ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il difetto (a mio parere) della nuova magistratura tributaria
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Sulla nuova magistratura tributaria a seguito della legge 31 agosto 2022 n. 130. - 2. La necessità di riassumere i precedenti storici della magistratura tributaria in Italia, dalla legge 14 luglio 1864 n. 1830 alla riforma del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545. – 3. Breve esposizione delle caratteristiche della magistratura tributaria dovute al suo percorso storico. - 4. Consequenziali dubbi di legittimità costituzionale delle odierne novità, artt. 24, 108 e 111 Cost. - 5. Le ulteriori problematiche costituzionali poste dal ruolo e dalle iniziative del Ministero dell’economia e delle finanze. - 6. Sintesi.
1. Sulla nuova magistratura tributaria a seguito della legge 31 agosto 2022 n. 130
La recente riforma di cui alla legge 31 agosto 2022 n. 130 rivoluziona completamente la magistratura tributaria.
In primo luogo cambia il nome: la giustizia tributaria di primo grado non si chiamerà più “Commissione tributaria provinciale” bensì “Corte di giustizia tributaria di primo grado”; parimenti la giustizia tributaria di appello non si chiamerà più “Commissione Tributaria regionale” bensì “Corte di giustizia Tributaria di secondo grado”.
Il cambio della denominazione è coerente con la scelta di assegnare la giurisdizione tributaria non più a dei giudici onorari bensì a dei giudici professionali.
Ed infatti, a seguito di questa riforma, la giurisdizione tributaria sarà esercitata da magistrati che andranno a formare un ruolo unico nazionale, composto da 448 unità presso le Corti di giustizia tributaria di primo grado, e 128 unità presso le Corti di giustizia tributaria di secondo grado.
Per divenire magistrato tributario sarà necessario partecipare e superare un concorso per esami, bandito in relazione ai posti vacanti.
Il concorso consiste in una prova scritta ed una prova orale, effettuate con le procedure di cui all’art. 8 del r.d. 15 ottobre 1925 n. 1860, ovvero con le regole comuni ai concorsi per l’accesso alla magistratura ordinaria.
Il concorso si svolgerà con cadenza di norma annuale ed è bandito con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, previa deliberazione conforme del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, che determina il numero dei posti a concorso.
Per accedere al concorso si deve possedere una laurea magistrale in giurisprudenza, oppure una laurea in scienze dell’economia o in scienze economico aziendali.
La commissione esaminatrice è nominata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.
Una volta vinto il concorso, il nuovo magistrato tributario svolge un tirocinio formativo di almeno sei mesi presso le Corti di giustizia tributaria; al termine del tirocinio riceve una valutazione, e se la valutazione è negativa deve ripetere l’esperienza per nuovi sei mesi; viceversa, se il tirocinio ha esito positivo, con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze il nuovo magistrato tributario è inquadrato nei ruoli ed è poi soggetto alla formazione continua e all’aggiornamento professionale attraverso la frequenza di corsi di carattere teorico-pratico, secondo un regolamento fissato dallo stesso Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Ai magistrati tributari si applicheranno poi le disposizioni in materia di trattamento economico previsto per i magistrati ordinari, e gli stipendi sono determinati esclusivamente in base all’anzianità di servizio, nonché si applicheranno le norme generali in tema di ordinamento giudiziario, ovvero si applicheranno, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nel titolo I, capo II di cui al r.d. 30 gennaio 1941 n. 12.
2. La necessità di riassumere i precedenti storici della magistratura tributaria in Italia, dalla legge 14 luglio 1864 n. 1830 alla riforma del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545
Ora, il carattere di questa nuova magistratura è fortemente innovativa con riguardo alla vecchia magistratura tributaria, e per aver contezza di ciò credo sia necessario, seppur brevemente, ricordare le caratteristiche dei giudici tributari per come affermatesi dall’unità di Italia fino ad oggi.
Mi consentirete, pertanto, di aprire questa parentesi, che ritengo essenziale al fine di poter esprimere un giudizio sulle scelte operate dalla legge 31 agosto 2022 n. 130.
2.1. Possiamo prendere le mosse dalla legge del 14 luglio 1864 n. 1830, che per prima ha regolato il contenzioso tributario del nuovissimo Regno d’Italia.
Orbene, dalla semplice lettura degli artt. 21, 23, 25 e 30 di quella legge, si rilevano facilmente le caratteristiche della magistratura e del contenzioso tributario dell’epoca; il quale, mi sia consentito sottolineare, ricalcava perfettamente lo spirito liberale di quel periodo storico.
In particolare, credo siano da evidenziare i seguenti dati:
a) il contenzioso tributario era gestito, sia in primo grado che in appello, da commissioni.
b) Queste commissioni erano composte da cittadini, i quali non dovevano possedere particolari requisiti per svolgere tale ruolo, ed in particolare i membri delle commissioni non avevano ne’ la necessità di essere dipendenti della pubblica amministrazione, ne’ tanto meno quella di appartenere all’ordine giudiziario.
c) Lo Stato, soprattutto, non svolgeva alcun ruolo nella nomina di dette commissioni: esse infatti erano nominate o dal consiglio comunale oppure dalla rappresentanza consorziale di più comuni, ovvero da organi rappresentativi locali; il che faceva sì che i soggetti ai quali era affidato il contenzioso tributario fossero, puramente e semplicemente, espressione della stessa comunità.
A quella legge, poi, seguiva la nota legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E abolitiva del contenzioso amministrativo, il regio decreto 28 giugno 1866 n. 3023, e infine l’art. 12 della successiva legge 28 maggio 1867 n. 3719, senza che questa ulteriore produzione normativa modificasse l’impostazione e la natura della magistratura tributaria per come tracciata dalla precedente legge 14 luglio 1864 n. 1830[1].
2.2. Il fascismo interverrà su questo assetto con il regio decreto legge 7 agosto 1936 n. 1639, in due diversi modi:
a) da una parte manterrà inalterato il sistema già consolidato delle commissioni tributarie, distrettuale e provinciali, e poi della commissione centrale, prevedendo che il contribuente, come in passato, potesse far valere dinanzi ad esse i suoi diritti, e poi, e se del caso, rivolgersi all’autorità giudiziaria; e sempre come in passato la nuova legge manterrà la composizione delle commissioni tra i cittadini del territorio, e quindi facendo uso di amministratori/giudici da considerare onorari, e/o non professionali (art. 22 r.d. 1639/1936).
b) Dall’altra parte, però, il regio decreto del ’36, peraltro in conformità con i principi del regime fascista, provvederà ad avocare al governo il potere di nomina dei membri di dette commissioni, ripartendolo tra l’Intendente di finanza e il Ministro, potere di nomina che nel sistema ottocentesco, e come abbiamo detto, era invece affidato ad organismi del territorio.
2.3. Si arrivava, così, ai lavori dell’Assemblea costituente.
Ovviamente, l’Assemblea costituente non poteva occuparsi di questioni specifiche attinenti all’organizzazione della giustizia tributaria; tuttavia erano connessi alla regolamentazione della magistratura tributaria i temi dei giudici speciali e dell’unità della giurisdizione, nonché dell’indipendenza della magistratura.
In Assemblea le questioni furono trattate in Commissione dei 75, dal 17 dicembre 1946, e nel plenum, dal 6 novembre 1947[2].
Emersero posizioni divergenti, che portarono ad una soluzione di compromesso.
La sintesi fu data da Giovanni Leone in Assemblea il 6 novembre 1947, il quale ricordò che sul tema dell’unità della giurisdizione v’erano stati tre orientamenti, due radicali ed uno di compromesso, e che la sottocommissione aveva fatto proprio questo terzo orientamento intermedio.
E aggiunse: “io penso che questa tesi intermedia debba prevalere. Io, come studioso, come teorico, come modesto cultore di diritto, studiando astrattamente il fenomeno, potrei, dovrei arrivare ad una concezione dell’unità della giurisdizione. Ma le esigenze della vita moderna, le necessità susseguenti, l’urgenza di alcuni particolari settori della vita attuale, hanno fatto delineare la necessità che in taluni particolari aspetti della giustizia non penale il giudice debba venire congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, che sono tecniche o sociali, nelle quali occorre la partecipazione dell’elemento estraneo, non come svalutazione di una capacità del magistrato a quest’opera di particolare valutazione di certe esigenze, ma come necessità di una maggiore aderenza della giustizia a certi particolari profili sociali o anche tecnici”.
Ne usciva, così, un compromesso, che è quello delineato dagli artt. 102, 103 e 108 della nostra Costituzione.
Sostanzialmente, la scelta dei nostri costituenti fu quella di salvare le giurisdizioni tributarie quali giurisdizioni speciali, le quali, tuttavia, in forza della VI disposizione transitoria della Costituzione, entro cinque anni andavano adeguate ai nuovi valori, soprattutto in punto di terzietà e indipendenza dei giudici.
2.4. La riforma volta ad attribuire natura giurisdizionale alle Commissioni, e parimenti ad assegnare alle stesse quelle caratteristiche di indipendenza e terzietà necessarie alla luce dei nuovi artt. 24, 108 e 111 Cost., fu data però solo dal d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636, quindi ben oltre i cinque anni.
In base all’art. 2 di detto decreto i componenti delle commissioni di primo grado erano scelti dal Presidente del Tribunale, per metà all’interno di in un elenco composto dai consigli comunali dei comuni compresi nella circoscrizione, e per l’altra metà in seno ad una lista formata dall’amministrazione finanziaria; tuttavia, per questa seconda lista, il Presidente del Tribunale poteva chiedere elenchi anche alle Camere di commercio e ai Consigli degli ordini professionali degli avvocati, degli ingegneri, dei dottori commercialisti e dei ragionieri.
In base poi al successivo art. 3 i componenti delle commissioni di secondo grado erano scelti con criteri analoghi, con la sola differenza che l’indicazione della lista dei primi membri non spettava più ai consigli comunali bensì a quelli della provincia, e le nomine non erano fatte dal Presidente del Tribunale bensì dal Presidente della Corte di Appello.
L’art. 4 prevedeva infine che potessero essere nominati giudici tributari tanto delle commissioni di primo quanto di secondo grado, ogni cittadino “che non abbia superato, al momento della nomina, il72esimo anno di età” e che possedesse “almeno un diploma di istruzione secondaria di secondo grado di qualsiasi tipo”.
Il compenso era misurato per ogni ricorso deciso, stabilito con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze; compensi mensili erano previsti solo per i Presidenti di Commissione e di sezione e per i componenti della Commissione tributaria centrale.
A ben vedere, così, la riforma del 1972 non appariva poi molto diversa da quella del 1864, in quanto la giustizia tributaria continuava ad essere amministrata da giudici speciali ed onorari al tempo stesso, scelti tra cittadini che avrebbero svolto tale attività in modo non professionale, e individuati e nominati da poteri non riconducibili al governo, quali erano infatti i presidenti di Tribunale, per le commissioni tributarie di primo grado, e i presidenti di Corte di Appello, per le commissioni tributarie di secondo grado.
Non è mancato, così, chi abbia detto che la riforma del 1972 non rompeva con il passato, e solo parzialmente poteva considerarsi una novità in punto di magistratura tributaria.
2.5. Si arrivava, infine, alla riforma del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545.
Detta riforma, pur riorganizzando la competenza territoriale delle commissioni tributarie, non poneva altre particolari novità: a) non la composizione delle commissioni, che ai sensi dell’art. 4, vedeva sempre come giudici, oltre ai magistrati e ai pubblici funzionari, i ragionieri, i periti commerciali, i revisori dei conti, coloro che avessero conseguito l’abilitazione all’insegnamento in materie giuridiche, e ogni laureato in giurisprudenza, nonché, in base al successivo art. 5, i notai e gli avvocati con riferimento alle commissioni tributarie regionali. b) Non le incompatibilità, che in base all’art. 8 non subivano particolari modificazioni, rimanendo esclusi i dipendenti dell’amministrazione finanziaria in servizio e gli appartenenti al corpo della Guardia di finanza. c) Non la qualifica, visto che la nomina a componente la commissione tributaria, in base all’art. 11: “non costituisce in nessun caso rapporto di pubblico impiego”. d) Non, infine, il trattamento economico, poiché i componenti le commissioni tributarie venivano retribuiti, ai sensi dell’art. 13, oltre che con un compenso mensile con “un compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito, anche se riunito ad altri ricorsi, secondo criteri uniformi, che debbano tener conto delle funzioni e dell’apporto di attività di ciascuno alla trattazione della controversia”.
Cambiava sì il potere di nomina delle commissioni, ma non in modo significativo: ed infatti, se detto potere di nomina, in base alla riforma del 1972, spettava agli organi giurisdizionali, ovvero al presidente del Tribunale e al presidente della Corte di appello, con la riforma del 1992 detto potere veniva attribuito al Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, che doveva però procedere nel rispetto di criteri obiettivi, con dei punteggi espressamente previsti in una apposita tabella allegata alla legge stessa da attribuire ad ogni aspirante.
3. Breve esposizione delle caratteristiche della magistratura tributaria dovute al suo percorso storico
Su queste basi possiamo evidenziare le caratteristiche, prime ed essenziali, che la magistratura tributaria ha avuto dal tempo dell’unità d’Italia ad oggi.
a) Una prima caratteristica è quella di esser sempre stata con continuità, fin dal 1864, una magistratura speciale.
Giudici speciali erano infatti i componenti delle commissioni comunali e consorziali del 1864, nonché parimenti giudici speciali erano i componenti delle commissioni distrettuali e provinciali del 1936, delle commissioni tributarie rivisitate a seguito dell’entrata in vigore della nuova costituzione italiana del 1972, e infine delle commissioni provinciali e regionali di cui alla più recente riforma del 1992.
Queste commissioni, succedutesi nel tempo, riforma dopo riforma, e resistite ad ogni mutamento che la storia del nostro paese ha avuto, dal passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla dittatura fascista alla democrazia costituzionale, hanno sempre avuto nel loro seno membri riconducibili alla figura del giudice speciale, ovvero del giudice (e/o amministratore/giudice) non riconducibile all’ordinamento giudiziario ordinario.
b) Parimenti, una ulteriore caratteristica della magistratura tributaria è sempre stata quella di aver avuto al suo interno giudici onorari.
Dunque, non solo giudici non riconducibili all’ordinamento giudiziario ordinario, bensì anche giudici (o amministratori/giudici) non professionali, ovvero la cui professionalità era altra, e la funzione di giudice tributario veniva svolta come un di più, qualcosa che andava a sommarsi al lavoro principale, e che, proprio per questo, si qualificava quale funzione onoraria.
Giudici onorari erano infatti i componenti della commissioni tributarie del 1864 e del 1936, composte tutte da semplici cittadini non necessariamente dipendenti della pubblica amministrazione, e nei primi tempi nemmeno muniti di particolari titoli di studio.
Egualmente, nel periodo successivo alla costituzione repubblicana, membri delle commissioni tributarie continuavano a potere essere tutti i cittadini aventi “almeno un diploma di istruzione secondaria di secondo grado di qualsiasi tipo” (art. 4, d.p.r. 636/1972); e cosa del tutto analoga si trovava anche nella riforma del 1992, in base alla quale i componenti delle commissioni tributarie potevano essere, oltre ai magistrati e ai pubblici funzionari, che comunque addizionavano questo ruolo al loro lavoro professionale e abituale, i ragionieri, i periti commerciali, i revisori dei conti, gli insegnanti di materie giuridiche, e comunque ogni laureato in giurisprudenza, nonché i notai e gli avvocati.
c) La terza caratteristica, consequenziale al ruolo onorifico svolto dalla magistratura tributaria, è stata quella di esser stata normalmente retribuita in modo non stipendiale, direi in modo secondario e/o addizionale, con un pagamento che, se la parola non suonasse offensiva, potremmo considerare a cottimo, ovvero a singolo provvedimento reso.
È un sistema di pagamento che si sviluppa, invariato, dal 1864 fino ad oggi, tanto che, anche dopo la costituzione repubblicana, il compenso dei giudici tributari veniva determinato per ogni ricorso deciso, stabilito con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, mentre compensi mensili erano previsti solo per i Presidenti di Commissione e di sezione e per i componenti della Commissione tributaria centrale.
d) Infine, l’ultima caratteristica della magistratura tributaria, e direi la principale, è stata quella di essere espressione della comunità, ovvero quella di essere una magistratura scelta e nominata da enti e/o organismi non riconducibili al potere governativo.
Si ricorda, ancora, che le commissioni comunali e consorziali del 1864 erano nominate dai consigli comunali e dalle rappresentanze consorziali; e lo stesso deve dirsi per le commissioni tributarie della nostra repubblica, la cui nomina, ancora, non veniva rimessa nelle mani dell’esecutivo.
Né portava deroga a questa tradizione la riforma del 1992, che attribuiva al Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria la nomina dei giudici tributari in base a dei punteggi oggettivi fissati dalla legge.
L’unica eccezione alla regola della non riconducibilità della magistratura tributaria al potere esecutivo la si trovava solo nella riforma del 1936, che attribuiva al Governo, e non più ai consigli comunali e consorziali, il potere di nomina dei membri delle commissioni tributarie.
Tuttavia, par evidente, che questa eccezione serve solo per confermare la regola, in quanto nient’altro fu se non l’espressione del fascismo e della sua ideologia accentratrice ed egemonica.
4. Consequenziali dubbi di legittimità costituzionale delle odierne novità, artt. 24, 108 e 111 Cost.
Orbene, se torniamo ora alla legge 31 agosto 2022 n. 130, noi possiamo vedere come queste caratteristiche della nostra magistratura tributaria siano state quasi tutte frantumate.
Se il magistrato tributario si era caratterizzato per essere un giudice speciale, onorario e di prossimità al tempo stesso, la nuova legge supera questi criteri, e in una certa misura apre ad una nuova era.
La riforma, infatti, professionalizza il giudice tributario, formando un ruolo unico nazionale al quale si può accedere solo superando un concorso per esami, bandito in relazione ai posti vacanti.
Ed inoltre, ponendo i nuovi giudici tributari alle dipendenze dello Stato, la riforma supera l’idea di una magistratura libera e di prossimità, e aderisce invece alla concezione di un magistrato tributario quale pubblico impiegato/funzionario, reclutato da una commissione nominata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, con un trattamento economico assimilato a quello dei magistrati ordinari in base all’anzianità di servizio, e parimenti stipendiato dallo stesso Ministero.
Diciamo, quindi, in estrema sintesi, che questa riforma fa perdere al magistrato tributario almeno due delle sue storiche caratteristiche, ovvero quelle di essere un giudice onorario e di prossimità, e mantiene invece una terza caratteristica, che è quella di essere un giudice speciale.
4.1. Dunque: è costituzionalmente legittimo che la magistratura tributaria non sia più ne’ una magistratura onoraria ne’ una magistratura (che ho definito, per semplificare il concetto) di prossimità?[3]
In proposito, va subito sottolineato che la lite tributaria è una lite particolarissima, che vede contrapposti non solo il cittadino con lo Stato, come può in verità avvenire in ogni contenzioso amministrativo, bensì il cittadino con lo Stato in relazione ad una somma di denaro da pagare a titolo di imposta, somma che il cittadino deve (o non deve) allo Stato e che il giudice tributario accerta e dichiara.
Si tratta, evidentemente, di una questione assai particolare, che fa sì che l’oggetto della lite tributaria sia sempre significativamente più delicato di ogni altro oggetto di ogni altra possibile lite.
E allora dobbiamo esser chiari, poiché la questione, se si vuole, è semplicissima: se un cittadino, un professionista, un imprenditore, contesta una imposta, che si rende così oggetto di contenzioso, non è la stessa cosa se dall’altra parte del tavolo trova un giudice onorario e di prossimità, come era la regola fino ad oggi, o trova al contrario un funzionario dello Stato, come sarà la regola da domani.
Abbiamo visto che le commissioni tributarie, di primo e secondo grado, e fin dal tempo dell’unità d’Italia, erano costituite, quanto meno in buona parte, da semplici cittadini/contribuenti; abbiamo visto che i componenti delle commissioni tributarie venivano nominati, fatta la sola eccezione dovuta al ventennio fascista, da organismi della stessa comunità; e abbiamo infine visto che, in massima parte, la retribuzione dei giudici tributari era data sulla base dei provvedimenti pronunciati, e fuori da schemi da retribuzione da pubblico impiego.
La giurisdizione tributaria, direi, ha sempre avuto queste caratteristiche proprio per le caratteristiche che ha l’oggetto della lite tributaria: nella misura in cui si tratta di un contenzioso tra il cittadino e lo Stato in un terreno sensibile quale quello delle imposte, l’esercizio della funzione giudicante su simile materia, se lasciata senza alcun correttivo allo stesso Stato tramite suoi funzionari, può apparire non equilibrata, o comunque può sembrare non in linea con l’esigenza di terzietà di chi deve giudicare.
4.2. Queste esigenze di equilibrio, peraltro, sono quelle che nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente furono precisate da Giovanni Leone, il quale, nel giustificare il nuovo art. 102 Cost., sottolineava appunto (riportiamo ancora il passo) la “necessità che in taluni particolari aspetti della giustizia non penale il giudice debba venire congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, che sono tecniche o sociali, nelle quali occorre la partecipazione dell’elemento estraneo, non come svalutazione di una capacità del magistrato a quest’opera di particolare valutazione di certe esigenze, ma come necessità di una maggiore aderenza della giustizia a certi particolari profili sociali o anche tecnici”.
Dunque, la giustizia tributaria, parte integrante della giurisdizione speciale, per esigenze particolari che potremmo definire sociali, necessita della partecipazione dell’elemento estraneo, per porre in atto una maggiore aderenza della giustizia.
E se, ancora, il giudice debba venire congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, il congegno adottato fin dal 1864 nella strutturazione del magistrato tributario era stato proprio quello, stante l’oggetto della lite, di far decidere questo tipo di contenzioso ad un giudice onorario e di prossimità.
La presente riforma sconfessa invece queste esigenze, eliminando completamente la partecipazione dell’elemento estraneo dalla giustizia tributaria, e assegnando esclusivamente a pubblici funzionari dello Stato le liti sulle imposte che i cittadini devono allo stesso Stato.
Si tratta di un’enorme mutamento, e credo che, sotto questo profilo, poco muti se il funzionario dipenda dal Ministero dell’economia e delle Finanze, da quello della Giustizia oppure dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: in tutti questi casi è comunque venuta meno quello che rappresentava la storia della giustizia tributaria, ovvero è venuta meno l’idea che questa debba essere amministrata con la partecipazione dei cittadini, oggi invece completamente estromessi.
Evidentemente, si è pensato che fosse preferibile affidare la gestione del contenzioso tributario a rappresentanti dello Stato piuttosto che della comunità; ma è, un po’, come se in un giudizio arbitrale tutti gli arbitri venissero nominati da una sola parte, e non da entrambe le parti.
Si tratta, proprio in questi termini, di una novità che può considerarsi incostituzionale, poiché, oltre a rompere in modo tranchante con il passato, rischia altresì di sottrarre ai giudici tributari quei requisiti di equidistanza dalle parti necessarie ai sensi degli artt. 24, 108 e 111 Cost.
Nè tutto questo può essere giustificato, come si legge nella relazione alla riforma, con l’esigenza di “razionalizzazione del sistema della giustizia tributaria attraverso la professionalizzazione del giudice di merito, con la previsione della figura del magistrato tributario professionale”, poiché la professionalizzazione del giudice non necessariamente comportava la sua intera riqualificazione nei termini scelti dalla riforma.
5. Le ulteriori problematiche costituzionali poste dal ruolo e dalle iniziative del Ministero dell’economia e delle finanze
Una conferma di quanto qui si sta sostenendo deriva altresì dall’art. 1, l. 130/2022 nella parte in cui ha inserito un nuovo comma 2 bis all’art. 24 l. 545/1992.
Tale norma istituisce per la prima volta un Ufficio ispettivo presso il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria.
L’art. 24, 2° comma l. 545/1992 statuisce che “Il Consiglio di presidenza vigila sull’attività giurisdizionale delle corti di giustizia di primo e secondo grado e può disporre ispezioni del personale giudicante”; ed ora il nuovo comma 2 bis dell’art. 24 l. 545/1992 espressamente prevede: “al fine di garantire l’esercizio efficiente delle attribuzioni di cui al comma 2, presso il Consiglio di presidenza è istituito, con carattere di autonomia e indipendenza, l’Ufficio ispettivo, a cui sono assegnati sei magistrati o giudici tributari, tra o quali è nominato un direttore. L’ufficio ispettivo può svolgere, col supporto della direzione della giustizia tributaria del dipartimento delle finanze, attività presso le Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di rispettiva competenza”.
Dunque, il nuovo giudice tributario non sono si avvicina, come mai precedentemente, allo Stato, ma addirittura questo nuovo giudice è sottoposto, o può essere sottoposto, ad un più stretto controllo da parte di questo nuovo Ufficio ispettivo, che lavora addirittura di concerto con il Dipartimento delle finanze, ovvero con chi, nel processo, è parte del contenzioso.
Se poi si aggiunge che sempre l’art. 1, l. 130/2022, nei punti 10 e 11, e al fine di “incrementare il livello di efficienza degli uffici e delle strutture centrali e territoriali della giustizia tributaria”, prevede la creazione di due nuovi uffici dirigenziali presso il Ministero della economia e delle Finanze (MEF), nonché diciotto posizioni dirigenziali da destinare alla direzione di uno o più uffici di segreteria, ed inoltre sempre il MEF ha facoltà di assumere con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in aggiunta alle vigenti facoltà di assunzione: “per l’anno 2022, 20 unità di personale dirigenziale e 50 unità di personale non dirigenziale…..per l’anno 2023, 75 unità di personale non dirigenziale”, personale in gran parte da destinare “ad uno o più uffici di segreteria di Corti di giustizia tributaria”, va da sé che la nuova giurisdizione tributaria si configura come una struttura burocratizzata e fortemente ancorata al potere esecutivo.
5.1. Il Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) ha poi un ruolo non secondario nel concorso per l’accesso alla magistratura tributaria.
Il concorso, infatti, “è bandito con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze.”; il MEF, inoltre nomina il c.d. “comitato di vigilanza” se le prove concorsuali scritte si debbano svolgere, oltre che a Roma, anche in sedi distaccate; il MEF ha poi uno specifico “capitolo di spesa della missione giustizia tributaria”; soprattutto “La commissione di concorso è nominata, entro il quindicesimo giorno antecedente l’inizio della prova scritta, con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze”; ancora, questione che non è da considerare di secondo piano, “Le attività di segreteria della commissione e delle sottocommissioni sono esercitate da personale amministrativo dell’area funzioni in servizio presso il Ministero dell’economia e delle finanze…e sono coordinate dal titolare del competente ufficio del dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze”; e infine: “Alla prima e alle successive nomine dei magistrati tributari……si provvede con decreto del ministro dell’economia e delle finanze”.
È vero che molte di queste funzioni il MEF le svolge “previa deliberazione conforme del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”; tuttavia resta parimenti corretto affermare che il MEF ha comunque per legge un ruolo di primo piano nella gestione dei concorsi per accedere alla magistratura tributaria.
Ciò, se si vuole, a conferma dei dubbi di costituzionalità sollevati.
5.2. Inoltre, in questo contesto non può tacersi quanto si legge circa l’idea di realizzare un nuovo programma c.d. Prodigit.
Si tratterebbe di un software, pronto per la fine del 2023, in grado di determinare l’esito delle liti tributarie.
Ovviamente, al momento niente di certo vi è, e tutto è riconducibile solo ad un progetto da realizzare; tuttavia in base alle informazioni che corrono il progetto sarebbe portato avanti proprio dal MEF, e ciò al fine di consentire ad ogni contribuente di conoscere, sulla base dei precedenti (e certo in questo contesto il nuovo Ufficio del massimario nazionale presso il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria di cui all’art. 24 bis al d. lgs. 545/1992 svolgerebbe evidentemente un ruolo non secondario), il probabile esisto di ogni determinato tipo di causa tributaria, in considerazione anche della circostanza che lo stessa banca dati di giurisprudenza “è gestita dal Ministero dell’economia e delle finanze” (art. 24 bis,4° comma, d. lgs. 545/1992).
Nel sistema di software potrebbero essere inseriti altri giudici tributari, oltre a giovani studiosi selezionati tramite appositi bandi, e il tutto potrebbe rappresentare il primo algoritmo di intelligenza artificiale della giustizia predittiva in ambito fiscale.
Orbene, è quanto meno singolare, anche in questo caso, che l’iniziativa sia del MEF, ovvero dello stesso Ministero dal quale dipende l’Agenzia delle entrate, ovvero ancora una delle parti del contenzioso tributario.
Sostanzialmente, con questo programma il cittadino chiede alla controparte, ovvero all’Agenzia delle entrate, se una sua pretesa tributaria è fondata o infondata.
E paradossale chiedere ad una delle parti in causa quale possa essere l’esito di una causa da promuovere contro quella stessa parte; in ogni caso questo sistema tiene in conto il solo freddo calcolo dei precedenti per come tagliati e revisionati da questo nuovo Ufficio del massimario, e non lascia alcuno spazio alla capacità e libertà dei professionisti coinvolti nella lite, ne’ alla sensibilità della persona umana nel giudicare un fatto storico; e ciò è tanto più grave quanto ormai le decisioni giudiziarie non contengono più, se non per insufficienti e sommari capi, la ricostruzione dei fatti storici, cosicché si rischia (anche) di applicare dei precedenti a vicende che presentano invece caratteristiche diverse.
Si tratta di aspetti che non possono lasciarci indifferenti e che, di nuovo, vanno a sommarsi ai dubbi di costituzionalità sopra evidenziati.
6. Sintesi
Orbene, in estrema sintesi, se la giustizia tributaria sarà resa da magistrati che dipendono dal Ministero dell’economia e delle finanze, con esclusione totale dalla partecipazione alle Corti tributarie dei cittadini/contribuenti; se sarà lo stesso Ministero dell’economia e delle finanze ad organizzare i concorsi pubblici per l’accesso a tale magistratura; se le cancellerie di questi giudici nient’altro saranno se non le segreterie del Ministero dell’economia e delle finanze; se sarà il Ministero dell’economia e delle finanze a tenere la banca dati dei precedenti giurisprudenziali e sempre il Ministero dell’economia e delle finanze si coordinerà con la Corte di Cassazione perché questa possa accedere a tale banca dati; se sarà un software del Ministero dell’economia e delle finanze a valutare la fondatezza o meno di un ricorso tributario: e se, infine, i magistrati che lavoreranno nelle Corti tributarie saranno soggetti al controllo di un Ufficio ispettivo, che di nuovo sarà collegato al Dipartimento delle finanze, ovvero di nuovo al Ministero dell’economia e delle finanze, allora ai cittadini/contribuenti sarà data una tutela giurisdizionale tributaria che non possiamo esitare a definire minore, e non certo adeguata all’alto carico fiscale cui questi sono tenuti.
Se si pensa che l’art. 30 dalla legge del 14 luglio 1864 n. 1830 disponeva espressamente che: “In nessun caso l'imposta assegnata ad un contribuente potrò essere superiore ad un decimo del reddito netto del capitale o di qualunque altro reddito proveniente da ricchezza mobile che si è voluto imporre”, e quella legge, nei modi sopra indicati, assegnava il controllo giurisdizionale delle imposte ad una magistratura onoraria e di prossimità, beh, possiamo senz’altro dire che di strada, da allora, ne è stata fatta tanta.
[1] In particolare l’art. 6 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E non faceva venir meno la competenza delle commissioni tributarie di cui alla l. 14 luglio 1864 n. 1830 ma solo aggiungeva a quelle decisioni un ulteriore controllo giurisdizionale dinanzi al Tribunale in primo grado, e dinanzi alla Corte di Appello in secondo grado; il regio decreto 28 giugno 1866 n. 3023 istituiva un ulteriore controllo sulle liti tributarie dinanzi ad una Commissione centrale, che veniva regolata con l’art. 13; e infine l’art. 12 della legge 28 maggio 1867 n. 3719 semplicemente confermava la competenza dell’autorità giudiziaria a seguito delle decisioni tributarie di tipo c.d. amministrativo.
Da precisare, altresì, che la creazione della Commissione centrale, interamente nominata dal Ministro dell’economia e delle finanze, non contraddiceva egualmente quella immagine che io ho dato di una giustizia tributaria ispirata ad un modello liberale, poiché essa non aveva la possibilità, a differenza delle Commissioni provinciali, di indagare a tutto campo sull’ammontare dei redditi e delle imposte, bensì aveva il più ridotto compito di “l'applicazione della legge”; ed in ogni caso “il giudizio delle Commissioni provinciali quanto alla estimazione delle somme dei redditi imponibili, non e' soggetto a ricorso, e quelle somme diventano definitive”.
Si trattava, in sostanza, di un controllo non diverso da quello che oggi svolge, in una certa misura, la Corte di cassazione, ovvero di un controllo che, oltre ad essere escluso per la estimazione delle somme dei redditi imponibili, era comunque limitato a possibili violazione di legge, e non poteva vertere sulle decisioni di merito che le commissioni provinciali avessero reso.
[2] V. la Costituzione della Repubblica, nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1976, VIII, 1894.
[3] La riforma è comunque da considerare rispettosa dell’art. 102 Cost.
Precisamente, l’art. 102 Cost. vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali ma non impedisce la riorganizzazione di una giurisdizione che già si presenti come speciale; e poiché la giurisdizione tributaria era già esercitata da giudici speciali fin dai tempi più remoti, e comunque già dal tempo di promulgazione della nostra carta costituzionale, attribuire ad un nuovo giudice speciale le decisioni tributarie, che tuttavia erano già esercitate da giudici speciali, non comporta violazione dell’art. 102 Cost., secondo anche quella che è l’opinione sul punto della Corte costituzionale.
La violazione dell’art. 102 Cost., infatti, si ha solo ove una giurisdizione ordinaria venga per la prima volta attribuita a giudici speciale, non quando una giurisdizione già speciale venga semplicemente riformata.
Recensione di Luigi Salvato a “Le inammissibilità nel giudizio civile di legittimità” di Pasquale Gianniti e Claudio Sabatino
Sono trascorsi quasi quattro decenni da quando, nel 1986, il Primo Presidente, Antonio Brancaccio, intitolando il suo discorso d’insediamento alla «necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione», riavviò il dibattito, già sviluppatosi negli anni ’50 (in particolare, con le riflessioni di Andrioli, Carnelutti e Torrente), sulla “questione Cassazione”. L’invito fu prontamente raccolto; l’anno successivo alcuni autorevoli magistrati e docenti universitari, muovendo dalla premessa che la «Corte di cassazione è in crisi profonda. Essa non assolve più la sua funzione istituzionale di garanzia oggettiva volta ad assicurare l’esatta e uniforme interpretazione della legge», approfondirono in alcuni saggi le cause ed i possibili rimedi della crisi[1]. Con rara efficacia in questi scritti fu evidenziata la «specificità» dei problemi rispetto a quelli che tradizionalmente avevano afflitto la Corte, cogliendo «le dimensioni del travaglio» essenzialmente nel progressivo aumento del numero dei ricorsi.
La Corte di Cassazione, a sua volta, riunita in assemblea generale, ha ulteriormente approfondito le ragioni della crisi[2], proponendo rimedi e segnalando l’esigenza di valutare «nuovi criteri e modalità di proposizione e decisione dei ricorsi»[3].
Parimenti alta è rimasta l’attenzione della dottrina (attestata dal numero degli scritti e delle monografie dedicate alla “questione Cassazione”[4]) e del legislatore. Quest’ultimo, a partire dal 2001, soprattutto a far data dalla metà del primo decennio di questo secolo, ha infatti realizzato una serie di riforme che, sia pure con ripensamenti, talora forse troppo repentini (il riferimento è al “quesito di diritto”, introdotto con l’art. 366-bis c.p.c. nel 2006 ed abrogato dopo soli tre anni[5]) ed interventi non sempre coordinati, hanno significativamente modificato la disciplina del processo civile di legittimità, nel tentativo appunto di porre rimedio alla crisi.
La complessità delle ragioni della stessa e la difficoltà di individuare congrui rimedi hanno a loro volta radice nella parimente risalente, preliminare, questione della funzione della Corte di cassazione, sintetizzabile nel dilemma della finalità del ricorso per cassazione: se costituisca essenzialmente uno strumento di garanzia individuale delle parti, ovvero costituisca un’occasione per assicurare la difesa dello ius constitutionis e del principio di eguaglianza. Questione complicata dall’inverarsi della pos-modernità, «caratterizzata dalla elasticità e fattualità in cui primeggia la figura dell’interprete e rileva peculiarmente il piano dei fatti. Siffatti caratteri sembrano [infatti] confortare la tesi di chi (Michele Taruffo) ipotizza che quello delle Corti supreme sia un “mito” ed auspica che venga privilegiata un'opzione orizzontale e sia preso atto del fatto che le stesse sono investite della facoltà di mettere fine, ma solo provvisoriamente, ad una discussione che è, tuttavia, ineluttabilmente “corale”, in quanto è condotta da tutti i giudici e la definizione di determinati aspetti prescrittivi complessi del sistema normativo è necessariamente magmatica»[6].
Il dilemma di fondo in ordine alla funzione della Corte di cassazione - in particolare, alla centralità e rilevanza di quella nomofilattica - sembrerebbe non compiutamente sciolto dalla Corte costituzionale. Alcune pronunce hanno, infatti, enfatizzato l’attenzione al ricorso per cassazione quale strumento di garanzia individuale delle parti[7] e potrebbero minare il convincimento che l’art. 111, settimo comma, Cost. risponda alla funzione nomofilattica, o almeno risponda solo ed in modo preponderante a tale funzione, prefigurando in tal modo ostacoli alla riforma della norma costituzionale, più volte auspicata, in vista di una limitazione del diritto di accesso al giudizio di legittimità e, comunque, ad un’interpretazione più rigorosa della disciplina di tale accesso (evidentemente rilevante ai fini della conformazione delle inammissibilità). In contrario, come in passato ho cercato di dimostrare[8], depongono invece altre pronunce, relative sia al profilo ordinamentale[9], sia alla pregnanza della funzione nomofilattica[10], espressamente riservata alla Corte di cassazione da una norma precostituzionale (l’art. 65 ord. giud.) e che, tuttavia, ha una sicura rilevanza costituzionale, tra l’altro in quanto costituisce presidio del principio di eguaglianza, leso da interpretazioni discordanti, in difetto di un organo che a queste ponga rimedio, soprattutto a seguito del moltiplicarsi delle fonti e della costruzione del c.d. ordinamento multilivello.
Nel nuovo complesso sistema delle fonti e dell’articolazione dell’ordinamento in una dimensione non più soltanto statuale, il superamento della crisi e il “rafforzamento” della funzione nomofilattica sono stati affidati anche (e proprio), come evidenziato nelle lezioni di Giovanni Amoroso e Mario Rosario Morelli[11], alla previa verifica di ammissibilità del ricorso. Una tale verifica risulta nondimeno assai complicata, perché ne restano incerti i confini, in considerazione dell’accennata, complicata, questione della finalità del ricorso, ma anche della giurisprudenza sovranazionale. Quest’ultima ha, infatti, «assegnato al diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, implicito nell’art. 6 § 1 della Convenzione (Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975), una posizione sempre più centrale nell’architettura complessiva della Convenzione», occupandosi «in varie occasioni del diritto di accesso al giudice, in particolare relativamente alle Corti supreme, o di ultima istanza». Da ultimo, con la sentenza Succi (avente ad oggetto il principio di autosufficienza del ricorso) che – ha sottolineato Guido Raimondi - «induce comunque alla riflessione, soprattutto a proposito della esigenza di assoluta chiarezza e prevedibilità delle ragioni poste dalla Corte di legittimità alla base delle sue decisioni di inammissibilità»[12]. Su queste ultime si sono appuntate, in larga misura, non poche critiche, involgenti il significato ed il contenuto del c.d. «formalismo giuridico […] uno dei problemi che possono riscontrarsi nell’accesso al giudice di legittimità, non certamente l’unico», evidenziando altresì gli errori commessi nel realizzare le riforme preordinate al recupero della funzione nomofilattica ed indicando che «la cura che serve alla Corte è il ritorno al giudizio: senza impicci, senza soverchie complicazioni. E che sia il legislatore, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso, togliendo alla Corte l’imbarazzo di dover essere il regolatore di sé stessa»[13].
L’obiettivo di rendere più celere, efficiente e prevedibile, lo svolgimento dell’attività processuale, anche del giudizio di legittimità, ha costituito precisa finalità delle riforme proposte dalla Commissione Luiso[14], da perseguire attraverso: «l’introduzione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte: una previsione, questa, che per il giudizio di cassazione merita di essere introdotta con una disposizione ad hoc, in considerazione non solo della centralità del ruolo della Corte di cassazione nell’ordinamento, al vertice del sistema delle impugnazioni, ma anche per le caratteristiche peculiari rivestite dalla traduzione di quel principio nel giudizio di legittimità»; «la perimetrazione del principio di autosufficienza del ricorso»; la «unificazione dei riti camerali»; la «introduzione di un procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati», affidato ad un «giudice della Corte», cui spetta formulare «una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata» che, se accettata dagli avvocati delle parti, conduce ad una pronuncia di estinzione del giudizio.
Gli obiettivi indicati dalla Commissione Luiso sono stati in gran parte recepiti dalla legge-delega 26 novembre 2021, n. 206, e, quindi, dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che ad essa ha dato attuazione (in particolare, con l’art. 3, commi 27-29[15]). Per quanto interessa in questa sede, è sufficiente osservare che la modalità di definizione accelerata dei ricorsi (inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati), affidata alla «proposta» di «un giudice della Corte»[16], prefigura l’introduzione di una sorta di monocraticità del giudizio di cassazione, che ancora più esige l’identificazione di precisi «criteri in base ai quali misurare il coefficiente normativo di uno o più precedenti tale da costituire giurisprudenza e orientamento propriamente detti»[17]. In ogni caso, detta “proposta” dovrebbe esaurirsi in una sorta di ‘certificazione’ delle ragioni ‘di rigetto’ (in particolare, dell’inammissibilità) pianamente desumibili dalla giurisprudenza della Corte, che non deve (non dovrebbe) concorrere a formare.
Se si considera che le voci di dentro della Corte sono sostanzialmente concordi nel sottolineare «l’importanza che il fenomeno dei ricorsi inammissibili assume nella gestione dei flussi in Cassazione»[18], resta ferma anzitutto l’esigenza di una precisa, rigorosa, identificazione dei casi di inammissibilità. Inoltre, l’imprescindibilità - anche negli anni che stiamo vivendo, della pos-modernità, in cui la regola è enunciata dal giudice all’esito di un bilanciamento di valori che si dispiega in termini più ampi di quanto accadeva in passato (che contribuisce all’incertezza nella sua preventiva individuazione) – di mantenere fermo il «rispetto delle norme processuali». Ritengo, infatti, meritevole di attenzione (e condivisione) l’appello con cui, sul finire del primo decennio di questo secolo, quattro autorevoli processualisti hanno richiamato l’attenzione sull’indefettibilità del fondamento positivo della necessaria predeterminazione delle regole processuali. Se è, infatti, certo che non può essere messo in discussione il potere del giudice di interpretare le disposizioni conformemente ai valori costituzionali, tutte le disposizioni, anche quelle processuali, è altrettanto certo che queste ultime devono tuttavia costituire oggetto, più di quelle di natura sostanziale, di un’esegesi stringente, peculiarmente attenta e rispettosa della (e vincolata alla) lettera della legge (la cui vincolatività, peraltro, è stata di recente riscoperta[19]). Infatti, «se le regole che fissano e limitano, anche in modo meticoloso, i poteri del giudice vengono liberamente interpretate dai giudici stessi, allora la funzione di garanzia che il codice ha si perde», costituendo la «pre-conoscenza delle modalità processuali […] un valore fondamentale dello Stato di diritto»[20].
A questo scopo, come ho altrove osservato[21], è indispensabile il concorso di riflessioni svolgentisi su diversi piani: quello squisitamente dottrinario, della ricostruzione dommatica degli istituti; quello esclusivamente ricognitivo delle pronunce giurisprudenziali e delle opinioni dei dottori; quello dedicato all’analisi ed alla ricostruzione degli orientamenti in funzione eminentemente applicativa delle disposizioni. Quest’ultima tipologia, cui è riconducibile la monografia di Pasquale Gianniti e Claudio Sabatino, conserva pregnante importanza anche al tempo della smisurata implementazione delle banche dati e della facilità del reperimento dei precedenti, perché questo resta insufficiente a permettere di orientarsi nella ricerca delle soluzioni corrette. Gli Autori, grazie alla loro specifica professionalità ed al concorso di esperienze, prospettive ed approcci diversi (Pasquale Gianniti è consigliere della Corte di cassazione, Claudio Sabatino è avvocato), hanno svolto, come sottolinea la prefazione del Prof. Paolo Biavati, «una lucida panoramica degli orientamenti della Cassazione, che certo può contribuire ad una pacata e costruttiva riflessione». Il volume muove, infatti, dall’illustrazione degli snodi fondamentali dell’evoluzione storica della Corte, del significato della funzione nomofilattica e delle fasi salienti del giudizio di legittimità, per approfondire le molteplici fattispecie di inammissibilità (numerose e complesse), attentamente ripartite e valutate. Al lettore è, quindi, offerta una chiara ed esauriente ricognizione dei problemi posti dalla categoria dell’inammissibilità (sui quali sarebbe qui un fuor d’opera attardarsi) che, grazie anche ad un indice particolarmente dettagliato, consente agli studiosi ed ai pratici di orientarsi correttamente (ed agevolmente) nell’affrontare un tema di essenziale importanza, che la recentissima riforma ha arricchito di nuove questioni.
[1] Raccolti sotto il significativo titolo Per la Corte di cassazione, Foro it., 1987, V, 1 ss.
[2] Tra l’altro, nel 1999 conclusasi con l’elaborazione di un documento contenente una serie di proposte operative.
[3] In particolare, all’esito dell’assemblea generale del 2015.
[4] Letteratura talmente vasta da rendere arduo offrire complete indicazioni, comunque esorbitante la finalità di queste brevi considerazioni.
[5] Meccanismo processuale ritenuto compatibile con la CEDU dalla Corte di Strasburgo (sentenza Trevisanato c. Italia, n. 32610/07, 15 settembre 2016), stante la legittimità dello scopo perseguito dalla limitazione prevista dall’articolo 366-bis c.p.c., in quanto volta a sanzionare ricorsi pretestuosi o, comunque, mal formulati, allo scopo di permettere alla Corte di cassazione di svolgere in maniera più efficiente la sua funzione di giudice di legittimità e della nomofilachia.
[6] Mi sia consentito fare riferimento alle considerazioni svolte in La nomofilachia nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, www.forumquaderni costituzionali.it, 9 novembre 2018.
[7] Senza pretesa di completezza, ancora richiamando lo scritto della nota che precede, vanno ricordate: la sentenza n. 29 del 1972 (secondo cui, in virtù della garanzia assicurata al cittadino dall'art. 111 Cost., «nessuna norma che, in contrario, restringa tale diritto, escludendolo in casi determinati, anche se a tutela di altre esigenze, può ritenersi conforme al dettato costituzionale»); la sentenza n. 26 del 1999 (nella parte in cui ha rimarcato che «l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa il contenuto di un diritto» fondamentale, di cui costituisce nucleo incomprimibile l’impugnabilità con ricorso per cassazione), la sentenza n. 395 del 2000 (prefigurando «il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione»); la sentenza n. 207 del 2009 (la quale ha ribadito che il giudizio di cassazione costituisce «rimedio costituzionalmente imposto»).
[8] In La nomofilachia nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, cit.
[9] Intendo riferirmi alle pronunce secondo cui è proprio la funzione nomofilattica ed il rilievo costituzionale della Corte di cassazione a spiegare e giustificare la relazione che esiste fra la posizione della stessa e lo status dei magistrati che vi svolgono la propria opera (in particolare, cfr. le sentenze n. 86, n. 87 e n. 156 del 1982).
[10] In particolare, le numerose pronunce (per le quali, L.Salvato, Profili del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale, Quaderno del Servizio studi della Corte costituzionale, 2015), che hanno elaborato la teorica del «diritto vivente», ascrivendone la formazione esclusivamente alla Corte di cassazione, in quanto concorre a dare preciso contenuto alla funzione nomofilattica, rileva sul versante interno alla giurisdizione ordinaria, dato che, fermo il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, art. 101 Cost., segna il confine della libertà interpretativa del giudice comune, almeno con riguardo ai presupposti della questione di costituzionalità; la sentenza n. 98 del 2008 (avente ad oggetto la norma che ha reso appellabile la sentenza che decide l'opposizione avverso il provvedimento che irroga una sanzione amministrativa); la sentenza n. 119 del 2015 (la quale ha riconosciuto la legittimazione delle S.U. a sollevare questione di legittimità costituzionale quando ritengano il ricorso inammissibile, ma reputino di enunciare il principio di diritto ex art. 363 c.p.c., legittimazione affermata valorizzando appunto la funzione nomofilattica, sottolineando che la stessa «costituisce […] espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo»).
[11] In La Cassazione civile - Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di M.Acierno, P.Curzio e A.Giusti, Bari 2020.
[12] G.Raimondi, Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 8 novembre 2021.
[13] Così, ex plurimis, B.Capponi, Il formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 31 ottobre 2021.
[14] Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumento alternativi, presieduta dal Prof. F.P.Luiso. La Relazione, depositata il 24 maggio 2021, è consultabile in www.gnewsonline.it.
[15] Modifiche che non è possibile, ma neanche necessario, qui indicare e, a fortiori, esaminare.
[16] Proposta che, in considerazione degli effetti, per così dire, premiali derivanti dall’acquiescenza alla stessa, finisce con il costituire, sostanzialmente, una decisione.
[17] F. Auletta, Per una definizione di «giurisprudenza della Corte»: coefficiente normativo marginale della decisione e metodi quantitativi di misura, in D. Dalfino (a cura di), Problemi attuali di diritto processuale civile, Milano, 2021, 233, ove una approfondita disamina dei criteri di misurazione, anche i fini dell’art. 360-bis c.p.c.
[18] M.Vessichelli, Categoria della inammissibilità. Nel giudizio di cassazione, in www.cortedicassazione.it, con riguardo ai processi penali, ma con considerazione ordinariamente reiterata per quelli civili.
[19] Per tutte, nella giurisprudenza costituzionale, sentenze n. 93 del 2022, n. 102 del 2021 e n. 221 del 2019; nella giurisprudenza di legittimità, S.U., 9 settembre 2021, n. 24413.
[20] R.Caponi, D.Dalfino, A.Proto Pisani, G.Scarselli, In difesa delle norme processuali Nota a Cass.,
sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309, Amato c. Min. economia e fin. e Cass., sez. trib., 18 febbraio 2010, n. 3830, Soc. Prafond c. Agenzia entrate), Foro it., 2010, I, 1794.
[21] L.Salvato, Prefazione, in Il contenzioso sui diritti reali, a cura di A.Penta e F.Troncone, Milano 2021.
La qualificazione della responsabilità dello sciatore
di Raffaele Frasca
Sommario: 1. Premessa. - 2. Un poco di storia. - 3. La prospettiva dell’art. 2054 c.c. - 4. La prospettiva dell’art. 2050 c.c. - 5. La legge del 2003 - 6. La nuova legge del 2021.
1. Premessa
L’intento di queste note[1] è di ricercare la qualificazione della responsabilità dello sciatore alla luce di un recente intervento legislativo, quello di cui al d.lgs. n. 40 del 2021.
Con il riferimento alla responsabilità dello sciatore intendo alludere ai profili di responsabilità in cui incorre chi scia.
Se ci domandiamo come questi profili di responsabilità si possano verificare, possano emergere, è evidente che viene fatto di pensare in primo luogo all'ipotesi dello scontro fra sciatori, che ogni anno da quel che ho letto statisticamente è un’evenienza frequente sulle piste da sci
Però, ai fini del tema di cui intendo occuparmi viene in rilievo anche qualcos'altro perché: a) può accadere che un problema di responsabilità di uno sciatore possa sorgere e possa dare luogo a questioni in tema di responsabilità quanto si verifica una collisione con una struttura e questa struttura che è presente sulla pista viene danneggiata e si tratti, naturalmente, di una struttura che doveva e poteva legittimamente essere lì e non di una struttura che lì non doveva trovarsi; b) può accadere che uno scontro possa verificarsi tra uno sciatore, cioè tra chi sta sciando, e altri soggetti che non sono sciatori o non stiano sciando: penso all'ipotesi in cui chi scia venga coinvolto in un sinistro con persone che per esempio stanno prestando soccorso sulla pista da sci: questa non è un'ipotesi di scontro tra sciatori, coinvolge, infatti, persone che non sono sciatori; possiamo ancora pensare all'ipotesi in cui lo scontro riguardi lo sciatore e altre persone che nemmeno siano soccorritori e quindi non abbiano neppure nessuna relazione con la pista da sci, ma siano soggetti che sono entrati sia legittimamente sia illegittimamente sulla pista da sci (si pensi, sotto il primo aspetto, al caso in cui la pista contenga un attraversamento per i non sciatori); possiamo in fine pensare al caso di scontro fra uno sciatore in discesa e chi, avendo sciato in precedenza, stazioni sulla pista o in prossimità di essa (anche qui ed uno sciatore in discesa.
Ecco, quindi, che il ventaglio delle ipotesi in cui viene in considerazione la responsabilità sciistica, intesa come responsabilità dello sciatore, è più ampio dell'ipotesi di uno scontro fra sciatori.
Ricordo, peraltro, che occorre tenere presente che accanto alla figura dello sciatore, cioè di chi usa gli sci, vi sono le figure dei praticanti lo snowboard o il telemark e rilevo che l’àmbito della responsabilità – oramai, come vedremo –vede accomunate per scelta legislativa tali pratiche a quella dello sci.
2. Un poco di storia
Mi pare opportuno ricordare che in materia c’è sicuramente stata un’evoluzione legislativa.
Comincio, naturalmente, dal Codice Civile del 1942.
Nella situazione in cui, si era in sostanziale assenza di una legge speciale che regolasse l’attività sciatoria, la cornice entro la quale ci si doveva interrogare per individuare una normativa applicabile erano certamente gli articoli 2043 e seguenti. E così è stato per molti decenni. Si è passati, poi, oramai circa venti anni orsono ad una situazione nella quale una legge speciale, la n. 363 del 2003, ha dettato una serie di prescrizioni sulle regole di condotta da osservarsi dallo sciatore, pur senza procedere ad una qualificazione della responsabilità, che in qualche modo si preoccupasse o meglio rispondesse alla esigenza di inquadrarla nell'ambito del sistema del Codice Civile. Va ricordato che la legge del 2003, all’art. 18, comma 1, previde, altresì, che le regioni e i comuni potessero adottare ulteriori prescrizioni per garantire la sicurezza e il migliore utilizzo delle piste e degli impianti, così affidando loro una sorte di potere aggiuntivo di prescrizioni cautelari.
Recentissimamente e questa è l'ultima vicenda che riguarda la storia della responsabilità sciistica è sopravvenuta la citata nuova legge speciale, emanata sulla base di una delega risalente al 2019 (disposta con la l. n. 86 del 2019): è il già citato d.lgs. n. 40 del 2021[2], che è entrato in vigore per quando riguarda la disciplina della condotta dello sciatore e per molto altro dal 1° gennaio 2022, dopo un’iniziale fissazione al 2023[3].
3. La prospettiva dell’art. 2054 c.c.
Questa essendo la cornice legislativa evolutiva della nostra vicenda, ricordo brevemente che quando c'era soltanto come punto di riferimento il Codice Civile, vi sono stati innanzitutto tentativi di ricondurre la responsabilità sciistica alla norma dell'art. 2054 del codice civile, che com’è noto, disciplina la responsabilità nascente dalla circolazione di veicoli. Vi è stato un trend di giurisprudenza di merito che ha cercato di ricondurre alla norma la responsabilità sciistica - l'intera responsabilità dello sciatore - sul presupposto che gli sci potessero essere considerati un veicolo proprio nel senso supposto dall'art. 2054 e ci sono numerose pronunce di merito che hanno seguito questa logica[4].
Tuttavia, la Corte di Cassazione, quando la questione arrivò davanti ad Essa, si è rifiutò di accogliere questa soluzione: abbiamo infatti una prima decisione risalente al 1980 e altra successiva del 1987[5], le quali seguendo una certa ricostruzione dottrinale si attestarono sulla soluzione negativa e quindi hanno rifiutato di collocare la responsabilità sciistica nel 2054, adducendo che la nozione del veicolo cui la norma fa riferimento, o meglio la circolazione dei veicoli di cui fa riferimento all'art. 2054, era strettamente collegata alla circolazione regolata dal codice della strada allora vigente.
Tesi questa che avrebbe potuto presentare più di un dubbio per l'assorbente ragione che l'articolo 2054 non fa riferimento diretto alla circolazione stradale, anche se è indubbio che sia stato dettato in contemplazione di essa e dell’estensione che già nel Ventennio essa aveva avuto.
4. La prospettiva dell’art. 2050 c.c.
Sempre nella situazione anteriore alla legislazione speciale, ci si interrogò, sulla base di sollecitazioni della dottrina e del lavorìo del foro, circa la possibilità di collocare la nostra responsabilità nell'ambito dell’art. 2050 del codice civile; e quindi di considerare l'attività sciistica come un'attività pericolosa, con la conseguenza di applicarle il criterio di imputazione della responsabilità previsto da questa norma.
Ora, una soluzione del genere supponeva a monte l'interrogarsi su quale fosse la nozione di attività pericolose enucleabile dall'art. 2050 e l’interrogativo rimaneva su un piano che non poteva tenere conto di un’eventuale legge speciale di qualificazione dell’attività sciistica che non esisteva.
La risposta sulla collocabilità dell'attività sciistica nell'ambito dell'articolo 2050 dipendeva allora naturalmente dalla scelta che si fosse ritenuta praticabile in ordine alla qualificazione dell'attività pericolosa nei casi in cui non fosse stata la legge, come dice l'art. 2050, a indicare l'attività come pericolosa o comunque – può concedersi - non fossero sussistiti indizi normativi idonei in via di implicazione a rivelare indirettamente quella qualificazione.
Come è noto si sono sempre scontrate nell’esegesi della norma dell’art. 2050 due orientamenti, l’uno “ontologico”, l’altro per così dire attento alla “potenzialità dell’attività”.
Applicando la distinzione all’attività sciatoria, chi sosteneva che l'attività sciistica fosse pericolosa valorizzava il secondo criterio, in pratica sostanzialmente il criterio per cui lo sciatore, quando scia, può ben incorrere in scontri con altri sciatori o perché lui non guida in maniera prudente, quindi non esercita l'attività sciatoria in maniera prudente, sì da renderla pericolosa, oppure perché altre persone che utilizzano la stessa pista a loro volta non lo fanno svolgendo la loro attività in maniera prudente, oppure ancora perché ci sono altri soggetti che in qualche modo sono coinvolti nell'ambito spaziale della pista che non osservano regole di prudenza, sì da riflettersi sull’attività dello sciatore. Seguendo questo criterio che sostanzialmente valorizza semplicemente la possibilità che l'attività sciistica, pur in ipotesi assunta come di per sé non pericolosa, possa assumere questa caratteristica in ragione di queste evenienze, una collocazione di essa sotto l'ambito dell'art. 2050 sarebbe stata possibile[6].
Viceversa, ove si fosse privilegiata la tesi che ricostruiva l’articolo 2050 o meglio la nozione di attività pericolosa nel senso di un'attività che - fuori dei casi naturalmente in cui la pericolosità sia espressamente indicata dal legislatore direttamente o indirettamente – dovesse connotarsi come un'attività ontologicamente pericolosa, cioè per la sua stessa essenza, per lo stesso modo del suo svolgimento, la conseguenza sarebbe stata quella di negarne la riconducibilità all'art. 2050, perché - si diceva, si è detto - la pericolosità non può derivare dall'esercizio dell'attività in modo imprudente. In pratica, l’assunto di questa ricostruzione era che, se l'attività prudentemente esercitata non è pericolosa, non può diventare pericolosa perché chi la esercita non osservi le regole di prudenza secondo le quali l'attività dovrebbe svolgersi oppure perché altri non osservi le regole di prudenza nello svolgimento della stessa attività e dette attività si vengono ad intersecare.
Per la verità, fra le due alternative indicate, a me sarebbe sembrato difficile sostenere che non fosse valida la prima e che dunque l'attività sciatoria dovesse considerarsi come un'attività pericolosa non ontologicamente come tale ma proprio in ragione, per così dire, della “normalità” (vogliamo dire della frequenza?) della possibile inosservanza di regole di prudenza da parte di chi la conduceva o da parte di altri soggetti: la nozione dell'art. 2050, infatti, quando prescinde da una qualificazione legislativa diretta od indiretta mi pare idonea a comprendere anche le ipotesi in cui un’attività di regola esercitabile come non pericolosa, in concreto si presti ad uno svolgimento con modalità pericolose o possa intercettare un’attività che le può fare assumere tali modalità. Quindi, credo che secondo la prima opzione si sarebbe potuta ricondurre l’attività sciistica all'art. 2050.
Peraltro, a ben vedere, pur rifuggendo dall'idea che gli sci potessero considerarsi un veicolo, a me che non sono uno sciatore sembrerebbe che si sarebbe potuto sostenere che il fatto di mettersi gli sci ai piedi, di iniziare una discesa, per definizione rende la capacità dello sciatore di controllare il proprio movimento certamente meno normale e non vorrei dire anormale rispetto a quella “normale” di un essere umano che non ha gli sci ai piedi: il fatto stesso di mettere ai piedi gli sci (sia pure non un veicolo, ma comunque un arnese che consente di deambulare e scivolare in modo del tutto particolare per il modo di essere della sua struttura meccanica, esigendo notoriamente attività di equilibrio particolari) e soprattutto il fatto stesso di esercitare l'attività su una pista che va in discesa, nonché il fatto che per fermarsi sono necessarie particolari manovre che certamente incidono sull’equilibrio già precario per il sol fatto di indossare gli sci, avrebbero potuto giustificare anche, ove ritenuta necessaria,una qualificazione dell'attività come ontologicamente pericolosa, senza che potesse rilevare il fatto che questa attività poteva come può essere esercitata da chiunque e quindi da quella gran parte dei consociati che, avendo imparato l’uso degli sci, amano appunto andare sulle nevi. In sostanza, anche per chi preferisce la tesi per così dire “ontologica” dell’attività pericolosa, sarebbe stato difficile sottrarre l’attività sciatoria alla riconducibilità all’art. 2050.
E ciò è tanto vero che buona parte della dottrina anche di recente ha sostenuto la tesi della riconducibilità dell'attività sciistica all’art. 2050, rigettando la seconda delle opzioni di cui ho detto[7].
Se ci si interroga sul se la tesi abbia avuto successo a livello giurisprudenziale e in particolare sul se la Corte di Cassazione abbia qualificato la responsabilità per l'attività dello sciatore alla stregua dell'art. 2050, ancorché in dottrina qualcuno[8] abbia sostenutosi il contrario, in realtà a me pare non si rinvengano nella giurisprudenza della Cassazione affermazioni tali da ricondurre l’attività sciatoria e dunque la responsabilità sciatoria all'art. 2050.
Quelle decisioni che vengono evocate in questo senso - e si badi si tratta non solo di decisione civili ma anche di decisioni penali - sono in realtà decisioni che hanno scrutinato fattispecie in cui chi era chiamato a rispondere sul piano civile o penale era il gestore della pista e quindi non fattispecie in cui veniva in considerazione la responsabilità dello sciatore; in queste decisione si coglie – è vero - l'affermazione del tutto incidentale[9] che l'attività sciistica è oggettivamente pericolosa per le stesse condizioni in cui si esercita. Lo si fa soprattutto valorizzando il criterio della morfologia stessa della pista, per l'ampiezza delle piste di sci e per la presenza in essa di un numero di soggetti indeterminati. Ma, se ci si chiede se queste decisioni siano espressione di un convincimento espresso alla Corte di Cassazione circa la riconduzione della responsabilità dello sciatore all'art. 2050, la risposta non può che essere negativa. La ragione è che sono affermazioni che sono state fatte non ai fini di ricondurre la responsabilità dello sciatore alla norma dell’art. 2050 e, quindi, non con riferimento ad una condotta dannosa dello sciatore, ma semplicemente per apprezzare la responsabilità del gestore in ordine all'adempimento o all'inadempimento circa gli obblighi ed i doveri sulla tenuta della pista sede dell’attività sciatoria. Si è detto che le modalità gestorie della pista debbono essere adeguate alla circostanza che la pista o meglio l’attività esercitata da essi sugli utenti è pericolosa, ma ciò per farne derivare che il gestore deve adeguare i suoi comportamenti gestori a tale circostanza. Quindi la qualificazione di pericolosità è stata fatta (peraltro, come emerge dalla lettura delle motivazioni, incidentalmente, va detto) assumendo il punto di vista e, dunque, l’onere comportamentale del gestore e non di chi pratica lo sci. Tra l’altro si tratta di affermazioni generiche e rafforzative della responsabilità del gestore.
Non possiamo ravvisare, perciò, in tali decisioni della Corte di Cassazione[10] una riconduzione della disciplina della responsabilità dello sciatore all'art. 2050. Quello che si riscontra, è una chiara affermazione della riconducibilità della responsabilità del gestore all'art. 2050, però vista questa riconducibilità sempre nel senso che ho detto, cioè dal punto di vista comportamentale del gestore. Non è questa la sede per domandarsi e discutere se questa tesi fosse e sia tuttora convincente o non sia piuttosto una tesi che in definitiva potrebbe non essere predicata e che dovrebbe essere superata dall'opzione della applicabilità al gestore dell'art. 2051 c.c. in dipendenza dei doveri comportamentali inerenti alla tenuta della pista. Quello che mi preme sottolineare è che nella giurisprudenza della Cassazione non c'è mai stata la riconduzione dell'attività dello sciatore in quanto fonte di danno all'art. 2050 con riferimento ai vari profili della sua eventuale responsabilità per i danni cagionati nel suo svolgimento.
5. La legge del 2003
A questo punto passo a considerare la legge del 2003[11].
Fermo che la legge del 2003 non procedette ad alcuna qualificazione dell'attività dello sciatore, ricordo che quella legge si caratterizzò per un approccio che, per quanto riguarda tale attività, si concretizzò nel fissare tutta una serie di prescrizioni sul comportamento da tenere sulle piste da sci. Prescrizioni abbastanza dettagliate, riguardanti la velocità, la precedenza e altro. Ma quella legge introdusse soprattutto una previsione che senza direttamente smentire quello che era stato detto dalla Corte di Cassazione circa l'inapplicabilità dell’art. 2050, piuttosto smentì quello che si era detto sull’inapplicabilità del criterio dell’art. 2054, secondo comma, cod. civ. allo scontro fra sciatori (che è un pezzo, come ho detto, dell'area della responsabilità sciistica).
L'art. 19 di quella legge dispose, infatti, che nel caso di scontro tra sciatori, si presume, fino a prova contraria che ciascuno di essi abbia concorso ugualmente a produrre gli eventuali danni.
La norma era rubricata espressamente “concorso di colpa” ed era una norma che sostanzialmente introduceva un criterio di addebito del concorso che nella sostanza imponeva allo sciatore di provare l’assenza di responsabilità, di colpa, nella causazione dello scontro: dunque collocava la responsabilità nel caso di scontro al di fuori della logica dell’art. 2043 c.c., giacché onerava lo sciatore, ciascuno degli sciatori, della prova liberatoria.
Quello che semmai non era chiaro era il tipo di prova liberatoria imposto dalla previsione della presunzione di concorrente responsabilità.
Tuttavia, tale onere doveva trovare un referente normativo ed esso ben difficilmente poteva – mi pare - essere individuato in modi diversi che seguendo due alternative, quella dell’evocazione dell’art. 2050 o quella dell’evocazione del – pur non richiamato – art. 2054 primo comma c.c.
Nell’art. 2054, secondo comma, l’onere probatorio di ciascun conducente per sottrarsi alla presunzione è certamente quello di cui al primo comma della norma ed esso non mi pare che si sostenga debba apprezzarsi come cosa diversa dall’onere probatorio di cui all’art. 2050 (è noto che si è sempre detto che la circolazione dei veicoli è sostanzialmente una fattispecie di attività pericolosa), sicché l’art. 19 poteva avallare sia l’idea che l’onere probatorio dello sciatore per andare esente da responsabilità nel caso di scontro fosse quello del primo comma dell’art. 2054, sia l’idea che l’onere fosse quello dell’art. 2050 c.c. In fondo, ripeto, la logica di veicolazione della responsabilità del 2054, lo si è sempre detto, non è dissimile da quella del 2050.
L'introduzione della regola del secondo comma dell'art. 2054, ancorché non si fosse accompagnata alla ripetizione espressa di una regola come quella che sta a monte di esso, cioè la regola del primo comma dell'art. 2054 (che ci dice che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno), avrebbe dovuto apprezzarsi o nel senso di avere introdotto implicitamente quella regola o nel senso di avere avallato implicitamente l’idea che operasse per la condotta dello sciatore l’art. 2050.
Invero, una volta collocato lo scontro fra sciatori fuori dell’ipotetica applicazione dell’art. 2043 c.c., non mi sembra possibile che fossero immaginabili alternative diverse da queste due.
Naturalmente, poiché l’introduzione della regola dell’art. 19 riguardava solo la condotta dello sciatore in caso di scontro con altro sciatore o con altri sciatori e non anche la condotta causativa di danno in assenza di scontro con altro sciatore (o equiparato: vedi l’art. 20, che estendeva le norme comportamentali allo snowboard, così comportando l’applicazione dell’art. 19 anche allo scontro fra sciatore e snowboardista e fra due o più snowboardisti), si sarebbe dovuto constatare che queste altre ipotesi restavano al di fuori della sua efficacia e, dunque, per esse continuava ad operare la situazione normativa precedente. Ma certo l’introduzione dell’art. 19 costituiva, mi pare, una sorta di evidente avallo dell’idea che l’attività sciatoria fosse da qualificare o come pericolosa, volta che si consideri che non sembra dubitabile che la logica del secondo comma dell’art. 2054 sia, in definitiva, giustificata proprio dalla pericolosità dell’attività di circolazione dei veicoli, o come soggetta al primo comma dell’art. 2054.
Mi preme a questo punto ricordare che tale primo comma ripete un criterio di imputazione soggettiva della responsabilità, quello del secondo comma dell’art. 2054, che nella sostanza è difficile non ritenere identico a quello dell'art. 2050, il quale, perché si vada esenti da responsabilità, esige che chi esercita un’attività pericolosa debba provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Del resto, va ricordato che l’origine dell’art. 2050 sta proprio nell’antenato del secondo comma dell’art. 2054, come si legge nella Relazione al Codice Civile del Guardasigilli. Antenato che si rintraccia in una legge del 1912.
Ma, mi pare, accanto all’introduzione del principio di cui all’art. 19, a favore di una “spinta” del legislatore a suggerire l’idea della pericolosità dell’attività sciatoria, si sarebbe dovuta considerare poi la grossa novità della introduzione con la legge del 2003 di una serie di norme di comportamento per lo sciatore.
Se a monte di esse non vi era un’affermazione espressa di un principio simile a quello del primo comma dell'articolo 2054, andava considerata l’incidenza di quelle prescrizioni comportamentali ai fini della prova liberatoria che nel caso di scontro fra sciatori doveva dare ognuno dei coinvolti. La presenza di queste prescrizioni veniva, infatti, in rilievo per connotare il contenuto di tale prova liberatoria, nel senso che certamente lo sciatore che avesse voluto sottrarsi alla presunzione avrebbe dovuto dimostrare una condotta fra l’altro conforme a quelle prescrizioni. Inoltre, la presenza di dette prescrizioni non poteva che essere il sintomo di una particolare “attenzione” del legislatore alla capacità di recar danno dell’attività sciatoria e questo, mi pare, costituiva ulteriore spinta per una qualificazione di essa come pericolosa. Ciò sulla base del rilievo che, se il legislatore ebbe a sentire il bisogno di imporre regole comportamentali allo sciatore, avvertì questo bisogno per la pericolosità dell’attività da lui svolta.
Ma nella legge del 2003 vi erano, mi sembra, ulteriori indizi giustificativi di tale qualificazione. Vi erano, infatti, alcuni espressi riferimenti al concetto di “pericolo” e ciò proprio nelle norme di prescrizione dei doveri comportamentali.
Il comma 1 dell'art. 9, nel regolare la condotta dello sciatore espressamente prescriveva che essa dovesse tenersi in modo da non costituire pericolo per l'incolumità altrui: quindi era evocato espressamente concetto di pericolo.
L'articolo 13, comma 1, nel prescrivere il modo della sosta dello sciatore espressamente stabiliva che lo stazionamento dovesse evitare pericoli per gli altri utenti.
Anche questi espressi riferimenti al pericolo in qualche modo mi sembra che potessero considerare indizi della riconducibilità dell'attività sciatoria all'art. 2050 e ciò, a dire il vero, anche al di fuori dello scontro fra sciatori, fermo restando che in questo caso, come ho detto, l’operare della presunzione di colpa concorrente di cui all’art. 19 rendeva impossibile ragionare nella contemplazione dell’art. 2043 c.c. A proposito delle condotte dannose dello sciatore cagionanti uno scontro fra veicoli, se si applicasse la logica dell’art. 2043 c.c., infatti, l’onere della prova della colpa (o del dolo) sarebbe a carico del danneggiato, mentre in presenza di una regola come quell’art. 19 la logica dell’art. 2043 non può operare: se a carico di ognuno dei conducenti v’è la presunzione di colpa.
Ognuno dei conducenti può, infatti, beneficiare della presunzione di colpa eguale dell’altro.
L’essere onerato ognuno della prova idonea a superare la presunzione a proprio carico a favore dell’altro poneva la situazione fuori della logica dell’art. 2043 e comportava in realtà, per quello che ho detto, un onere della prova simile a quello dell’art. 2050 e ciò sempre che non si fosse ritenuto applicabile il primo comma dell’art. 2054 (come ho detto ispirato alla stessa logica).
Del resto, alla stessa logica obbedisce, come ho detto, il secondo comma dell’art. 2054 c.c. Imponendo un onere di superare la presunzione di concorrente responsabilità, evidentemente impone una prova liberatoria che non può basarsi solo sulla dimostrazione della colpa dell’altro conducente (giurisprudenza pacifica), ma deve basarsi anche sull’esclusione della colpa propria, il che, nell’economia dell’art. 2054, sottende l’onere di cui all’art. 2054 primo comma c.c.
È vero, dunque, che nel sistema della l. n. 363 del 2003, accanto alla previsione dell'articolo 19 non vi era una previsione come quella del primo comma dell'articolo 2054.
Senonché, lo ripeto, è tutto da dimostrare che l'assenza di una simile previsione implicasse che l'onere a carico di ciascuno degli sciatori non fosse quello di dare dimostrazione dell'assenza di propria colpa in modo assoluto e quindi di dare dimostrazione di un qualcosa che, anche alla luce delle prescrizioni comportamentali, non implicasse un onere dissimile da quello dell'art. 2054 primo comma e quindi da quello omologo dell'art. 2050. Non mi pare che potesse sfuggirsi a questa conclusione, implicante, dunque, la pericolosità dell’attività sciistica (e di quelle equiparate).
L'interrogativo che poteva sorgere riguardava semmai i casi in cui la responsabilità di uno sciatore venisse in gioco al di fuori di uno scontro con un altro sciatore, cioè come negli esempi che ho fatto all’inizio di questo scritto, e, quindi, quando si fosse verificato il danno a carico di un soggetto che prestava soccorso, o a carico di altro sciatore in posizione di stazionamento, naturalmente a meno che lo stazionamento non si intendesse ricondurlo a una delle condotte supposte dell'articolo 19, o a carico ancora di un estraneo che avesse interferito con la pista od ancora con riguardo ad un manufatto facente parte della pista.
Per questi casi ritornava nuovamente il problema della possibile qualificazione della responsabilità dello sciatore ai sensi dell'art. 2050 e valevano le notazioni che ho svolto sopra a proposito della collocazione dell’attività sciatoria sotto quella norma sulla base del Codice Civile.
6. La nuova legge del 2021
Veniamo ora alla nuova legge. Una volta registrato che la legge ha ripetuto nell’art. 28 la regola del concorso ad instar del secondo comma dell’art. 2054, rubricando la norma “concorso di responsabilità, è bene anzitutto rimarcare alcune particolarità che si riscontrano rispetto al testo della l. n. 363 del 2003 nel gruppo di norme che anche in questa legge sono dettate relativamente ai comportamento degli utenti delle aree.
Comincio dall'art. 18, il quale esordisce nel comma 1 con un primo inciso, il quale stabilisce che lo sciatore è responsabile della condotta tenuta sulle piste da sci. Nel secondo inciso si stabilisce che a tal fine deve conoscere e rispettare le disposizioni previste per l'uso delle piste, rese pubbliche mediante affissione da parte del gestore delle piste stesse alla partenza degli impianti, alle biglietterie e agli accessi delle piste.
Sottolineo che questa previsione, nel prescrivere una sorta di principio di autoresponsabilità e nel contempo nel ribadire pedantemente l'obbligo di conoscere e rispettare le disposizioni per l'uso delle piste, quindi sostanzialmente di informarvisi, sottende nell'intenzione del legislatore la consapevolezza della particolare “problematicità” e, quindi, soggezione a cautele, dell'attività sciatoria.
Passo oltre: il comma due ripete la formula del comma 1 dell'art. 9 della l. del 2003, ma prescrive in aggiunta che lo sciatore deve tenere una condotta che non costituisca pericolo per l'incolumità propria e altrui. Ebbene balza agli occhi l'aggiunta del riferimento alla incolumità propria. Già il riferimento alla incolumità altrui si prestava a far considerare l'attività esercitata dallo sciatore come idonea ad incidere sugli altri, ma qui abbiamo addirittura la sottolineatura della attitudine dell'attività a determinare pericolo per se stessi. Il richiamo anche alla incolumità propria rafforza ulteriormente il valore della evocazione del pericolo, già presente nella legge del 2003.
Nell'art. 18 compare poi, in un comma 4, una previsione del tutto nuova che suona quasi come pedantesca ripetizione di ciò che è stato detto prima. Essa prescrive allo sciatore di tenere una velocità e un comportamento di prudenza, diligenza e attenzione adeguati alla propria capacità, alla segnaletica e alle prescrizioni di sicurezza esistenti, nonché alle condizioni generali della pista stessa, alla libera visuale, alle condizioni metereologiche e alle intensità del traffico. Di particolare valore è l'ulteriore sottolineatura che lo sciatore deve adeguare la propria andatura alle condizioni dell'attrezzatura utilizzata, alle caratteristiche tecniche della pista e alle condizioni di affondamento della medesima.
Ebbene, tutte queste prescrizioni mi sembra che sottendano una evidente volontà del legislatore di apprezzare l'attività sciatoria come oggetto dell'adozione di particolarissime cautele e riesce difficile negare che questo non significhi l’intentio legis indiretta di individuare un'attività lato sensu pericolosa.
Passiamo oltre. Nell'articolo 19 viene ripetuta la norma della l. del 2003 (art. 10) sulla precedenza ma con un'aggiunta, con la quale si parla di pericoli riferiti allo sciatore a valle. Ecco anche in questo caso una particolare sottolineatura della pericolosità connessa alla nostra attività.
Vengo poi alla norma che regola l'incrocio, quella dell'articolo 21. La particolare previsione della norma, nella quale non è più presente l'obbligo di dare precedenza a destra, ma sono precisate una serie di comportamenti che deve tenere chi si approssima ad un incrocio, anche qui rende evidente che il legislatore è consapevole della necessità che la condotta dello sciatore in prossimità degli incroci di per sé possa essere fonte di pericoli, il che giustifica la puntuale prescrizione di comportamenti da tenere.
Ebbene un primo dato che bisogna registrare leggendo la nuova legge del 2021 è quello che l'aumento della specificità delle prescrizioni dettate per la condotta dello sciatore e l'aumento anche della evocazione del concetto di pericolo non possono che sottendere il convincimento del legislatore che l'attività sciatoria è un'attività che ha attitudine di per sé a determinare situazioni di pericolo e quindi un'attività pericolosa.
Ma vengo a questo punto ad un argomento finale, che si basa su una pregnante novità legislativa.
L’art. 30 del d.lgs. n. 40 del 2021 stabilisce che lo sciatore che utilizza le piste da sci alpino deve possedere una assicurazione in corso di validità che copra la propria responsabilità civile per danni o infortuni causati a terzi. Inoltre, introduce l’obbligo in capo al gestore delle aree sciabili attrezzate, con l'esclusione di quelle riservate allo sci di fondo, di mettere a disposizione degli utenti all'atto dell'acquisto del titolo di transito una polizza assicurativa per la responsabilità civile per danni provocati alle persone o alle cose.
Ebbene l'assoluta novità della introduzione di un obbligo, anzi di due obblighi, uno direttamente impositivo a carico dello sciatore dell’onere di assicurarsi, l'altro a carico del gestore della pista di mettere a disposizione una polizza assicurativa, obblighi il cui inadempimento l'articolo 33, comma 2, assoggetta a sanzione amministrativa, evidenzia che il legislatore ha ritenuto che l'attività dello sciatore debba essere coperta da assicurazione perché è naturalmente foriera di possibili danni a terzi. Ebbene questo dato, quindi, come può consentire di negare che ormai a livello legislativo l'attività sciatoria come fonte di responsabilità civile debba essere considerata un'attività pericolosa?
Rilevo semmai che colpisce nella norma dell'art. 30 che non si sia detto che il gestore di fronte alla mancanza di disponibilità da parte dell'operatore di una polizza e al rifiuto da parte sua di utilizzare quella che lui deve mettere a disposizione a pagamento naturalmente virgola non debba rifiutare l'accesso alla pista. Questa previsione manca nella norma e mi sembra difficile poterla estrapolare.
[1] Esse rappresentano il contenuto di una relazione tenuta in Cortina d’Ampezzo lo scorso 1° ottobre 2022 nel Convegno organizzato dalla Camera Civile degli Avvocati di Belluno sul tema “La responsabilità in ambito sciistico”.
[2] Per una prima lettura di tale d.lgs., si veda M. PITTALIS, L’attuazione della legge delega 8 agosto 2019, n. 86 in tema di ordinamento sportivo, professioni sportive e semplificazione, in Corriere Giuridico, 2021, 751 e ss.
[3] Si veda l’art. 43-bis del d.lgs., introdotto dall’art. 30, comma 11, del d.l. n. 41 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 69 del 2021, e, quindi, l’art. 10, comma 13-quater, lett. f), del d.l. n. 73 del 2021, convertito con modificazioni, dalla l. n. 106 del 2021.
[4] Per un’ampia rassegna si veda: M. PITTALIS, La responsabilità in ambito sciistico, in Riv. Dir. Sportivo, 2015, 373 e ss. Adde, con specifico riferimento allo scontro fra sciatori, S. VERNIZZI, Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile, in La responsabilità sciistica. Prospettive attuali, a cura di M. SESTA e L. VIALE, Bolzano, 2015 (pubblicazione edita dalla Libera Università di Bolzano, ma rintracciabile su Internet).
[5] Si tratta di Cass., 1 aprile 1980, n. 2111, in Riv. Dir. Sportivo, 1980, 354 (sulla sentenza si veda anche il commento di F.D. Busnelli-G. Ponzanelli, Rischio sportivo e responsabilità civile, in Resp. Civ. e prev., 1984, 285) e di Cass., 30 luglio 1987, n. 6603, in Archi. Giur. Circ., 1988, 25. Le decisioni sono anche evocate dalla PITTALIS nello scritto citato sub nota 3.
[6] Riassuntivamente rinvio allo scritto della PITTALIS, citato nella nota 4.
[7] Rimando, anche per riferimenti allo scritto della PITTALIS, citato sub nota n. 4
[8] Si veda la PITTALIS, sempre nello scritto citato, sub paragrafo 2, 380 e ss..
[9] Si vedano: Cass. 19 febbraio 2013, n. 4018, in Rass. dir. econ. sport, 2014, 165 e ss., con nota di G. Berti De Marinis e in Danno e Resp., 2013, 863 e ss., con nota di U. IZZO; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22344, in Rass. dir. econ. sport, 2014, 438 e ss., con nota di M. Pittalis e in Danno e Resp., 2015, 357 e ss., con nota di U. IZZO; per le decisioni penali: Cass. 15 settembre 2015, n. 37267, in Danno e Resp., 2016, 139 e ss., con nota di S. Rossi. Adde: Cass. 9 novembre 2015, n. 44796 ; Cass. 25 febbraio 2019, n. 8110; Cass. 7 ottobre 2020, n. 27923.
[10] Esse sono espressioni di un orientamento inaugurato da Cass. 26 aprile 2004, n. 7916, in Giust. Civ., 2005, 1, 3120 e ss.
[11] Sulla legge, si vedano: M. FLICK, Sicurezza e responsabilità nella pratica degli sport invernali alla luce della legge 24 dicembre 2033, n. 363, in Danno e Resp., 2004, 475 e ss.; R. CAMPIONE, Le nuove norme in materia di responsabilità e sicurezza dell’attività sciistica, in Contratto e Impresa, 2004, 1305 e ss.; E. BALLARDINI, La legge n. 363/2003 in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali, in U. IZZO e G. PASCUZZI (a cura di), La responsabilità sciistica. Analisi giurisprudenziale e prospettive dalla comparazione, Torino, 2006, 3 ss.
Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Le diverse stagioni del travagliato percorso e il conflitto tra l’esigenza di conservazione del divieto e la tutela del nato da maternità surrogata - 2. La conservazione del divieto: una costante - 3. La ricerca di uno strumento di tutela per il nato: trascrizione automatica o adozione? - 4. Il problema è parzialmente risolto dalla Corte costituzionale con la decisione n. 79 del 2022 - 5. Riflessioni conclusive.
1. Le diverse stagioni del travagliato percorso e il conflitto tra l’esigenza di conservazione del divieto e la tutela del nato da maternità surrogata
L'ordinanza della I sezione civile della Corte di Cassazione n. 1842 del 2022 riapre i termini del dibattito sul nato da maternità surrogata praticata all'estero e costringe l'interprete a considerazioni che toccano inevitabilmente l'equilibrio del sistema e la coerenza complessiva delle decisioni delle Corti in quello che, senza alcun indugio, può essere definito come il travaglio della genitorialità derivante da maternità surrogata. Di travaglio si tratta in quanto il rilevante problema di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse ha visto duettare la Corte di Cassazione, la Corte costituzionale, che ha sollecitato più volte l'intervento del legislatore, e le corti sovranazionali, alla ricerca di una soluzione ragionevole che possa coniugare interessi palesemente contrapposti e imputabili a soggetti diversi: l'interesse del minore alla identità filiale, l'interesse della donna alla propria dignità, l'interesse della donna a non rinunciare allo stato di madre, l'interesse dello Stato a non incentivare il ricorso a pratiche vietate e lesive della dignità della donna e dell'istituto dell'adozione. Sullo sfondo rimane l'interesse del genitore intenzionale a vedersi riconosciuta una genitorialità progettata con il partner, il genitore biologico. Tale interesse rimane tuttavia solo sullo sfondo con una sorta di ipocrisia intellettuale che addossa solo al minore e al suo interesse il governo di una problematica molto complessa che vede come attori principalmente gli adulti e il loro desiderio di genitorialità. Il minore sconta questa scelta degli adulti ed è doveroso che l'ordinamento risolva o tenti di risolvere il problema di chi devono essere considerati i suoi genitori.
Può essere interessante descrivere sia pure sinteticamente le tappe di questo percorso travagliato e complesso che ci ha portato sino all'ordinanza che qui si commenta che rinvia nuovamente alle Sezioni unite il problema. Tale percorso, nelle sue varie stagioni, è stato caratterizzato dal conflitto tra due interessi: l'esigenza di tener fermo il divieto della maternità surrogata e l'esigenza di riconoscere la genitorialità ai figli nati da tale pratica.
In una stagione ormai del tutto superata, il dibattito sulla genitorialità derivante dalla maternità surrogata vedeva contrapporsi tesi che ritenevano prevalente la madre uterina e tesi che, al contrario, ritenevano che dovesse prevalere la madre committente. Si trattava di un dibattito che atteneva in particolare alla maternità. Nelle stagioni successive, compresa quella che stiamo vivendo, il problema di chi debba essere la madre è stato del tutto accantonato ed è stato sostituito da quello relativo al riconoscimento del genitore intenzionale, che è il partner del genitore che ha dato il proprio patrimonio genetico, genitore che, come emerge dalla qualifica, lo è per l'intenzione ma non per il sangue. La madre uterina, che è colei della cui dignità si tratta, è stata del tutto dimenticata e tale dimenticanza, a mio parere, accentua i profili della mercificazione di questa pratica. Inoltre il dibattito sulla genitorialità del nato da maternità surrogata è fuoriuscito dal perimetro dell'ordinamento interno e si è proiettato sul problema del riconoscimento in Italia di genitorialità acquisite all'estero in Paesi in cui la maternità surrogata è pratica ritenuta lecita. Questo cambiamento di paradigma ha inevitabilmente spostato l'ambito del dibattito al conflitto tra ordine pubblico interno e internazionale e all'esigenza di raggiungere un equilibrio con altri principi, tra i quali primeggia il best interest of the child, punte di diamante dei confliggenti interessi.
2. La conservazione del divieto: una costante
Per quanto concerne la rilevata esigenza di mantenere fermo il divieto della maternità surrogata, può dirsi che questa è stata una costante di questo travagliato percorso, pur con alcune recenti varianti. La nostra Corte costituzionale, anche quando è intervenuta per rimuovere il divieto della fecondazione eterologa, ha mantenuto il divieto, considerato in più di una decisione, pratica lesiva della dignità della donna e dell'istituto dell'adozione. Anche la Corte di Cassazione ha più volte ribadito il profilo di lesività di questa pratica. Dicevo che questa costante è stata interrotta da qualche variante, che tuttavia non ha la forza di abbattere o relativizzare la portata del divieto, che rimane fermo, anche nel contesto di altre legislazioni europee, come la Francia e la Spagna, che pure di recente hanno introdotto nuove leggi in materia. Una di queste varianti è contenuta nell'ordinanza che qui si commenta, là dove si afferma l'esclusione del profilo della lesività della dignità della donna “solo se sia il frutto di una sua scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e se tale scelta sia revocabile sino alla nascita del bambino”. L'esaltazione del profilo dell'autodeterminazione, concepita qui come scriminante della lesività, viene argomentata anche attraverso il paragone con il parto anonimo. Si legge infatti in questa ordinanza che “è da considerare che il nostro ordinamento consente alla donna al momento del parto di dichiarare la propria volontà di rimanere anonima e di non assumere alcuna responsabilità genitoriale escludendo così l'instaurazione del rapporto di filiazione”. È facile e troppo banale replicare che l'autodeterminazione non è tale da eliminare il profilo di lesività della dignità. Tutto il dibattito sul valore primario della dignità umana, considerata quale diritto dei diritti, importa infatti un procedimento complesso che prenda le distanze dalla negoziabilità di questo valore attraverso l'esaltazione del principio di autodeterminazione, come è evidente nel noto caso del lancio dei nani. Inoltre, e con specifico riferimento alla natura non onerosa che renderebbe lecita tale pratica, deve ritenersi che la lesione della dignità non dipende dal carattere oneroso o gratuito del contratto, ma dalla rinuncia allo status di madre. Quanto poi al richiamo al parto anonimo, ritenuto istituto che confermerebbe il valore dell'autodeterminazione, deve rilevarsi che si tratta di due istituti non comparabili, perché la scelta della madre nel parto anonimo trova ragione nella esigenza di evitare l'interruzione della gravidanza, mentre la scelta libera e consapevole della donna nella maternità surrogata implica una rinuncia al suo stato di madre, ed è questo il profilo della lesività. Considerazioni analoghe devono farsi per la lesione della dignità dell'istituto dell'adozione. Confesso che non ho mai condiviso questo profilo di lesività, ritenendo che se mai la lesione della dignità attiene più propriamente al soggetto nato da maternità surrogata, considerato come merce di scambio. Tuttavia questo riferimento è costante in giurisprudenza e anche in questo caso appaiono irrilevanti i tentativi di limitarne la portata. Il contrasto della maternità surrogata con l'istituto dell'adozione, se di contrasto vuole parlarsi, è infatti ontologico, in quanto è insito in una pratica che si pone in alternativa all'adozione del minore già nato ma abbandonato. In questo senso non sembra che possano accogliersi le riflessioni che si leggono nell'ordinanza che si commenta che limitano il profilo di lesività alle ipotesi estreme di frode alle leggi sull'adozione. Del pari non è condivisibile ciò che è stato affermato nell'ordinanza che si commenta, ovvero che “è da ritenere non riconoscibile una sentenza o un atto di nascita che accerti la filiazione in relazione a una surrogazione di maternità consentita dalla legge del paese in cui è avvenuta anche se i genitori intenzionali non hanno apportato alcun contributo genetico alla procreazione”. Il profilo di lesività della pratica di maternità surrogata rispetto all'istituto dell'adozione non è infatti condizionata dall'apporto o meno del contributo genetico alla procreazione. Piuttosto, esattamente come avviene nel caso dell'adozione, la mancanza del sangue dovrebbe essere sostituita da un progetto genitoriale e affettivo che sostituisca alla regola di sangue, quella familiare-progettuale.
3. La ricerca di uno strumento di tutela per il nato: trascrizione automatica o adozione?
Il travagliato percorso che stiamo cercando di descrivere, oltre ad essere caratterizzato dal mantenimento costante del divieto di maternità surrogata, si è caratterizzato per la forte esigenza di dare una tutela ai bambini nati da maternità surrogate fatte all'estero. Ciò ha posto un problema di circolazione di status nei vari paesi, in quanto è apparsa inevitabile la riflessione sulla necessità di assicurare il mantenimento di uno stato filiale acquisito all'estero. Nel contempo, la riflessione contigua sulla necessità di non incentivare il ricorso a pratiche vietate e lesive di valori primari ha complicato i termini del dibattito. Nelle varie stagioni che si sono succedute, il dibattito è stato caratterizzato dall'alternativa tra due soluzioni. La prima soluzione è quella della trascrizione della genitorialità acquisita all'estero o, ove vi sia stata una sentenza, la delibazione della sentenza straniera. La seconda soluzione è la ricerca di strumenti del diritto interno che possano assicurare la genitorialità al genitore di intenzione e completare così il progetto di genitorialità iniziato con il genitore biologico. La prima soluzione, ovvero quella della trascrizione di provvedimenti stranieri o di delibazione di sentenze straniere, importa, in conformità della disciplina di diritto internazionale privato, un problema di conformità di tali atti stranieri al principio dell'ordine pubblico. La seconda soluzione, pur sottraendosi a questo giudizio, impone la ricerca di strumenti che, secondo l'indicazione dell'europa, siano adeguati e improntati al principio di celerità e di effettività. Il travagliato percorso che stiamo descrivendo vede al riguardo l'alternarsi di queste soluzioni, secondo un percorso incostante e segnato da grande complessità. Nel 2019 le sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 12139), conformandosi all'orientamento delle Corti europee che non ritengono obbligatoria la scelta della trascrizione automatica, ha affermato che tale soluzione è contraria all'ordine pubblico, stante il divieto della maternità surrogata. La Corte ha indicato l'adozione in casi particolari quale soluzione alternativa del diritto interno per risolvere il problema del riconoscimento della genitorialità di intenzione. Nel 2021 (n. 33), la Corte costituzionale ha riaffrontato il problema della genitorialità di intenzione con delle indicazioni preziose per l'interprete che non possono essere dimenticate. Innanzitutto la Corte ha ribadito che la pratica della maternità surrogata è lesiva della dignità della donna. Quanto al problema della tutela del nato da maternità surrogata, il riconoscimento della genitorialità di intenzione viene condizionato a presupposti ben precisi che sono: 1) l'attualità e la concretezza del progetto genitoriale; 2) il rilievo concreto e costante della cura del minore che denoti l'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, anche se in via di fatto. Significativo in questo senso è un passaggio della decisione della Corte: “Laddove il minore viva e cresca nell'ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone che non solo abbiano condiviso e attuato il progetto del concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata”. Queste parole della Corte servono a circoscrivere i limiti dell'ammissibilità del riconoscimento della genitorialità di intenzione alla sola ipotesi di progetto genitoriale attuale e al riscontro di un rapporto di cura e di affetto che deve necessariamente essere valutato in concreto e mai in astratto. Ed è proprio questa valutazione che riempie di contenuto l'interesse del minore al riconoscimento di tale genitorialità che, diversamente, si tradurrebbe in una scatola vuota. Se si accoglie questa prospettiva della Corte, deve ritenersi che la soluzione della trascrizione automatica del provvedimento straniero non realizza mai questi requisiti, in quanto conduce inevitabilmente ad una valutazione astratta e generalizzata. La presenza di questi requisiti, come emergerà più chiaramente nel prosieguo di queste riflessioni, consente inoltre di paralizzare le critiche allo strumento dell'adozione in casi particolari, in particolare all'obiezione derivante dal necessario assenso del genitore biologico ex art. 46 l. adozione. Ma a questo problema arriveremo tra un po'. Occorre adesso continuare a raccontare le tappe di questo travagliato percorso. La Corte costituzionale, sempre nella citata decisione n. 33 del 2021, rileva tuttavia l'inadeguatezza dello strumento dell'adozione in casi particolari e sollecita il legislatore ad intervenire. In particolare la Corte sottolinea la mancanza di parentela dell'istituto dell'adozione in casi particolari e il problema del necessario assenso del genitore biologico ai sensi dell'art. 46 della legge sull'adozione che “potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce così per essere privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall'inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita”. E siamo arrivati ai giorni nostri con l'ordinanza che qui si commenta che solleva nuovamente il giudizio delle sezioni unite, avendo riscontrato, a seguito della decisione della corte costituzionale, un vuoto legislativo e la necessità di superare il diritto vivente così come delineato nella decisione delle Sezioni unite del 2019.
4. Il problema è parzialmente risolto dalla Corte costituzionale con la decisione n. 79 del 2022
Un passaggio ulteriore di questo percorso è tuttavia segnato dalla decisione della Corte costituzionale n. 79 del 2022, che interviene dopo l'ordinanza di rinvio alle sezioni unite. Con questa decisione la Corte costituzionale rimuove parzialmente l'inadeguatezza dell'adozione in casi particolari, almeno per la parte relativa alla mancanza della parentela. Questa decisione, nell'affermare un allineamento dei due modelli di adozione, azzera in parte i termini del dibattito. Quanto all'altro profilo di inadeguatezza dell'adozione in casi particolari (necessità dell'assenso del genitore biologico ai sensi dell'art. 46 l. adoz.), deve rilevarsi che il problema rimane ma può essere facilmente superato in via interpretativa. Occorre al riguardo preliminarmente operare una distinzione tra l'assenso del genitore biologico nel caso che qui si discute e l'assenso del genitore biologico nelle altre ipotesi di adozione in casi particolari. Nell'ipotesi del nato da maternità surrogata, il genitore biologico è il genitore di sangue che ha condiviso con il genitore di intenzione il progetto genitoriale. Un ipotetico dissenso all'adozione dovrebbe necessariamente passare o per la negazione in radice del progetto genitoriale o per la negazione del rapporto costante e di cura del minore che rappresenta il requisito per richiedere l'adozione in casi particolari, anche nell'ipotesi in cui vi sia sta separazione. In parole povere il genitore biologico che nega l'assenso all'adozione del partner potrebbe farlo solo nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia intrattenuto nessun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore. La valutazione di questi requisiti passa necessariamente attraverso una valutazione del giudice, perché è una valutazione che interessa il migliore interesse del minore. Nelle altre ipotesi di adozione in casi particolari, invece, come per l'ipotesi prevista dalla lett. b), il dissenso del genitore biologico o di sangue è un dissenso a che altri (il coniuge della madre del proprio figlio) possa esercitare la responsabilità genitoriale. Le due situazioni non sono comparabili, perché mentre nel primo caso si tratta semplicemente di valutare in concreto un rapporto di cura e di affettività che riguarda solo e soltanto il minore, nel secondo caso si tratta di giudicare della concorrenza di due genitorialità. Fatte queste necessarie premesse, deve dirsi che in generale il procedimento di adozione in casi particolari, anche nelle altre fattispecie diverse da quella del nato da maternità surrogata, e la ratio dell'art. 46 della legge sulle adozioni non è quella di subordinare l'adozione in casi particolari all'arbitrario assenso del genitore biologico, ma di subordinarla alla realizzazione del migliore interesse del minore. Il secondo comma dell'art. 46, in combinato disposto con l'art. 57, che impone al giudice la verifica della realizzazione del preminente interesse del minore, conduce a questa interpretazione funzionale, che è condivisa anche da parte della giurisprudenza.
5. Riflessioni conclusive
Descritto questo travagliato percorso, è possibile tentare di fare delle riflessioni conclusive. Il riconoscimento della genitorialità di intenzione e il superiore interesse del minore ad ottenerlo non possono essere affidati ad uno strumento di carattere automatico come la trascrizione. Ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo perché, come ci ricorda la Corte costituzionale, occorre accertare in concreto la sussistenza di un rapporto costante di cura del minore e di un attuale progetto genitoriale. Solo verificate in concreto queste condizioni si può chiedere al diritto di legittimare sul piano giuridico situazioni che operano sul piano del fatto. In secondo luogo la scelta della trascrizione automatica, oltre ad azzerare la rilevanza di questi requisiti, porterebbe ad annullare del tutto la ricerca del migliore interesse del minore che, invece, è proprio legato alla verifica di quei requisiti. Progetto genitoriale e cura costante del minore devono essere entrambi presenti. Così non basterebbe un progetto genitoriale se non accompagnato da una cura ed un rapporto affettivo costante. Allo stesso modo, deve dirsi che la presenza di una relazione di cura e di affetto non basta da sola a fondare il titolo di una genitorialità giuridica. Una diversa soluzione porterebbe a fondare l'acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, in mancanza di un legame di sangue e a prescindere da una valutazione in concreto dell'interesse del minore. Il preminente interesse del minore è invece qui quello di continuare un rapporto di cura e di affettività e di dare una veste giuridica ad un rapporto che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale.
Quanto allo strumento dell'adozione in casi particolari e nell'attesa che il legislatore possa suggerire altri strumenti, resta la soluzione preferibile. Il recente intervento della Corte costituzionale (n. 79 del 2022) ha eliminato l'inadeguatezza relativa alla mancanza di parentela e quindi ha eliminato tanto del dibattito. Quanto al necessario assenso del genitore biologico previsto dall'art. 46 l. adoz., una lettura funzionale della disciplina dell'adozione in casi particolari, impone di considerare l'assenso del genitore biologico ancorato alla realizzazione del migliore interesse del minore. Ciò stempera il dubbio sulla inadeguatezza. La soluzione dell'adozione in casi particolari, a differenza della trascrizione automatica, consente inoltre di impostare il problema della genitorialità d'intenzione sul solo piano percorribile: quello della valutazione in concreto. D'altra parte è proprio dell'istituto dell'adozione una valutazione in concreto dei requisiti. Sotto questo specifico aspetto, deve ritenersi che non si vede perchè nel solo caso del nato da maternità surrogata, che condivide con le altre ipotesi di adozione l'instaurazione di una genitorialità fondata non sul sangue, dovrebbe operare una scelta diversa e meno garantista del reale interesse del minore. Come per il minore abbandonato, per il nato da maternità surrogata la realizzazione del suo migliore interesse non è mai presunta, ma deve essere giudicata nella concretezza della situazione.
Un'ultima riflessione attiene al rapporto tra divieto della maternità surrogata e tutela del soggetto nato, termini di un insanabile conflitto. Credo che la soluzione dell'adozione in casi particolari consenta di affrontare questa delicata problematica con un approccio metodologico meno conflittuale rispetto alla scelta della trascrizione automatica. L'adozione in casi particolari passa infatti attraverso la sola valutazione dell'interesse del minore a mantenere e a conservare un rapporto genitoriale che è nato nei fatti e che abbisogna di una veste giuridica. Il problema del divieto della maternità surrogata rimane sullo sfondo ma non tocca questa problematica e soprattutto non incide sulla valutazione del migliore interesse del minore. Nel caso invece che si accolga la soluzione della trascrizione automatica questi due interessi entrano nuovamente in conflitto in quanto la valutazione della conformità all'ordine pubblico chiama necessariamente in causa la valutazione dell'ordinamento in ordine al mantenimento o meno del divieto. D'altra parte, come si è detto, la valutazione del migliore interesse del minore risulta obliterata o comunque presunta, al di là di ogni indagine in concreto. Si attua così una commistione tra due profili diversi che complicano il lavoro dell'interprete. In definitiva, a me sembra che la soluzione della trascrizione automatica ponga due alternative. O si ritiene che tale trascrizione sia conforme all'ordinamento e allora deve eliminarsi il divieto della maternità surrogata. O si ritiene che la trascrizione non lo sia, perchè, come il diritto effettivo dimostra, la pratica della maternità surrogata è un procedimento lesivo della dignità della donna e quindi contrario ai valori dell'ordinamento. Tertium non datur.
La riforma Cartabia del diritto e del processo penale - Editoriale
Per la terza volta in cinque anni, magistrati, avvocati e cittadini devono affrontare una “riforma della giustizia penale”, con conseguente riscrittura di numerose norme sostanziali e processuali.
Anche in questo caso, l’intervento del legislatore è motivato dal tentativo di risollevare un innegabile stato di crisi della giustizia, evidente sia nei numeri – che attestano una perdurante incapacità di fornire in tempi ragionevoli una risposta alla domanda di giustizia – che nella conseguente crisi fiducia nei confronti dei magistrati e nel sistema, forse mai così evidente come negli ultimi anni.
La “riforma Cartabia”, rispetto a quelle che hanno preso il nome dei due precedenti Ministri della Giustizia, appare connotata da una inedita pervasività, poiché investe il diritto civile e processuale civile, quello penale e processuale penale nonché le norme ordinamentali.
Per quanto riguarda il settore penale, essa modifica - in più punti ed a volte in maniera profonda – ogni aspetto del processo, dal momento di apertura del procedimento penale alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, oltre ad incidere su alcuni rilevanti aspetti di diritto sostanziale.
Tocca inoltre il rapporto tra sanzioni ed esecuzione delle medesime, alcuni dei contrappesi esistenti tra le parti del processo, il senso stesso della sanzione penale affiancandole per la prima volta i percorsi (vedremo quanto accidentati) della giustizia riparativa; sancisce l’inizio dell’era del processo penale telematico.
In altri termini, si propone di modificare radicalmente il panorama in cui gli operatori del diritto si trovano ad operare, per di più facendolo “in corsa” e senza previsione di adeguate norme transitorie né una parallela riforma strutturale e di organico della magistratura, che prevedibilmente soffrirà nell’affrontare le modifiche in una situazione di drammatica scopertura di organico.
I temi di discussione e gli spunti di approfondimento sono numerosi e richiedono sia una ricognizione “a prima lettura” che una riflessione più meditata, oltre a un momento di sintesi che si giovi, appena possibile, del monitoraggio dell’impatto delle nuove regole nella realtà quotidiana dei nostri Tribunali.
La nostra Rivista ha già iniziato da tempo un’analisi dell’impianto della riforma, con lo scritto di Giorgio Spangher pubblicato il 6 settembre del 2022 e intitolato “La riforma Cartabia: alcuni fils rouge”.
A questo primo approfondimento, Giustizia Insieme ha pensato di far seguire una serie di contributi, rispondenti ai diversi “livelli di lettura” appena evidenziati:
1. Una serie di schede tematiche in cui saranno esposte in modo sintetico le modifiche principali apportate al Codice penale e di procedura penale ed indicate le possibili criticità applicative;
2. Cinque articoli che usciranno a cadenza settimanale in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, distinti per fase processuale
3. Un ulteriore serie di articoli - ancora in numero di cinque - dedicati alla giustizia riparativa, che prenderanno in esame la storia, le esperienze più salienti in Italia e all’estero, le novità della riforma su questo specifico tema e le criticità nell’applicazione della stessa.
A questi contributi affiancheremo delle “riflessioni spot” su argomenti che emergeranno e si imporranno con il carattere dell’urgenza.
Proprio ad uno di questi argomenti “urgenti”, che sin dal primo momento di emanazione della riforma sta provocando discussioni tra magistrati nelle chat e nelle liste tecniche, è dedicato il primo contributo che oggi pubblichiamo, la riflessione di Andrea Apollonio sul mutamento del giudice in corso di dibattimento e l’applicazione della regola del tempus regit actum.
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