame parlamentare.
A dieci anni dal Decalogo: verso un nuovo catalogo di funzioni dei magistrati dirigenti?
di Luca Verzelloni
A dieci anni dalla pubblicazione del c.d. Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario, l’articolo si interroga, da una parte, sulla trasformazione di compiti e responsabilità dei magistrati dirigenti e, dall’altra, sugli aspetti del documento non ancora completamente attuati. Il saggio sottolinea la necessità di supportare la nascita di un dibattito allargato, che sia capace di superare le distinzioni di ruolo, provenienza culturale e professionale, sulle funzioni che dovrebbero essere attribuite ai dirigenti giudiziari del prossimo futuro.
Sommario: 1. Introduzione: il Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario. - 2. La giustizia italiana a dieci anni dal Decalogo. - 3. Le funzioni non ancora attuate completamente. - 4. Prospettive: verso un nuovo catalogo di funzioni?
1. Introduzione: il Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario
Nel 2012, a conclusione di un lavoro di oltre due anni, è stato pubblicato il c.d. Decalogo del Capo dell’ufficio giudiziario [[1]]. Il documento è stato sviluppato nel corso di un ciclo di cinque seminari tematici, che si sono tenuti tra settembre 2010 e settembre 2012 a Murazzano (CN) e Bologna, sotto la supervisione scientifica e metodologica dell’allora Centro per l’Organizzazione, il Management e l’Informatizzazione degli Uffici Giudiziari (COMIUG) [[2]].
Il Decalogo è stato il frutto di un dialogo a più voci, che ha coinvolto quasi quaranta tra addetti ai lavori ed esperti di organizzazione, tra cui: presidenti di corte d’appello, presidenti di tribunale, procuratori della Repubblica, consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, direttori generali del Ministero, membri del comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, magistrati, dirigenti amministrativi, consulenti, ricercatori e docenti universitari.
Fin dalla sua prima versione, il Decalogo si è configurato come una sorta di “strumento in divenire”, aperto al contributo e alle proposte di tutti, a prescindere dal ruolo esercitato e dalla diversa provenienza culturale e professionale. In tal senso, nello spirito dell’iniziativa, il documento è stato più volte riformulato e affinato, fino all’ultima versione dell’ottobre 2012, che si riferisce ai dirigenti sia degli uffici giudicanti sia requirenti.
Il Decalogo rappresentava un tentativo di definire compiti, funzioni e responsabilità dei magistrati con funzioni direttive. Al tempo, dieci anni fa, pur essendo stata oggetto di diverse riforme ordinamentali nonché di svariate pronunce del Consiglio Superiore della Magistratura, quella del capo ufficio era, di fatto, una funzione dai contorni tratteggiati che, non di rado, veniva interpretata in modi anche molto diversi. Al di là delle doti personali dei singoli magistrati, queste diverse “interpretazioni di ruolo” erano influenzate da una pluralità di variabili contestuali, tra cui: tasso di scopertura del personale togato e amministrativo, organizzazione interna, caratteristiche del tessuto sociale ed economico, flussi di lavoro, tasso di litigiosità, rapporti con l’avvocatura, ecc.
Lungi dal voler catalogare le qualità del “buon dirigente”, il Decalogo intendeva stimolare la comunità professionale dei magistrati italiani ad una riflessione allargata su attitudini, comportamenti e responsabilità dei magistrati con funzioni direttive. Nelle intenzioni dei promotori, il Decalogo – qualora riconosciuto e legittimato fra “pari” – poteva essere applicato in tre ambiti:
a) selezione: individuare attitudini e comportamenti che, in sede di selezione, avessero un’elevata probabilità di predire prestazioni dirigenziali coerenti con la definizione di ruolo adottata;
b) valutazione: verificare in itinere, e in ogni caso alle scadenze del mandato, i comportamenti e le prestazioni complessive dei capi degli uffici;
c) formazione: orientare i percorsi e i programmi di formazione atti a fornire ai singoli magistrati le competenze necessarie a un adeguato svolgimento del ruolo di responsabilità dell’ufficio.
Il documento si basava su tre consapevolezze di base:
a) quella del capo ufficio si configura come una funzione specifica, “altra” rispetto alla normale attività di giurisdizione e che, di conseguenza, non poteva configurarsi semplicemente come un “premio alla carriera”;
b) per quanto la figura del dirigente sia centrale, solo attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di tutta l’organizzazione si possono ottenere dei risultati significativi, sia in termini di performance sia di miglioramento del livello di qualità della giustizia;
c) il testo considerava quale prerequisito fondamentale il pieno rispetto di tutti i canoni deontologici connessi alla funzione direttiva.
Il Decalogo proponeva dieci macro funzioni dei magistrati con funzioni direttive, tra loro connesse, compreso un decimo punto generale:
1. garanzia dell’attività professionale;
2. presidio della struttura e dell’identità organizzativa;
3. rappresentanza e comunicazione istituzionale;
4. presidio delle risorse;
5. direzione e programmazione;
6. governo delle interdipendenze;
7. valorizzazione delle competenze;
8. valutazione;
9. monitoraggio e vigilanza;
10. giustizia come funzione pubblica e bene comune.
Quale era il dirigente che emergeva dal documento? E, soprattutto, al di là della normativa vigente a quel tempo, quali erano le nuove funzioni dei dirigenti giudiziari, non ancora diffuse in tutto il sistema?
Il capo ufficio delineato nelle pagine del Decalogo si distanziava sia dal modello di dirigente come primus inter pares sia dall’idea di un manager, con doti organizzative fuori dal comune, in grado di risolvere da solo i problemi di un ufficio. Come si evince in diversi passaggi del documento, nelle intenzioni dei partecipanti ai seminari coordinati dal COMIUG, quella del dirigente doveva essere interpretata come una “funzione di servizio”. Non a caso, la prima funzione del Decalogo è quella di “garanzia dell’attività professionale”, che si apre con due compiti dei dirigenti: “assicura tutte le condizioni affinché i magistrati possano svolgere al meglio l’attività professionale” e “supporta il pieno dispiegamento della professionalità dei magistrati” (funzione 1, comma 1 e 2).
Oltre a mettersi “a servizio” dei magistrati del suo ufficio, il dirigente era chiamato a sostenere lo sviluppo di “comunità di pratica” [[3]] e a promuovere la costituzione di una “struttura di direzione”, ossia a gestire l’ufficio attraverso il “metodo del confronto”, coinvolgendo, in primo luogo, i colleghi, ma anche tutte le altre professionalità che, a vario titolo, contribuiscono all’esercizio della giurisdizione (personale di cancelleria, magistrati onorari, avvocati, ecc.).
Fra le altre funzioni, il dirigente era chiamato a presidiare e valorizzare la struttura e le sue risorse, sia umane sia strumentali, a predisporre un adeguato sistema di monitoraggio, a rappresentare l’ufficio in tutte le occasioni di dialogo con i soggetti istituzionali del territorio e con gli altri interlocutori rilevanti della società civile e a promuovere la massima trasparenza, soprattutto nei confronti dei cittadini, anche attraverso strumenti quali: siti web, bilanci sociali, carte dei servi e rendiconti economici.
2. La Giustizia italiani a dieci anni dal Decalogo
È evidente che negli ultimi dieci anni la giustizia italiana abbia fatto passi da gigante verso la diffusione in tutto il sistema di una “cultura dell’organizzazione”. Per comprenderne fino in fondo la portata, questi ultimi progressi devono essere contestualizzati in un quadro più ampio.
A partire della fine degli anni ’90, si è progressivamente affermata la c.d. “questione organizzativa”. Tale processo è stato favorito dalla spinta di molteplici fattori esogeni ed endogeni, fra cui, in particolare: l’aumento dei tassi di litigiosità, il collegato allungamento dei tempi di risoluzione, il clima generale di sfiducia sociale nei confronti della magistratura, l’azione degli organismi europei e internazionali e, non da ultimo, la cronica carenza di risorse umane, finanziarie e strumentali. Tutto ciò ha portato a concepire l’organizzazione non più come una moda temporanea, da richiamare nei discorsi di apertura dell’anno giudiziario, ma come l’unica strada per riuscire effettivamente a “rendere giustizia ai cittadini” [[4]].
Nel corso del tempo, è emersa e si è radicata in tutto il sistema giudiziario italiano l’idea di giurisdizione come “organizzazione complessa” – riconosciuta, fra l’altro, nell’art. 26.bis del D.lgs. 26/2006, su cui si fondano i corsi della Scuola Superiore della Magistratura dedicati ai magistrati aspiranti a funzioni direttive e, a seguito della Legge 71/2022, anche semidirettive.
Questi processi hanno avuto un impatto diretto anche sul modo stesso di concepire ed esercitare la funzione direttiva (e semidirettiva). In tal senso, quasi tutte le funzioni incluse dieci anni fa nel Decalogo, sono oggi riconosciute sia da un punto di vista formale, soprattutto dalla normativa secondaria del Consiglio Superiore della Magistratura, sia da uno professionale e deontologico, ossia da parte della comunità dei magistrati italiani, come il “modo opportuno di agire”.
3. Le funzioni non ancora attuate completamente
Riletto a dieci anni di distanza, il Decalogo appare uno strumento superato, ma anche, allo stesso tempo, una testimonianza preziosa per interrogarsi su quanto si sia trasformato il ruolo dei dirigenti giudiziari.
Inoltre, a nostro avviso, vi sono almeno tre funzioni del Decalogo non ancora attuate completamente, che potrebbero avere un impatto molto significativo, soprattutto nel lungo periodo, sia sul funzionamento dei singoli uffici giudiziari sul territorio sia sul sistema giustizia, inteso nel suo complesso:
1. presidio della struttura e dell’identità organizzativa (funzione 2);
2. governo delle interdipendenze (funzione 6);
3. valutazione (funzione 8).
In primo luogo, soltanto di recente ha cominciato a diffondersi l’idea che i magistrati dirigenti debbano occuparsi attivamente di “valorizzare l’ufficio, inteso come organizzazione, promuovendo l’identità organizzativa e il senso di appartenenza alla struttura” (funzione 2, co. 7). La circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/19 ha introdotto un nuovo compito per il dirigente: “attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e di produttività, anche per mantenere il benessere fisico e psicologico dei magistrati, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della loro vita professionale” (art. 274, Circolare sulle tabelle 2017/19, approvata dal CSM il 25 gennaio 2017) [[5]]. Nonostante quanto deciso dal Consiglio, una pluralità di evidenze empiriche dimostrano come tale attenzione sia spesso solo sulla carta.
Non è questa la sede per interrogarsi sulle ragioni e sui possibili effetti di tali dinamiche, quanto per mettere in luce come la procedura di conferma quadriennale del dirigente appaia slegata da qualsiasi riflessione sul benessere organizzativo e non tiene conto di un indicatore potenzialmente cruciale: il tasso di turnover dei magistrati. A parità di altri fattori, è da confermare o meno il dirigente di un ufficio con un pessimo clima organizzativo? Oppure quello da dove i magistrati cercano di fuggire prima possibile, chiedendo il trasferimento in altre sedi anche meno prestigiose? Oppure quello in cui le persone (togati, onorari, personale di cancelleria, ecc.) non si sentono parte dell’organizzazione in cui operano, non considerano valorizzate le loro competenze e vivono l’esperienza lavorativa con sempre meno passione e coinvolgimento?
In secondo luogo, nonostante negli ultimi dieci anni sia stata sostanzialmente superata la visione dell’ufficio giudiziario come una “monade”, molto resta ancora da fare in termini di governo delle interdipendenze. Parafrasando, J. D. Thompson [[6]] i sistemi complessi – come la giustizia, ma non solo – devono saper gestire il grado di dipendenza fra le parti delle diverse relazioni organizzative che avvengono al loro interno, in termini di scambio di risorse, informazioni e risultati [[7]], che risultano essenziali per poter svolgere i rispettivi compiti. Soltanto per fare degli esempi, le relazioni organizzative tra tribunale e procura, tra tribunali del distretto e corte d’appello, tra procure e procure generali, tra corte d’appello e procura generale, tra corti d’appello e Corte di Cassazione, risultano cruciali per poter gestire la complessità dell’azione giudiziaria. Se non si investe adeguatamente nel governo di queste interdipendenze, il sistema organizzativo rischia di generare continue diseconomie e inefficienze, che finiscono per istituzionalizzarsi come il modo normale di operare – esemplificato dalla classica locuzione, che ostacola ogni tentativo di cambiamento: “si è sempre fatto così”.
In terzo luogo, la parte del Decalogo dedicata alla valutazione rappresenta senza dubbio quella meno attuata, soprattutto per ciò che attiene alla redazione dei rapporti di valutazione sui colleghi dell’ufficio. Anche se non mancano le realtà virtuose, come è stato rilevato da diverse ricerche empiriche sulla giustizia italiana [[8]], capita di rado che il magistrato dirigente assicuri in modo continuativo: “un’effettiva valutazione dei magistrati dell’ufficio, non limitata alla compilazione dei rapporti obbligatori, ma fondata su un esame periodico dell’attività svolta, sul confronto con i singoli magistrati e le figure semidirettive, provvedendo, ove necessario, ad un equilibrato intervento di supporto atto a prevenire le difficoltà del singolo e dell’ufficio e la persistenza di situazioni rilevanti sul piano deontologico e disciplinare” (funzione 8, co. 1).
Le ragioni alla base di questa limitata attenzione nei confronti della valutazione dell’operato del singolo magistrato sono molteplici, ma spesso sono condizionate da retaggi culturali e stereotipi ormai superati. A differenza di quanto si pensava anche solo quindici anni fa [[9]], oggi, all’interno della magistratura italiana si è cristallizzata una convinzione: il dirigente deve rispettare l’indipendenza e l’autonomia del singolo magistrato, garantita dalla Costituzione, sulle questioni che attengono all’esercizio della giurisdizione e all’interpretazione della legge. Al contempo, però, il capo ufficio è chiamato a sindacare le scelte organizzative del collega, allo scopo di armonizzarle con quelle assunte dagli altri colleghi, onde evitare possibili discrasie, ma soprattutto a integrarle e renderle coerenti alle logiche organizzative dell’ufficio.
4. Prospettive: verso un nuovo catalogo di funzioni?
Alla luce delle riflessioni sviluppate nelle pagine precedenti riteniamo opportuno sottolineare l’esigenza che si sviluppi un dibattito allargato sul ruolo del magistrato dirigente e sulle funzioni che, in un futuro prossimo, dovrebbero essere attribuite a queste “figure pivotali”, così determinanti per poter erogare una giustizia di qualità, non soltanto in termini di efficienza del servizio.
A nostro avviso, per superare alcune criticità che caratterizzano il sistema italiano, i capi ufficio dovrebbero assumere tre nuove funzioni, connesse a:
- innovazione responsabile e sostenibile;
- tutela del patrimonio conoscitivo e delle competenze esperte;
- dialogo con altri saperi esperti.
Quanto al primo punto, negli ultimi quindici anni, l’imprenditorialità dei magistrati dirigenti – da intendersi come l’interpretazione “proattiva” del proprio ruolo, per anticipare possibili criticità oppure cogliere eventuali opportunità – non è stata solamente permessa, ma addirittura incentivata [[10]]. Queste dinamiche hanno portato molti uffici ad intraprendere dei percorsi paralleli di innovazione “dal basso” che, in alcuni casi, hanno ottenuto risultati molto significativi, riconosciuti sia a livello nazionale sia internazionale.
Tali dinamiche, assolutamente virtuose, hanno però avuto un effetto perverso, ossia hanno contribuito a mantenere o, in alcuni casi, ad allargare le differenze rispetto al modo di operare e alle performance degli uffici sparsi sul territorio. In tal senso, a nostro avviso, occorrerebbe che i dirigenti giudiziari del prossimo futuro non facessero ricorso all’innovazione in modo sistematico e, molto spesso, distruttivo, ma tenessero, conto, invece, sia della sostenibilità degli interventi sia di quanto realizzato nell’ufficio prima del loro arrivo o della loro nomina.
Quanto al secondo punto, occorrerebbe evitare in tutti i modi una dispersione del patrimonio conoscitivo e delle competenze esperte presenti all’interno di ogni ufficio giudiziario. Il dirigente dovrebbe essere responsabile della protezione e della valorizzazione della “memoria storica” dell’organizzazione che dirige, per esempio, attraverso l’impiego di banche dati, la creazione di gruppi di lavoro, la promozione di iniziative per la formazione dei MOT oppure per favorire il passaggio di consegne.
Quanto all’ultima funzione, si avverte la necessità che gli uffici giudiziari si aprano ad altri saperi non strettamente giuridici, come quelli afferenti alle discipline informatiche, statistiche, sociologiche ed economiche. Ancora una volta, i dirigenti dovrebbero essere l’interfaccia tra l’ufficio giudiziario e le conoscenze e competenze presenti sul territorio. Come dimostra l’attuale dibattito sulla c.d. giustizia predittiva, i possibili sviluppi applicativi sono ancora, in parte, da scoprire e potrebbero avere un impatto diretto sull’attività degli uffici [[11]].
[1] COMIUG, Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario, in M. Sciacca, L. Verzelloni, G. Miccoli (a cura di), Giustizia in bilico. I percorsi di innovazione giudiziaria: attori, risorse, governance, Aracne, Roma, pp. 589-97, 1999. L’ultima versione del testo è disponibile al seguente indirizzo:
http://qualitapa.gov.it/sitoarcheologico/fileadmin/mirror/immagini/Decalogo_Capo_Ottobre_2012.pdf
[2] Il Centro per l’Organizzazione, il Management e l’Informatizzazione degli Uffici Giudiziari (COMIUG) ha cessato la sua attività nel 2015. Nell’arco dei dieci anni precedenti, il Centro, coordinato dal prof. Stefano Zan, si è impegnato nella diffusione di specifiche conoscenze e competenze organizzative e manageriali nel mondo della giustizia italiana. Il Centro ha curato la pubblicazione dei Quaderni di Giustizia e Organizzazione (sei numeri dal 2006 al 2010) ed organizzato due summer school su concetti di base e metodologie per l’analisi organizzativa della giustizia.
[3] Secondo la definizione proposta da Wenger: “gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi o una passione per un argomento e che approfondiscono la loro conoscenza e competenza in quest’area interagendo continuamente fra loro”. E. Wenger, Communities of practice: Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press, Cambridge, 1999.
[4] Sul tema, si veda: L. Verzelloni, Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019; D. Piana, Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016; L. Verzelloni, Paradossi dell’innovazione. I sistemi giustizia del sud Europa, Carocci, Roma, 2020.
[5] Si veda il contributo su questa Rivista a cura di G. Gilardi (2021), disponibile al seguente indirizzo: https://www.giustiziainsieme.it/it/ordinamento-giudiziario/1966-le-tabelle-degli-uffici-giudiziari-quarta-parte-le-tabelle-della-corte-di-cassazione-e-il-benessere-organizzativo?hitcount=0 .
[6] Thompson ha individuato tre tipologie di interdipendenze: sequenziali, reciproche e generiche. J. D. Thompson, Organizations in action: Social science bases of administration, McGraw Hill, New York, 1967.
[7] Riferendosi al mondo delle imprese, Thompson parla espressamente di “output”.
[8] Si veda: L. Verzelloni, Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019.
[9] Come dimostra il vecchio dibattito sulla c.d. “auto-organizzazione del giudice”.
[10] D. Piana, F. Raniolo, State unbounded. Extra legal professionalism and goal oriented interventions in the italian judicial system, LUISS University Press, Roma, 2015.
[11] Sul tema, si veda: D. Piana, L. Verzelloni, "Intelligenze e garanzie. Quale governance della conoscenza nella giustizia digitale?", Quaderni di scienza politica, XXVI, 3, 349-382, 2019; D. Piana, C. Castelli, Giusto processo e intelligenza artificiale, Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna, 2019.
Modelli di prova. Gravità degli indizi e giudizio cautelare
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. La concezione razionalista della prova - 2. La probabilità come provabilità e la dialettica confutativa - 3. Los estándares de prueba - 4. Il modello di prova per le misure cautelari personali - 4.1. Differenza fra gravi indizi e indizi gravi precisi e concordanti - 4.2. Gravità dell’indizio come resistenza alle obiezioni - 5. Valutazione degli indizi e manifeste illogicità - 5.1. Manifesta illogicità e irrilevanza degli elementi difensivi - 5.2. L’indebita generalizzazione - 5.3. La valutazione atomistica degli indizi - 5.4. La praesumptio de praesumpto.
1. La concezione razionalista della prova
Fra i molti temi trattati durante la recente Michele Taruffo Girona Evidence Week, svoltasi presso l’Università di Girona e a cui questa Rivista ha partecipato come istituzione associata, ha destato particolare interesse quello dei modelli di prova sviluppato in Prueba sine convicción, Estàndares de prueba y debido proceso (Madrid, Marcial Pons, 2021) dal filosofo del diritto Jordi Ferrer Beltrán.
La argomentazione relativa alla prova dei fatti è una attività complessa e il significato del termine «motivazione» usato per denominarla è ambiguo. Secondo l’accezione psicologistica indica l’espressione linguistica delle cause di una decisione. Invece, secondo l’accezione razionalista indica le ragioni che giustificano la decisione così la prova viene emancipata dalla persuasione meramente soggettiva del giudice e trova nella logica e nei criteri della epistemologia generale gli strumenti per rendere più probabile che la ricostruzione dei fatti sia logicamente corretta e, quindi, più vicina alla verità[1].
Aderendo alla concezione razionalistica della prova, Ferrer Beltrán ritiene che la ricostruzione dei fatti debba avvenire con il metodo della conferma e confutazione delle ipotesi tramite una rigorosa argomentazione retta dal principio del contraddittorio e con la possibilità di produrre prove contrarie[2].
In questa impostazione, il fatto che una ipotesi possa ritenersi provata è un esito totalmente indipendente dalle credenze del giudicante (in questo senso è «sine convicción»), che non solo può ma anche deve decidere prescindendo dalle sue credenze. Le credenze sono stati mentali personali utili a scopi euristici ma delle quali liberarsi se si rivelano controfattuali o intraducibili in precisi contenuti composti secondo chiari nessi logici. La forma mentis del giudicante tanto più si si evolve quanto più tende a consolidare le sue credenze solo a conclusione di un corretto ragionamento probatorio[3].
2. La probabilità come provabilità e la dialettica confutativa
2.1. L’uso di espressioni come «probabilità logica», «alta probabilità logica», «elevata credibilità razionale» è un espediente retorico, che allude a una quantificazione della probabilità o della credibilità razionale che però non si riesce a determinare, e sembra trascurare che il termine «probabilità» appartiene a un ambito tecnico le cui regole non possono essere ignorate se non debordando verso affermazioni generiche idonee solo a approntare a posteriori la parvenza di una giustificazione formale[4].
Allora, il ricorso alla probabilità oggettiva, intesa come frequenza statistica, sebbene possa certamente connotare la rilevanza indiziaria di un dato alla luce delle scienze empiriche, non può reggere un intero ragionamento probatorio neppure se indica una elevata probabilità, perché si occupa di frequenze e, quindi, ammette eccezioni, sicché non si adatta alla ricostruzione degli eventi singoli oggetto dei processi che non può accontentarsi della minimizzazione degli errori[5].
All’opposto, il metodo di Bayes che mira a rendere ripercorribile l’iter della decisione valutando l’incidenza di un dato probatorio sul grado personale di convincimento razionale di un giudicante circa una determinata ipotesi ricostruttiva trascura che il convincimento del giudice si forma non solipsisticamente ma attraverso la dialettica processuale[6].
La probabilità alla quale si mira nei processi è la provabilità dei fatti che sono oggetto del giudizio, che si persegue con il classico metodo della dialettica confutativa, che richiede posizioni argomentate e elimina quelle che risultano confutate.
2.2. Il modello di argomentazione tracciato per il ragionamento probatorio nel processo penale italiano si incentra sui concetti di ipotesi, indizi e prove, contraddittorio fra le parti (artt. 111, commi 2 e 6 Cost.), ragionevole dubbio, giustificazione razionale della decisione, metagiudizio nel processo di impugnazione, controllo sulla legalità e sull’assenza di illogicità manifeste nella decisione e si ispira, appunto, al metodo del razionalismo dialettico. Infatti, richiede che si dia conto «dei risultati acquisiti e dei criteri adottati» (art. 192, comma 1, cod. proc. pen.), che si enuncino le «ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (art. 546, comma 1 lett. e, cod. proc. pen.) e che le motivazioni siano esenti da «manifeste illogicità» (art. 606 lett. e, cod. proc. pen.).
I discorsi delle parti processuali sono un capitolo della ars opponendi et respondendi, propaggine della dialettica confutativa classica[7], dove il termine «contraddizione» ha origine nella prassi dialogica volta a contrastare il pensiero dell’avversario: «Artificis est invenire in actione adversarii quae inter semet ipsa pugnent aut pugnare videantur» [È proprio dell’esperto di retorica saper trovare nel discorso dell’avversario gli elementi che sono o sembrano contraddittori: Quintiliano, Institutio oratoria, V-13-29].
Per produrre conoscenza, la dialettica confutativa necessita di un insieme – magari disorganizzato ma delimitabile – di posizioni diverse e le parti offrono al giudice spunti e strumenti per porre o scartare le premesse, prendendo posizione intorno al problema: è questa la ragione profonda del principio et audietur altera pars, quale strumento per la imparzialità del giudizio.
Come è noto, le vie fondamentali della confutazione dialettica sono la dimostrazione per assurdo e la riduzione all’inammissibile che si reggono sulla dimostrazione che una ipotesi è autocontraddittoria o dalle conseguenze fra loro incompatibili oppure contrastante con una tesi assunta come indiscutibile (perché irrefutabilmente dimostrata o comunque postulata)[8].
La confutazione di una delle due ipotesi fra loro incompatibili ne dimostra la falsità, ma prova la validità dell’altra solo se questa è l’esatta contraddittoria della prima: la mancata conferma di una ipotesi non corrobora, di per sé, quella che le si oppone se le due ipotesi sono, come ordinariamente avviene, fra loro solo logicamente contrarie e non anche contrarie e contraddittorie, sicchè tertium datur. Né la verifica di una sua implicazione conferma definitivamente l’ipotesi perché questo esito potrebbe essere giustificato a partire da una diversa ipotesi: gli stessi dati sono spesso spiegabili sulla base di ipotesi diverse e, in questo caso, occorrerà collaudarle tutte verificando se qualche dato acquisito costituisce implicazione di una sola delle ipotesi in competizione.
Il passaggio dai primi dati acquisiti alla formulazione di ipotesi sugli eventi si situa nell’ambito della immaginazione logica che consente, per esempio, di configurare ipotesi fra loro incompatibili, o di ragionare in termini controfattuali, o di costruire un esperimento (anche solo mentale) falsificante la ricostruzione degli eventi che si è delineata. Il ragionamento probatorio si sviluppa di solito a catena (secondo l’incedere della deduzione naturale e non assiomatica), assumendo come vere le ipotesi che sono state accettate come provate. Al momento della valutazione dei dati acquisiti e delle argomentazioni sviluppate, il giudicante si trova in una posizione analoga a quella della comunità scientifica che valuta il grado di conferma di un’ipotesi alla luce delle teorie rivali considerate, dei dati disponibili, degli esperimenti realizzati, et cetera[9].
3. Los estándares de prueba
3.1. I canoni della dialettica confutativa sono applicabili in modi vari e con differenti gradi di rigore. Quando sono seguiti correttamente essi conferiscono il massimo grado di razionalità ai ragionamenti probatori, ma a costo di un impegno intellettuale e di un impiego di risorse organizzative e economiche che non può essere sopportato sempre e allo stesso modo per tutti i tipi di processo.
Determinare il contenuto di un modello (estándar, standard, paradigma) di prova significa anche fissare il livello di sufficienza probatoria che a quel modello è connesso. Ne deriva che la stessa ipotesi probatoria può ritenersi confermata oppure no secondo il modello di prova che è stato adottato: lo stesso fatto può risultare provato, secondo un certo modello, in un dato ambito (per esempio civilistico) ma non in un altro (per esempio penalistico).
La fissazione dei livelli di prova connessi a un certo modello probatorio svolge una funzione sia euristica che giustificativa e anche di garanzia per le parti (sia in relazione alle decisioni finali e intermedie del processo sia in relazione ai meccanismi di definizione anticipata eventualmente previsti dalle leggi processuali) perché indica loro come impostare e controllare le strategie probatorie circa la decisione sui fatti.
Inoltre, in una prospettiva che trascende le sorti del singolo procedimento, deve considerarsi che l’adozione di un paradigma di prova, invece di un altro, può incidere sulla distribuzione del rischio di errori giudiziari: per esempio, un paradigma di prova assai rigoroso riduce il rischio di erronee condanne ma aumenta il rischio di erronee assoluzioni. Il paradigma di prova deve riprodurre la ratio della distribuzione degli errori che si ritengono socialmente accettabili.
Tutto questo comporta − come evidenziato da Ferrer Beltràn – che la scelta di un modello di prova riguarda la politica giudiziaria e spetta al legislatore perché definisce i rapporti fra l’interesse all’accertamento della verità e altri interessi giuridicamente rilevanti che possono con lo stesso confliggere o anche tiene conto della esistenza di altre forme di responsabilità (civile, amministrativa, disciplinare..) a carico dell’autore delle condotte da provare abbinate a quella penale.
Per esigenze garantistiche, quanto più alta è la compressione dei diritti del soggetto eventualmente ritenuto responsabile di un fatto, tanto più elevato dovrebbe essere il livello di prova mirato. Tuttavia, non necessariamente questo implica che i più elevati livelli di prova debbano riguardare il processo penale perché non sempre le condanne con cui si può concludere si risolvono in gravi limitazioni della libertà personale, mentre può avvenire che notevole incidenza sulla sfera economica di persone fisiche o giuridiche siano l’esito di processi civili o amministrativi
3.2. Uno degli scopi mirati in Prueba sine convicción è quello di fornire strumenti per ridurre «la subjectividad y la imprecisión» nei ragionamenti probatori giuridici considerati come una specie del genere “ragionamento” che include sia il ragionamento scientifico che quello che si utilizza per decidere circa i fatti della vita ordinaria: l’epistemologia generale governa tutti questi tipi di ragionamento[10].
L’idea è che il metodo di eliminazione delle ipotesi fra loro concorrenti anche se non utilizza il calcolo matematico consente comunque di comparare il grado di conferma delle diverse ipotesi in conflitto così da ordinarle secondo gradi di probabilità.
Nell’ottica del razionalismo dialettico il grado di conferma di una ipotesi dipende non dalle credenze di chi assume la decisione ma dalle implicazioni vere che si possono formulare a partire dalla ipotesi e dalle difficoltà di dare conto delle stesse implicazioni sulla base delle ipotesi rivali. La probabilità di una ipotesi aumenta con il progredire del suo superamento delle controargomentazioni che le si oppongono. Quanti più controlli supera un’ipotesi e quante più sono le ipotesi in conflitto eliminate tanto maggiore è il suo grado di conferma.
In questa prospettiva, Ferrer Beltràn fornisce, senza pretesa di completezza, sette esempi di estándares (modelli) di prova ben formulati, ordinati in direzione discendente dal maggiore al minore grado di esigenza probatoria.
I primi tre per considerare provata una ipotesi circa i fatti richiedono che si realizzino congiuntamente due condizioni.
La prima condizione è comune: l’ipotesi deve potere spiegare i dati disponibili, integrandoli in forma coerente e le previsioni di nuovi dati che essa permette di formulare devono risultare confermate e portate come prove nel processo.
La differenza sta nella seconda condizione, in relazione alla quale può osservarsi l’accrescersi dell’onere probatorio per la difesa e una correlativa diminuzione per l’accusa. Infatti: per il primo modello devono essere state refutate tutte le restanti ipotesi plausibili esplicative degli stessi dati che siano compatibili con la innocenza dell’accusato/imputato o per lui più favorevoli, escluse le mere ipotesi ad hoc[11]; per il secondo deve essere stata refutata l’ipotesi alternativa formulata dalla difesa della parte contraria, se plausibile, esplicativa degli stessi dati che siano compatibili con la tesi innocenza dell’accusato/imputato o per lui più favorevole, tranne che si tratti di una mera ipotesi ad hoc[12]; per il terzo deve essere stata refutata l’ipotesi alternativa formulata dalla difesa della parte contraria, se plausibile, esplicativa degli stessi dati che siano compatibili con la innocenza dell’accusato/imputato o per lui più favorevoli, sempre che sia stata apportata qualche prova che le conferisca un qualche grado di conferma.
I restanti modelli di prova presentati differiscono dai precedenti perché non esigono che le ipotesi alternative (tutte o alcune) siano state refutate o possano essere scartate alla luce dei dati acquisiti al processo.
I primi due presuppongono entrambi che il compendio probatorio sia completo (escluse le prove ridondanti) ma il secondo considera provata soltanto l’ipotesi più probabilmente veridica mentre il secondo ammette come provata l’ipotesi più probabilmente veridica della ipotesi della parte contraria, sempre alla luce degli elementi di giudizio esistenti nel procedimento.
Gli ultimi due neanche richiedono che il compendio probatorio sia completo: l’uno considera provata soltanto l’ipotesi che risulti più probabilmente veridica; l’altro si accontenta dell’ipotesi che risulti più probabilmente veridica di quella della parte contraria, sempre alla luce degli elementi di giudizio acquisiti.
4. Il modello di prova per le misure cautelari personali
Nel processo penale sono presenti diversi modelli di prova in relazione al tipo di decisione da assumere (misure cautelari, conclusione delle indagini preliminari, non luogo a procedere, rinvio a giudizio, giudizio) secondo soglie di sufficienza probatoria diverse per ciascuno stadio e progressive.
In particolare, nell’ambito delle misure cautelari personali l’effetto convergente dei limitato tempo per lo svolgersi delle procedure e dell’urgenza del provvedere comporta – anche quando le decisioni producono gravi limitazioni della libertà personale e possono incidere, per altro verso, sulla salvaguardia di rilevanti esigenze di sicurezza per le persone e la collettività – che non possa imporsi un modello ispirato al conseguimento della piena prova.
Nel codice di procedura penale italiano il modello di prova cautelare è fondato sulla necessità di «gravi indizi di colpevolezza» per l’applicazione di una misura cautelare e costituisce una specificazione del generale modello di prova ispirato al razionalismo dialettico [2.2.].
Infatti, l’art. 292, comma 2, lett. c), cod. proc. pen. richiede, «a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio» che nell’ordinanza cautelare siano esposti gli «indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza» e la lettera c-bis dello stesso comma richiede che siano esposti i «motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa»[13].
La norma ripropone la previsione contenuta nell’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti connessi al particolare contenuto del provvedimento cautelare (non fondato su prove ma su gravi indizi e riguardante non la responsabilità ma una rilevante probabilità di colpevolezza).
4.1. Differenza fra gravi indizi e indizi gravi precisi e concordanti
In questo quadro la (complessa) questione del significato della espressione «gravi indizi» che l’art. 273 cod. proc. pen. usa per definire la prima fra le «condizioni generali di applicabilità delle misure» cautelati personali non riceve risposte univoche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione[14].
Sulla base di una interpretazione letterale e coordinata dei dati normativi, un primo indirizzo assume che per giustificare una misura cautelare personale basti qualunque elemento idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato per i reati addebitatigli. I «gravi indizi di colpevolezza» non corrispondono agli «indizi» intesi quale elemento di prova idoneo a fondare un giudizio finale di colpevolezza, sicché non andrebbero valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio di merito, dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. − che, oltre alla gravità, richiede la precisione e la concordanza degli indizi − perché il comma 1-bis dell'art. 273 cod. proc. pen. richiama espressamente i soli commi 3 e 4, ma non il comma 2 del suddetto art. 192 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. 4 , n. 16158 del 08/04/2021, Rv. 281019; Sez. 5, n. 55410 del 26/11/2018 Rv. 274690; Sez. 1, n. 43258 del 22/05/2018, Rv. 275805). Anzi, secondo una posizione, l'indizio può anche essere unico, considerando che l'uso del plurale in «gravi indizi» avrebbe scopo soltanto indeterminativo (Sez. 6, n. 3734 del 27/09/1994, Rv. 199472; Sez. 3, n. 1740 del 30/07/1993, Rv. 195212; Sez. 6, n. 3144 del 08/09/1992, Rv. 192822; Sez. 6, n. 2950 del 21/07/1992, Rv. 191942).
Della necessità di una più articolata strutturazione dei «gravi indizi», si cura, invece, l’indirizzo secondo cui per valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'applicabilità di misure cautelari personali è necessario utilizzare anche il canone posto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. che prevede che gli indizi, oltre che gravi, devono essere anche plurimi, precisi e concordanti. L’idea è che, in assenza della pluralità e concordanza degli indizi, la discrezionalità valutativa del giudice non potrebbe esercitarsi adeguatamente (ex plurimis: Sez. 5, n. 55410 del 26/11/2018, Rv. 274690; Sez. 4, n. 25239 del 05/04/2016, Rv. 267424; Sez. 4, n. 31448 del 18/07/2013, Rv. 257781)[15]. In qualche motivazione viene precisato che il mancato richiamo del secondo comma dell’art. 192 non rileva perché il codice nell'esigere la esistenza di «gravi indizi di colpevolezza» per l’adozione di una misura cautelare non può che presupporre tale disposizione che, oltre a codificare una regola di inutilizzabilità, costituisce un canone di prudenza nella valutazione della probabilità di colpevolezza necessaria per esercitare il potere cautelare)[16].
4.2. Gravità dell’indizio come resistenza alle obiezioni
Pare ottimistico attendersi che le formule legislative possano trattare compiutamente il problema della valutazione degli indizi e affidare alla loro esegesi la sua soluzione.
Quando si tratta di regolare le motivazioni dei provvedimenti, il legislatore può porre dei divieti di utilizzazione o anche stabilire delle presunzioni di vario grado, ma non può riuscire a regolare lo sviluppo delle operazioni intellettuali per la ricostruzione degli eventi singoli perché queste appartengono al genere dei giudizi riflettenti, che estraggono dal caso concreto le premesse che compongono per poi giungere alle loro conclusioni[17].
Rappresentate in forma discorsiva, sono argomentazioni, che occorre esporre al vaglio dialettico della confutazione: se le resistono sono convalidate, se non le resistono devono essere modificate o eliminate.
In realtà, la giurisprudenza della Corte di cassazione fornisce delle indicazioni che vanno oltre quella nozione di “gravità” dell’indizio che viene fondata cripticamente sulla enunciazione della “qualificata”, “ragionevole”, “elevata” probabilità del fatto fornita dall’indizio che spesso ricorre nelle sentenze[18] e la cui insoddisfacente genericità non è emendata neanche dall’indirizzo (formalmente più rigoroso) che richiede una pluralità di indizi fra loro concordanti.
Queste indicazioni riguardano la necessità, con il correlato onere argomentativo, di superare le ragioni di segno contrario in base alle quali, invece, viene esclusa la valenza dell’indizio.
Si osserva che per possedere la gravità richiesta per l’applicazione di una misura cautelare personale l’indizio deve possedere un elevato grado di capacità dimostrativa del fatto da provare che gli deriva dalla «resistenza alle obiezioni» (Sez. 6, n. 26115 del 11/06/2020, Rv. 279610) cioè alle «interpretazioni alternative» (Sez. 1, n. 1454 del 02/04/1992, Rv. 190119; Sez. 2, n. 394 del 28/01/1992, Rv. 18916; Sez. 1, n. 2989 del 26/09/1990, Rv. 185610).
Questo criterio di valutazione della gravità dell’indizio si collega alla concezione dialettica della prova e richiede al giudicante la esplicitazione delle sue argomentazioni da sottoporre al vaglio della dialettica confutativa. Tale obbligo non è adempiuto con una generica enunciazione delle fonti di prova, senza la individuazione degli specifici dati indizianti a sostegno del provvedimento e senza la giustificazione logica della decisione perché diversamente si comprometterebbe il diritto di difesa (Sez. 1, n. 4522 del 28/10/1993, Rv. 195616; Sez. 1, n. 1164 del 18/03/1993, Rv. 193952), fermo restando, in ogni caso, che fra più significati parimenti attribuibili all’indizio, deve privilegiarsi quello più favorevole all'indagato, che può essere accantonato solo qualora risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto (Sez. 3, n. 17527 del 11/01/2019, Rv. 275699; Sez. 1, n. 19759 del 17/05/2011, Rv. 250243).
La necessità di giustificare in modo logicamente corretto e, comunque, esente da manifeste illogicità il rigetto delle interpretazioni di segno contrario implicita anche una valutazione della precisione degli indizi e della concordanza fra loro (fra tutti o fra alcuni di quelli reperiti). In altri termini, fondare il giudizio di gravità degli indizi su una adeguata concretizzazione della concezione dialettica della prova assorbe e supera le esigenze evidenziate dalla giurisprudenza che ritiene necessario utilizzare anche per le misure cautelari personali il canone posto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen.
5. Valutazione degli indizi e manifeste illogicità
5.1. Manifesta illogicità e irrilevanza degli elementi difensivi
L’esposizione delle ragioni che hanno condotto a ravvisare o a disconoscere gravi indizi di colpevolezza e a disattendere le prospettazioni di segno contrario costituisce il requisito strutturale minimo della decisione cautelare e la condivisione di tali ragioni da parte degli altri giudici di merito conduce alla conferma del provvedimento eventualmente impugnato.
Tuttavia, il provvedimento cautelare può anche avere confutato le posizioni di segno contrario rispetto a quella adottata circa i gravi indizi di colpevolezza ma non per questo soltanto essere indenne da vizi logici: la confutazione di una ipotesi contraria dimostra la posizione sostenuta soltanto se le due posizioni sono fra loro contrarie e contraddittorie ma non se, come per lo più avviene, fra loro soltanto contrarie.
Allora, per superare il controllo da parte della Corte di cassazione la motivazione deve comunque essere esente dai vizi indicati nell’art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen., ma tanto basta a salvaguardo dall’annullamento e a nulla vale che il ricorrente opponga che i dati si prestano a una diversa interpretazione (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Rv. 215828; Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Rv. 202903; Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Rv. 276976 Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Rv. 255460; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Rv. 237012; Corte cost. sent. n. 121/2009).
La manifesta illogicità di una decisione giudiziaria è una categoria inventata dal legislatore, non corrispondente a una nozione equivalente nella teoria logica. Questo conduce a una prassi (attuata secondo criteri convenzionali ma variabili) che può concorrere a trasformare il controllo della Corte di cassazione sulle argomentazioni relative alle ricostruzioni dei fatti in un ibrido terzo grado di giudizio non utile al funzionamento del sistema e concausa del proliferare dei ricorsi.
Esiste, comunque, un nucleo certo di illogicità evidenti: le violazioni dei principi della logica formale, la sconnessione fra premesse e conclusioni, le fallacie dei giudizi condizionali e altre specifiche delle inferenze induttive e della abduzione, la confusione fra generalizzazione e particolarizzazione nell’uso delle massime d’esperienza e la confusione fra logica delle asserzioni generali e logica delle asserzioni singolari nel ricorso alle leggi scientifiche[19].
La giurisprudenza della Corte di cassazione ne ha individuato alcune, concernenti le inferenze abduttive che reggono la valutazione di indizi, confermando che, come per gli altri tipi di inferenza, la tipologia delle illogicità è strettamente connessa alla struttura del ragionamento che esse viziano.
5.2. L’indebita generalizzazione
Al fondo delle inferenze abduttive traibili dagli indizi sta il ricorso alle massime di esperienza che comporta il rischio della fallacia della indebita generalizzazione consistente nell’attribuire carattere di generalità a quelle che potrebbero rivelarsi mere indebite generalizzazioni, tanto più se si considera che esse per lo più si formano secondo vie non vigilate dal rigore del metodo scientifico. Sarebbe improprio qualificare come manifestamente illogica la scelta di una massima di esperienza pertinente al caso, però manifestamente illogica può essere l’inferenza che raccorda la massima al caso singolo se la prospettazione di altre massime di esperienza di diverso contenuto, ma egualmente pertinenti al caso, palesa l’arbitrarietà della sua assolutizzazione. Allora, per seguire una massima d’esperienza, è necessario che si possa ragionevolmente escludere ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi che ne scaturisce: se viene richiesta una attività istruttoria allo scopo di mostrare che una certa massima di esperienza non è adeguata al caso concreto, la sua mancata effettuazione lascia meramente verosimile la conclusione suggerita dalla massima. Solo se resiste alla dialettica confutativa (con l’esclusione di una ipotesi contraria) la applicazione di una massima di esperienza giustifica l’attribuzione di valenza indiziaria al dato acquisito (Sez. 4, n. 22790 del 13/04/2018, Rv. 272995; Sez. 6, 42049 del 22/10/2014, Rv. 261220, Sez. 5905 del 29/11/2011, dep. 2012, Rv.252066). Ancora: se la situazione da ricostruire presenta connotati non riducibili all’ordinario, allora l’atteggiamento mentale che confida nelle massime di esperienza diventa del tutto fuorviante, manifestamente illogico.
5.3. La valutazione atomistica degli indizi
La valutazione atomistica degli indizi è fallace perché trascura che l’indizio – per sua costituzione – è un dato la cui ambiguità va emendata collegandolo a altri. Rifuggire da questa operazione significa accantonare indebitamente elementi di valutazione rilevanti che potrebbero rivelarsi, infine, persino decisivi e, quindi, fallare per difetto.
Risulta, in effetti, consolidato l’indirizzo secondo il quale nella valutazione degli elementi indiziari l’interpretazione del compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e, mentre non può prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni indizio nella sua valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, deve poi valorizzarlo, se ne ricorrono i presupposti, in una prospettiva complessiva e unitaria, considerando i collegamenti e la eventuale confluenza dei dati indizianti (per tutte: Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678).
In altri termini: ai fini della configurabilità dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'applicazione di misure cautelari personali, è illegittima una valutazione frazionata ed atomistica dei singoli dati acquisiti, dovendo invece seguire, alla verifica della gravità e precisione dei singoli elementi indiziari, il loro esame unitario, che ne chiarisca l'effettiva portata dimostrativa del fatto, la coesione e la congruenza rispetto al tema di indagine (ex multis: Sez. 1, n. 30415 del 25/09/2020, Rv. 279789; Sez. 1, n. 1790 del 30/11/2017, dep. 2018, n. 272056; Sez. I, n. 46566 del 21/02) 2017, n. 271228).
5.4. La praesumptio de praesumpto
Manifestamente fallace è ritenuta anche la praesumptio de praesumpto perché (l’argomento è forte ma non incontrovertibile) diluisce la valenza sintomatica di un indizio: il giudice, che ben può partire da un fatto noto (indizio) per risalire a uno ignoto, non può porre il fatto (originariamente) ignoto come fonte di una ulteriore presunzione perché la doppia presunzione contrasta con la regola della certezza dell’indizio, connessa al requisito della sua precisione, richiesto dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. (ex multis: Sez. 6, n. 37108 del 02/12/2020, Rv. 280195; Sez. 1, n. 18149 del 11/11/2015, dep. 2016, Rv. n. 266882; Sez. 1, n. 4434 del 6/11/ 2013, dep. 2014, Rv. 259138; Sez. 2, n. 5838 del 9/02/ 1995, Rv. 201517). A fortiori, è evidente (rientra nella sua stessa definizione) che il dato indiziante deve essere certo (Sez. 2, n. 2935 del 17/09/1992, Rv. 191072).
[1] Per tutti: J.H. Wigmore, The Science of Judicial Proof as given by Logic and General Esperience, an Illustrate in Judicial Trials, Boston, Brown & Co., 1937. M.Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, Laterza, 2009.
[2] La trilogia iniziata Ferrer Beltràn con Prueba y verdad en el derecho (Madrid, Marcial Pons,2002, Ed.it.: Prova e verità nel diritto, Bologna, il Mulino, 2004) e proseguita con La valoracion racional de la prueba (Marcial Pons, Madrid, Barcelona, Buenos Aires, 2007. Edizione Italiana di G.B. Ratti, con presentazione di R.Guastini, La valutazione razionale della prova, Milano, Giuffrè, 2012) viene completata dal citato Prueba sine convicción, del quale è prossima l’edizione italiana. Sulle posizioni di Ferrer Beltràn (e di altri): S. Novani, La teoria della colpevolezza nella filosofia processuale, in: Archivio della nuova procedura penale, 2013, I, p. 26ss, 27-29.
[3] Sul tema: A.Costanzo, Logica e psicologia nel ragionamento giudiziario, in: Cassazione penale, 6, 2017, pp. 2516-2534.
[4] Sul punto efficacemente: G. Boniolo-G.Gennari, Note su giurisprudenza e probabilità: fra leggi di natura e causalità, in: Sistema penale, 10, 2021, pp. 85- 104, 94, 103 ss. Evidenziano degenerazioni di tipo retorico anche: R. Blaiotta-G.Carlizzi, Libero convincimento, ragionevole dubbio e prova scientifica, in AA. VV., Prova scientifica e processo penale (a cura di G.Canzio-L. Luparia, Cedam Kluwer, Milano, 2017, p. 464. Sul tema: G. Carlizzi, Errore giudiziario e logica del giudice nel processo penale, in AA. VV, L’errore giudiziario (a cura di L. Luparia), Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2021, 93. In termini generali sulla questione: G. Boniolo-P.Vidali, Strumenti per ragionare. Le regole logiche, la pratica argomentativa, l’inferenza probabilistica, Pearson, Milano, 2017.
[5] Per un’analitica disamina del problema: F. Coniglione, Introduzione alla filosofia della scienza. Un approccio sotorico, Roma, Bonanno, 2004, pp. 291-313.
[6] Viene definito come «funzione logico-probabilistica che descrive la procedura corretta per revisionare la fiducia verso un’ipotesi alla luce di un insieme di prove» in: P. Cherubini, Fallacie nel ragionamento probatorio, in L. De Cataldo Neuburger (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova, 2007, p. 251.
[7] L. Pozzi, Le consequentiae nella logica medioevale, Padova, Liviana, 1978; L. Pozzi, La coerenza logica nella teoria medioevale delle obbligazioni,Parma, Zara,1990.
[8] Per una chiara esposizione della storia della dialettica confutativa: E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo, L’Epos, 1987, pp. 257-279. Per alcune applicazioni: V. Marinelli, Il dilemma. Contributo alla logica giuridica, Milano. Giuffrè, 2004; A. Costanzo, Logica giudiziaria, Roma, Aracne, 2012. Relativizzare i principi della logica classica depotenzia l’efficacia della dialettica confutativa: A. Costanzo, Difficoltà della reductio ad absurdum e apparenti deroghe alla logica classica nelle argomentazioni giudiziali, in: Rivista Internazionale di filosofia del diritto, 67, 1990, 576-617].
[9] Per alcuni aspetti: M. Pera, Scienza e retorica, Bari Laterza, 1991, pp. 1999-226. Sulla inferenza alla migliore spiegazione: V. Fano, Comprendere la scienza. Introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Bologna Liguori, 2005, pp. 114 sas, 158 ss.
[10] I primi tre livelli di prova si ispirano alla filosofia della scienza di Hempel e all’idea di probabilità sviluppata da Cohen: C.G. Hempel, Philosophy of Natural Science, Henglewood Cliffs, New Jersey; Prentice Hall, 1966; L.J. Choen, The Probable and the Probable, Oxford, Clarendon Press, 1977; L.J. Choen, Introduction to the Philosophy of Induction and Probability, Oxford, Oxford University Press, 1989.
[11] Ad hoc è l’ipotesi coerente con i dati conosciuti ma né confermabile né refutabile. Classico esempio ne è l’idea di un complotto accusatorio contro l’imputato.
[12] Sembrano adottare questo modello di prova le decisioni che, in relazione alle misure cautelari attribuiscono all’indagato l’onere di formulare una plausibile ipotesi alternativa a quella dell’accusa: Sez. 3 n. 209 del 17/09/2020, dep. 2021, Rv. 281047; Sez. 5., n. 2471 del 31/10/1995, Rv. 203391.
[13] Sull’applicazione di queste norme: Sez. 5, n. 4915 del 12/11/1996, dep. 19/02/1997, Rv. 207468; Sez. 6, n. 3109 del 19/09/1995, Rv. 202553; Sez. 6, n. 36874 del 13/06/2017, Rv. 270815; Sez. 1, n. 4777 del 15/11/2011, dep. 201, Rv. 51848; Sez. 2, n. 28662 del 27/05/2008, Rv. 240654; Sez. 1, n. 14374 del 09/01/2001, Rv.219093.
Alcune sentenze attribuiscono all’indagato l’onere di proporre ricostruzioni alternative a lui favorevoli per evitare che il giudice valuti gli indizi nella sola prospettiva dell'ipotesi formulata dall'accusa, si attribuisce all'indagato l'onere di proporre una plausibile ricostruzione alternativa a quella dell’accusa considerando che l'attendibilità degli indizi non può essere rapportata a tutte le conclusioni astrattamente compatibili con i fatti noti e, Sez. 3 n. 209 del 17/09/2020, dep. 2021, Rv. 281047; Sez. 5, n. 2471 del 31/10/1995, Rv. 203391).
[14] F. Falato, La Cassazione (ri)propone la improponibile endiadi tra indizio probatorio e indizio cautelare, in: La Giustizia Penale, 2013, 8-9, pp. 488-512; F.M. Grifantini, La nozione di indizio nel codice di procedura penale, in: Rivista di diritto processuale, 2013, 1, pp. 12-31; G. Poi, La valutazione degli indizi nella fase cautelare: una questione da risolvere alla luce della teoria generale della prova, in: Giurisprudenza italiana, 1, 2017, pp. 213-217.
[15] Anche se per la applicazione di una misura cautelare personale basta un probatio minor di quella richiesta per la condanna, occorre tuttavia, che l'identificazione dell’indagato sia certa (Sez. 3, n. 30056 del 25/02/2021, Rv. 282232; Sez. 5, n. 9192 del 07/02/2007, Rv. 236258). Questo comporta l’adozione del modello di prova che conduce “oltre il ragionevole dubbio”. Nella sentenza del 2007 si precisa che il principio vale «indipendentemente dalle scelte e strategie processuali o dalla linea difensiva prescelta dall’indagato».
[16] Secondo una posizione «i gravi indizi sono prove allo stato degli atti», cioè in assenza di ulteriori elementi di valutazione favorevoli all’indagato: F. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano Giuffrè, 2013. p. 641. Introduce nodi problematici forse legati alle peculiarità delle fattispecie la (opposta?) posizione secondo cui «gravi indizi di colpevolezza» ex art. 273 cod. proc. pen. sono quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che, contenendo in nuce elementi strutturali della corrispondente prova, non bastano a provare la responsabilità dell'indagato e, tuttavia, consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, per mezzo della futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrarla, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. 3, n. 17527 del 11/01/2019, Rv. 275699; Sez. 2, n. 28865 del 14/06/2013, Rv. 256657).
[17] I.Kant, Logik a cura di G. B.Jäsche, Königsberg, 1800. Trad. it. Logica, a cura di L. Amoroso, Bari, Laterza,1990 p. 125
[18] I gravi indizi di colpevolezza richiesti dall'art. 273 cod. proc. pen. per l'emissione dei provvedimenti dispositivi di misure cautelari non possono riferirsi al solo fatto materiale, ma devono riguardare l’intero reato e quindi anche l'elemento soggettivo (Sez. 6, n. 3131 del 03/09/1992, Rv. 191757).
[19] Sul tema sia consentito rinviare a: A. Costanzo, Anomia della illogicità manifesta, in: Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.