ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’emergenza sanitaria rimodula i tempi della Giustizia: i provvedimenti sul civile (note a primissima lettura del d.l. n. 11 del 2020) di Franco De Stefano
sommario: 1. L’intervento normativo. - 2. Il rinvio generalizzato delle “udienze”.- 3. Le eccezioni. - 4. Cenno alle ricadute.
1. L’intervento normativo.
È stato pubblicato alle ore 20.30 circa di ieri 8 marzo sul sito www.gazzettaufficiale.it il decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attivita' giudiziaria), al dichiarato fine di contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria, ovvero sul sistema stesso della giustizia.
Dopo il primo intervento di cui all’art. 10 del d.l. 2 marzo 2020, n. 9, limitato alle zone identificabili coi focolai dell’epidemia, il nuovo intervento interessa l’intero territorio nazionale ed è assai più radicale, dovendo fare fronte all’evolversi della situazione verso un’emergenza che è doveroso definire senza precedenti nella storia della Repubblica: senza allarmismi, né panico, ma con determinazione e risolutezza.
Il decreto responsabilmente individua un duplice periodo, un primo per fare fronte alle esigenze di immediato contrasto o di pronto intervento, seguito da altro, che modulerà un vero e proprio regime emergenziale o derogatorio, in deroga a quello ordinario, ma tendenzialmente durevole o comunque da modellarsi in ragione delle esigenze via via individuate e, quindi, a seconda anche dello sviluppo, purtroppo allo stato ancora imprevedibile per le stesse cognizioni scientifiche al riguardo, dell’epidemia e delle sue ricadute cumulative sulla vita di tutti i giorni e sull’economia.
Ora bisogna far fronte all’uragano, finché non cessa la sua fase più distruttiva, poi occorrerà attrezzarsi per la gestione delle sue immani conseguenze: si tratta ora di attestarsi su di una nuova linea del Piave e solo dopo si potrà pensare al contrattacco.
Di seguito alcune brevi note a primissima lettura, relativamente all’impatto delle norme sul civile.
2. Il rinvio generalizzato delle “udienze”.
È istituito un primo periodo, cosiddetto cuscinetto o emergenziale acuto, di ripiegamento dopo lo sfondamento, in cui sono rinviate di ufficio a dopo il 22 marzo 2020 tutte le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti dinanzi a tutti gli uffici giudiziari italiani, con le sole eccezioni espressamente indicate.
Il periodo è dichiaratamente destinato anche all’organizzazione del periodo successivo, che può definirsi emergenziale a regime, ma è soprattutto funzionale al contenimento della diffusione, visto che la normale attività giudiziaria è sconvolta dall’improvvisa precarietà degli spostamenti e della stessa salute di tutti i potenziali interessati, a cominciare da quella dei lavoratori del settore.
Con la sola eccezione di casi tassativi e relativi a diritti fondamentali ed insopprimibili, da difendere anche in tempo di epidemia ad ogni costo, deve ritenersi che l’intera attività giurisdizionale vada differita a dopo il 22 marzo, al di là della completezza o meno dell’espressione adoperata, che si limita a menzionare le udienze, quali “luogo di concentrazione di numerose persone”.
L’attività giudiziaria civile e penale non si esaurisce però nelle udienze, ma coinvolge numerosi altri momenti in cui i contatti sociali o interpersonali sono molteplici e inevitabili, formalmente preparatori di quelli dell’udienza ma altrettanto funzionali ed indispensabili per l’ordinato svolgimento della stessa e per l’espletamento della funzione giurisdizionale nel suo complesso.
La limitazione della normale libertà di movimento, alla base del concetto stesso di isolamento delle zone interessate e della generale necessità di evitare assembramenti o concentrazioni di persone pure nel senso di contatti interpersonali non indispensabili, induce a ritenere comprese nel divieto tutte le attività funzionali a quelle giurisdizionali che comportino queste ultime attraverso la riunione o il contatto ad hoc di più operatori della giustizia, siano essi lavoratori del settore o utenti a qualsiasi titolo, a prescindere dal loro espletamento o meno in una sequenza procedimentale definibile a stretto rigore come udienza.
Si noti, a differenza di tutti gli altri settori, è espressamente previsto il differimento di un’attività che viene indicata come il fulcro o comunque il momento pregnante dell’attività gli effetti negativi dell’epidemia sulla quale si vogliono contenere: si tratta quindi non di fermare la giustizia.
In sostanza, può sostenersi che non trova applicazione, nella specie, il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, il quale potrebbe, a prima lettura, indurre a ritenere operante la sospensione secca e generalizzata per tutte le attività giurisdizionali che non si espletano in udienza, questa intesa nel classico senso di quella tenuta dal giudice in pubblico.
Infatti, in senso contrario potrebbe già osservarsi che la stessa norma, prevedendo eccezioni ai rinvii, si riferisce ad ipotesi in cui sicuramente l’attività non si espleta in udienza, ma in un’adunanza, come nel caso dei subprocedimenti per la sospensione dell’efficacia esecutiva delle sentenze di appello, di cui all’art. 373 cod. proc. civ., il quale prevede un procedimento camerale: pertanto, poiché l’audizione dei difensori in un’adunanza camerale non dà luogo ad un’udienza, un simile riferimento evidenzia che il blocco riguarda tutta l’attività decisionale degli uffici salve le eccezioni espressamente indicate.
La norma relativa alla giustizia civile, quindi, pur riferendosi alle udienze, non si limita ad esse.
Si deve anzi ritenere che, come le udienze, siano rinviate a dopo il 22 marzo 2020 tutte le attività ad esse assimilabili e se del caso previste per la peculiarità del singolo rito: come, ad esempio, le adunanze in camera di consiglio.
Di queste è evidente l’assimilabilità alle udienze classiche, quando siano, come di regola, aperte alla partecipazione delle parti.
Ma ad eguale conclusione, sia pure all’esito di un’interpretazione teleologica della norma e che non si fermi al tenore testuale della medesima, può giungersi anche per il caso, tipico del giudizio di legittimità dopo la riforma del 2016, in cui esse siano precluse alle parti e sia impossibile una loro tenuta con modalità da remoto o telematiche, poiché comportano anch’esse la riunione, altrimenti non dovuta, di giudici – oltretutto, negli uffici a giurisdizione nazionale, anche provenienti da più zone d’Italia ed implicanti spostamenti pure di lungo raggio, rischiosi per la diffusione del contagio, a danno non solo dei diretti interessati, ma anche dell’indefinita indistinta massa di persone con cui sono costretti a mettersi in contatto negli spostamenti, oltretutto in presenza di ordinanze restrittive anche per l’ingresso nel Lazio – ed altri operatori della cancelleria, per la movimentazione e la disamina dei fascicoli.
Anche le attività giurisdizionali in senso lato connesse alle udienze, quali le operazioni materiali delle custodie o delle curatele o delle vendite giudiziarie implicanti contatti con soggetti estranei al processo e non per fini o doveri istituzionali o a tutela di diritti fondamentali, che non sono espletate in udienze né formalmente, né sostanzialmente definibili tali: tutte quelle implicano una potenzialità di riunione, cioè di contatti tra più persone, non altrimenti dovuta e sono comunque riconducibili all’attività giurisdizionale e devono qualificarsi in blocco comprese nel rinvio, se non altro per venire incontro alle esigenze indotte dall’emergenza e dall’incertezza che ne deriva, come pure per far fronte ai disagi ed all’evidente perturbazione che si sta producendo sul mercato.
Sono correlativamente sospesi tutti i termini processuali; e, ove il loro decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso deve considerarsi differito alla fine di detto periodo.
Viene quindi inserita una disposizione di raccordo, con il richiamo – per tutti i processi e quindi anche quelli civili – all’articolo 2, comma 5, destinato ad operare nei procedimenti nei quali le udienze sono rinviate, quanto allo scomputo del periodo di rinvio ai fini del calcolo dei termini di ragionevole durata del processo ai sensi della c.d. legge Pinto.
3. Le eccezioni.
Minuziosa è la serie di eccezioni, che coinvolgono sostanzialmente quei procedimenti civili relativi a diritti fondamentali rispetto ai quali nemmeno l’epidemia dovrebbe poter prevalere a nessun costo; esse sono individuate mediante il richiamo operato dall’art. 1, co. 1, del decreto legge all’art. 2, co. 2, lett. g), n. 1; e si possono distinguere in eccezioni ope legis e ope iudicis.
Le prime, per le quali comunque potrebbe comunque occorrere un provvedimento ricognitivo o dichiarativo da parte del giudice, visto qualche margine di discrezionalità nella loro individuazione, sono:
a) le cause di competenza del Tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio;
b) le cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità;
c) i procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona;
d) i procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori, e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute;
e) i procedimenti relativi agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale ex art. 35 L. 23 dicembre 1978, n. 833;
f) i procedimenti relativi all’interruzione di gravidanza ex art. 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194;
g) i procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari;
h) i procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea.
i) i procedimenti di cui agli artt. 283 (provvedimenti sull'esecuzione provvisoria in appello), 351 (provvedimenti sull’esecuzione provvisoria) e 373 (sospensione dell’esecuzione) cod. proc. civ.
La seconda tipologia di eccezioni, necessariamente rimessa ad un provvedimento del giudice, riguarda invece tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti: in tal caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile.
Anche in questa evenienza la finalità generalizzata di protezione sottesa al decreto legge dovrebbe indurre a ritenere ragionevole l’interpretazione più ampia possibile, al fine di non aggravare una situazione di incertezza ed agevolare, comunque, con una stasi la più generalizzata possibile, il contenimento dei disagi da impossibilità di ordinario funzionamento dei servizi essenziali e, spesso, perfino da difficoltà nella stessa organizzazione delle proprie ordinarie attività quotidiane da parte di un numero elevato di individui.
Rimane impregiudicato, beninteso, il problema dell’interazione con la normativa eccezionale non solo della previgente già dettata dall’art. 10 del d.l. 2 marzo 2020, n. 9, limitata peraltro alle sole zone più colpite dall’epidemia, ma pure – se non soprattutto – con la disciplina generale in tema di rimessione in termini. Dovrebbe essere rientrata, invece, ogni ragione di contrasto fondata sulle deliberazioni di astensione dalle udienze di alcuni organismi sindacali forensi, vista la revoca deliberata dall’Organismo Congressuale Forense nella tarda serata di ieri.
Solo una volta passato il periodo cuscinetto potrà adeguatamente valutarsi fino a che punto il clima di incertezza, del quale è ozioso adesso ricercare cause o proporre interpretazioni, sia stato di per sé, oltre che un danno all’ordinato espletamento della funzione giurisdizionale, anche un elemento di concreta perturbazione del diritto di difesa del singolo: per questo, però, bisognerà attendere che l’uragano passi.
4. Cenno alle ricadute.
Solo un cenno, per la complessità delle implicazioni, alle ricadute organizzative per il civile del decreto legge per il periodo successivo a quello acuto o di contenimento dello sfondamento.
Il periodo cuscinetto è infatti espressamente inteso come finalizzato a progettare il regime post-emergenziale, ma adattandolo alle conseguenze di quello che minaccia di divenire un alterato stato di fatto cronico per un periodo che non si era forse mai sospettato potesse presentarsi dai termini imprevedibili.
Insomma, cessato il periodo di sospensione generalizzata (ferme le eccezioni previste), viene consegnato ai dirigenti degli uffici giudiziari il compito e la responsabilità, previa interlocuzione con l’autorità sanitaria e l’avvocatura, di adottare misure organizzative, anche incidenti sulla trattazione dei procedimenti, caso per caso valutate necessarie sulla scorta delle emergenze epidemiologiche certificate nel territorio di riferimento.
Non è questa la sede per riflettere sui rischi di una frammentazione così ampia degli interventi di vera e propria riprogettazione o ricostruzione post-emergenziale del sistema Giustizia: e certamente va respinta l’idea semplicistica che l’effetto parrebbe essere quella di affidare ad una pletora di ufficiali intermedi il compito di gestire alla bell’e meglio le ostilità, salvo il moderato coordinamento che l’intesa col presidente della corte d’appello potrebbe almeno tentare di instaurare.
La necessaria diversificazione degli interventi ben potrebbe essere adottata appunto a livello almeno regionale per uniformità ed omogeneità coi centri decisionali in materia sanitaria, affidando un compito non solo di coordinamento, ma di diretta decisione dopo avere sentito i dirigenti dei singoli uffici, ai presidenti delle corti di appello (o i procuratori generali presso le medesime) aventi sede nel capoluogo di Regione (con la sola eccezione della Valle d’Aosta, dove l’interlocuzione dovrebbe aver luogo necessariamente col presidente del tribunale di quel capoluogo, di intesa col presidente della corte d’appello territorialmente competente ma avente sede, come è noto, in altra Regione e cioè a Torino; e fermo restando il carattere autocefalo della competenza di Corte suprema di Cassazione e Procura generale della Repubblica presso la stessa).
Comunque, le misure affidate ai dirigenti degli uffici giudiziari, destinate ad operare in un periodo molto più ampio (e cioè, allo stato, fino al 31 maggio 2020), sono caratterizzate da una notevole elasticità, al fine di evitare, ove non indispensabile e non richiesto dalla condizione sanitaria contingente, l’interruzione dell’attività giudiziaria; e restano ferme quelle del già emanato decreto-legge n. 9 del 2020, con le quali la potestà fondata dal decreto legge in commento concorre.
All’adozione delle misure dovrà farsi precedere la valutazione delle emergenze epidemiologiche da parte dell’autorità sanitaria regionale e nazionale, il cui previo parere è obbligatorio, insieme a quello . Per tale motivo viene previsto che quest’ultima autorità, a livello regionale, debba essere sentita unitamente alla rappresentanza dell’avvocatura.
I capi degli uffici – o, auspicabilmente, almeno i Capi di corte – potranno, per il civile:
a) limitare l'accesso del pubblico agli uffici giudiziari, garantendo comunque l'accesso alle persone che debbono svolgervi attività urgenti;
b) limitare, sentito il dirigente amministrativo, l'orario di apertura al pubblico degli uffici anche in deroga a quanto disposto dalle disposizioni vigenti, ovvero, in via residuale e solo per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico;
c) regolamentare l’accesso ai servizi, previa prenotazione, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, nonché l'adozione di ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento;
d) adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze;
e) disporre la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell'articolo 128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche;
f) prevedere lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia; tuttavia, si prevede che lo svolgimento dell'udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti
g) prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 31 maggio 2020 nei procedimenti civili e penali, con le stesse eccezioni già esaminate per il rinvio generalizzato del periodo cuscinetto;
h) disporre lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice.
Proprio quest’ultimo spunto è foriero di grandi opportunità e, forse, potrà cogliersi un’occasione preziosa per l’implementazione decisiva del processo civile telematico negli uffici dove già opera o per la sua introduzione, finalmente, dove ancora non c’è (come ad esempio la Corte suprema di Cassazione …).
Ma una più approfondita analisi di quanto reso possibile da questa legislazione chiaramente emergenziale va riservata ad un successivo momento, fin d’ora potendo auspicarsi soltanto che da una sciagura come questa epidemia senza precedenti possano non derivare esclusivamente conseguenze nefaste e che anzi possa essere lo spunto per uno sforzo congiunto senza precedenti, per risollevarsi, insieme, con il Paese e la sua Giustizia.
Esiste la nullità derivata? La complessa questione della nullità delle fideiussioni omnibus conformi allo schema Abi.
di Ginevra Iacobelli
E’ questione che sta animando la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, quella della sorte del contratto di fideiussione omnibus conforme al modello predisposto dall’ABI contenente, secondo la Banca d’Italia, disposizioni in contrasto con l’art. 2 co. 2 lett. a L. 287/90 in quanto lesive della concorrenza. A fronte di orientamento granitico che, riconducendo l’intesa ad un comportamento, rileva la violazione di una norma di comportamento che legittima il risarcimento del danno, si fa sempre più insistente l’idea che vuole affetto da nullità il contratto di fideussione che ricalca il modello ABI.
sommario: 1. I rapporti tra intesa anticoncorrenziale accertata e sanzionata e contratti a valle che danno attuazione a quell’intesa.- 2. La discussa questione del contratto di fideiussione omnibus che ricalca il modello predisposto dall’ABI.
1. I rapporti tra intesa anticoncorrenziale accertata e sanzionata e contratti a valle che danno attuazione a quell’intesa.
È noto che il legislatore interno con la Legge 287/90 recante “ Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” ha individuato e disciplinato due principali forme di violazione della concorrenza che, a loro volta, si traducono in una alterazione del mercato.
Esse sono le intese restrittive della concorrenza( art. 2 l. 287/90 ) e l’abuso di posizione dominante ( art. 3 l.287/90).
Le dette disposizioni hanno lo scopo di impedire che le imprese, singolarmente o congiuntamente, pregiudichino la regolare competizione economica mediante intese restrittive della concorrenza, abusi di posizione dominante e concentrazioni idonee a restringere o falsare in maniera consistente il mercato nazionale.
In particolare, l’art. 2, co. 3 della legge specifica che “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”.
Tuttavia, nulla viene detto dalla legislazione nazionale circa le conseguenze civilistiche che la violazione del diritto antitrust riverbera sugli atti negoziali conclusi a valle dai terzi con le imprese colluse .
Ciò ha indotto la dottrina a domandarsi se tale assenza possa considerarsi una scelta consapevole del legislatore, volta di fatto ad evitare che le conseguenze negative della intesa anticoncorrenziale si estendano anche al rapporto contrattuale sottostante, o se, invece, non si tratti di alcuna lacuna posto che il problema dell’eventuale alterazione della concorrenza, realizzata in conseguenza delle intese restrittive, può agevolmente risolversi facendo ricorso agli strumenti civilistici in materia di invalidità negoziale di cui all’art. 1418 c.c.
Già in dottrina, ancor prima che in giurisprudenza, sulla questione si sono sviluppate diverse tesi che producono, a tutti gli effetti, soluzioni differenti.
Le varie teorie possono essere distinte secondo una massima linea di discrimen: secondo alcuni la violazione del diritto antitrust comporta quale conseguenza diretta la nullità del contratto; altro orientamento, invece, esclude la possibilità di individuare una categoria di “nullità derivata” e riporta la questione nel novero della responsabilità.
L’orientamento che propende, generalmente, per la nullità dei contratti “a valle” di intese vietate muove dalla convinzione che sposare una diversa soluzione significherebbe vanificare gli obiettivi avuti di mira dal legislatore con l’emanazione della disciplina antitrust, anche in ragione dell’approdo giurisprudenziale, recepito poi dal D.lgs 3/2017, secondo cui le norme a tutela della concorrenza e del mercato sono norme che tutelano anche il consumatore.
Tuttavia, gli argomenti contrari alla nullità sono diversi e numerosi.
Preliminarmente, per affermare la nullità dei contratti a valle di intese anticoncorrenziali occorre l’individuazione di una norma.
Taluni, per arrivare a dichiarare la nullità dei contratti a valle fanno riferimento ad un meccanismo invalidante che, muovendo dal vizio “esogeno” dell’illecito anticoncorrenziale a monte, a sua volta si trasmette sull’accordo sottostante.
Altra ricostruzione, invece, prova a far riferimento ad un vizio “endogeno”, interno cioè al contratto a valle dell’intesa, che possa riguardare la causa o l’oggetto del rapporto sottostante. In tal senso, la nullità del rapporto a valle non potrebbe qualificarsi come una patologia derivata dell’intesa a monte, ma deriverebbe da un vizio proprio dell’atto.
Entrambi gli orientamenti, a ben vedere, muovono dall’idea di un vizio derivato.
Anche coloro che ritengono possibile individuare un vizio endogeno al contratto riconducono la nullità del contratto a valle alla illiceità di uno dei requisiti costituitivi del contratto ex art. 1325 c.c..
Secondo questa ricostruzione, l’accordo stipulato in conseguenza della violazione di una norma antitrust si caratterizza per avere una autonoma causa illecita e pertanto non persegue un interesse meritevole di tutela.
La teoria della “nullità derivata”, seppur nelle sue differenti sfumature, poggia sulla circostanza che esiste un nesso di causalità tra l’intesa anticoncorrenziale ed i conseguenti contratti in forza della quale, in applicazione del principio simul stabunt simul cadent, questi ultimi verrebbero travolti a cascata dall’invalidità di cui all’art. 2 co.3 L. 287/90.
Tuttavia, si contesta che non è possibile applicare il principio simul stabunt simul cadent, ossia il principio secondo cui, venuto meno l'accordo a monte, verrebbe automaticamente travolto anche l'accordo a valle, perché si dice che il principio simul stabunt simul cadent riguarda comunque casi eccezionali in cui c'è un collegamento “forte” tra i due contratti che, normalmente, richiede l'identità delle parti, qui assente.
È vero che, talvolta, si rinviene un collegamento negoziale anche fra accordi non tra le stesse parti, ma questo richiede che ci sia, sotto il profilo oggettivo, una unitarietà funzionale, cioè che questi accordi oggettivamente perseguano, al di là della loro funzione specifica, una ulteriore funzione unitaria e cioè siano oggettivamente e teleologicamente orientati a realizzare un risultato unitario, che è il presupposto oggettivo del collegamento negoziale; si richiede, poi, un presupposto soggettivo al collegamento negoziale, cioè che ci sia una condivisione del risultato unitario e, quindi, la volontà da parte di tutti, specie laddove le parti dei due contratti non coincidono, di concorrere alla realizzazione di questo risultato unitario.
È, allora, difficile applicare il principio simul stabunt simul cadent alla questione dei contratti a valle di intese anticoncorrenziali perché non si può ritenere che, tra i protagonisti dell'intesa a valle e le parti del contratto a monte, ci sia questa connessione funzionale e teleologica: il consumatore è estraneo ed è anche inconsapevole ed è assente una volontà preordinata ed unitariamente rivolta alla realizzazione di un risultato ulteriore.
Affermare, quindi, che l'accertamento della nullità dell’intesa anticoncorrenziale determini per ciò solo la nullità e il travolgimento del contratto a monte che non è collegato in senso tecnico, rappresenta un'affermazione non facilmente sostenibile.
Alcuni, invero, hanno provato a sostenere l’esistenza di una nullità virtuale per violazione di norme imperative.
Tuttavia, è proprio muovendo da questa teoria che si innesta l’orientamento, ad oggi ancora maggioritario in dottrina e giurisprudenza,
Nell'ottica della distinzione, propria della teoria del contratto, tra regole di comportamento e regole di validità, queste saranno anche norme imperative, ma sono norme imperative che vietano un comportamento anticoncorrenziale che normalmente si inserisce prima della conclusione di un contratto individuale, nella fase che precede la conclusione dello stesso. Non v'è dubbio che un comportamento anticoncorrenziale, che precede la conclusione di un contratto individuale, non determina per ciò solo la nullità del medesimo, ma dà luogo ad un illecito tipico della fase precontrattuale.
Un’azione di nullità del contratto, anche sotto il profilo della illiceità per violazione di norme imperative, è difficilmente configurabile proprio perché si tratta di regole di correttezza precontrattuale: sono regole comportamentali, non sono norme che vietano il contratto o il suo contenuto.
Più chiaramente, la norma imperativa vieta l'intesa, non vieta il contratto a valle, vieta il coordinarsi per produrre effetti anti-concorrenziali, ma non vieta la conclusione di un singolo contratto, né dispone nulla in ordine alla sorte di quel contratto.
Questo rilievo è sufficiente per escludere la nullità negoziale per violazione di norme imperative.
Affermare in generale il principio di nullità del contratto a valle, soltanto perché a monte c'è stata una violazione anti-concorrenziale, sembra, allora, non trovare rispondenza nelle varie forme di nullità che il nostro ordinamento conosce:
2. La discussa questione del contratto di fideiussione omnibus che ricalca il modello predisposto dall’ABI.
Nel luglio del 2003, l’Associazione Bancaria Italiana (d’ora in poi ABI) ha fornito alle banche uno schema di contratto di fideiussione omnibus di tredici articoli disciplinanti in misura dettagliata i vari aspetti del costituendo rapporto contrattuale tra banca e fideiussore.
Nel maggio 2005, la Banca d’Italia, sulla scorta del parere del 20.4.2005 dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCOM), definiva il procedimento istruttorio volto ad accertare se le previsioni del testo A.B.I. fossero o meno lesive della concorrenza.
Con il provvedimento n. 55 del 2005 sulle “Condizioni generali di contratto per la Fideiussione” la Banca d’Italia riteneva che gli articoli 2, 6 e 8 del testo A.B.I. per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contenessero disposizioni che, ove applicate in modo uniforme, risultavano in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della legge n. 287/90.
Le clausole ritenute abusive sono la numero 2. “il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”; la numero 6. “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”; e la numero 8. “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato”.
Così chiarito, le intese indicate negli artt. 2, 6, e 8 del testo A.B.I. sono frutto di intese vietate, quindi, nulle.
La questione riguarda, allora, gli effetti della nullità delle intese sui contratti di fideiussione che recepiscono il modello.
Come chiarito in via generale, la soluzione non è espressamente individuata dal legislatore e il compito di sbrogliare il nodo gordiano è, ancora una volta, lasciato all’interprete, chiamato a dirimere la controversia facendo ricorso agli strumenti civilistici in materia di nullità.
Orientamento, che pare ancora maggioritario anche tra i Tribunali di merito[1], afferma con convinzione l’impossibilità di configurare un vizio di “nullità derivata” e individua nel risarcimento del danno l’unico rimedio a tutela del contraente, parte debole, in linea con la distinzione, cara e nota alla giurisprudenza, tra regole di validità e regole di comportamento[2].
Nello stesso senso, già le Sezioni Unite avevano chiarito che “non è configurabile una nullità “derivata”, fattispecie non prevista dall’ordinamento, di talchè l’unica tutela concessa al soggetto rimasto estraneo alla intesa anti-concorrenziale che abbia allegato e dimostrato un pregiudizio, ad essa conseguente, è quella risarcitoria (Cass S.U. n. 2207/2005)
Piuttosto, si afferma che “Il divieto rinvenentesi dalla normativa antitrust non incide in maniera diretta sul contenuto degli atti negoziali, ma su un comportamento che si pone a monte di questi e non si rinviene alcun vincolo di dipendenza funzionale o, quantomeno, un collegamento negoziale oggettivamente apprezzabile tra l’intesa anticoncorrenziale ed il singolo negozio. Peraltro nei contratti di fideiussione non vi è alcun oggettivo richiamo alla deliberazione dell’associazione di imprese bancarie di approvazione del modello standardizzato di fideiussione omnibus, né, men che meno, risulta che tale deliberazione abbia vincolato l’istituto di credito stipulante al rispetto dello schema ABI nella contrattazione con terzi. Si tratta invero, non di un vero e proprio accordo giuridicamente vincolante, bensì di una prassi il cui recepimento in uno schema contrattuale rientra nell’ambito della libertà negoziale delle parti.
I contratti fra la singola impresa ed il cliente derivano dall’autonomia privata dei contraenti, ovvero da una autonoma manifestazione di consenso da cui può discendere indubbiamente anche l’eventuale recepimento all’interno del regolamento contrattuale delle singole clausole riproduttive dell’illecita determinazione, ma la circostanza che l’impresa collusa uniformi al programma anticoncorrenziale le manifestazioni della propria autonomia privata, non appare sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragione pratica …”.
Di recedente, però, la Cassazione con sentenza n. 13846 del 2019, riprendendo una decisione del 2017, ha affermato che le fideiussioni prestate a garanzia delle operazioni bancarie redatte su modulo uniforme ABI sono totalmente nulle in quanto violano il divieto delle intese anticoncorrenziali previsto dall’art. 2, comma 2, lett. a) della L. 287/1990.
La questione, invero, si fa più complessa: nel campo di chi propende per la tesi della nullità del contratto fideiussorio a valle, si fa sempre più insistente un diverso orientamento che ritiene che i contratti di fideiussione che riprendono il modulo ABI sono affetti da nullità parziale ai sensi dell’art. 1419 c.c. : rimangono, quindi, perfettamente validi ed efficaci tra le parti in quanto le clausole dichiarate nulle non incidono né sulla struttura, né sulla causa del contratto medesimo (Cass. 2204/2019).
La nullità parziale, come è noto, determina la nullità totale in estensione se risulta che le parti, senza le clausole colpite da nullità, non avrebbero concluso il contratto: in questo caso, si sostiene che il garante avrebbe comunque concluso il contratto anche senza quelle clausole, perché avrebbe avuto una garanzia meno gravosa. La banca tra l'alternativa di non avere una garanzia o di averla con clausole più svantaggiose, quindi con la reviviscenza, con l’estensione ad altre obbligazione, la deroga ai termini, sicuramente avrebbe comunque accettato di avere la garanzia.
Invero, l’affermazione di cui sopra per cui la banca preferisce comunque avere una garanzia rispetto al non averla è oggetto di critica.
Il ragionamento risulta semplicistico. Esso può essere vero a posteriori nelle condizioni odierne, non è invece vero ex ante, quando la banca avrebbe dovuto fare i conti con la concorrenza e con la possibilità di ristrutturare le condizioni a cui offriva il credito, prima ancora che le garanzie. Quanto al punto di vista del cliente, considerata la non funzionalità delle clausole e la conseguente varietà di offerte che avrebbe potuto trovare sul mercato, non esiste alcuna certezza che il contratto mutilato avrebbe potuto rappresentare la migliore opzione a sua disposizione.
È perciò da ritenere, in conclusione, che un contratto identico a quello stipulato, ma privo della parte colpita nullità, da una parte non sarebbe stato probabilmente offerto e dall'altra non è detto che sarebbe stato accettato.
La questione è ancora molto discussa ed è probabilmente necessario l’intervento delle Sezioni Unite.
Si fa strada un orientamento per cui le esigenze di protezione della concorrenza, valorizzate dal diritto antitrust, operano nel senso di rendere illeciti atti e comportamenti che sarebbero, altrimenti, intrinsecamente leciti. Del resto, l’art. 2 della legge 287/90, all’ultimo comma, dichiara che le intese vietate sono nulle “ad ogni effetto” e potrebbe probabilmente ritenersi che tra questi effetti possa annoverarsi proprio la conclusione del contratto a valle.
La soluzione che propende per la nullità delle intese, ma la validità dei contratti in sua esecuzione, si sostiene non essere nemmeno conforme alle intenzioni del legislatore e sicuramente non tiene conto degli interessi in gioco.
Del resto, anche la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento appare già messa in dubbio dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale[3] e la stessa qualifica delle norme antitrust quali semplici norme di comportamento è stata di recente ritenuto del tutto insoddisfacente[4] : “Lo scopo di queste norme non è semplicemente quello di esigere prestazioni (come nel caso ad es. dei doveri di informazione) ma è quello di pretendere dei risultati (un mercato in cui la concorrenza non sia falsata) e di escluderne altri (un mercato in cui la concorrenza sia limitata). In questa prospettiva il semplice risarcimento dei danni può anche soddisfare le esigenze di protezione delle singole vittime, ma sicuramente non tutela l'interesse generale alla presenza di mercati efficienti che è il bene giuridico principalmente tutelato dal diritto antitrust”
[1] Ex multis, di recente, Tribunale di Sondrio, sentenza n. 498 del 2019
[2] Tribunale di Napoli, Giudice Paolo Andrea Vassallo, ordinanza del 17.10.2019
[3] Corte Cost. 77/2014 in materia di riduzione della caparra confirmatoria manifestamente eccessiva
[4] ABF Milano del 22.10.2018
Giustizia e Mito di Marta Cartabia e Luciano Violante
Recensione di Emilia Senatore
Giustizia e Mito è un’opera che permette al lettore, attraverso un linguaggio semplice, ma mai scontato, di esaminare i dilemmi della società attuale nell’amministrazione della giustizia attraverso l’analisi della tragedia greca, nei due capolavori di Sofocle, Edipo Re ed Antigone.
I due autori, Marta Cartabia, attuale Presidente della Corte Costituzionale, nonché professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università Milano-Bicocca e Luciano Violante, già professore di Diritto e Procedura penale, magistrato e parlamentare, Presidente della Camera dei deputati dal 1996 al 2001, indagano dapprima autonomamente, ciascuno in un proprio capitolo, il rapporto nonché l’apporto che la tragedia greca può dare alla società moderna e successivamente, ovvero nell’ultimo capitolo, a due voci rispondono congiuntamente ad alcuni quesiti che vengono loro posti.
L’opera, dunque, offre al giurista un’ulteriore opportunità di analisi delle due note tragedie greche: sebbene la tragedia greca sia tutt’altra cosa rispetto al dibattito giuridico è pur vero che essa ha ad oggetto l’uomo che in prima persona vive quel dibattito, quelle contraddizioni.
Le vicende narrate sia in Edipo Re che in Antigone invitano, pertanto, ad una profonda riflessione sull’idea del diritto ed in particolare sull’idea di giustizia intesa sia come istanza di purificazione della società sia come esigenza primaria insita nel cuore umano.
Il primo capitolo, scritto dalla giurista Marta Cartabia, analizza la tragedia di Edipo. Questa opera, certamente nota per i numerosi dibattiti e le contrastanti teorie sul c.d. complesso di Edipo, accende l’attenzione dell’attuale presidentessa della Corte costituzionale perché nella stessa si ricorre al metodo giudiziario. Il fine è l’accertamento della verità nonché la corretta ricostruzione degli eventi al fine di emettere una dichiarazione di responsabilità. Il problema di Edipo è il problema che ricorre nel processo penale: il raggiungimento della verità storica. In particolare, quest’opera impone due ordini di riflessioni. Il primo approfondimento attiene al tema della imputabilità del protagonista per i duplici delitti da lui compiuti, attesa la sua qualifica di uomo di governo. Edipo, nonostante uccida il padre, consumi un rapporto incestuoso con la madre, si accechi e si condanni all’esilio, viene considerato un eroe, seppur tragico. Le sue azioni sono tutte finalizzate alla tutela della polis. Sofocle mette in scena il mistero dell’insuccesso, della rovina e della condanna non motivata da colpa, come condizione inevitabile dell’agire umano. Edipo è il classico esempio di uomo innocente, che nel suo fare il bene è colpito dalla fatalità del destino. In lui si ravvisa l’oblio della condizione umana che, non accettando i suoi limiti, spinge l’uomo ad oltrepassarli per eccesso di forza, di giovinezza, di fiducia in se stesso o di grandezza. Proprio questa condizione di Edipo impone il parallelismo con la società moderna che si realizza nella tentazione di corrompere la democrazia. Il fondamento democratico ovvero le smisurate ambizioni democratiche rischiano, talvolta, di favorire la tirannia o decisioni popolari dannose.
La seconda riflessione riguarda il rapporto tra verità e giustizia. Nella tragedia di Sofocle, Edipo è contestualmente legislatore, inquisitore e giudice. Come giudice, anche di se stesso, egli dà vita ad una giustizia affidabile, rigorosa, intransigente che determina altresì violenza. I mali della giustizia, su cui induce a riflette il protagonista dell’opera, non sono soltanto quelli causati dalla fallibilità di chi la amministra ma anche da un cattivo uso dell’esercizio del potere giudiziario. La giustizia è sempre una espressione di forza; dunque, la legge, applicata in uno Stato, è la manifestazione del giusto equilibrio tra giustizia e forza e, paradossalmente, la stessa legge prende in prestito dalla violenza le azioni che intende combattere. Ovviamente un ordinamento che pone una legge astrattamente perfetta corre il rischio di generare solo violenza: non a caso il grande giurista Cicerone insegnava: summum ius, summa iniuria; fiat iustitia et pereat mundus.
Da qui la necessità di una giustizia ragionevole, proporzionata, imperfetta, consapevole che quest’ultima nelle vicende umane è una meta sempre da raggiungere. Invero principio cardine delle Costituzioni moderne è proprio il principio di ragionevolezza. Le Corti costituzionali insegnano, infatti, che per la risoluzione delle controversie è necessario contemperare esigenze contrapposte, bilanciando e tutelando in egual modo i diversi interessi tutti meritevoli di tutela.
Un altro aspetto affrontato nell’opera è il difetto di conoscenza di cui è vittima Edipo. Non c’è colpevolezza nel suo agere ma solo un grave errore sul piano conoscitivo che determina un vizio di origine nel processo. La modernità del dramma del protagonista è, quindi, data dalla contrapposizione tra la verità storica e oggettiva e la verità soggettiva.
Orbene, tutto ciò premesso l’insegnamento ai giuristi dato dalla parabola di Edipo, secondo la Cartabia è l’accettazione dei limiti dell’essere umano, i quali possono essere superati solo attraverso una conoscenza fatta di esperienze: dal conoscere viene la prudenza nell’agire. Solo tramite una maggiore consapevolezza di se stesso l’uomo può giungere ad una saggezza che si dischiude in una fiduciosa quiete.
Il secondo capitolo, scritto da Luciano Violante, analizza il mito di Antigone.
Antigone rappresenta la donna ribelle, appassionata dell’impossibile. Lei è doppiamente trasgressiva: non solo disobbedisce all’editto di Creonte, ma abbandona anche il suo status di donna. Rappresenta il dissenso fondato su un imperativo etico, la personificazione della giustizia contro la legge morale. Ecco perché diviene nel corso del tempo il mito del femminismo e della rivolta dell’individuo contro lo Stato. Il conflitto che Antigone istaura è solo inizialmente giuridico, opposizione tra legge umana e legge divina, poi diventa progressivamente un conflitto politico allorquando Creonte dimostra con chiarezza l’incompatibilità della pretesa di Antigone con l’ordinato svolgersi della vita della città umana. Diventa un’eroina, trasformandosi in mito, nel momento in cui risolvendo il dilemma si suicida.
Tuttavia non sempre l’oppositore è portatore di un nuovo domani e non sempre l’uomo di governo è un subdolo tiranno in quanto la realtà politica non è un linea retta, ma bensì è un poligono con molte facce.
La tragedia di Antigone, al pari della storia di Prometeo o di Icaro o di Fetonte, insegna che nel corso del conflitto bisogna sempre ricordare quale sia la causa iniziale dello stesso altrimenti il conflitto si alimenta in altre motivazioni e diventa impossibile risolverlo razionalmente. La sconfitta di Creonte si consuma allorquando nessuno più rammenta il crimine commesso da Polinice e, prerogativa principale, è se mandare a morte una giovane donna, che ha provveduto alla sepoltura del fratello.
La pietas si sostituisce alla legge.
Ciò posto, l’insegnamento dato dalla tragedia di Antigone è che affinché un ordinamento giuridico possa progredire è necessaria la continua tensione tra la legge e la sua negazione, facendo prevalere in alcune circostanze la legge morale sulla legge positiva. Si pensi agli orrori commessi dal terzo Reich. Il ruolo di Antigone è rappresentato dai vincitori della seconda guerra mondiale. In realtà gli imputati avevano solo obbedito ed applicato la legge del loro paese. Invero, quei processi hanno rappresentato la svolta per la tutela dei diritti umani e dello sviluppo del diritto penale internazionale. Dunque, affinché gli ordinamenti moderni realizzino il giusto equilibrio tra legge morale e legge positiva è necessario che sia riconosciuta l’obiezione di coscienza, l’eccezione di costituzionalità, la negoziazione e la trattativa con i dissenzienti al fine di trovare una via d’uscita consensuale che mitighi il conflitto.
L’opera si chiude con un ultimo capitolo scritto a due voci dove ciascun autore esprime il suo pensiero circa alcuni quesiti che vengono loro posti come l’importanza dello scontro, l’interpretazione della norma che fa evolvere l’ordinamento, il rapporto che intercorre tra il processo penale ed il teatro e, partendo dalle tragedie di Sofocle, l'indagine sugli spunti che queste ultime offrono nel trattamento della pena e della riconciliazione.
In conclusione si può, dunque, sostenere che il passato è una grande fonte di ispirazione e di insegnamento. Già nella tragedia greca venivano trattati quelli che si configurano dilemmi attuali del diritto. Nonostante l’evoluzione giuridica e le diverse garanzie costituzionali riconosciute a livello internazionale, essi riaffiorano continuamente nelle società moderne. Dunque rifacendoci all’insegnamento di Confucio solo attraverso lo studio del passato si potrà prevedere il futuro. L’amministrazione della giustizia, seppur espressione del principio di legalità, rispecchia in ogni tempo i conflitti con la tradizione morale e religiosa: mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente peccatore o interamente santo.
Prescrizione e ragionevole durata del processo di Nello Nappi
Sommario: 1. Criteri di ragionevolezza- 2. Prevenzione e sanzione della durata irragionevole del processo- 3. Abusi della difesa- 4. Abusi dell’accusa- 5. Sanzioni disciplinari- 6. Riforma del processo penale
1. Criteri di ragionevolezza
L’appassionato dibattito in corso sul tema della prescrizione del reato risulta a mio avviso viziato da un fraintendimento, perché impropriamente sovrapposto al tema della ragionevole durata del processo.
Benché la questione sia tanto controversa, sono almeno due le solide ragioni per cui occorre ben distinguere il termine di prescrizione del reato dal termine di ragionevole durata del processo.
Innanzitutto il doveroso riconoscimento all’imputato della facoltà di rinunciare alla prescrizione esclude ogni possibilità di individuare il termine di prescrizione come termine di ragionevole durata del processo. È evidente infatti che non può essere considerata nella totale disponibilità dell’imputato la durata del processo, come non lo è ad esempio l’uso di «metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti» (art. 188 c.p.p.).
E’ vero che l’art. 111 comma 3 Cost. riconosce all’imputato il diritto a disporre «del tempo e delle altre condizioni necessarie per preparare la sua difesa»; ma l’imputato ha appunto diritto solo al «tempo necessario», che va determinato in base a criteri legali oggettivi. Anzi, proprio perché, a norma dell’art. 6 comma 1 CEDU, lo Stato può rispondere nei confronti di qualsiasi parte privata per una durata irragionevole del processo, ne consegue che nessuna parte può essere considerata “padrona” di tale durata.
In secondo luogo il termine di prescrizione è commisurato alla gravità del reato, tanto che alcuni delitti più gravi sono imprescrittibili. Mentre è evidente che non sempre alla maggiore gravità del reato corrisponde una maggiore complessità del giudizio; e che anche per i reati imprescrittibili si pone un’esigenza di ragionevole durata del processo. Sicché può accadere che per un reato più grave il termine di prescrizione permetta una durata del processo eccessiva rispetto alle effettive esigenze di accertamento, mentre per un reato meno grave i tempi concessi dal termine di prescrizione risultino inadeguati rispetto alla complessità dell’accertamento e non permettano di pervenire tempestivamente a una decisione sul merito.
Non la gravità del reato ma altri sono dunque i criteri di ragionevolezza della durata del processo penale.
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto alla celerità del giudizio deve essere contemperato con il principio del contraddittorio, considerando la complessità del caso, la condotta delle parti, il comportamento delle autorità.
Ne consegue che i termini di ragionevole durata del processo non possono essere rigidamente predeterminati in astratto, ma vanno verificati in concreto, tenendo conto dell’effettivo svolgimento di ogni singolo procedimento.
Non si può omettere di considerare tuttavia che nella nostra esperienza giudiziaria la prescrizione del reato funge di fatto da limite temporale dei processi, le cui cadenze vengono programmate appunto in ragione dell’esigenza di concludere il giudizio prima che il reato si estingua, ove possibile. Ma questa è solo una manifestazione della patologica inefficienza del nostro sistema giudiziario, costretto a rinunciare a una decisione sul merito non ottenibile in tempi ragionevoli. E che si tratti di una patologia è dimostrato dal fatto che l’esigenza di assicurare «la priorità assoluta» ai giudizi relativi ai reati considerati più gravi (art. 132 bis disp. att. c.p.p.) è in palese contraddizione con la necessità di condizionare al consenso dell’imputato il conseguente differimento dei processi per i reati meno gravi con la connessa sospensione del corso della prescrizione (art. 2 ter 23 maggio 2008 n. 92).
Qualsiasi intervento riformatore sulla disciplina della prescrizione andrebbe invece valutato con riferimento alla ratio di questa causa di non punibilità.
Si ritiene infatti che il decorso del tempo eroda progressivamente le stesse ragioni di una risposta sanzionatoria al reato. Ed è in questo dissolversi delle ragioni della pena il fondamento della prescrizione: rispetto alla funzione di prevenzione generale, perché l’oblio rende inutile l’accertamento della responsabilità; rispetto alla funzione di prevenzione speciale, perché il tempo fa mutare la personalità del reo; rispetto alla funzione retributiva della pena, per la connessione del termine di prescrizione con la gravità del reato.
Sicché è in questa prospettiva che occorre stabilire se sia accettabile che la prescrizione decorra anche dopo una prima decisione sul fondamento dell’accusa.
2. Prevenzione e sanzione della durata irragionevole del processo
La sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado evita dunque che si concluda con un sostanziale non liquet un processo già pervenuto a una prima decisione sul merito. Comporta però la conseguenza di privare di fatto di un predeterminato limite di durata i processi penali.
All’imputato che ha subito un processo di durata non ragionevole non rimane che l’azione ex art. 2 legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto).
Tuttavia l’art. 111 comma 2 Cost. esige per la durata del processo un termine ragionevole; non un termine quale che sia. E nulla autorizza ad affermare che quello di prescrizione del reato sia un termine ragionevole di durata del processo. Mentre inducono a ritenere che la ragionevolezza della durata di un processo possa essere valutata solo ex post sia i criteri indicati dalla giurisprudenza di Strasburgo sia l’art. 2 comma 2 della legge n. 89 del 2001, laddove prescrive che, «nell'accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione». Infatti l’art. 2 comma 2 ter della legge n. 89 del 2001, pur prevedendo che «si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni», non esclude che anche una durata maggiore possa essere considerata ragionevole in applicazione dei suddetti criteri.
La complessità della causa deve essere dunque tale da non consentire un più rapido accertamento dei fatti, come ad esempio avviene invece per i casi in cui vi fu arresto in flagranza di reato. Il comportamento dell’imputato può essere valutato solo se si manifesti in condotte meramente dilatorie od ostruzionistiche, perché l’imputato non è tenuto a collaborare con l’autorità giudiziaria. Il comportamento delle autorità, infine, deve essere valutato secondo il criterio che solo situazioni eccezionali e transitorie possono esimere lo Stato dalla responsabilità per la violazione del dovere di organizzare con efficienza l’amministrazione della giustizia.
In realtà l’art. 111 comma 2 Cost. impone di valutare la ragionevolezza non della durata di un singolo procedimento, bensì di una o più norme processuali idonee, già in astratto, a incidere sui tempi del processo, escludendo comunque che possano essere poste in discussione le garanzie previste dalla stessa Costituzione nella definizione del modello di “giusto processo”.
L’art. 111 comma 2 Cost. impone dunque al legislatore di assicurare la ragionevole durata del processo. L’art. 6 CEDU, stabilisce al primo comma che «ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole». E nel darvi piena attuazione, l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, riconosce il diritto a un’equa riparazione a chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto del mancato rispetto di tale termine ragionevole.
A questa duplicità delle fonti normative corrisponde una radicale diversità di prospettive, che ha una notevole rilevanza anche pratica, perché una ragionevole disciplina dei tempi del processo non esclude di per sé la possibilità che singoli procedimenti abbiano durate irragionevoli.
Infatti i tempi della giustizia dipendono in misura determinante an-che dall’efficienza dell’organizzazione giudiziaria: dalla disponibilità di mezzi adeguati come dalla cultura e correttezza dei magistrati. Sicché anche in un ordinamento in cui il processo è ben regolato lo Stato può trovarsi a rispondere dei danni cagionati da un procedimento protrattosi oltre i limiti della ragionevole durata, ad esempio a causa della mancanza di personale o della scarsa laboriosità dei giudici.
La norma costituzionale si rivolge al legislatore, con una direttiva di conformazione della disciplina del processo. La norma sovranazionale e la legge che le dà attuazione si rivolgono alla persona e le riconoscono un diritto tutelabile per via giudiziaria nei confronti dello Stato.
L’azione ex art. 2 legge n. 89 del 2001 è intesa così ad accertare ex post se quel singolo procedimento abbia avuto una durata effettivamente irragionevole, allo scopo di riconoscere eventualmente un’indennità alla parte interessata.
Conviene perciò distinguere tra le misure destinate a prevenire l’irragionevole protrarsi della durata del processo dalle misure destinate a sanzionarne una durata risultata eccessiva. E una volta escluso che l’estinzione del reato per prescrizione possa essere così intesa, un’adeguata sanzione per l’irragionevole protrarsi del processo potrebbe essere considerata, oltre alla già prevista indennità ex legge n. 89 del 2001, una proporzionale riduzione della pena irrogata, come previsto in Germania. Lo stesso riconoscimento dell’equa riparazione potrebbe essere attribuito al giudice penale che definisce tardivamente il giudizio, anziché a un ulteriore giudizio.
3. Abusi della difesa
Riguardata nella prospettiva della durata ragionevole del processo, la sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado può essere annoverata tra le misure destinate a favorire una più rapida conclusione del giudizio, perché previene un possibile abuso del processo, che peraltro precluderebbe lo stesso riconoscimento della riparazione per durata irragionevole (art. 2 comma 2 quinquies, lettera d, legge n. 89/2001).
Infatti l’abuso del processo, che tradisce sul piano funzionale le dichiarate esigenze di correttezza e completezza dell’accertamento giurisdizionale, comporta un prolungamento dei tempi che è irragionevole per definizione e viola quindi il principio della ragionevole durata.
Rimuovendo un possibile traguardo di strategie dilatorie, la sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado previene dunque la strumentalizzazione del regime delle impugnazioni. E’ dunque una misura utile; ma non insostituibile.
Una possibile alternativa sarebbe quella della estensione della manifesta infondatezza quale motivo di inammissibilità anche dell’appello oltre che del ricorso per cassazione. La dichiarazione di inammissibilità dell’appello manifestamente infondato precluderebbe infatti la possibilità di rilevare la prescrizione sopravvenuta al giudizio di primo grado; e potrebbe perciò scoraggiare le impugnazioni pretestuose, soprattutto se accompagnata a una sanzione pecuniaria.
Contro questa estensione all’appello della causa di inammissibilità già prevista per la cassazione si sostiene che la rilevanza della manifesta infondatezza, che attiene al merito, è incompatibile con la categoria dell’inammissibilità, che attiene alla validità del processo.
Ma l’obiezione non è condivisibile.
E’ vero infatti che l’inammissibilità è una specie di invalidità e attiene quindi al processo, mentre la valutazione circa il fondamento dell’appello attiene al merito.
Ma la qualificazione dell’infondatezza manifesta come causa di inammissibilità intende appunto sanzionare di invalidità l’impugnazione che si «manifesti» come un abuso del processo.
Del resto la valutazione di manifesta infondatezza attiene al merito, non certo al processo, anche quando riguardi un ricorso per cassazione, se con il ricorso non vengano denunciati errores in procedendo. Sicché non è certo la distinzione tra giudizio di merito e giudizio di legittimità a poter precludere l’estensione all’appello della previsione di inammissibilità per manifesta infondatezza, posto che questa clausola antiabuso è già prevista per il ricorso per cassazione e ha dato ottimi risultati.
4. Abusi dell’accusa
Una misura utile a prevenire, o comunque vanificare, un abuso del processo da parte del pubblico ministero è prevista ora nel disegno di legge delega recentemente approvato dal Governo, dove si ammette la possibilità che il giudice «accerti la data di effettiva acquisizione della notizia di reato, ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari».
La ritardata iscrizione di una notizia di reato nell’apposito registro costituisce certamente un’ipotesi di abuso dei poteri del pubblico ministero, che incide sulla durata del procedimento. E in proposito è condivisibile la valutazione di inadeguatezza delle eventuali sanzioni disciplinari ipotizzabili a carico del magistrato, perché l’iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p. rileva ai soli fini della decorrenza del termine delle indagini preliminari, non rileva affatto ai fini della validità delle indagini compiute prima dell’iscrizione. Sicché, nel caso in cui l'iscrizione sia omessa o ritardata, non si determina alcuna invalidità, se non si consente al giudice di verificare ex post la tempestività dell’iscrizione.
Attualmente la giurisprudenza della Corte di cassazione si esprime in due enunciati sul punto: primo, che le iscrizioni delle notizie di reato nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p. richiedano un qualche fondamento probatorio; secondo, che l’eventuale abuso di questo potere di valutazione del fondamento probatorio legittimante all’iscrizione da parte del pubblico ministero non può essere sindacato dal giudice, all’interno del processo, ma va sindacato fuori del processo, sul piano disciplinare.
Non è condivisibile nessuna di queste affermazioni, che finiscono per favorire le condotte abusive di pubblici ministeri disinvolti, perché, anziché prevenire gli abusi, ne trasferiscono a un altro ipotetico giudizio la repressione, senza alcuna effettiva conseguenza sul piano processuale.
Innanzitutto, se l’iscrizione della notizia di reato serve a far decorrere il termine per gli accertamenti sul fondamento dell’accusa, non si può dire che le notizie non vanno iscritte prima di una verifica del loro fondamento. E' un abuso del processo che vi siano accertamenti sul fondamento di una notizia di reato prima dell’iscrizione da cui decorre il termine per quegli stessi accertamenti. Ed è inutile che si distingua in proposito tra sospetto e indizio, perché, se non si impone l’iscrizione prima di qualsiasi verifica, si finisce appunto per legittimare l’abuso.
Chiunque venga indicato come autore di un reato deve essere iscritto nello stesso momento in cui una tale indicazione sia manifestata.
Mentre in realtà questa giurisprudenza tende a salvaguardare gli interessi di chi non vuole essere iscritto prematuramente per il timore di una diffusione della notizia dell’iscrizione. Ma è l’abusiva diffusione delle notizie riservate che va sanzionata sul piano disciplinare; non l’abuso del processo, che pregiudica le garanzie anche dell’indagato le cui vicende non interessino la pubblica opinione.
Quanto alla seconda affermazione, è una vera assurdità che non debba essere il giudice del processo a sindacarne l’eventuale abuso: un giudice disciplinare, che non è quello del processo di cui si discute, deve stabilire, spesso a distanza di anni, se fu tempestiva l’iscrizione relativa a un’indagine penale, di cui dovrebbe per di più acquisire tutti gli atti, per potersi esprimere con qualche attendibilità.
E’ il giudice del processo che ha il dovere di accertare quando dovesse essere iscritta la notizia di reato, perché, se il pubblico ministero l’ha iscritta in ritardo, si retrodata la iscrizione; e risulta così inutilizzabile tutto ciò che è stato fatto oltre il termine che sarebbe dovuto decorrere dal momento in cui la iscrizione doveva avvenire.
Non si comprende perché non debba essere il giudice del processo a stabilire se è inutilizzabile o meno un atto processuale, ma della questione debba poi occuparsi il giudice disciplinare.
A questa assurdità consente di porre rimedio la proposta del Governo.
5. Sanzioni disciplinari
All’ambito delle misure destinate a prevenire gli abusi o comunque le negligenze incidenti sulla durata del processo dovrebbe essere ascritto anche il complesso ventaglio di illeciti disciplinari previsti nella proposta governativa. Tuttavia anche in questo caso la sanzione disciplinare può fungere da deterrente rispetto ad abusi e comportamenti negligenti, ma non offre rimedi all’irragionevole protrarsi del procedimento.
D’altra parte l’efficacia dello strumento disciplinare, attivabile solo in caso di negligenza inescusabile, presuppone che vi sia un significativo numero di ritardi imputabili ai magistrati del pubblico ministero o ai giudici. E non pare che si disponga di dati indicativi in tal senso. Sicché non è prevedibile un’effettiva e comunque apprezzabile incidenza dello strumento disciplinare sulla durata dei procedimenti.
Vanno ciò nondimeno valutati positivamente sia il previsto riconoscimento alle parti di una facoltà di sollecitazione sia l’attribuzione al CSM del potere di diversificare i termini massimi di durata dei procedimenti in rapporto alle effettive situazioni di ciascun ufficio, anche in considerazione della natura e della complessità dei procedimenti pendenti.
6. Riforma del processo penale
E’ evidente tuttavia che, oltre a prevenirne la durata irragionevole, occorre disciplinare il processo in modo da favorirne una più rapida definizione.
In questa prospettiva sono significativi gli interventi programmati dal Governo. Manca però un’adeguata considerazione del ruolo che potrebbe assumere la magistratura onoraria.
Il 19 marzo 1998 fu varata una delle più importanti riforme del sistema giudiziario, la «istituzione del giudice unico di primo grado», con l'abolizione dell'ufficio di pretura.
Tuttavia l'unificazione degli uffici giudiziari di primo grado fu solo parziale, perché un autonomo grado di giudizio fu attribuito alla competenza del giudice di pace.
Il pretore, uscito dalla porta, rientrò trasfigurato dalla finestra.
Ora sembra si sia compreso che occorre inglobare le diverse figure di magistrati onorari nel tribunale, reso così giudice effettivamente unico di primo grado.
Tramontata l'ideologia di un giudice di pace amministratore di un'indefinita giustizia alternativa, è ormai chiaro che la magistratura onoraria deve avere un ruolo integrativo, non sostitutivo, di quella togata. Al giudice onorario va affidato un procedimento speciale di primo grado, applicabile in particolare a tutti gli illeciti minori, sia amministrativi sia penali.
Infatti il modello del procedimento speciale affidato al giudice onorario dovrebbe essere appunto quello monitorio, con un contraddittorio sulle prove desumibili dagli atti delle indagini di parte, esclusa ogni attività istruttoria dinanzi al giudice.
Le sentenze di condanna pronunciate dal giudice onorario potrebbero essere opponibili dinanzi al tribunale monocratico, che, pronunciando con sentenza inappellabile, potrebbe applicare in ogni caso una sanzione anche diversa e più grave di quella fissata nella decisione opposta e revocare i benefici già concessi.
Diverrebbe così davvero proficua la stessa depenalizzazione, evitando che la sostituzione della sanzione amministrativa a quella penale si risolva in una mera partita di giro, con il trasferimento delle competenze dal tavolo del giudice penale a quello del giudice civile.
La crisi del sistema giudiziario italiano nasce soprattutto da un eccesso di domanda.
Per far fronte a questo eccesso, occorre operare in due direzioni: accrescere il numero dei magistrati onorari chiamati a decidere le controversie minori; disincentivare le impugnazioni nei casi di minore rilevanza della controversia.
La direttiva del 18 marzo 2019 del Ministro dell'interno per il coordinamento unificato dell'attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell'immigrazione illegale: considerazioni (anche) alla luce del diritto internazionale del mare
di Ilaria Tani
Nella disamina delle previsioni del diritto internazionale del mare rilevanti per i temi dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo e del soccorso in mare, e in un’ottica di valutazione della relativa applicazione da parte dell’Italia, può essere utile un esame della direttiva del Ministro dell’interno del 18 marzo 2019 per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell’immigrazione illegale, rubricata al N. 14100/141(8). A tale direttiva, di portata generale, ne erano, com’è noto, succedute altre tre, riguardanti le specifiche condotte delle navi Alan Kurdi, Mare Jonio e Sea Watch 3 e rispettivamente datate 4 aprile, 15 aprile e 15 maggio 2019.
La funzione delle direttive consiste nel regolare la condotta degli uffici pubblici, incidendo sulla struttura dei procedimenti. Si tratta di atti di indirizzo per la pubblica amministrazione che, in questo caso, hanno inteso incidere sull’organizzazione delle azioni di contrasto “reattivo” all’immigrazione irregolare.
L’emanazione della direttiva del 18 marzo è stata criticata, preliminarmente con l’argomento che il Ministro dell’interno avrebbe travalicato i propri poteri, invadendo quelli di altri Ministri (in particolare, quelli della difesa e delle infrastrutture). Eppure, la direttiva in questione è stata emanata nell’ambito di attribuzioni tipiche del Ministro dell’interno, in quanto riferite all’ordine pubblico e alla sicurezza, che rispondono a una funzione “conservativa” e, tradizionalmente, intrinsecamente connessa all’esercizio della sovranità dello Stato, fatti ovviamente salvi gli obblighi che derivano dal diritto internazionale.
L’estensione delle attribuzioni del Ministro dell’interno su personale che appartiene ad altri Ministeri è storicamente derivata dall’evoluzione delle norme che riguardano la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. In questo contesto, l’amministrazione statale, nonché le amministrazioni regionali e locali per la polizia amministrativa, possono adottare misure sia preventive, sia repressive.[1] In generale, le attribuzioni relative all’ordine pubblico e alla sicurezza sono affidate all’Amministrazione della pubblica sicurezza, che opera sotto la responsabilità del Ministero dell’interno.[2] A quest’ultimo, infatti, fanno capo, dal punto di vista funzionale, anche le autorità di pubblica sicurezza che appartengono ad altre forze di polizia (Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Capitanerie di Porto), che dipendono da altre amministrazioni, oltre alla Polizia di Stato, che è invece direttamente incardinata nel Ministero dell’interno e ne costituisce la struttura operativa.
L’oggetto dichiarato della direttiva in esame è il coordinamento unificato del controllo delle frontiere marittime e il contrasto dell’immigrazione illegale. L’art. 11, co. 1-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il T.U. in materia di immigrazione affidava – prima del decreto sicurezza-bis – solo al Ministro dell’interno (sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica) il potere di emanare le misure per tale coordinamento. “Coordinamento unificato” significa, appunto, potere di organizzazione delle diverse forze di polizia, anche appartenenti ad altre amministrazioni, al fine di conseguire gli scopi prefissati dalla legge.
Peraltro, l’art. 11, co. 1, del T.U. prevede espressamente, quale unica forma di collaborazione tra amministrazioni dello Stato, soltanto quella tra il Ministro dell’interno e il Ministro degli affari esteri, per l’adozione del «piano generale degli interventi per il potenziamento e il perfezionamento, anche attraverso l’automazione delle procedure, delle misure di controllo di rispettiva competenza». Tuttavia, le misure di potenziamento e di coordinamento dei controlli di frontiera descritte in generale dall’art. 11 – e sostenute dalla ratio complessiva del T.U. – sono dettate mediante le direttive del solo Ministro dell’interno.[3] La norma in commento, quindi, individua espressamente il Ministro dell’interno quale unica autorità competente all’emanazione delle direttive relative al potenziamento e al coordinamento dei controlli di frontiera; coordinamento che è, perciò, esteso espressamente anche alle autorità marittime e militari, seppur dipendenti da altre amministrazioni.
Quindi, ad avviso di chi scrive, e – si badi bene – solo sotto il profilo della paventata invasione nei poteri di altre amministrazioni, le contestazioni sollevate nei confronti della direttiva non hanno colto pienamente nel segno. Piuttosto, la direttiva doveva (e deve) essere censurata perché, nella fattispecie, il Ministro dell’interno ha utilizzato il proprio potere per fini diversi da quelli per i quali gli è attribuito dalla legge.
Innanzi tutto, il Ministro ha invitato le autorità di pubblica sicurezza ad «attenersi scrupolosamente» alle istruzioni contenute nella direttiva: allora, non si tratta più di un atto di indirizzo politico di carattere generale, che lascia al destinatario il dovuto margine di autonomia nella propria determinazione – come dovrebbe fare, appunto, una direttiva. In ciò può ravvisarsi un primo abuso: il Ministro non ha “coordinato”, come prevede il T.U., ma, in pratica, ha dato ordini, travalicando e strumentalizzando il potere che lo stesso T.U. gli conferisce.
In aggiunta, prendendo le mosse dal «poliedrico approccio della dimensione interna della politica di migrazione, della tutela delle frontiere esterne dell’UE e del rafforzamento dell’azione di contrasto al traffico dei migranti», la direttiva, in un’oggettiva eterogenesi dei fini, confonde in un coacervo indistinto le norme relative alla salvaguardia della vita umana in mare con la necessità di scongiurare il rischio che «nel gruppo di migranti possano celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico».
La direttiva censura la condotta delle navi umanitarie, considerando il loro passaggio nelle acque territoriali italiane come potenzialmente “non inoffensivo” ai sensi dell’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982; in seguito: UNCLOS). Tale circostanza consentirebbe allo Stato costiero di “intraprendere tutte le azioni necessarie a impedire un passaggio che non è inoffensivo” (art. 25, par.1, dell’UNCLOS), come, per esempio, intimare alla nave di sospendere una determinata condotta ovvero di abbandonare il mare territoriale. La conseguenza, infatti, è consistita nell’istruzione, rivolta dal Ministro dell’interno a tutte le autorità di pubblica sicurezza, di allontanare dal mare territoriale italiano le imbarcazioni che trasportino migranti soccorsi in qualsiasi zona del Mediterraneo.
Si è fatto, in realtà, un uso strumentale della norma internazionale. L’art. 19, par. 2, lett. g), dell’UNCLOS prevede, in realtà, che il passaggio di una nave straniera nel mare territoriale possa essere considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se tale nave mette in atto la seguente azione (per quanto qui interessa): «the loading or unloading of any … person contrary to customs, fiscal, immigration or sanitary laws and regulations of the coastal State». Tuttavia, la fattispecie non è in nessun caso riscontrabile in capo alle navi umanitarie che abbiano soccorso persone (sia pure migranti) in mare e che si trovino a navigare nelle acque territoriali italiane, finanche allo scopo di richiedere l’ingresso nel relativo porto. Questo risulta evidente dalla formulazione della norma.
Le navi umanitarie non imbarcano (loading), né sbarcano (unloading) alcuna persona nel mare territoriale italiano violando le leggi e i regolamenti citati dalla norma in commento: le persone sono, infatti, soccorse al di fuori delle acque italiane e non sono fatte sbarcare dalla nave durante il passaggio nel mare territoriale, in violazione della norma in commento (per esempio, accompagnando le persone a terra contro le istruzioni della polizia di frontiera o fornendole di più piccole imbarcazioni per raggiungere la costa clandestinamente, in violazione delle leggi e dei regolamenti dello Stato costiero). Le persone soccorse – che innanzi tutto, giuridicamente, sono naufraghi, prima che migranti – vengono mantenute a bordo per tutto il momento del passaggio nel mare territoriale e fino all’esito della legittima richiesta, rivolta dal comandante di una nave che ha effettuato un soccorso, alle competenti autorità della frontiera marittima più vicina (e che sia anche sicura per le persone a bordo, naturalmente). La posizione dello Stato costiero, allertato della situazione dalla stessa nave che ospita a bordo le persone in questione, non è pregiudicata: lo Stato, infatti, mantiene ogni potere di decisione circa la valutazione della situazione della nave e delle persone a bordo. La norma internazionale, pertanto, non offre la base giuridica per intimare l’allontanamento di una nave che non pregiudica, con la sua condotta, la pace, il buon ordine o la sicurezza dello Stato costiero. Nessuna delle azioni finora poste in essere dalle navi umanitarie, non comportando sbarchi illegali o clandestini, può dirsi riflettere i presupposti dell’art. 19, par. 2, lett. g), dell’UNCLOS necessari a rendere pregiudizievole la mera presenza della nave straniera nel mare territoriale italiano.
Si aggiunga che l’art. 24, par. 1, dell’UNCLOS, dispone che «lo Stato costiero non deve ostacolare il passaggio inoffensivo delle navi straniere attraverso il mare territoriale, salvo nei casi previsti dalla Convenzione. In particolare, … lo Stato non deve: a) imporre alle navi straniere obblighi che abbiano l’effetto pratico di impedire o limitare il diritto di passaggio inoffensivo; oppure b) esercitare discriminazioni di diritto o di fatto contro navi di qualunque Stato …». È evidente che un divieto di ingresso e di passaggio nelle acque territoriali italiane applicato esclusivamente nei confronti di navi che trasportano migranti è in flagrante violazione della norma citata, fatta salva ogni ulteriore considerazione relativa alla violazione da parte dell’Italia dell’obbligo di garantire che un soccorso in mare si concluda positivamente.
Ancora, l’art. 25, par. 3, dell’UNCLOS, prevede che «lo Stato costiero può, senza stabilire una discriminazione di diritto o di fatto tra le navi straniere, sospendere temporaneamente il passaggio inoffensivo di navi straniere in zone specifiche del suo mare territoriale quando tale sospensione sia indispensabile per la protezione della propria sicurezza, ivi comprese le esercitazioni con armi». Come si vede, le condizioni che lo Stato costiero deve rispettare perché la sospensione del diritto di passaggio di navi straniere nel proprio mare territoriale sia legittima sono quattro. La sospensione deve riguardare tutti (non può riguardare solo le navi umanitarie); può essere solo temporanea, non permanente; può riguardare solo zone specifiche del mare territoriale, debitamente indicate; e deve risultare come misura indispensabile per la protezione della sicurezza dello Stato costiero. Essendo finalizzata a escludere dal diritto di passaggio inoffensivo solo le navi umanitarie in tutte le acque territoriali italiane e non comportando una misura indispensabile alla sicurezza dello Stato costiero, la direttiva del Ministro dell’interno si pone in evidente contrasto, sotto almeno tre aspetti, con il diritto internazionale del mare relativo agli obblighi (art. 24 dell’UNCLOS) e ai diritti di protezione (art. 25 dell’UNCLOS) dello Stato costiero.
Sempre in punto di puro diritto del mare, in quanto Stato vincolato alle disposizioni dell’UNCLOS, l’Italia, con un richiamo e un impiego strumentale delle norme sul passaggio inoffensivo, peraltro in netta contravvenzione al dettato internazionale, commette anche una violazione dell’art. 300 dello stesso strumento, in base al quale «gli Stati contraenti devono adempiere in buona fede gli obblighi assunti a termini della presente Convenzione ed esercitare i diritti, le competenze e le libertà riconosciuti dalla presente Convenzione in un modo tale che non costituisca un abuso di diritto».
Le istruzioni rivolte alle autorità di pubblica sicurezza dalla direttiva in commento si pongono, inoltre, in netto contrasto con tutto il diritto internazionale applicabile al soccorso in mare, anche solo per l’ovvia conseguenza di impedire che un soccorso possa concludersi con l’arrivo sulla terraferma; nonché con il diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati, perché la direttiva istruisce le autorità di pubblica sicurezza a veri e propri respingimenti collettivi, che pregiudicano l’esame delle domande individuali di protezione internazionale e l’esame dello status di potenziali rifugiati e asilanti.
Ma non solo. Anche volendo far ricadere sulle navi umanitarie il sospetto di un coinvolgimento nel traffico illecito di migranti e, quindi, nell’ottica di perseguirne la repressione, la direttiva contrasta anche con il diritto interno. L’art. 12, co. 9-bis, del T.U. dispone, infatti, che «la nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato». L’accompagnamento della nave in un porto italiano non solo è teso a consentire di verificare se la nave sia effettivamente coinvolta in un traffico illecito di migranti ovvero abbia solo prestato soccorso a migranti in pericolo in mare (che sono due cose ben diverse), ma tale accompagnamento in porto è anche volto ad assicurare che, in ogni caso, le persone soccorse raggiungano un luogo sicuro in cui possano essere identificate a ogni conseguente effetto. È proprio sotto questo profilo che la motivazione della direttiva presenta i suoi aspetti più illogici e contraddittori. Rispetto alla direttiva, l’art. 12, co. 9-bis, del T.U. è certamente più in sintonia con il complesso di norme del diritto internazionale, che includono non soltanto poteri che lo Stato costiero utilizza per proteggersi secondo il diritto internazionale del mare, ma anche obblighi ai quali lo stesso Stato è soggetto al fine di salvaguardare la vita di chi è stato soccorso in mare. È una disposizione che rispetta entrambe le esigenze.
Oltretutto, nella maggior parte dei casi ai quali la direttiva si riferisce, la nave soccorritrice non tenta un ingresso illegale della frontiera, approdando clandestinamente in luoghi in cui i controlli delle autorità sono più difficili e tentando, in questo modo, di eluderli (per esempio, facendo approdare qualcuno di notte, su una spiaggia isolata), ma la nave soccorritrice dichiara la sua presenza nel mare territoriale e richiede formalmente alle competenti autorità l’ingresso alla frontiera marittima affinché possa concludersi, anzitutto, un soccorso e venga poi certamente esaminata la posizione delle persone a bordo – giova ribadirlo – a ogni conseguente effetto.
In altre parole, in tutti quei casi in cui, per opposte ragioni, si è destato l’allarme che ha indotto all’emanazione della direttiva in questione, non si versava nella situazione di persone che intenzionalmente tentavano di eludere i controlli alla frontiera. Anzi, era più che manifesta la volontà dei comandanti di condurre dei naufraghi alla frontiera marittima più vicina e sicura, perché fossero innanzi tutto messi in salvo, in quanto “naufraghi”, e poi identificati, potendo anche certamente rivolgere eventuali domande di protezione; domande il cui accoglimento o rigetto, con tutte le conseguenze del caso, resta – senza pregiudizio alcuno, è importante sottolinearlo – affidato alla normativa dello Stato. Le richieste di ingresso a una frontiera marittima affinché dei naufraghi siano sottoposti, oltre che alle cure conseguenti a un soccorso, anche a tutte le misure di sicurezza e di polizia eventuali, non pregiudica in alcun modo la posizione dello Stato costiero.
Ma anche in altro consistono la contraddittorietà e l’illogicità della direttiva, tali da evidenziare ancor di più lo sviamento di potere che la caratterizza. Infatti, la direttiva si presenta solo apparentemente come connotata dall’intento di contrastare, insieme all’immigrazione irregolare, anche il rischio dell’ingresso di “terroristi”.
Innanzi tutto, e a prescindere dal fatto che la rete del terrorismo internazionale si muove notoriamente attraverso canali diversi dal pericoloso attraversamento del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, il fatto che una persona fugga da un paese a rischio di terrorismo non significa di per sé che sia inevitabilmente un terrorista. L’argomento sostenuto nella direttiva resta peraltro privo di ogni fondamento probatorio, stando a quanto riferito (non già dalle organizzazioni umanitarie, ma) dalle stesse autorità destinatarie dell’atto. Addirittura nel culmine dell’emergenza umanitaria, pertanto in un momento in cui gli sbarchi erano di gran lunga superiori rispetto alla data della direttiva, il Comandante generale della Guardia di Finanza rispondeva «per ciò che concerne gli scafisti-terroristi, questo è un tema di cui si parla, ma solo per ipotesi. Non abbiamo prove che tra gli scafisti si nascondano i terroristi. Almeno finora, non abbiamo avuto nessun caso documentato».[4]
In secondo luogo, e soprattutto, per svolgere allora un’azione davvero preventiva rispetto al rischio dell’approdo di terroristi, sarebbe certamente preferibile che le persone sospettate e trovate nelle acque territoriali italiane (che è territorio dello Stato) fossero accompagnate in un porto e ivi identificate, piuttosto che semplicemente allontanate senza curarsi di dove andranno (magari a sbarcare clandestinamente sul territorio italiano o di altro Stato limitrofo, senza alcun controllo).
In altre parole, l’interesse pubblico prevalente, anche in termini di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, dovrebbe essere quello di condurre tutte le persone soccorse nel porto sicuro più vicino, nel quale non solo dei “naufraghi” verranno assistiti, ma in cui possono essere svolte anche tutte le indagini, al fine di verificare proprio quanto temuto dalla direttiva. La lotta al terrorismo su scala preventiva sicuramente non si giova di respingimenti di massa o di chiusura generalizzata di porti, in maniera immotivata e senza riferimento a prove concrete. Ricorrendo a misure generalizzate a danno di interi gruppi di individui, non solo si violano i diritti di questi individui, ma sembra che in realtà non ci si preoccupi neanche di accertare le reali intenzioni di soggetti che il Ministro dell’interno sospetta essere oggettivamente “pericolosi”. Piuttosto, in questo modo, si cade vittime di una «criminalizzazione discorsiva» a fini solo politici, che crea l’equivalenza tra “irregolare”, “criminale”, “terrorista”, e in cui «la dimensione linguistica della criminalizzazione gioca un ruolo essenziale nel plasmare un immaginario sociale che vede nel migrante irregolare una figura pericolosa».[5] E, in effetti, il termine “clandestino” è ormai un tipico esempio di categoria collettiva che viene impiegata a scopo securitario.
A questo proposito, anche solo limitando il ragionamento al piano del diritto nazionale e prescindendo quindi dal fatto che il diritto internazionale pattizio vincolante per l’Italia – in particolare, il Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000)[6] – vieta espressamente che il migrante irregolare sia criminalizzato per la sua condizione, l’impiego che viene fatto dei termini “irregolare” e “clandestino” nel contesto di misure come questa direttiva è fuorviante anche ai sensi del diritto interno, perché un illecito amministrativo compiuto da chi risulta privo della documentazione adeguata per autorizzare la propria presenza sul territorio viene fatto rientrare in una fattispecie penale, in un costrutto linguistico semplificato che lascia intendere all’opinione pubblica che non si tratta di controllare gli ingressi irregolari di persone che di fatto sono in fuga da sciagure di varia natura, ma di combattere dei criminali, giustificando in tal modo una mobilitazione securitaria potenzialmente generalizzata. Questa criminalizzazione discorsiva di gruppi di individui, presente addirittura in atti di indirizzo delle amministrazioni dello Stato, corrisponde a una precisa scelta politica,[7] ma non è sostanziata da esigenze concrete di sicurezza nazionale.
Chi scrive coglie l’occasione della pubblicazione di questo intervento per ringraziare la Collega Avv. Paola Regina per l’invito a partecipare all’incontro Il mare dei diritti umani del 4 ottobre 2019 e, con lei, i Consiglieri e gli altri Componenti della Commissione Diritti Umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Prof.ssa Cecilia Corsi, Direttrice della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza, per la pubblicazione di un più ampio contributo di chi scrive, sul quale questo – più breve – intervento è stato ritagliato; e tutti i Colleghi presenti, tra i relatori e il pubblico, per le ulteriori riflessioni che i loro contributi hanno suscitato.
* Avvocato del Foro di Milano; già funzionario giuridico associato presso la Divisione Oceani e Diritto del Mare, Ufficio Affari Giuridici delle Nazioni Unite (New York, Stati Uniti); professore aggregato in “International Law of the Sea” presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[1] Art. 159, co. 2, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112.
[2] Legge 1 aprile 1981, n. 121.
[3] Il coordinamento e la sovrintendenza all’attuazione di tali direttive sono svolti dai prefetti delle province di confine terrestre e delle regioni interessate alla frontiera marittima, sentiti i questori e i dirigenti delle zone di polizia di frontiera, nonché le autorità marittime e militari e i responsabili degli organi di polizia (art. 11, co. 3, del T.U.).
[4] Così il comandante generale della Guardia di Finanza, generale Saverio Capolupo, nell’audizione del 20 maggio 2015 dinnanzi al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione.
[5] In proposito, E. Gremblo, Pericolo in movimento. I migranti e la produzione legale di illegalità, in Aut Aut, Individui pericolosi, società a rischio 2, n. 373, 2017, pp. 126-127.
[6] Ratificato dall’Italia il 2 agosto 2006.
[7] In proposito, L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, traduzione italiana di M. Guareschi, Milano, Feltrinelli, 2000.
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