Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario
di Salvatore Muleo
Sommario: 1. Una norma improvvisa. - 2. La disciplina dell’onere della prova. - 3. Il raffronto con altri settori dell’ordinamento. - 4. Il superamento di alcune derive giurisprudenziali. - 5. Il giudizio secondo gli “elementi di prova che emergono in giudizio”. - 6. I criteri di valutazione degli elementi di prova. - 7. I profili probatori non affrontati.
A prima lettura
1. Una norma improvvisa.
Con mossa inaspettata il legislatore della mini riforma della giustizia e del processo tributari del 2022 ha inserito all’art. 7 d. lgs. 546 del 1992 un comma 5bis, il quale si incarica di disciplinare espressamente, e per la prima volta, l’onere della prova ed i criteri di valutazione degli elementi di prova emersi nel processo, intervenendo altresì sugli elementi che il giudice deve porre a base della propria decisione.
La formulazione, va detto subito, appare poco lineare ed, anzi, particolarmente contorta, distaccandosi in tal modo dai canoni classici enucleabili dalle previsioni codicistiche.
Considerata la sofferta evoluzione della c.d. mini riforma del processo e della giustizia tributaria, si può forse immaginare che le modalità di redazione siano dovute ad una repentina inserzione di queste regole nel testo in discussione (non si trova, difatti, riferimento alcuno ad esse nella relazione parlamentare) e di un compromesso tra le forze politiche. Si ha quasi la suggestione che si sia trovato l’accordo per un’unica disposizione; e che si sia redatto, pertanto, un solo articolo nel quale sono stati inseriti più precetti, anche fortemente eterogenei, in parte rivenienti da taluni emendamenti proposti. Anzi, le modalità di redazione suggerirebbero addirittura una sorta di inserimento a sorpresa delle regole poste al secondo periodo. Ma ovviamente le considerazioni storiche circa la genesi dell’addizione normativa costituiscono argomento interpretativo debolissimo; le illazioni poi, appena accennate, rappresentano un argomento nullo. Giacché è evidentemente con il testo di legge positivo che occorre confrontarsi.
2. La disciplina dell’onere della prova.
Le statuizioni sulla regola di giudizio dell’onere della prova sono riportate nel primo e nel terzo periodo del neonato comma 5bis, racchiudendo in una sorta di sandwich le altre disposizioni in tema di prova, di cui si dirà in seguito.
Le regole sono quindi le seguenti:
- l’amministrazione finanziaria “prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”;
- “spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.
Dissolvendo la formulazione ellittica, la più probabile esegesi della norma è nel senso che incombe sull’amministrazione finanziaria l’onere della prova dei fatti, la cui sussistenza fonda la legittimità della pretesa fiscale portata dall’atto impugnato.
Ed in tal senso pare muoversi entro conosciutissime, pienamente condivisibili, posizioni dottrinarie. Sembra dar difatti attuazione al precetto alloriano secondo cui l’amministrazione deve dare a se stessa la prova della fondatezza dell’atto impositivo, prima della sua emissione[1]. Come è stato sottolineato[2], a siffatta conclusione l’insigne Autore era giunto essenzialmente sulla scorta della considerazione dell’ampio numero di presunzioni poste a favore della stessa amministrazione finanziaria.
Peraltro, l’osservazione delle previsioni normative aggiuntesi nell’ordinamento hanno indotto a ritenere che la stessa conclusione potesse esser raggiunta riflettendo in particolare sull’ingigantimento dei poteri previsti a favore dell’amministrazione finanziaria, e così prendendo le mosse dal criterio della vicinanza della prova[3].
Vicinanza della prova che assurge a criterio di rilievo costituzionale ed europeo, alla luce del quale dev’esser verificata la tenuta del sistema e dev’esser orientata l’interpretazione di eventuali norme sull’onere della prova[4].
Seguendo questa impostazione, quindi, il legislatore ordinario non è libero di disporre dell’onere della prova ad libitum, essendogli senz’altro precluso di valicare il limite della vicinanza della prova.
In altri termini, non può addossare ad una delle parti un onere (della prova) che essa non riesce facilmente a soddisfare se in uno specifico caso concreto i mezzi di prova sono maggiormente disponibili per l’altra parte. E tanto meno lo è il giudice[5].
Se queste impostazioni sono condivisibili, la regola appena scolpita nell’art. 5bis deve confrontarsi con quel criterio, al fine di non provocare difetti di tenuta del sistema, massimamente sotto i profili del diritto di difesa, dell’effettività della tutela e del giusto processo.
In tal senso, la previsione secca dell’addossamento perenne dell’onere della prova in capo all’amministrazione finanziaria – che pure, oltre ad essere chiara, è convincente poiché in genere rispettosa del principio della vicinanza della prova - può finire per provocare problemi allorquando i suoi poteri siano affievoliti. Ad esempio, poiché tutta o parte della fattispecie si è realizzata all’estero, nel caso in cui i fatti, anche eventualmente legittimanti presunzioni, siano di difficile prova da parte dell’amministrazione finanziaria utilizzando i propri poteri[6].
Ancora, la statuizione netta sull’addossamento dell’onere della prova in capo al contribuente in tutte le cause di rimborso dev’esser stemperata (o disapplicata) in relazione alla prova dei fatti la cui disponibilità non sia del contribuente.
Non si vuole, in tal modo, estendere alla fase processuale il principio procedimentale di non aggravamento, stabilito dall’art. 6, quarto comma, dello Statuto dei diritti del contribuente. Quella, infatti, è una regola che incide sui poteri dell’amministrazione finanziaria, precludendone alcune modalità di esercizio allorquando gli elementi di prova siano nella disponibilità dell’amministrazione in genere, al duplice fine di garantire la genuinità delle prove e di non porre inutili pesi al contribuente. La non addossabilità al contribuente dell’onere della prova nella fase processuale nel caso in cui gli elementi di prova non siano in suo possesso, ma egli ne indichi il punto di reperimento, è invece una applicazione, proprio, del criterio della vicinanza della prova.
In altri termini, l’art. 5bis esprime la ricaduta positiva, ed un indiretto riconoscimento, del criterio di vicinanza della prova, addossando l’onere alla parte che ordinariamente ha maggiore disponibilità degli elementi di prova. Ma, nei casi eccezionali in cui detta disponibilità non coincida con la regola generale, se ne dovranno trarre le conseguenze.
Ad avviso di chi scrive, difatti, il criterio di vicinanza della prova, in quanto strumentale rispetto all’effettività della tutela ed al diritto di difesa, è principio generale, come già detto, a valenza costituzionale ed europea. Il giudice domestico, pertanto, qualora nel singolo caso il precetto posto dal comma 5bis si ponga in conflitto con la regola superiore, dovrà non applicarlo[7] per violazione dell’art. 47 della Carta europea dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dell’art. 6 § 1 CEDU o denunciarne la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.
La novella non è in realtà sconvolgente, poiché l’atto impositivo è, non a caso, il prodotto finale dell’istruttoria procedimentale, che, a sua volta, si interfaccia con l’attività svolta dal contribuente, che, a seconda delle varie leggi d’imposta, ha vari obblighi ed oneri[8].
Come detto, il procedimento amministrativo è connotato da obblighi ed oneri del contribuente (che si configurano anche prima del suo inizio e dai quali discendono le relative preclusioni), da un lato, ed esercizi di potere dell’amministrazione finanziaria, dall’altro. Profili, questi, non toccati dalla novella.
La permanenza di un impianto così articolato induce ad escludere che la novella di per sé, tranne i casi limite ai quali ci si riferiva, possa comportare un vulnus all’attività difensiva dell’amministrazione finanziaria.
3. Il raffronto con altri settori dell’ordinamento.
L’occasione più recente in cui il legislatore era intervenuto sull’onere della prova è costituita dal codice del processo amministrativo introdotto con il d. lgs. 104 del 2010, in attuazione della legge n. 69 del 2009, ed ispirato dal principio di vicinanza della prova.
Nell’art. 64 c.p.a., difatti, è stato indicato al primo comma che spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano “nella loro disponibilità” riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni. Sebbene nei commi successivi sia stato mantenuto il riferimento al principio acquisitivo, con la previsione di poteri officiosi per il giudice, pare a chi scrive che il criterio della vicinanza della prova rivesta in quell’ordinamento un ruolo decisamente primario.
La conferma del potere acquisitivo da parte del giudice amministrativo, ad opera del terzo comma dell’art. 64 c.p.a., permetterebbe, secondo parte della dottrina[9], al giudice amministrativo di distribuire l’onere della prova a seconda dell’andamento del processo e provocherebbe, secondo altra parte[10], un certo sincretismo.
Pare preferibile l’impostazione di chi ha sostenuto che, a seguito della riforma del 2010, anche nel processo amministrativo è centrale il criterio della vicinanza alla prova”[11]. Essendo peraltro il metodo acquisitivo strumentale al depotenziamento della diseguaglianza di posizioni tra la p.a. ed i privati. Così come è condivisibile l’affermazione di chi ha sostenuto che nel processo amministrativo l’onere “sussiste nei limiti della disponibilità e non oltre”[12]; asserzione che conferma che l’onere di provare è in capo a chi ha la disponibilità della prova e che è evidentemente supportata anche dalla presenza di poteri officiosi in quello schema processuale.
Nel rito tributario, invece, la positivizzazione della regola sull’onere della prova non è stata accompagnata da eguale previsione, giacché il legislatore del 2022 non è intervenuto sui poteri officiosi del giudice tributario, rimasti inalterati ed in genere ritenuti limitatissimi a causa dell’inciso del primo comma dell’art. 7 d. lgs. 546/1992. Nessuna interferenza con la regola sul riparto dell’onere della prova è stata introdotta, quindi.
Più risalente la regola nel processo civile, prevista, come notissimo, nell’art. 2697 c.c., in cui l’onere della prova è addossato a colui il quale “dice” (i.e. allega) dei fatti. Regola, però, superata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che, a far data dalla ben nota sentenza n. 13533 del 2001, emessa a Sezioni Unite, ha superato il dato positivo, in nome del criterio della vicinanza della prova, fornendo, nei casi eccezionali in cui sia necessario, un’interpretazione esattamente contraria al testo.
Come si è già osservato[13], sebbene ciò non emerga dalla sentenza ricordata, una tale interpretazione presuppone, da un punto di vista tecnico-giuridico, la (condivisibile) disapplicazione della norma interna, siccome ritenuta in contrasto con una regola europea, che in tal caso è ravvisabile nel principio di effettività della difesa.
4. Il superamento di alcune derive giurisprudenziali.
Alla luce di quanto detto, l’addossamento dell’onere della prova all’amministrazione finanziaria avrà certamente ripercussioni sulla giurisprudenza che negli ultimi anni si è andata formando a proposito della deducibilità dei costi e della loro inerenza.
Adottando un criterio non condivisibile, sia in tema di costi in relazione alle imposte sui redditi sia in tema di detrazioni iva, è stata seguita una sorta di “esplosione” (o scomposizione) della fattispecie imponibile in elementi positivi ed elementi negativi, addossando al contribuente l’onere della prova della sussistenza e della deducibilità di questi ultimi, come se fossero fatti impeditivi od estintivi[14].
In tal senso si vedano, ad esempio Cass. 15 luglio 2022 n. 22449, per l’addossamento al contribuente dell’onere della prova della infondatezza o della irrilevanza dei movimenti bancari, Cass. 12.4.2022 n. 11737, in relazione alla fonte legittima della detrazione, Cass. 21 novembre 2019 n. 30366, in tema di esistenza e natura del costo nonché relativi fatti giustificativi e la concreta destinazione alla produzione (in senso conforme Cass. 2596 del 28 gennaio 2022, Cass. n. 450 del 11 gennaio 2018, Cass. n. 18904 del 17 luglio 2018, Cass. n. 902 del 17 gennaio 2020), Cass 17 gennaio 2020 n. 902, in relazione alla prova della correlazione tra i costi di un contratto di swap e le finalità di copertura di operazioni attinenti all’attività di impresa (in senso conforme Cass. n. 10269 del 26 aprile 2017, Cass. n. 450 del 11 gennaio 2018, Cass. n. 30366 del 21 novembre 2019, Cass. 18896 del 5 luglio 2021), Cass. n. 20303 del 23 agosto 2017, in tema di presupposti dei costi inclusa l’inerenza, e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi nonché la loro congruità rispetto ai ricavi.
È proprio questa (forzata) separazione degli elementi negativi da quelli positivi a non convincere.
La fattispecie impositiva è difatti molte volte consistente in un fatto complesso, qual è, per esempio, il possesso di un reddito d’impresa. In tali casi, è l’intera realizzazione del presupposto in capo al contribuente a dover esser provata. L’onere della prova di ogni modificazione delle prospettazioni di fatto desumibili dalla (e sottostanti la) dichiarazione del contribuente, ad avviso dello scrivente, andava già posto a carico dell’amministrazione finanziaria, contrariamente da quanto concluso dalla giurisprudenza prevalente sin qui formatasi[15].
La novella quindi induce ora a ridiscutere su molti temi che sembravano acquisiti ed a ritenere, in ogni caso di rettifica di imponibile o di imposta, che l’onere della prova sia a carico dell’amministrazione finanziaria, atteso che è venuta meno ogni possibilità di interpretazione differente. E perciò a concludere che non vi sono appigli per una prosecuzione di quell’orientamento giurisprudenziale.
5. Il giudizio secondo gli “elementi di prova che emergono in giudizio”. E l’art. 115 c.p.c.?
Per altro verso, occorre domandarsi se e quale possa essere il significato della frase, riportata nella prima proposizione del secondo periodo, per cui “il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio”.
In specie, bisogna chiedersi se il legislatore abbia voluto modificare l’intero impianto del sistema tributario sino al punto da rendere la fenomenologia probatoria come esclusivamente appartenente alla sfera processuale, e non più a quella procedimentale. Se, quindi, debba anche per l’ordinamento tributario, come già per quello penale, potersi dirsi che la prova si forma solo nel processo, con contraddittorio per la (ammissione e formazione della) prova e non semplicemente sulla prova. E se, ancora, persino le regole sulla motivazione degli atti tributari, di cui ad esempio all’art. 7 dello Statuto, debbano intendersi superate, essendo tenuta l’amministrazione finanziaria a fornire la prova solo nel giudizio e non nel procedimento, con l’ovvio corollario della caduta dell’obbligo della motivazione sulla parte che ricollega gli elementi di prova alla pretesa tributaria (oltre che, nel caso dell’iva, con l’implicita abrogazione della regola, posta dall’art. 56 d.p.r. 633 del 1972, a mente della quale devono esser indicati gli elementi di prova negli atti di rettifica).
La risposta è, ad avviso di chi scrive, negativa.
Anzitutto va valutato l’argomento letterale: la norma fa riferimento ad elementi di prova emersi nel giudizio e non generalmente alla formazione della prova in giudizio.
Il richiamo alla “emersione” nel processo degli elementi probatori appare, piuttosto, la modalità con la quale il legislatore può aver ripetuto, in modo invero non necessario, che il giudice deve decidere juxta probata, ribadendo e sottolineando l’impronta fortemente dispositiva del rito nonché l’inesistenza di poteri officiosi al fine di ottenere elementi probatori che non siano stati allegati ed offerti dalle parti. E gli elementi possono esser emersi nel procedimento (con l‘onere dell’amministrazione finanziaria di riversarli nel processo) ovvero, a seguito della novella del 2022, formarsi nel processo, e per tale via emergere (si pensi alla testimonianza scritta, appena introdotta). Una tale lettura sarebbe quindi tranquillizzante per quel che concerne la supposta rivoluzione dell’intero ordinamento tributario.
Peraltro, ed anche in correlazione con un’interpretazione sistematica, una rivoluzione così ampia – come sarebbe quella sopra tratteggiata – potrebbe fondarsi solo con un comando più chiaro ed inequivocabile. E, pure dal punto di vista storico, l’esser frutto di una inaspettata inserzione difficilmente appare compatibile con uno stravolgimento totale dell’ordinamento tributario ab imis.
Senonché, se è corretta tale lettura “minimale”, occorre anche chiedersi se la disciplina inerente a come il giudizio dev’essere fondato finisca per escludere l’applicazione (pure, a partire dal 2007, pacifica) dell’art. 115 c.p.c. al processo tributario.
Tale applicazione, difatti, riposava sulla mancanza di previsione espressa da parte del d.lgs. 546/1992 e sulla non incompatibilità della regola processualcivilistica.
Ma la previsione secca - secondo cui il giudice tributario deve fondare il giudizio sugli elementi probatori emersi - significa che il giudizio deve esser basato solo su quelli? E, ancora, significa che il principio di non contestazione ex art 115 c.p.c.[16] non è più applicabile? E che il giudice non può/non deve nemmeno tener conto delle nozioni di comune esperienza?
La risposta potrebbe esser ad avviso di chi scrive negativa, riflettendo sul contenuto e sulla struttura dell’art. 115 c.p.c.. Esso in realtà racchiude tre regole: la prima sulla corrispondenza biunivoca che si crea tra il materiale probatorio offerto dalle parti (e dal pubblico ministero) e quello che deve esser esaminato dal giudice; la seconda e la terza (seppur in tale ultimo caso con diversa gradazione, atteso che il giudice “può” e non “deve” attingere ai fatti notori) sull’esclusione dal thema probandum di taluni fatti, per via della mancata contestazione dalla parte costituita o dell’esser di comune conoscenza.
Sulla scorta di tale considerazione si potrebbe allora ritenere che il legislatore del 2022 abbia inteso intervenire sulla prima statuizione, ma non sulla seconda e la terza. Se questo è corretto, dovrebbe rilevarsi che l’effetto della novella sarebbe, quanto al contenuto del precetto normativo, “ultraminimale”, poiché la statuizione dell’art. 5bis non sarebbe significativamente differente da quella dell’art. 115 c.p.c. in parte qua (elementi probatori emersi nel giudizio in luogo di prove offerte dalle parti e dal pubblico ministero). La funzione della previsione normativa riportata nell’art. 5bis potrebbe esser, allora, quella di completezza; vale a dire, di riepilogo della regola generale in una sede, l’art. 5bis, in cui le norme sulle prove sono racchiuse. E non sarebbe, del resto, la prima volta che nel decreto legislativo n. 546 del 1992 le norme processualcivilistiche sono ripetute, nonostante l’insussistenza di una tale necessità grazie al rinvio contenuto nel secondo comma dell’art. 1.
L’effetto sostitutivo – della focalizzazione, con solo diversa prospettiva, sugli elementi probatori emersi in giudizio anziché sulle prove offerte dalle parti e dal pubblico ministero – non intaccherebbe quindi l’applicabilità delle regole sulla esclusione dal thema probandum dei fatti non contestati e dei fatti notori che il giudice ritenga utilizzabili. Regole la cui compatibilità con il processo tributario è stata da lungo tempo accettata.
6. I criteri di valutazione degli elementi di prova. E l’art. 116 c.p.c?
Più articolata è la previsione dei criteri di valutazione degli elementi di prova introdotta nell’art. 5bis, che obbliga il giudice all’annullamento dell’atto impositivo (e di quello sanzionatorio, ovviamente) “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziale e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Qui il raffronto è, ovviamente, con l’art. 116 c.p.c., ai sensi del quale il giudice deve valutare gli elementi probatori in genere “secondo il suo prudente apprezzamento” (di cui poi deve dar conto in motivazione anche nel processo civile) e può desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti in relazione alle risposte fornite dalle stesse in sede di interrogatorio non formale, dal rifiuto alle ispezioni giudiziali disposte ed in genere dal contegno, processuale e non, tenuto dalle parti.
La novella sostituisce allora una valutazione rigorosa – in cui la dimostrazione probatoria dev’esser ben presente, non affetta da contraddizioni quanto all’inferenza dei vari elementi e raggiunga un livello di sufficiente attendibilità sulla scorta di riscontri circostanziali e puntuali – alla “prudente” ponderazione sancita dalla regola processualcivilistica.
Peraltro, l’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale” esprime la forte indicazione di non voler svellere l’intero impianto probatorio procedimentale tributario, che, come noto, ricorre spesso a presunzioni semplici e talora anche semplicissime, allontanandosi dagli ordinari canoni in tema di accertamento dei fatti. Qui la volontà del legislatore è chiara ed indica inesorabilmente che non sono smantellate le regole (e talora le micro-regole) previste per il procedimento di accertamento dei fatti rilevanti ai fini impositivi.
Come già era capitato proprio al primo comma dello stesso art. 7 a proposito dell’inciso “ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”, l’inciso è veramente centrale, ai fini della comprensione della disciplina. E vale a depotenziare totalmente ogni velleità interpretativa radicalmente rivoluzionaria del sistema esistente.
Ed allora, preso atto di questo forte vincolo, i criteri di valutazione imposti al giudice dall’art. 5bis si risolvono, in fin dei conti, ad un richiamo all’obbligo di valutare gli elementi probatori in modo estremamente più prudente.
La “prudenza” dell’art.116 c.p.c. significa già, in realtà, rigore nella valutazione, affidamento a ponderazioni non avventate, ma in cui le probabilità di verificazione dei fatti siano superiori; e l’obbligo di scartare soluzioni accertative in cui le probabilità (che l’enunciazione di un fatto sia vera) siano minori di altre pure possibili.
Il richiamo alla dimostrazione “in modo circostanziato e puntuale” significa, non diversamente, che l’apprezzamento degli elementi probatori dev’esser basato su elementi riscontrati precisamente, mentre i lemmi precedenti obbligano ad un nesso inferenziale forte (tra gli elementi di fatto accertati e la prova da fornire).
Anche qui, quindi, vanno scartate soluzioni che raggiungano un livello di affidabilità non alto.
E pure questa disposizione non sembra rivoluzionaria[17], ma piuttosto appare finalizzata ad evitare derive giurisprudenziali, dettagliando le operazioni di valutazioni degli elementi di prova emersi nel processo. Ed, in tale ottica, innovativa. Sebbene, come detto, non rivoluzionaria.
7. I profili probatori non affrontati.
Se l’intento del legislatore era quello di intervenire sulla disciplina della prova in genere, non si può omettere di rilevare come diversi temi restino tuttora privi di disciplina espressa.
Valga solo accennare, ad esempio, alla mancanza di un catalogo probatorio (giacché l’art. 7 d.lgs. 546/1992 si limita a vietare alcuni mezzi di prova), con la conseguente difficoltà di configurazione di mezzi di prova atipici. In tal caso la mancata previsione normativa potrebbe non esser particolarmente problematica, esistendo la possibilità di ricostruire la disciplina[18].
Tuttavia, e soprattutto, difetta una regola espressa che disciplini la conseguenza delle patologie, come fa l’art. 191 c.p.p., certamente inapplicabile al processo tributario ed invece applicabile, ad avviso di chi scrive, alla sfera procedimentale per opera del rinvio simmetrico effettuato dagli artt. 70 d.p.r. 600/1973 e 75 d.p.r. 633/1972.
[1] Cfr. E. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1966, p. 363
[2] V. F. TESAURO, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 81, ora in Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Torino, 2022, p. 272
[3] Sia consentito rinviare, in tal senso, a S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, p. 603 s., nonché a S. MULEO, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle presunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti dei poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 685 s.
[4] Ancora S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova, cit.
[5] L’idea che il giudice potesse fissare di volta in volta a chi addossare l’onere della prova era stata esposta da G. A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1942, p. 243, ma poi è stata rigettata dallo stesso Autore nella prefazione alla ristampa del 1966.
[6] Come si dirà appresso, ad avviso di chi scrive, la previsione esplicita della regola sull’onere della prova ex art. 5bis dell’art. 7 d. lgs. 546/1992 non comporta un superamento delle copiose presunzioni, persino non qualificate, esistenti nell’ordinamento tributario.
[7] Similmente a quanto avviene nel processo civile e del lavoro, in cui l’art. 2697 c.c. è letto, nelle eccezionali ipotesi in cui sia necessario in ossequio al criterio della vicinanza della prova, in modo opposto rispetto alla norma positiva. Si veda, per sintetici riferimenti, nel paragrafo successivo.
[8] Come sottolineano F. TESAURO, L’onere della prova, cit., p. 276, e G. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 588 s.
[9] C. LAMBERTI, Disponibilità ed onere della prova, relazione al convegno su: La disponibilità della domanda nel processo amministrativo, Roma 10 – 11 giugno 2011, p. 22 s. del dattiloscritto
[10] A. ROMANO TASSONE, Poteri del giudice e poteri delle parti nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., Scritti in onore di P. Stella Richter, Napoli, 2013, I, p. 467
[11] F. SAITTA, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 911 s.
[12] G. VELTRI, Gli ordini istruttori del giudice amministrativo e le conseguenze del loro inadempimento, in https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/gli-ordini-istruttori-del-giudice-amministrativo, 2013, § 2
[13] Sia consentito rinviare, ancora una volta, a S. MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. Trim. Dir. Trib., cit., ove anche riferimenti alla successiva giurisprudenza della Corte di cassazione, in diversi settori.
[14] Per la negazione della distinzione tra fatti costitutivi, modificativi, estintivi, etc. si veda ancora F. TESAURO, op. cit., p. 276 s., il quale ha negato l’applicabilità dell’art. 2697 c.c. al processo tributario, affermando che “esistono soltanto fatti, che giustificano l’emissione del provvedimento, il che ha un suo particolare rilievo in materia di prova delle componenti negative della situazione base (costi, in materia reddituale), di prova nei giudizi avverso dinieghi di esenzione ecc.“, e chiarendo ulteriormente, in nota, che “emanato che sia un atto, spetta all’amministrazione dimostrare in giudizio di averlo emanato legittimamente, sulla base d’una soddisfacente acquisizione dei mezzi istruttori relativi all’accertamento dei presupposti di fatto”.
[15] Per talune acute critiche v. A. MARCHESELLI, Onere della prova e diritto tributario: una catena di errori pericolosi e un “case study” in materia di “transfer pricing”, in Riv. tel. dir. trib., 2020, p. 213 s.
[16] Su cui, per tutti, cfr. I. DE PASQUALE, L’onere di contestazione specifica nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2013, I, p. 545 s.
[17] Per quanto il codice di procedura penale non sia norma applicabile al processo tributario, per mero raffronto valga solo ricordare che l’art. 192 c.p.p. obbliga il giudice a tener conto degli indizi solo se questi sono gravi, precisi e concordanti. Modificando così la regola antecedente la riforma del 1988 ed intervenendo sulla sua libertà di giudizio.
[18] Il tema, veramente interessante, non può esser qui che solamente accennato.