ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Premio “Giulia Cavallone” – anno 2024
Oggi 4 ottobre 2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma 3, nell’ambito di un seminario sul tema “Procura europea e diritto di difesa transnazionale”, sarà conferito il premio “Giulia Cavallone” edizione 2024, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrata, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro la malattia. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Come è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in cotutela con l’Universitè Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e successivamente ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua scomparsa, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, sia il Tribunale di Roma, sia il Tribunale di Velletri, hanno deliberato di intitolarle le aule dove ella era solita tenere le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone “era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)”
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2024 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 4 ottobre 2024, è stato attribuito alla dottoressa Lavinia PARSI, dottoranda presso l’Università di Milano, relativamente al progetto di ricerca “Forced Displacement in International Criminal Law”.
La dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale propone di perfezionare presso l’Università di Berlino la ricerca sul trasferimento forzato delle popolazioni, esaminato nell’ottica del Diritto penale internazionale, in linea con gli argomenti affrontati sin dalla tesi di laurea che ha toccato i temi del diritto umanitario internazionale, con particolare attenzione all’applicazione del diritto nei conflitti armati.
Pur risultando l’interesse originario della dott.ssa PARSI concentrato sul conflitto palestinese, esso nel progetto di ricerca si è allargato ad altre manifestazioni contemporanee del forced displacement, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina e dal conflitto in Nagorno-Karabak, passando ad esaminare altri contesti, non necessariamente correlati a conflitti interstatali, come nel caso dei Rohingya e del Sudan. L’ampio spettro della ricerca consente di ritenere che l’indagine non sarà limitata al pur attualissimo tema del conflitto Israelo-palestinese.
Il progetto di ricerca mira a definire il quadro normativo degli atti di “forced displacement” ai sensi del diritto penale internazionale ed indagarne i profili critici e l’applicabilità in contesti odierni.
Particolarmente rilevante, nell’impostazione proposta, è l’indagine sull’impiego di combinazioni di politiche diverse, con le quali gli Stati possono violare il diritto internazionale. Considerando i fenomeni di cosiddetta “ingegneria demografica”, ossia le politiche di spostamento di civili utilizzate dagli Stati per alterare la composizione demografica di un determinato territorio, si osserva che l’obiettivo prefissato può essere perseguito attraverso diversi tipi di movimenti, come l’insediamento di una maggioranza in regioni abitate da minoranze, il trasferimento di gruppi minoritari all’interno di un territorio e l’espulsione di minoranze dallo Stato. Si argomenta nel progetto di ricerca che anche le modalità di attuazione possono essere diverse, spaziando da mezzi violenti a misure amministrative e politiche o a una combinazione di entrambi.
L’individuazione di metodi differenti correlati a contesti diversificati porta il progetto di ricerca a interrogarsi sull’adeguatezza delle previsioni normative che qualificano le condotte di trasferimento forzato. Infatti, le politiche innanzi menzionate pongono complesse questioni di individuazione della soglia di rilevanza penale e di definizione degli elementi costitutivi del reato, anche con riferimento ad altre ipotesi di delitti contro l’umanità, dal genocidio ai crimini di guerra.
È stato altresì giustamente segnalato dalla Commissione aggiudicatrice del Premio come, in parallelo all’attività di ricerca, vi sia nella vita della dott.ssa PARSI l’impegno continuativo nel promuovere nei fatti il sostegno alle vittime di gravi crimini. Ella infatti partecipa alla Clinica legale in diritto penale internazionale dell’Università degli Studi di Milano, occupandosi anche di casi concreti di potenziali violazioni. Tale impegno rimanda inevitabilmente a quello di Giulia Cavallone per l’emancipazione delle donne lavoratrici in Senegal, in un ideale passaggio di testimone nelle attività a favore dei soggetti più deboli.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo invito rivolto a tutti noi: “Siate giusti, siate gentili”.
Sospensione e decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura: una ricognizione, tra regole e principi.
di Andrea Apollonio
L'11 settembre 2024 è stato per la prima volta applicato ad un componente del Consiglio Superiore della Magistratura l'istituto della sospensione. Invero, gli studi sulla normativa che regola il funzionamento dell'organo di governo autonomo, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, lasciano spesso in ombra la (scarna) disciplina della sospensione e della decadenza, fino a ieri mai azionata. Eppure, l'art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che se ne propone una ricognizione, tra regole e principi, volta a superare per via interpretativa le numerose lacune di una normativa disarmonica, perché mai aggiornata.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo - 3. Sospensione e decadenza - 3.1. La ratio dei due istituti - 3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento» - 3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato - 3.4. Le vicende del procedimento penale - 3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento - 3.6. L’impugnativa della delibera - 4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati? - 5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive.
1. Premessa
Negli studi sulla normativa che regola il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, spesso sono superficialmente affrontati gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37: questi, in effetti, non riguardano il funzionamento ma – al contrario – una stasi dell'attività del governo autonomo della magistratura, che si traduce nel congelamento della funzione consiliare (la sospensione), fino ad arrivare alla sostituzione del componente del Consiglio (previa decadenza).
Si tratta di regole che, essendo relative a gravi fatti che fatalmente riverberano sulla funzione consiliare, e quindi a patologie del munus, sono risultate, fino a ieri, inutilizzate: una delibera di sospensione di un consigliere, ai sensi dell'art. 37, è stata per la prima volta emanata dal Consiglio Superiore l'11 settembre 2024.
E d'altro canto, nel recente (ed anche meno recente) passato, nei casi che avessero potuto giustificare l'applicazione dei poteri del plenum di cui all'art. 37 – con l'inserimento della relativa pratica nell'ordine del giorno, firmato come noto dal Presidente della Repubblica nella qualità di presidente dell'organo – si è fatto puntualmente ricorso alle dirette dimissioni dalla carica di consigliere, evitando così il delicato passaggio deliberativo[1].
Per altro verso, a stretto rigore nell'ambito dell'art. 37 non possono collocarsi quelle deliberazioni del plenumsollecitate dalla Commissione "verifica titoli" ai sensi dell'art. 33, che è nominata, nel corso della seduta di insediamento, dal Presidente della Repubblica; ritualmente convocata, quindi, ad inizio consiliatura e prima ancora del formale insediamento dei consiglieri (ad es., per un problema di incompatibilità non dichiarato al momento dell'elezione); ovvero convocata in un qualsiasi altro momento della vita consiliare (ad es. per sopravvenute incompatibilità di un consigliere). Casi in cui, ai sensi dell'art. 9 del Regolamento interno del CSM, si deve provvedere alla sostituzione del consigliere incompatibile.
Per queste ragioni, almeno nel recente (ed anche meno recente) passato, la disciplina in materia di sospensione e decadenza non ha mai operato, relegata in un cono d'ombra, tanto da risultare una delle poche "zone franche" non toccate dalla c.d. "riforma Cartabia", che ha profondamente innovato l'ordinamento giudiziario e la stessa legge n. 195/1958.
Ne consegue l'emersione – improvvisa – di una normativa disarmonica, che presenta molteplici problematiche, anche dettate dal mancato aggiornamento del raccordo con altri settori dell'ordinamento.
Eppure, la disciplina di cui all' art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che, anche alla luce della prima delibera di sospensione nella storia consiliare, se ne propone una ricognizione, tra regole e principi.
2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo
Con la legge 17 giugno 2022, n. 71, uno dei molti provvedimenti esecutivi della "riforma Cartabia", è stato inserito all'art. 1 della legge sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura un nuovo comma. Il capoverso della norma oggi dispone che «All'interno del Consiglio i componenti svolgono le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità».
Si tratta di un principio non certo innovativo, che tuttavia il legislatore ha inteso sancire per tabulas. Basterebbe invero richiamare una nota sentenza della Corte Costituzionale degli anni Ottanta[2], nella quale si ribadisce che essendo la funzione tipica del Consiglio quella di assicurare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, conseguentemente vanno a determinarsi in capo ai componenti «garanzie dirette a consentire la pienezza dei poteri nell'esercizio delle competenze attribuite in via esclusiva al Consiglio». Il quadro delle guarentigie – ma anche dei connessi doveri – in cui opera la magistratura è – circolarmente – pressoché lo stesso in cui opera il Consiglio Superiore, e questo perché, come si è segnalato in dottrina, «la struttura e la composizione del Consiglio sono funzionali all'esercizio dei poteri e delle competenze previste dall'art. 105, essendo peraltro queste ultime ordinate alla realizzazione dell'autonomia dell'ordine giudiziario ed alla indipendenza del giudice»[3].
Tornando però alla formulazione letterale dell'inciso introdotto dalla "riforma Cartabia", è interessante notare come si richiami da un lato l'indipendenza, guarentigia che la Costituzione attribuisce agli organi giurisdizionali (si guardi all' art. 104: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»), e dall'altro l'imparzialità, che connota tradizionalmente l'agere amministrativo (si guardi all'art. 97: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»). E anche qui pare sollevarsi un'altra grande questione di carattere generale, relativa alla natura "mista" dell'organo.
In questa sede, è sufficiente evidenziare che il Consiglio Superiore è organo di (alta) amministrazione nella misura in cui si determinano «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni» (art. 105), ed è giudice disciplinare laddove emana «provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (ancora ai sensi dell'art. 105); ma al tempo stesso, come è stato ricordato, «il contenuto tendenzialmente amministrativo delle sue funzioni e competenze, anche se intesa questa espressione in senso lato, [è] tale da non escludere incidenze politiche, sul piano dei rapporti tra poteri dello Stato»[4]; e, sul punto, basti pensare alla funzione deliberativa di pareri con riguardo all'amministrazione della giustizia[5].
Come ha di recente autorevolmente sintetizzato il Capo dello Stato, «attraverso l’esercizio trasparente ed efficiente del governo autonomo il Consiglio Superiore deve garantire, nel modo migliore, l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione; e deve assicurare agli uffici giudiziari il miglior livello di professionalità dei magistrati, che svolgono con impegno e dedizione la loro attività anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose»[6].
Per questa vasta congerie di delicate funzioni pubbliche, tale da non essere consentita alcuna assimilazione con altri enti collegiali, i consiglieri sono tenuti ad espletare il loro incarico con disciplina ed onore, come ogni cittadino cui sono «affidate funzioni pubbliche», ai sensi dell'art. 54 della Costituzione. Con disciplina e onore, e «in piena indipendenza e imparzialità», perché è dall'attività del singolo consigliere che passa il prestigio dell'istituzione consiliare.
Può certo essere considerata la vicinanza suggerita dalla stessa norma di nuovo conio, con lo status del magistrato che importa diritti e doveri di particolare rilievo ordinamentale, tanto da scavalcare la funzione giudiziaria e proiettarsi nella vita privata; può essere all'uopo richiamato quel principio, dall'ampia portata, che collega a sanzione disciplinare il magistrato che abbia tenuto «in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'Ordine giudiziario»[7].
Una indicazione, via via ripresa e aggiornata dalla giurisprudenza disciplinare e costituzionale, volta a preservare quel bene primario che è la fiducia che i cittadini ripongono – o dovrebbero riporre – nel sistema-giustizia: bene di pari rango rispetto al diritto-dovere dell'indipendenza da parte del magistrato, e al diritto-dovere dell'indipendenza del consigliere superiore: che si traduce in un più radicato dovere di imparzialità e terzietà laddove il consigliere eserciti la funzione disciplinare.
Una fiducia che, essa soltanto, è in grado di rendere credibile l'istituzione in cui si opera.
3. Sospensione e decadenza
3.1. La ratio dei due istituti
Rispetto a queste direttrici programmatiche, il legislatore del 1958 ha previsto alcune situazioni in cui il prestigio e il decoro dell'istituzione, la sua credibilità intrinseca, sembrerebbero messe a repentaglio dal comportamento del singolo consigliere, individuando al contempo quegli strumenti volti a ripristinare la piena funzionalità dell'organo in condizioni di autorevolezza. Per questa ragione, gli istituti della sospensione e della decadenza, da un lato possono essere assimilati alle sanzioni disciplinari per i magistrati (che presentano perlopiù un indubbio contenuto punitivo rispetto ad una censurabile condotta posta in essere nell'esercizio della funzione, o che sulla funzione si riverbera), e dall'altro sembrano condividere la ratio di un diverso istituto ordinamentale: il trasferimento per incompatibilità, che si applica ai magistrati «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità»[8]: di là di un giudizio di responsabilità personale, la norma presenta un contenuto ripristinatorio della piena funzionalità dell'organo giuridizionale e quindi, in una prospettiva più ampia, del prestigio dell'autorità giudiziaria, che non può essere offuscato da situazioni di sostanziale incompatibilità del magistrato.
È in questa cornice sistematica che possono essere illustrati i due istituti, entrambi contemplati all'art. 37 della legge n. 195/1958: norma che, pur dando attuazione al principio di piena e impregiudicata funzionalità del CSM di cui all'art. 108 Cost., è alquanto scarna.
Per tutti i membri del consesso si prevede infatti una sospensione facoltativa («possono essere sospesi dalla carica») ove «sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo», e una sospensione di diritto «quando contro di essi sia emesso ordine o mandato di cattura ovvero quando ne sia convalidato l'arresto per qualsiasi reato»; per i soli consiglieri togati vale inoltre la sospensione di diritto dalla carica «se sottoposti a procedimento disciplinare».
Si tratta di una chiara previsione cautelativa, laddove il comportamento del consigliere (nell'esercizio o meno delle sue funzioni) abbia consentito – al di fuori dell'ipotesi estrema dell'arresto – l'apertura di un procedimento, penale o disciplinare: si determina infatti, in questo caso, una situazione di sostanziale incompatibilità, tra il componente dell'organo di governo autonomo della magistratura e la magistratura stessa, chiamata a indagare e giudicare il consigliere sottoposto a procedimento penale; incompatibilità ancora più marcata nel caso in cui il magistrato sia sottoposto a procedimento disciplinare, innanzi allo stesso Consiglio Superiore, che giustifica in quest'ultimo caso una sospensione non facoltativa ma obbligatoria.
Può dirsi a questo punto, a meglio considerare il testo di legge, che il prestigio dell'istituzione è messo in pericolo dal deprecabile comportamento del singolo consigliere solo in via mediata, perché in via immediata – e sotto il profilo procedurale – soccorre l'incompatibilità della funzione consiliare rispetto all'esercizio della funzione giurisdizionale (ordinaria o disciplinare) sulla medesima persona, che può minare alla radice la credibilità del CSM rispetto ai suoi compiti e alle sue prerogative.
In questo senso, l'art. 37 sarebbe da leggere come una estensione delle ipotesi di incompatibilità previste all'art. 33: norma che, pur non indicando espressamente quale conseguenza dell'incompatibilità la decadenza, di fatto la determina; questo, anche a riprova della complementarità tra gli artt. 33 e 37.
Venendo quindi alla decadenza, essa deve in ogni caso pronunciarsi ex lege per quei consiglieri «condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo»; anche qui, per i soli consiglieri togati vale la decadenza di diritto dalla carica «se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento».
La legge non specifica se la decadenza (che logicamente può seguire la sospensione) sia ex tunc o ex nunc: ipotesi, quest'ultima, preferibile perché avvalorata dai principi generali dell'ordinamento, secondo i quali si prediligono in via ordinaria gli effetti giuridici ex nunc, riservando quelli ex tunc a casi eccezionali o a gravi patologie di atti o comportamenti, comunque indicati dalla legge.
Sotto l'aspetto procedurale, all' art. 9 del Regolamento interno del CSM si prevede che «nei casi previsti dall'art. 37 della legge 24 marzo 1958, n. 195, il consiglio delibera in ordine alla declaratoria di sospensione o di decadenza sulla base di una relazione del Comitato di presidenza»[9], completando così il secco enunciato della legge del 1958 («La sospensione e la decadenza sono deliberate dal Consiglio Superiore»), ove però si specifica che (soltanto) la sospensione facoltativa «è deliberata a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti». Sono dunque previste, in questo caso, garanzie procedurali forti per il singolo consigliere coinvolto, accentuando così l'importanza di una scelta politica (nel senso di governo dell'organo) in base alla valutazione – in via mediata – di fatti o condotte censurabili realizzate dal consigliere e posti a base di un procedimento (penale o disciplinare) e – in via immediata – della peculiare situazione di incompatibilità che si viene a creare.
Va sottolineato che, oltre quella in commento, l'altra previsione di legge di scrutinio segreto nell'ambito delle deliberazioni consiliari riguarda l'elezione dei componenti della sezione disciplinare: in entrambi i casi, la prassi consiliare che si è fin qui affermata preclude il dibattito, attesa la ristretta composizione dell'organo (che renderebbe palesi le intenzioni di voto) in uno con la delicatezza istituzionale del passaggio deliberativo[10].
In tutti gli altri casi (sospensione e decadenza "di diritto"), in assenza di una previsione di legge, la votazione sarà palese (con facoltà di esprimere le intenzioni di voto), a maggioranza semplice, con la peculiare regola di cui all'art. 5 («Le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti e, in caso di parità, prevale quello del Presidente»). Va tuttavia specificato che trattandosi di un effetto ope legis, la deliberazione rappresenterebbe, in questo caso, una mera presa d'atto – imposta dall'ordinamento – della sussistenza dei presupposti indicati dalla legge del 1958.
3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento»
Si è visto che la sospensione facoltativa si basa sul presupposto oggettivo dell’essere sottoposti a procedimento penale per un delitto non colposo. La legge del 1958 rinviava però ad un modello processuale diverso dall’attuale, puramente accusatorio, e in definitiva a un diverso codice di rito: il codice “Rocco” del 1930, soppiantato dall'attuale nel 1988. È dunque opportuno chiedersi se il «procedimento penale» cui fa riferimento l’art. 37 debba intendersi nel senso in cui oggi si intende il procedimento penale, che formalmente si avvia con la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato ai sensi dell’art. 335 cpp.
È indubbio che i due modelli siano profondamente diversi: una diversità palese fin dall’art. 1 del “vecchio” codice di rito, che dovendo individuare il momento di impulso del «procedimento» afferma: «L’azione penale è pubblica e, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza è iniziata d’ufficio a seguito a rapporto, a denuncia o ad altra notizia di reato». L’indagato in quanto tale (così come noi oggi lo intendiamo) non esisteva, trovava posto solo la qualità di imputato (sempre sulla scorta delle attuali categorie processuali), la quale, secondo l’autorevole dottrina del tempo, «si conserva fino al termine del procedimento»[11].
Se dunque nel “vecchio” rito il procedimento era unitario e si distingueva solo per fasi che gradualmenteconducevano al giudizio (l’esclusiva azione del pubblico ministero, l’intervento del giudice istruttore, la valutazione delle prove da parte del tribunale), non può negarsi il chiaro intendimento del legislatore storico di “suonare” un campanello d’allarme (creando i presupposti per la sospensione facoltativa) allorquando l’esercizio anche primigenio della giurisdizione penale riguardi un consigliere del Consiglio Superiore; e per la ragione – di sostanziale incompatibilità – sopra esposta.
È vero che l’azione penale si riferiva all’avvio formale del procedimento (e che la qualifica di indagato era in totoassimilata in quella di imputato): a contrario, potrebbe allora dirsi che per «procedimento» si intenda quella fase che oggi definiamo squisitamente processuale, che si avvia con la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio o l'adozione di provvedimenti d'impulso similari, che fanno dell'indagato un imputato. Ma è altrettanto vero che non si può trasporre il significato di un’azione processuale da un modello all’altro optando per il contenuto semantico più favorevole, a discapito della ratio legis. Il dato di legge rimane chiaro anche dopo l’intervento riformatore del 1988: e si riferisce all’avvio del procedimento, all'inizio delle indagini (il campanello d'allarme), e non alla (attuale) fase processuale avviata con l’esercizio dell’azione penale; atto processuale che d’altronde, nel codice del 1930, aveva un valore radicalmente diverso. Se la legge impone l'adozione di categorie giuridiche settoriali, quali quelle processuali, esse devono necessariamente essere calate nel contesto semantico da cui originano e nel quale si sviluppano; in assenza, s'intende, di qualsiasi interpretazione autentica proveniente dallo stesso legislatore.
Se dunque ai sensi dell’art. 37 si inverano i presupposti oggettivi della sospensione facoltativa allorquando il consigliere sia sottoposto a procedimento penale per un delitto non colposo, a partire quindi dalla formale iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato per una fattispecie dolosa, va svolta un’ulteriore riflessione sulla scorta della regola procedurale, recentemente introdotta dalla “riforma Cartabia”, di cui all’art. 335-bis cpp., con cui si stabilisce che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa.
Si potrebbe infatti obiettare che tale fattispecie (essendo lex posterior) abbia tacitamente abrogato tutte le norme che fanno discendere, dalla mera iscrizione, diretti effetti pregiudizievoli nella sfera dei diritti soggettivi. L’ordinamento presenta ipotesi di tal fatta, che ipso jure determinano effetti in malam partem: non è però il caso che ci occupa.
L’art. 37, in punto di sospensione facoltativa, non determina in via diretta un effetto pregiudizievole. L’iscrizione conduce invece all’inverarsi dei presupposti della valutazione del plenum in ordine alla sospensione di un suo componente: crea il presupposto rispetto all’esercizio di un potere assegnato dalla legge al Consiglio Superiore nell’ambito della sua autodichia. L’effetto pregiudizievole, piuttosto, è la delibera del CSM, adottata sulla scorta di una valutazione discrezionale, ma limitatamente discrezionale: così definita per le ragioni che tra poco si rimarcheranno.
Non c’è dunque antinomia tra le due fattispecie: da un lato si ha una norma processuale (l’art. 335-bis) che, condivisibilmente, mira ad espungere ogni automatismo pregiudizievole a seguito dell'iscrizione nel registro degli indagati; dall’altro, una norma ordinamentale che mette nelle condizioni il Consiglio Superiore di svolgere una valutazione in ordine all'opportunità di rimuovere una situazione di incompatibilità tra l'esercizio delle funzioni consiliari e quelle giudiziarie esercitate da un diverso organo.
In questa prospettiva si colloca, peraltro, la relazione del Massimario della Corte di Cassazione sulle modifiche processuali introdotte dalla “riforma Cartabia”, secondo cui «se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione»[12]. È evidente, in altri termini, che l'iscrizione è intesa come possibilità di utilizzo a fini diversi di fatti che, per altre finalità rispetto a quelle giudiziarie, possono essere autonomamente valutati.
3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato
È bene, a questo punto, e per assegnare continuità all’argomentazione svolta, chiarire la principale tesi di questa indagine, volta a lumeggiare istituti mai approfonditi (forse) perché mai applicati.
Come si è detto, la ratio della sospensione non è tanto quella di sanzionare acriticamente quella condotta che ha determinato la (mera) iscrizione, ma quella di “congelare” una funzione potenzialmente incompatibile in un frangente temporale in cui sono in corso le indagini dell’autorità giudiziaria (o, per il consigliere togato, è in corso un procedimento disciplinare).
La decisione del plenum di deliberare la sospensione facoltativa (dacché quella di diritto dovrebbe come detto rappresentare una mera presa d'atto di un effetto voluto dalla legge del 1958) attiene, a ben vedere, a due aspetti: da un lato, alla verifica della – pur astratta – fondatezza della notizia di reato, alla non pretestuosità della stessa, avanzando una valutazione sul fatto che lo ha determinato: e sempre in una prospettiva sistematica, va ricordato che la stessa “riforma Cartabia” è su altro fronte intervenuta (introducendo il co. 1-bis all’art. 335) nell’ottica di evitare il rischio che si proceda a iscrizioni arbitrarie ed eccessive, esclusivamente formali e generiche di fatti, ma soprattutto di soggetti solo "sospettati" e che dall’iscrizione potrebbero subire un grave nocumento[13]; dall’altro alla conseguente verifica dell' inopportunità della prosecuzione dell’esercizio della funzione consiliare in ragione, appunto, di una situazione di incompatibilità venutasi a creare; lesiva – andrebbe aggiunto – del prestigio dell'organo.
Che sia proprio questa la ratio della sospensione di cui all'art. 37 lo segnala un tenore letterale che non parla di censurabilità o meno della condotta posta in essere dal consigliere, ma si limita ad enunciare il dato formale della sottoposizione a procedimento. La valutazione di censurabilità o meno della condotta, imprescindibile sopratutto laddove questa abbia acquisito rilevanza mediatica (con una refluenza sul prestigio e la credibilità dell’istituzione), sarà in ogni caso insita nella valutazione circa la necessarietà dell’avvio delle indagini nei confronti del consigliere coinvolto: che appunto determina la sostanziale incompatibilità con la funzione consiliare.
Ecco perché la valutazione del plenum può definirsi limitatamente discrezionale: una discrezionalità non così ampia, forse, da risultare atto politico, ma che non può, per altro verso, sostanziarsi in una attività decisionale vincolata, poiché il giudizio verte sul fatto e non sull'atto giuridico che presuppone e legittima la procedura. È necessario ribadirlo: questa valutazione si basa sul fatto presupposto all’iscrizione, non sull’iscrizione medesima; mentre l’art. 335-bis è chiaro nello stabilire che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli.
D'altronde, se il Consiglio disponesse “soltanto” della comunicazione dell’iscrizione di una notizia di reato, non disporrebbe di alcun elemento su cui effettuare una valutazione; l’eventuale delibera sospensiva, adottata “in bianco”, sarebbe evidentemente affetta da un grave vizio logico, in quanto nulla, se non una mera comunicazione, sarebbe alla base della valutazione svolta: un vizio logico ma anche – in un'ottica di sistema – un atto contrario alla legge stessa, che impedisce l'esplicarsi di qualsivoglia effetto a seguito della "mera" iscrizione. Vizi che ben si potrebbero far valere in giudizio (sulle cui problematiche ci si è soffermati innanzi).
Per altro verso, la valutazione su cui deve basarsi il Consiglio può vertere su elementi di fatto (che possono essere a base della notitia criminis, ma possono anche non esserlo) acquisiti in ogni modo, anche aliunde rispetto al procedimento penale, purché al fatto che l'ha generato siano in qualche modo afferenti.
Elementi che, in ogni caso, andrebbero indicati nella relazione del Comitato di presidenza sottoposta alla votazione. Questa relazione (per non incorrere nei vizi logico-giuridici anzidetti) dovrebbe insomma non solo dare atto della mera iscrizione, ma anche esporre, pur succintamente, i dati di fatto su cui il plenum deve compiere la sua valutazione.
3.4. Le vicende del procedimento penale
È ancora l’istituto che “congela” la funzione consiliare a generare problemi applicativi di non poco conto, adesso considerati nella fase successiva alla delibera consiliare di sospensione. Oltre ad un primo problema – che si pone nell’immediato – di carattere squisitamente indennitario-retributivo[14], un secondo problema, di portata più generale, è relativo alle possibili vicende del procedimento penale che è risultato presupposto di applicazione dell’art. 37 e quindi della delibera sospensiva. Pochi dubbi su ciò che consegue ad un procedimento penale aperto e concluso con una sentenza di condanna: la legge in questo caso prevede l’automatica decadenza del consigliere, in ragione, come si è detto, non (più) di una situazione di incompatibilità, ma di una vera e propria censura (intrinseca nel dato di legge) rispetto ad una condotta deprecabile (il fatto di reato) che intacca il prestigio dell’istituzione. Il precedente giudizio, cautelativo, eventualmente formulato laddove si sia adottata una delibera di sospensione facoltativa, viene superato da un effetto di legge che presenta una diversa ratio.
Ci si può più fondatamente interrogare se nei confronti del consigliere coinvolto interviene un proscioglimento (anche in sede di udienza preliminare): una declaratoria di non luogo a procedere o, anche, un’assoluzione.
Anche qui il vuoto legislativo è conclamato. L’art. 37 si disinteressa delle successive fasi del procedimento penale; e a ben vedere anche l’organo consiliare potrebbe disinteressarsi di tali vicende perché, come si è detto, il plenumsi sarà pronunciato sulla base di dati di fatto autonomamente valutati, attraverso un utilizzo autonomo degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione, o di altri elementi (sempre connessi a quel fatto) comunque indicati nella relazione del Comitato di presidenza.
Tuttavia, non può negarsi che, sul piano sostanziale, la chiusura del procedimento (senza che sia intervenuta una condanna) fa venire meno quella situazione di incompatibilità tra l’azione giudiziaria e le funzioni consiliari che legittima l'adozione della delibera consiliare; e può dunque senz’altro legittimare una riedizione del potere di autodichia da parte del plenum. Se così, non si può escludere – e sarebbe anzi coerente con la ratio dell’istituto sospensivo – una nuova valutazione, la quale potrà essere fatta attraverso una nuova relazione del Comitato di presidenza (eventualmente sollecitata da uno o più consiglieri, anche dallo stesso consigliere coinvolto, con allegazione dei dati di fatto su cui si dovrebbe basare la riedizione del potere – es. allegando il decreto di archiviazione o la sentenza di assoluzione) che verosimilmente sottoponga al voto del consesso la revoca della precedente determinazione. La sospensione è infatti, dal punto di vista giuridico, un atto di per sé revocabile, mediante un contrarius actus. Lo può essere, a fortiori, in ragione della sua natura, squisitamente cautelativa.
Sulla scorta dei richiamati principi generali, sarebbe consentita la retrattabilità di tale atto giuridico, sulla base di una nuova valutazione. Si tratterebbe di una revoca ex nunc perché realizzata sulla scorta di nuovi ed ulteriori dati di fatto (e il nuovo dato può essere anche il provvedimento che "chiude" il procedimento) e non, s'intende, di un annullamento in autotutela perché ciò presupporrebbe l’illegittimità dell’atto, del tutto legittimo ove adottato in base alle pur scarne indicazioni di cui all'art. 37.
Le successive vicende del procedimento che ne determinano la chiusura, con provvedimento diverso dalla sentenza di condanna, potrebbero, quindi, fungere da impulso per una nuova ed autonoma deliberazione presa in ossequio, da un lato, al principio di autodichia del Consiglio Superiore, e dall’altro guardando alla peculiare ratiodell’istituto della sospensione.
Quale ultimo spunto procedurale, potrebbe dirsi che, non essendo prevista l’ipotesi della revoca della sospensione, questa delibera dovrebbe seguire le regole generali di funzionamento dell’assemblea e, soprattutto, di deliberazione, quali quelle di cui all’art. 5: il voto, a questo punto, sarebbe palese, e il dibattito reso possibile. Sennonché, la riedizione di un medesimo potere di governo, in forma diversa, si mostrerebbe come una inaccettabile incoerenza di sistema: l'esercizio di tale potere non può che replicarsi nelle stesse forme in cui è stato originariamente esercitato.
3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento
Anche alla luce delle recenti modifiche derivate dalla "riforma Cartabia", appare doveroso interrogarsi, in seconda battuta, se una sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cpp. determini la decadenza di diritto, al pari di una sentenza di condanna, oppure se si traduce in una vicenda estintiva del procedimento e in quanto tale potenzialmente suscettibile di avviare una nuova, ulteriore valutazione della posizione del consigliere interessato da parte del Consiglio Superiore.
Il legislatore del 2022, al co. 1-bis dell'art. 445, si muove su due diverse piste ermeneutiche. Da un lato, si afferma che «La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile». Si ara una problematica probatoria che, per il vero, non riguarda né la sospensione – adottata sulla scorta di una valutazione di dati di fatto autonomamente considerati, e a fini cautelativi – né tantomeno la decadenza, che guarda alla statuizione e non al suo contenuto.
Più pertinente invece il successivo disposto: «Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna». L'art. 37 non equipara espressamente la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna (perché l'istituto è, come noto, stato elaborato successivamente al 1958), e se così, delle due l'una: o la norma nel prevedere la decadenza dei consiglieri «se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo» intende riferirsi a qualsivoglia effetto penale di condanna (così implicitamente equiparando la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna), oppure si riferisce in senso stretto alla sentenza penale di condanna, così lasciando fuori dal suo perimetro applicativo quelle sentenze, pur "diverse", che comunque comportano l'effetto penale di condanna.
La prima opzione pare maggiormente condivisibile, poiché è evidente che il legislatore abbia in questo caso voluto rimarcare la censurabilità della condotta, insita in una sentenza di condanna, qualsiasi ne sia la veste – e d'altronde, il legislatore storico avrebbe alquanto faticato ad immaginare un istituto generato e sviluppato dentro un modello processuale radicalmente diverso, di là da venire: squisitamente accusatorio.
Se così, non ci sono ragioni ostative all'applicazione del principio indicato e, per conseguenza, una sentenza di patteggiamento ex art. 444 non potrà ricadere nell'ambito dell'istituto della decadenza disciplinato dall'art. 37 (non produce, questa norma, il suo effetto decadenziale, per espressa previsione di una legge posteriore), «se non sono applicate pene accessorie». Solo in questo caso, infatti, l'equiparazione ad una sentenza penale di condanna sarà preclusa.
Su tale versante chiarisce il significato della legge la Relazione illustrativa alla "riforma Cartabia", che nel senso anzidetto legge la norma di nuovo conio: «ogni qual volta, per effetto della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie [...] vengono meno anche tutti gli altri effetti penali. Per effetti penali si intendono dunque tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali»[15]: tra queste, senz'altro rientra l'art. 37 in punto di decadenza.
Ne consegue, indubitabilmente, che se il consigliere nell'ambito del procedimento che funge da presupposto della delibera di sospensione patteggerà una pena che non contempli pene accessorie non potrà aversi l'effetto automatico della decadenza, precluso dal nuovo co. 1-bis dell'art. 444.
Va peraltro specificato che la stessa "riforma Cartabia" agevola a tal punto la possibilità di ricorrere alla definizione del procedimento ex art. 444 consentendo alle parti di chiedere congiuntamente al giudice di non applicare le pene accessorie (art. 444, co. 1), in deroga alle (molte) disposizioni che, sparse nel codice penale e nelle leggi speciali impongono in caso di condanna una pena accessoria. Una considerazione a parte meritano però i reati commessi appunto da pubblici ufficiali, le cui pene accessorie sono governate dal rigoroso disposto di cui all'art. 317-bis[16]: precetto la cui efficacia la "riforma Cartabia" non rimette esclusivamente alle determinazioni delle parti, facendo salvo un ampio margine di valutazione del giudice in ordine all'applicazione delle pene accessorie[17].
L'ipotesi dunque di un patteggiamento che non contempli pene accessorie può considerarsi alquanto frequente; mentre il patteggiamento che le contempli (anche in ragione della disciplina derogatoria di cui al co.1-bis e 1-terdell'art. 444, relativa a specifici reati) sarà considerato alla stregua di una sentenza penale di condanna, ai sensi dell'art. 445, co. 1-bis, ultimo periodo, e come tale – per tornare ai poteri e alle facoltà di autodichia dell'organo consiliare – imporrebbe al plenum l'adozione di una delibera che dichiari la decadenza.
Quel consigliere che sia stato (eventualmente e) precedentemente sospeso e che abbia ottenuto la pronuncia di una sentenza ex art. 444, scevra da pene accessorie, non potrà invece decadere; eppure il procedimento che ha sollecitato la delibera sospensiva si è estinto, non sorreggendo più l'atto consiliare.
Si ricade a questo punto nella già percorsa ipotesi in cui il procedimento si sia estinto in senso maggiormente favorevole all'indagato/imputato, dando la stura ad una diversa valutazione che potrà essere fatta mettendo ai voti una nuova relazione del Comitato di presidenza. Sarebbe in astratto possibile una nuova pronuncia del Consiglio in ordine al mantenimento dell’istituto sospensivo; con una – si immagina – più attenta valutazione dei fatti indicati nella imputazione e nella sentenza, e un focus spostato sulla censurabilità della condotta posta in essere, anziché sulla situazione di incompatibilità venutasi a creare e adesso, con l'estinzione del procedimento, risoltasi.
Ma, si badi: se tale "nuova" delibera fosse adottata in malam partem, e quindi con effetto confermativo della precedente sospensione, potrebbe considerarsi l'ipotesi di essere a questo punto al di fuori del perimetro legale della sospensione (ancora) facoltativa, che pur sempre impone la sussistenza di un procedimento penale, questo estinto con la pronuncia di una sentenza ex art. 444.
E a voler condividere questa tesi, che guarda all'istituto sospensivo come strettamente legato all'esistenza del procedimento penale – simul stabunt, simul cadent – e in quanto tale necessariamente temporaneo, sia in caso di archiviazione o proscioglimento, sia in caso di patteggiamento (senza pene accessorie), dovrebbe procedersi alla revoca della delibera sospensiva per essere venuti meno i presupposti della stessa. Neanche su questo punto la legge fornisce un valido ausilio interpretativo; e da questo vuoto regolamentare emergono conseguenze a tratti paradossali, se è vero che l'istituto della decadenza può attivarsi solo se il patteggiamento contempli nel proprio nomen juris anche la pena accessoria, e qualsiasi essa sia.
3.6. L’impugnativa della delibera
La delibera di sospensione e decadenza adottata ai sensi dell’art. 37, come qualsiasi altro atto del Consiglio Superiore, può essere impugnato innanzi all’autorità giudiziaria.
Una prima e più pressante questione riguarda la giurisdizione, che come noto va individuata in rapporto alla situazione giuridica, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, della quale si chiede la tutela.
Si potrebbe adire il giudice amministrativo, affermando che si versa in un’ipotesi di esercizio di poteri autoritativi amministrativi a fronte dei quali sussiste un interesse legittimo, contestando conseguentemente la legittimità del provvedimento e chiedendone l’annullamento.
Va tuttavia sottolineato che le Sezioni Unite, in una pronuncia resa a seguito di regolamento preventivo di giurisdizione[18], hanno affermato che i componenti del CSM acquisiscono «per effetto della scelta compiuta dagli elettori» una posizione soggettiva che si configura come diritto soggettivo perfetto. Con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla vicenda giuridica di tale status. Potrebbe allora dirsi che a seguito della delibera di sospensione si sia implicitamente dichiarato che, almeno temporaneamente e in via cautelativa, non v'è il pre-requisito necessario per mantenere la carica; e al riguardo il Consiglio abbia svolto un’attività di verifica, in punto di fatto. Un’attività di verifica di tale incidenza da riguardare la posizione giuridica stessa del consigliere, tale da non essere idonea a far degradare a interesse legittimo la posizione dell’interessato.
La delibera incide dunque sullo status, previa verifica dei requisiti (che sono di “moralità” – in particolar modo nei casi di decadenza – e di “opportunità”, rispetto alle situazioni di incompatibilità di fatto che si vengono a creare – nei casi di sospensione) di mantenimento della carica. D’altro canto, è pacifico che sia il giudice ordinario ad essere competente delle impugnative delle delibere adottate in sede di verifica dei titoli, come lo è stato allorquando veniva impugnata la delibera che dichiarava la cessazione di un membro togato del Consiglio a seguito del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età[19].
La seconda questione riguarda il perimetro del sindacato del giudice ordinario; il quale, a fronte delle valutazioni (limitatamente) discrezionali di cui si è ampiamente detto, che si traducono in una discrezionalità vincolata laddove si tratti di dichiarare la decadenza ovvero l'esistenza dei requisiti della sospensione obbligatoria, deve contenere il giudizio entro i confini dell'accertamento dei presupposti di legalità dell’atto.
Il “contenuto”, e gli effetti stessi della delibera, non sono sindacabili in sede giurisdizionale, poiché non c’è stata alcuna comparazione di diversi interessi e diverse posizioni; né d’altro canto l’iter della decisione è percorribile: la valutazione è compiuta dai singoli consiglieri a scrutinio segreto, senza alcun previo dibattito, sulla base di una relazione del Comitato di presidenza che può essere tanto stringata da limitarsi a individuare i presupposti di cui all’art. 37. In questo senso, può dirsi che la delibera in quanto tale non è corredata da alcuna motivazione.
Per queste ragioni, il giudice ordinario non può esprimere una valutazione di congruità della sospensione; a fortiori, non può stabilire se e come è stato perseguito l’interesse pubblico. Si tratta dunque di svolgere un (mero) controllo di legalità: se la procedura si è svolta secondo le indicazioni di legge, circa la verifica della sussistenza dei presupposti indicati all’art. 37 e dei requisiti di validità della delibera stessa.
4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati?
Si è visto che l'art. 37 importa, nella sostanza, una distinzione tra membri laici e membri togati, poiché solo i membri togati sono destinatari dell'ipotesi della sospensione obbligatoria se sottoposti a procedimento disciplinare, e della decadenza obbligatoria dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento, determinando per costoro un ampliamento oggettivo – per l'oggettivo approfondimento dell' incompatibilità tra funzione esercitata e organo di appartenenza, chiamato ad esercitare il potere disciplinare – delle ipotesi di sospensione e decadenza. Ampia infatti è la casistica di quelle situazioni che, senza integrare fattispecie di reato, possono condurre ad un procedimento disciplinare: una casistica, peraltro, in esponenziale aumento, a fronte della recente abrogazione dell'abuso d'ufficio, norma residuale del sistema dei reati commessi dai pubblici ufficiali.
Lo scrimine è dettato dalla provenienza "elettiva" del consigliere: da un lato, il consigliere laico eletto dal Parlamento, dall'altro il consigliere togato eletto dal corpo magistratuale. Vale dunque la pena interrogarsi se sia opportuno distinguere, come la norma distingue sul piano dei rimedi volti a ripristinare prestigio e funzionalità dell'organo consiliare, tra le due diverse categorie elettive.
Invero, una distinzione tra "categorie" trova fondamento nello stesso art. 1 della legge del 1958, come modificata nel 2022 dalla "riforma Cartabia", allorché si introduce il concetto di «categoria di appartenenza»[20], che può meglio essere spiegato in base all'art. 4 che regola la composizione della sezione disciplinare, i cui componenti effettivi sono: il vicepresidente del Consiglio Superiore, che presiede la sezione per l'intera durata della consiliatura; un componente eletto dal Parlamento; un magistrato di Corte di cassazione con esercizio delle funzioni di legittimità; due magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso uffici di merito; un magistrato che esercita le funzioni di pubblico ministero presso uffici di merito. Che siano proprio queste le "categorie" indicate lo specifica di seguito l'art. 6: «Il componente che sostituisce il vicepresidente e gli altri componenti effettivi sono sostituiti dai supplenti della medesima categoria. Il componente effettivo eletto dal Parlamento è sostituito dal supplente della stessa categoria».
Quanto invece alla distinzione tra "macro-categorie", e quindi alla distinzione tra appartenenza "laica" e "togata", essa appare più marcata all'art. 5, che dispone sulla validità delle deliberazioni del Consiglio Superiore, per cui «è necessaria la presenza di almeno quattordici magistrati e di almeno sette componenti eletti dal Parlamento».
È sul punto interessante notare che il dato tassonomico della provenienza penetra anche nel quadro dei doveri e dei comportamenti dei componenti del CSM che è stato, da ultimo, ripercorso in una importante delibera consiliare del 20 gennaio 2010, in cui veniva sancito il principio di libera autodeterminazione di ciascun componente del Consiglio, con un accento particolare sulla indipendenza dei consiglieri di nomina parlamentare, ai quali si chiede di non mantenere in vita, anche di fatto, situazioni generatrici di incompatibilità e di attuare una effettiva sospensione delle attività professionali durante la consiliatura.
A questo riguardo si può segnalare che la formula consacrata in Costituzione per l'individuazione della componente "laica" del Consiglio Superiore, le modalità di elezione e la necessità che vi sia ampia convergenza tra le forze politiche, indicano che questa non dovrebbe mai essere espressione di schieramento politico-partitico, ma nell'interesse generale dovrebbe – viceversa – portare nell’organo una sensibilità per l’amministrazione della giustizia, intesa anche come servizio ai cittadini, con la scelta di coloro che, per esperienza accademica e professionale, assicurano il miglior apporto tecnico a questo scopo.
Questo aspetto venne più volte sottolineato in Assemblea Costituente[21]: i "laici" devono essere scelti dal Parlamento non come espressione di una parte politica, ma per la loro qualificata preparazione sui problemi della giustizia da un lato, e dall'altro per la – contestuale – capacità di fornire sufficienti garanzie di indipendenza rispetto al contesto professionale o accademico di provenienza[22].
L'elezione da parte dei magistrati (un corpo elettorale, dunque, "qualificato") della componente "togata" da un lato, l'elezione del Parlamento (un corpo elettorale altrettanto "qualificato"), dall'altro, dovrebbe in definitiva assicurare il medesimo livello di competenze, e racchiudere nello stesso quadro di doveri e responsabilità tutti i consiglieri. Doveri e responsabilità che, in effetti, possono declinarsi diversamente in ragione della "provenienza" e delle "storie" professionali di ciascuno, senza condurre ad un risultato che non sia, per tutti, la tutela dell'autonomia di giudizio e valutazione, quindi del prestigio e della credibilità, dell'organo di governo (appunto, autonomo) della magistratura.
Anche in questo caso, può farsi leva sulla felice sintesi del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura: «I componenti del CSM si distinguono soltanto per la loro “provenienza”. Hanno le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività consiliare e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti. Laici e togati interpretano – con doverosa piena indipendenza da ogni vincolo – un ruolo fondamentale nel funzionamento del nostro sistema, sempre seguendo, quindi, il dettato costituzionale»[23].
Venendo alla questione che l'art. 37 solleva, la distinzione tra consiglieri laici e togati, se è vero che trova fondamento nella struttura stessa dell'organo consiliare, non può vedere diversificarsi il perimetro applicativo di sospensione e decadenza, perché, come evidenzia la ricostruzione storico-sistematica svolta, non è di diversa portata il perimetro dei doveri dell'una e dell'altra "categoria". In questo senso, la normativa del 1958 – frutto di una stagione politica che era ancora segnata dall'esperienza di vasto profilo istituzionale dell'Assemblea Costituente, alla quale erano stati chiamati a partecipare, in effetti, cittadini dagli altissimi meriti in ogni campo – dimostra, pur nel quadro di una necessaria distinzione tra consiglieri laici e togati, di non avere adeguatamente considerato, in una prospettiva futura, tutte le possibili situazioni che possono legittimare la sospensione e la decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura; al punto da far intravedere – oggi – una possibile disparità di trattamento rilevante sul piano dei principi costituzionali e, in ogni caso, auspicare un rapido intervento normativo volto a rendere cogenti le «condizioni di parità»[24], e la parità dei doveri, tra ogni componente del Consiglio Superiore.
5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive
Il prestigio e il decoro del singolo magistrato, che si riflette sulla credibilità dell'ordine giudiziario nel suo complesso, è un processo osmotico imposto non solo – giuridicamente – dal principio di immedesimazione organica e quindi di imputazione degli atti nell'esercizio della funzione, ma anche – istituzionalmente – dall'indicazione dell'art. 98 della Costituzione, per cui «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione».
I Padri Costituenti, con questa indicazione programmatica intendevano chiaramente riferirsi alla impermeabilità delle decisioni assunte – e comunque delle funzioni esercitate – dai pubblici agenti nell'alveo degli organi che compongono la macchina-Stato: in tutti i gangli della pubblica amministrazione, fino ad arrivare, sensibilmente, agli organi giurisdizionali – che sono caratterizzati da autonomia e indipendenza – e necessariamente all'organo collegiale che attende al buon funzionamento di questa imprescindibile funzione statuale e che, tra l'altro, giudica sul piano disciplinare gli stessi magistrati: il Consiglio Superiore della Magistratura. Anch'esso è, o dovrebbe essere, autonomo e indipendente nelle proprie deliberazioni.
Impermeabilità che si esplica rispetto alle pressioni esterne, d'ogni genere esse siano, a tutela della fiducia che i cittadini devono riporre in coloro che assicurano il buon andamento della giustizia ordinaria nel Paese: perché questa è la più autentica garanzia di genuinità delle decisioni che direttamente influiscono sulla vita delle persone.
Per meglio descrivere il processo osmotico magistratura/governo autonomo della magistratura, cui si è fatto riferimento nel corso dell'indagine, può, anche in questo caso, soccorrere l'autorevole sintesi del Capo dello Stato: «il CSM è chiamato all’impegno di contribuire ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni sempre assunte con senso delle istituzioni»[25].
Il magistrato agisce «con senso delle istituzioni» quando applica la legge e obbedisce soltanto alla legge, come afferma la Costituzione; questo vuol dire che il magistrato deve saper "disobbedire" ad altri poteri e ad altri comandi che non siano quelli del legislatore. Il Costituente, per altro verso, non ha espressamente sottoposto "soltanto" alla legge anche l'attività del Consiglio Superiore e dei suoi componenti: è nella sua essenza un'attività di alta amministrazione, che beninteso risponde al principio di legalità come – e più di – qualsiasi altra azione amministrativa.
Ma va da sé che l'organo che governa la magistratura non può a sua volta consentire permeabilità e contaminazione dall'esterno, nelle funzioni consiliari e, tra queste in particolar modo, nella funzione para-giudiziaria di giudice disciplinare, ove i doveri assumono una intensità ancora maggiore.
In definitiva, anche le decisioni del Consiglio Superiore, nel suo complesso, devono essere «sempre assunte con senso delle istituzioni».
In caso contrario, ad essere compromesso è il prestigio e l'autorevolezza dell'organo, cui guardano gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37; e che per tale sommaria disciplina, come si è illustrato nell'indagine svolta, trascinano con sé molteplici problemi applicativi; di cui, in via interpretativa, si è tentato di fornire possibili soluzioni.
Per questo, anche considerando lo scenario in cui già da alcuni anni ci si muove, si potrebbe immaginare di mettere mano ai due istituti elaborati dal legislatore del 1958: che mai, questi scenari, avrebbe potuto immaginare.
[1] Un precedente consiliare – anche piuttosto noto – di votazione di una delibera di sospensione facoltativa ex art. 37 risale al 3 febbraio 1983: sei componenti del Consiglio avevano comunicato di essere indagati dalla Procura di Roma per opinioni espresse nell'ambito di un dibattito consiliare relativo ad una procedura di nomina, a seguito della denuncia del magistrato interessato. In quell'occasione il plenum deliberava all'unanimità, senza la partecipazione al voto degli interessati, la non sospensione, in quanto si era di fronte a fatti relativi a comportamenti espressione del libero convincimento personale formato in ampia e articolata discussione nel plenum. La vicenda è ben illustrata da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell'Italia repubblicana, Roma-Bari, 2019, p. 137 ss.
[2] Corte Cost., 3 giugno 1983, n. 148.
[3] F. Bonifacio, G. Giacobbe, La Magistratura. Tomo II - Art. 104-107, in AA.VV., Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1986, p. 118.
[4] G. Volpe, Ordinamento giudiziario (voce), in Enc. dir., XXX, 1980, p. 851.
[5] Così recita l'art. 10 della legge n. 195/1958: «Può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie».
[6] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia di commiato dei componenti il CSM uscenti, Palazzo del Quirinale, 24 gennaio 2023, in quirinale.it.
[7] Art. 18 del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[8] Art. 2, co. 2, del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[9] Va specificato che il Regolamento interno del CSM, che prevede tale disposizione, è stato approvato il 26 settembre 2016. Nel precedente del 1982 richiamato, la non sospensione dei consiglieri indagati è avvenuta, alla presenza del Presidente, mediante l'approvazione all’unanimità un "documento" con il quale, preso atto che «il procedimento attiene a comportamenti che sono comunque espressione di convincimento liberamente formatosi all' interno del Consiglio in ampio ed articolato dibattito sui necessari elementi di giudizio», il CSM delibera di non sospendere i sei consiglieri (cfr. verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[10] È tuttavia ben legittima la facoltà di contraddittorio, nello stesso plenum chiamato a deliberare la sospensione, da parte del consigliere coinvolto. Sul punto, ancora in chiave storica, appaiono illuminanti le parole pronunciate nella già percorsa seduta del plenum del 3 febbraio 1983 di Salvatore Senese, membro togato indagato e potenzialmente soggetto alla sospensione facoltativa: «Non troverei nulla di men che legittimo nel fatto che, in vista di una delibera che può incidere sullo status dei consiglieri, questi esponga previamente il proprio punto di vista, la propria "verità", direi. Il contraddittorio – è noto – costituisce regola elementare di ogni procedimento che può incidere su situazioni soggettive tutelate dalla legge, pubbliche o private che siano tali situazioni. Nella ipotesi, poi, d'imputazione elevata nei confronti di un membro di quest'assemblea un doveroso riguardo verso i colleghi ed il consiglio tutto suggerirebbe, in astratto, che l'interessato dia delle spiegazioni ai suoi colleghi, a coloro che lo hanno eletto, al Paese»(cfr., ancora, verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[11] A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, Napoli, 1938, p. 74.
[12] In questi termini si esprime la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione sulla "Riforma Cartabia", rinvenibile in sistemapenale.it, 10 gennaio 2023, p. 66.
[13] È ancora la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, cit., p. 60.
[14] Va ricordato che ai componenti del CSM spetta un assegno mensile ai sensi dell’art. 40 della legge del 1958. Si tratta di un assegno legato alla carica, e non invece all’esercizio concreto della funzione, a cui invece sono legate le indennità, quali le indennità di seduta, quelle di missione ecc., almeno in parte disciplinate sempre all’art. 40. Ed è bene precisare che il consigliere, pur a seguito di sospensione, rimane in carica: ciò significa che costui continua ad essere componente del Consiglio Superiore, con relativa facoltà di accesso alla sede e ai propri uffici; quanto invece alla facoltà di disporre della propria segreteria e dei propri collaboratori, è verosimile ipotizzare un "congelamento" di tutte le collaborazioni esterne al Consiglio e una diversa destinazione delle risorse interne al Consiglio originariamente assegnate al consigliere, poi sospeso: sarebbe infatti una inutile spesa (che potrebbe anche avere riflessi contabili) quella relativa all'infruttuoso mantenimento di un apparato di segreteria, che è per sua natura volto a supportare il concreto esercizio della funzione consiliare. Difatti, è precluso, in concreto, l'esercizio delle funzioni consiliari, non potendo per l’effetto il consigliere partecipare alle sedute delle commissioni e del plenum. Se così, l’assegno mensile – legato alla carica – dovrebbe essere comunque dovuto, e nella sua interezza: in particolare laddove il consigliere non abbia un proprio trattamento stipendiale “trascinato” nel quadro del trattamento economico predisposto dal Consiglio Superiore (se, ad es., provenga dalla professione forense, necessariamente interrotta in ragione del mandato consiliare).
[15] Relazione illustrativa aggiornata al testo definitivo del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 pubblicata in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 - Suppl. Straordinario n. 5), in sistemapenale.it, 20 ottobre 2022, p. 130.
[16] «La condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter(1), 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici(2) e l'incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Nondimeno, se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante prevista dall'articolo 323 bis, primo comma, la condanna importa l'interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni».
[17] L'art. 444, co. 1-bis afferma infatti che «L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis»; disposizione, questa, che prevede: «Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317 bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta».
[18] Così ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 6 aprile 2012 n. 5574.
[19] Cfr. Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sentenza del 13 novembre 2020 n. 11814.
[20] A seguito della riforma l'art. 1 della legge del 1958 contempla il principio per cui «I magistrati eletti si distinguono tra loro solo per categoria di appartenenza».
[21] Si veda sul punto l'interessante ricostruzione di F. Biondi, Il C.S.M.: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione, in giustiziainsieme.it, 17 luglio 2021.
[22] Va per altro verso segnalato che un vasto dibattito si accese sull'opportunità stessa di inserire gli avvocati nel Consiglio Superiore. Veniva sollevato il problema dell'indipendenza, onde «evitare il rischio che la semplice cancellazione dall'albo per la durata della carica di componente del Consiglio Superiore non sia garanzia sufficiente, quale abbiamo diritto di stabilire e di attendere, di indipendenza dei componenti del Consiglio che provengono dall'avvocatura»: e a segnalarlo era proprio un avvocato, Giuseppe Perrone Capano, nella seduta dell'Assemblea del 25 novembre 1947; nella stessa seduta il professore universitario Orazio Condorelli aggiungeva: «Non penso soltanto alla possibilità che gli avvocati continuino ad esercitare la professione, pur non essendo cancellati dall'albo, attraverso sostituti od amici, ma penso anche alla categoria di persone che potrebbero trovarsi nella situazione di eleggibili».
[23] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, Roma, 16 aprile 2024, in quirinale.it.
[24] Si fa riferimento all'art. 10 del Regolamento interno del CSM. «I componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio e delle Commissioni in condizioni di parità».
[25] È ancora richiamato l'intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, cit.
Contributo sottoposto a referaggio anonimo.
L'impugnazione del pignoramento davanti al giudice tributario: molti problemi e poche soluzioni
di Graziella Glendi
Sommario[1]: 1. Come si è passati dall’ “allargamento” della giurisdizione tributaria a un suo vero e proprio “allagamento” - 2. L’atto di pignoramento tra “opposizione” davanti al giudice dell’esecuzione e “impugnazione” davanti al giudice tributario - 3. Le problematiche del giudice tributario sull’impugnazione del pignoramento - 4. Ulteriori profili problematici sul riparto di giurisdizione - 5. Le incerte prospettive di una razionalizzazione.
1. Come si è passati dall’ “allargamento” della giurisdizione tributaria a un suo vero e proprio “allagamento”
L’evoluzione della giurisdizione tributaria, si sa, è avanzata negli anni per vie strette e tortuose, all’origine essendo, invero, assai dubbio che di “giurisdizione” si trattasse, ma, una volta ottenuto tale riconoscimento, è proseguita in crescente espansione, fino ad arrivare all’intervento normativo del 2001, completato nel 2005, dell’estensione al giudice tributario di «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati», come ancora oggi recita l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992.
Allargate le porte della giurisdizione tributaria, con restringimento di quelle del giudice civile ordinario di cognizione e del giudice amministrativo, l’art. 2, comma 1, nel secondo periodo tutt’ora soggiunge, quanto alle porte del giudice ordinario dell’esecuzione, che «restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del decreto del Presidente delle Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». Tra esse, l’art. 57 che non ammette, né le opposizioni all’esecuzione regolate dall’art. 615 c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni, almeno fino all’intervento della sentenza della Corte costituzionale 31 maggio 2018, n. 114, né le opposizioni regolate dell’art. 617 c.p.c. relative alla regolarità formale e alla notifica del titolo esecutivo. Tale disposizione è stata, da ultimo, fatta oggetto di direttiva dall’art. 19, comma 1, lett. c), della legge delega per la riforma fiscale 9 agosto 2023, n. 111, sulla cui portata sembra utile qualche riflessione, nonostante il legislatore delegato l’abbia completamente ignorata nel d.lgs. n. 110/2024 in «materia di riordino del sistema nazionale della riscossione», pubblicato in G.U. il 7 agosto 2024.
Se, dunque, gli interventi legislativi del 2001 e 2005 avevano portato a sperare nel finalmente raggiunto assetto di un sistema compiuto della speciale giurisdizione tributaria modellato, a livello processuale, dalle regole dettate dal d.lgs. n. 546/1992, il configurato “allargamento” di cui all’art. 2, è stato, invece, inteso dalla Suprema Corte quale elemento di “rottura” del sistema stesso, ravvisandone uno stretto collegamento con l’individuazione degli atti impugnabili di cui all’art. 19[2], in una sorta di preminenza del “criterio della materia” (i tributi), idoneo a travolgere i confini degli atti impugnabili predeterminati dal legislatore. Consentendosi ai giudici (e non al legislatore) di ritenere impugnabile un atto, se ravvisano l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (e non se rientra nella categoria predeterminata, anche in forza della residuale disposizione di cui all’art. 19, comma 1, lett. i).
Così è stata creata la categoria degli atti “facoltativamente” impugnabili[3], così si è ammessa l’impugnazione di uno degli atti tipici di cui all’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 546/1992, non ritualmente notificato, di cui il contribuente abbia avuto conoscenza aliunde[4], così si è ritenuto impugnabile davanti al giudice tributario il pignoramento (primo atto dell’espropriazione forzata ex art. 491 c.p.c.) per il caso di omessa notifica dell’atto tributario esecutivo o dell’avviso di cui all’art. 50, comma 2, d.p.r. n. 602/1973[5].
Il giudice tributario, dunque, si è ritrovato inondato dall’impugnazione di una cascata di atti, in via facoltativa, non notificati, tipicamente propri della fase esecutiva.
A tale “allagamento” è stato necessario porre rimedio.
Per gli atti facoltativamente impugnabili ci ha pensato la stessa Suprema Corte, avvertendo che l’ammessa facoltà di impugnare l’atto anticipatore della pretesa non esclude però l’onere di impugnare l’atto tipico in cui quella pretesa era destinata a formalizzarsi, con sostanziale superfluità, dunque, della riconosciuta facoltà, perché, «se l’atto tipico viene impugnato, l’unico giudizio che rileva è quello avverso quest’atto, mentre, se non viene impugnato, il ricorso antecedentemente proposto avverso l’atto facoltativamente impugnabile si rivela inutile, stante l’avvenuto consolidamento degli effetti proprio dell’atto tipico»[6].
Per gli atti tipici non notificati ci ha pensato il legislatore, almeno con riguardo all’omessa notifica della cartella di pagamento, che evidentemente costituiva il vulnus più rilevante, introducendo, con il d.l. n. 146/2021, nell’art. 12 del d.p.r. n. 602/1973, il comma 4-bis, con limitazione della possibilità di far valere direttamente l’omessa notifica della cartella in sole tre circoscritte ipotesi. Con immediato sostegno della giurisprudenza di vertice che, in verticale cambio di rotta, ha optato per l’applicazione della disposizione ai giudizi pendenti[7]. Da ultimo, a seguito di uno degli ormai frequenti “moniti” al legislatore, ai quali la Corte costituzionale[8] ci ha abituato, con l’art. 12 d.lgs. n. 110/2004, sono state aggiunte altre tre ipotesi di pregiudizio tutelabile, ma in sostanza l’argine è stato tenuto fermo.
Resta ora da vedere che ne è dell’impugnazione del pignoramento davanti al giudice tributario.
2. L’atto di pignoramento tra “opposizione” davanti al giudice dell’esecuzione e “impugnazione” davanti al giudice tributario
L’attribuzione al giudice tributario dell’impugnazione del pignoramento quando venga dedotta l’omessa notifica dell’atto tributario esecutivo presupposto (cartella di pagamento portante il ruolo, accertamento esecutivo, cosiddetto impoesattivo, ingiunzione fiscale, se ancora ratione temporis utilizzata) o dell’intimazione di cui all’art. 50, comma 2, d.p.r. n. 602/19973, è abbastanza recente.
Dopo un primo contrasto interno nella Corte di cassazione, sviluppato nel 2017[9], sempre in base all’idea del riconoscimento di tutela (che, per gli atti facoltativamente impugnabili, e per gli atti tipici non notificati e conosciuti aliunde, si è, alla fine, come visto, rivelato insidioso e fallace), a volte invocandosi, anche in tal caso, l’art. 100 c.p.c., ha prevalso, e, ormai può dirsi consolidato, l’orientamento per cui, ai fini del riparto di giurisdizione, va valorizzata la natura tributaria dell’atto di cui si deduce l’omessa notifica rispetto alla tipologia di atto impugnato (ovvero il pignoramento).
Non è questa la sede per analizzare le motivazioni, non sempre univoche e coerenti, rese a giustificazione di una tale scelta, né per scendere in qualsivoglia valutazione sulla loro bontà, quello che qui interessa è, piuttosto, vederne gli esiti a livello operativo.
Iniziando subito col dire, come i giudici di merito ben sanno, constatandolo continuamente, che, quando il pignorato reagisce all’esecuzione di atto tributario, sia che lo faccia davanti al giudice ordinario, sia che lo faccia davanti al giudice tributario, deduce tutta una serie di motivi di “opposizione” o di “impugnazione” che vanno ben oltre la sola omessa o viziata notifica dell’atto esecutivo o dell’intimazione di pagamento. Con casistica amplissima, di cui, per la frequenza, si possono ricordare: indeterminatezza nell’individuazione dei crediti azionati; omessa motivazione del calcolo degli interessi indicati nell’atto di pignoramento; insufficiente descrizione dei beni pignorati per i pignoramenti immobiliari; mancanza dell’avvertimento che il debitore può sostituire alle cose pignorate una somma di denaro pari al valore del credito e delle spese; contestazione del pignoramento di giacenze su conto corrente cointestato; contestazione di pignoramento di stipendi, salari o indennità inerenti al rapporto di lavoro o dovute a causa del licenziamento nella misura superiore al limite di legge; contestazione di pignoramento di somme per trattamento pensionistico nella misura superiore al limite di legge; prescrizione maturata prima della notifica dell’atto tributario che si assume omesso, o maturata successivamente ad essa, se, invece, la notifica si era ritualmente perfezionata.
E, subito dopo, aggiungere, come parimenti i giudici di merito ben sanno, che il pignoramento dell’agente della riscossione raramente attiene solo a provvedimenti esecutivi tributari, ma assai spesso riguarda anche atti relativi a crediti di natura previdenziale o sanzioni amministrative per violazioni delle norme del Codice della strada.
Va allora osservato che, mentre non vi è problema di riparto, quand’anche è impugnata davanti al giudice tributario un’intimazione di pagamento che porta pretese di natura diversa e venga sindacata l’omessa notifica dei diversi atti esecutivi, posto che il giudice tributario adito declina la propria giurisdizione in relazione a quelli non tributari in favore del giudice ordinario, sezione lavoro, o del giudice di pace, quando, invece, l’atto impugnato è il pignoramento e l’atto di cui si deduce l’omessa notifica è l’intimazione, sebbene il giudice tributario debba parimenti declinare la sua giurisdizione per la parte non tributaria, alla fine, sia il giudice tributario, sia il giudice dell’esecuzione si troveranno a dover decidere sulla stessa identica questione, ovvero la rituale notifica di quell’unico atto che è l’intimazione.
Sicché può ben verificarsi come, infatti si è verificato, questa volta per il caso di opposizione originariamente proposta davanti al giudice dell’esecuzione ex art. 615 c.p.c., che il giudice, nella fase del merito, dopo aver disatteso vizi contenutistici del pignoramento per la dedotta non corrispondenza dei crediti ivi indicati con quanto riportato nell’intimazione, affrontata l’ulteriore questione della notifica dell’intimazione prodromica exart. 140 c.p.c. a mezzo di corriere privato, abbia deciso per il rigetto dell’opposizione, ma solo per i crediti non tributari, declinando, invece, la propria giurisdizione per quelli tributari[10].
Se poi si assommano i due profili sopra evidenziati (deduzione di vizi ulteriori rispetto all’omessa notifica dell’atto presupposto e atto presupposto che riguarda pretese tributarie e non) può accadere, com’è infatti accaduto, che, adito, nel caso, il giudice tributario, esso abbia declinato la propria giurisdizione per le cartelle non riguardanti tributi, abbia vagliato, per le altre cartelle, la prova della notifica offerta dall’agente della riscossione e, per quelle ritenute non notificate, abbia annullato in parte qua l’atto di pignoramento, mentre, per quelle ritenute ben notificate, abbia, sotto altro profilo, ancora declinato la propria giurisdizione, con riguardo agli ulteriori vizi dedotti, nella specie relativi al calcolo degli interessi e alla eccepita prescrizione maturata successivamente all’avvenuta notifica delle cartelle, rimandando al Tribunale ordinario dell’esecuzione[11].
3. Le problematiche del giudice tributario sull’impugnazione del pignoramento
La tipologia dell’atto impugnato (pignoramento) pone, poi, al giudice tributario tutta una serie di problemi che non è abituato a trattare.
Un primo profilo su cui occorre ragionare attiene al fatto che, secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte[12], quando si tratta di pignoramento presso terzi, il terzo pignorato, non è soggetto “indifferente” all’opposizione proposta, in ragione degli obblighi ex lege imposti (art. 545 e 546 c.p.c.), per cui è litisconsorte necessario nel giudizio di opposizione, con l’effetto, in mancanza di sua partecipazione, di rinvio dai gradi superiori al primo.
Secondo la Suprema Corte[13], il litis consortio con il terzo sussiste anche quando si tratta di opposizione al pignoramento ex art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973, con ordine diretto di pagamento al terzo. Mezzo prescelto dall’agente della riscossione per la sua rapidità e snellezza, in cui spicca la piena autonomia dell’agire dell’esecuzione tributaria, ancor più delle altre tipologie di pignoramento, per le quali, pur nella speciale disciplina del d.p.r. n. 602/1973, a un certo punto è previsto l’intervento giurisdizionale. Tanto è vero che parte della dottrina ha dubitato che si tratti di un vero e proprio pignoramento[14], mentre la Suprema Corte, opportunamente, lo considera «un'autentica espropriazione presso terzi»[15].
Orbene, se, dunque, invece che di “opposizione” davanti al giudice dell’esecuzione, si tratta di “impugnazione” davanti al giudice tributario, non è peregrino domandarsi se il giudice adito debba dare effetto a tale consolidato principio, curando che sia rispettato il litis consortio con il terzo pignorato, posto che l’eventuale suo provvedimento di sospensione riguarderà anche il terzo, così come la decisione sulla legittimità o meno dell’ordine di pagamento dell’agente della riscossione, con ogni conseguenza che ne deriva.
Tuttavia, salvo i casi in cui il difensore dell’impugnante si premuri di notificare il ricorso anche al terzo pignorato, ad oggi non pare che i giudici tributari, salvo qualche rara eccezione[16], si siano mostrati sensibili al fatto di dover ordinare l’integrazione del contraddittorio. Sarebbe, invece, buona cosa se lo facessero, per evitare il rischio che, stante la nullità della pronuncia resa, rilevabile anche d’ufficio, ne consegua, nei seguenti gradi, un rinvio al primo.
Ulteriore profilo problematico, che del pari coinvolge il terzo, sta nel fatto che l’ordine di pagamento di cui all’art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973 ha una durata di sessanta giorni, peraltro corrispondenti al termine per impugnare davanti al giudice tributario (mentre, se si azionasse l’opposizione ex art. 617 c.p.c., il termine per la sua proposizione è di venti giorni).
Termine assai contenuto, sicché può capitare che, pur proposto sollecitamente ricorso, con richiesta di sospensione, fin anche inaudita altera parte o nelle forme ordinarie ex art. 47 d.lgs. n. 546/1992, il terzo, nelle more, abbia già pagato.
Pare, dunque, altrettanto non peregrino domandarsi cosa il giudice tributario debba fare.
Se decidesse in favore del contribuente, con accoglimento del ricorso per il dedotto vizio di omessa notifica dell’atto tributario presupposto, ad esempio, dovrebbe pronunciare, come fa il giudice ordinario, condanna di restituzione di quanto indebitamente versato dal terzo all’agente della riscossione.
Ipotizzando, invece, che il giudice tributario ritenga ritualmente perfezionata la notifica dell’atto tributario presupposto e, quindi, infondato il motivo di impugnazione del pignoramento, ci si domanda se debba anche preoccuparsi di valutare se il pagamento è avvenuto, o meno, alla scadenza dei sessanta giorni dall’ordine.
Più precisamente, nel caso in cui il terzo abbia pagato, ci si chiede se il giudice tributario, oltre al rigetto del ricorso, debba anche pronunciare la liberazione del terzo dal vincolo, cosa non di poco conto per il classico caso di pignoramento delle giacenze sul conto corrente.
Qualora, invece, il terzo non abbia pagato, ci si chiede se il giudice tributario, invece che pronunciare il rigetto del ricorso, debba comportarsi come quello ordinario e dichiarare cessata la materia del contendere, come è stato deciso da attento giudice dell’esecuzione[17], sull’assunto che la scelta dell’Agenzia delle entrate-Riscossione di avvalersi dello strumento esecutivo previsto dall’art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973 è una decisione presa dall’ente in via alternativa a quella prevista dall’art. 543 c.p.c. e non può ipotizzarsi alcuna prosecuzione processuale dello strumento utilizzato, nell’ipotesi di mancato adempimento del terzo. Tanto è vero che, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 72-bis, che richiama il comma 4 dell’art. 72, l’agente della riscossione non soddisfatto è tenuto a procedere secondo le modalità ordinarie del pignoramento presso terzi ex art. 543 e ss. c.p.c. ed è tenuto a farlo ex novo[18].
Con riguardo agli assai concreti profili esaminati, dunque, visto che per il pignoramento diretto di cui trattasi non vi è mai un intervento del giudice dell’esecuzione, sostituendosi l’ordine di pagamento del riscossore all’assegnazione del giudice, e il giudice subentra solamente in occasione dell’opposizione/impugnazione, parrebbe, invero, opportuno, quando si tratta del giudice tributario, che tale giudice possa, nel contraddittorio con il terzo debitor debitoris, esaurire ogni questione, in modo da evitare passaggi ad altra giurisdizione solamente per la pronuncia delle disposizioni inerenti all’avvenuto pignoramento consequenziali alla decisione resa sull’omessa notifica o meno dell’atto tributario.
4. Ulteriori profili problematici sul riparto di giurisdizione
Tornando, più in dettaglio, ai frequenti casi in cui i motivi di impugnazione davanti al giudice tributario, siano molteplici e tali da lambire sfere di spettanza del giudice dell’esecuzione, e sempre nella prospettiva delineata dalla Suprema Corte che l’atto impugnabile davanti al giudice tributario sia il pignoramento, occorre, in qualche modo, chiarire cosa spetti alla decisione dell’uno o dell’altro giudice, fermi i limiti di cui all’attuale dettato dell’art. 57 d.p.r. n. 602/1973, per quanto non toccato dalla pronuncia della Consulta 31 maggio 2018, n. 114.
Con riguardo ai più ricorrenti motivi di sindacato, di cui sopra si è fatto cenno, sembra che, ai sensi dell’art. 57, comma 1, d.p.r. n. 602/1973, resti comunque riservato al giudice ordinario discettare sulla pignorabilità dei beni.
Altri motivi, a titolo di esempio, del tipo contestazioni di un pignoramento relativo a stipendi, salari o indennità inerenti al rapporto di lavoro o dovute a causa del licenziamento nella misura superiore al quinto, oppure contestazione di pignoramento relativo a conto corrente in cui siano versati unicamente tali emolumenti, effettuati nella misura superiore ai limiti di legge, con i complessi calcoli ai quali è abituato il giudice dell’esecuzione, paiono anch’essi esulare dalla giurisdizione del giudice tributario, che, una volta verificata la ritualità della notifica dell’atto tributario di cui trattasi, su questi punti dovrà declinare la propria giurisdizione e rimandare al giudice dell’esecuzione.
Per fare altro esempio ancora, non è, invece, chiaro, neppure in seno alla Suprema Corte, se il giudice tributario debba occuparsi dell’eccepita prescrizione maturata dopo la verificata rituale notifica dell’atto tributario, o declinare la propria giurisdizione.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 114/2018, e le Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 7822/2020, avevano deciso in favore del giudice ordinario, per il quale, invero, non è così difficile calcolare se, dall’avvenuta notifica dell’atto tributario alla notifica del pignoramento, siano passati dieci anni per i tributi erariali, cinque anni per sanzioni e interessi, cinque anni per i tributi locali e tre per le tasse automobilistiche. Il tutto senza andare a cercare petizioni di principio sull’idea civilistica dell’“estinzione del credito” (e conseguente problematica a chi spetti pronunciarla), totalmente estranea, non solo a parere di chi scrive, ma anche a parere della Suprema Corte in ambito concorsuale[19], alla questione del confine della giurisdizione delineato dall’art. 2, d.lgs. n. 546/1992.
Certo è, dagli esempi fatti, che in sede di impugnazione del pignoramento, al giudice tributario, secondo l’orientamento della Suprema Corte, spetta solo uno spicchio, più o meno ampio, di cognizione e, per il resto, deve declinare la propria giurisdizione. Sicché ne discende un frazionamento del giudizio sull’atto di pignoramento che non pare semplificare il contenzioso.
Al riguardo, per la dinamica che ne deriva, si segnala, ancora, quanto segue.
Volendo considerare la deduzione da parte del pignorato davanti al giudice tributario di due vizi nettamente appartenenti alle due giurisdizioni, su cui il giudice, per la sua parte ha deciso, e per l’altra parte, di non di spettanza, ha declinato la propria giurisdizione, è noto che la riassunzione davanti al giudice munito di giurisdizione sull’altro motivo di contestazione va incardinata nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione ex art. 59 della legge n. 69/2009.
È, tuttavia, possibile che la sentenza del giudice tributario venga impugnata anche in punto giurisdizione e, quindi, non si possa procedere alla riassunzione davanti al giudice dell’esecuzione. In tal caso, poiché gli effetti della sospensione eventualmente disposta ex art. 47 d.lgs. n. 546/1992 cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado, per quanto del pignoramento non è stato annullato in sentenza dal giudice tributario, l’esecuzione andrà avanti, senza potersi incardinare l’opposizione sull’altro motivo.
È, poi, possibile che la sentenza venga impugnata, ma non in punto giurisdizione, allora l’interessato dovrà provvedere, non appena si è formato il giudicato interno, alla riassunzione davanti al giudice dell’esecuzione, ovviamente a mezzo di avvocato. In tale sede dovrà, innanzi tutto, valutarsi se, in ipotesi trattandosi di opposizione, non all’esecuzione, ma agli atti esecutivi, sia stato rispettato fin dal ricorso iniziale davanti al giudice tributario il termine dei venti giorni dalla notifica del pignoramento di cui all’art. 617 c.p.c.
Può, altresì, capitare che la sentenza del giudice tributario venga ribaltata negli ulteriori gradi. Sicché, se in origine l’esecutato aveva vinto, ottenendo l’annullamento del pignoramento per omessa notifica dell’atto tributario, ma non ha coltivato l’altro motivo appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario dell’esecuzione, si ritrova irrimediabilmente pregiudicato. Mentre, se l’ha coltivato, si ha un parallelo procedere dei due giudizi, magari relativi alla stessa notifica dell’atto presupposto (quando si tratta della medesima intimazione di pagamento relativa a titoli esecutivi di diversa natura) con esiti che viaggiano autonomamente tra loro.
Non pare, insomma, che un tale sistema di passaggio dall’un giudice all’altro renda snella e agevole la tutela, né giovi all’andamento dell’amministrazione preposta al recupero.
D’altro canto, neppure è ragionevole ipotizzare che sullo stesso atto di pignoramento vengano proposte contemporaneamente due azioni. L’una, di impugnazione davanti al giudice tributario per far valere l’omessa notifica dell’atto tributario presupposto, e l’altra, davanti al giudice ordinario per far valere lo stesso vizio per la parte in cui l’atto presupposto riguarda anche pretese di natura non tributaria e per tutti gli altri motivi di cui si è detto, dato che potrebbero esserci sullo stesso atto esiti diversi e contrastanti. Sebbene, come, sopra visto, un siffatto evento possa realizzarsi quand’anche il pignoramento sia stato originariamente opposto/impugnato davanti ad uno solo dei due giudici.
5. Le incerte prospettive di una razionalizzazione
Come accennato all’inizio, la legge delega, con l’art. 19, comma 1, lett. c), ha incaricato il Governo di modificare l’art. 57, d.p.r. n. 602/1973 « prevedendo che le opposizioni regolate dagli articoli 615, secondo comma, e 617 del codice di procedura civile siano proponibili dinanzi al giudice tributario, con le modalità e le forme previste dal citato decreto legislativo n. 546 del 1992, se il ricorrente assume la mancata o invalida notificazione della cartella di pagamento ovvero dell'intimazione di pagamento di cui all'articolo 50, comma 2, del medesimo decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973».
A parte la dimenticanza, non da poco, quale atto presupposto, dell’accertamento impoesattivo, e nonostante una vaga assonanza nella formulazione con quanto stabilito al comma 4-bis dell’art. 12, d.p.r. n. 602/1973, di cui sopra si è detto, pare che il testo della norma di delega apra le porte a una prospettiva del tutto “nuova”.
Infatti, questa volta, il legislatore ha sottratto tout court (almeno così sembra) dalla giurisdizione del giudice ordinario le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi di cui agli artt. 615, comma 2, e 617 c.p.c., ad esse sostituendo la giurisdizione, modellata sulle regole del d.lgs. n. 546/1992, del giudice tributario, quale “giudice dell’opposizione”, sia per la fase cautelare (che sarebbe di spettanza del giudice dell’esecuzione), sia per il merito dell’opposizione (che sarebbe di spettanza del giudice ordinario del merito dell’opposizione), questa volta non più eventuale (come per il giudizio di opposizione ordinario) ma usuale.
Resta, peraltro, assai discutibile, ai fini di una chiara delimitazione dei confini del riparto, in ragione di tutti i rilievi già sopra svolti, il fatto che il discrimen tra giurisdizioni sia segnato dall’avvenuta deduzione, o meno, a scelta del contribuente, di un vizio di omessa notifica degli atti menzionati (gli stessi di cui all’art. 2, d.lgs. n. 546), che, se dedotto, trascinerebbe con sé l’intera opposizione degli artt. 615, comma 2, e 617 c.p.c. davanti al giudice tributario.
Sta di fatto, come si è, altresì, accennato, che il legislatore delegato ha completamente ignorato tale direttiva.
Tuttavia, se si considera che, nell’espropriazione tributaria, il giudice dell’esecuzione, qualora non vi sia opposizione, interviene (salvo alcuni casi particolari per l’espropriazione immobiliare) solamente quando si tratta di assegnare le somme ricavate all’ente procedente, oppure distribuirle ex art. 84, d.p.r. n. 602/1973, o per eventuale sub procedimento di conversione del pignoramento, potrebbe non essere così destabilizzante che dell’ “opposizione” delineata dalla legge delega (escluse infatti le opposizioni di terzi) se ne occupi tout court il giudice tributario, piuttosto che il giudice dell’esecuzione, quando, per di più, nel processo esecutivo ordinario, la trattazione di quell’“opposizione” spetta al giudice del merito, limitandosi il giudice dell’esecuzione alla fase sommaria e alla sospensiva.
Questo porterebbe il giudice tributario a decidere su tutte le contestazioni sollevate avverso il pignoramento relativo a tributi, che, peraltro, in ragione della speciale configurazione di quell’esecuzione, è atto proprio del solo agente della riscossione, al pari di tutti gli altri suoi atti già appartenenti alla giurisdizione tributaria.
Al momento, però, in attesa di una rimeditazione del legislatore, auspicabilmente con l’apporto della dottrina, e, perché no, con il contributo della voce dei giudici tributari e ordinari dell’esecuzione, impegnati nel reciproco “palleggio” di cui si è detto, altro non resta che vederne l’assai poco entusiasmante prosecuzione.
[1]Il contributo è tratto, in forma sintetica e rielaborata, dalla relazione Spigolature di "opposizioni" e di "impugnazioni" davanti al giudice tributario nell'esecuzione forzata, tenuta al Convegno L'esecuzione forzata tributaria, presso il Dipartimento di giurisprudenza dell'Università di Catania del 24-25 novembre 2023, i cui atti sono in corso di pubblicazione nel volume L'esecuzione forzata tributaria, Wolters Kluwer-Cedam.
[2] A partire da Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, con la puntuale critica a tale ravvisato collegamento di L. Ferlazzo Natoli, Considerazioni critiche sulla impugnazione facoltativa, Postilla allo scritto di G. Ingrao, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 1114, trattandosi «di due piani diversi e di due interessi che meritano autonoma protezione da parte del legislatore: quello di rendere unitaria la giurisdizione tributaria evitando interferenze con essa di quella amministrativa e ordinaria, e quello della certezza degli atti avverso i quali, e nei termini previsti dall’art. 19, è consentito ricorrere al giudice tributario».
[3] Inventata da Cass., sez. trib., n. 21045/2007, proprio per ovviare alle distorsioni e agli allarmi che l’aver attribuito al giudice l’individuazione degli atti impugnabili (a pena di decadenza) aveva ingenerato.
[4] Cass., sez. un., n. 19704/2015.
[5] Cass., sez. un., n. 13913/2017; Id. n. 13916/2017; Id. n. 24965/2017; Id., n. 7822/2020.
[6]Cass., sez. trib., n. 30736/2021, in Dir. prat. trib., 2022, 986, con nota di G. Glendi, La Suprema Corte finalmente chiarisce, e segna, i confini tra l’impugnazione anticipata e l’impugnazione nel termine decadenziale a pena di consolidamento dell’atto. Con giurisprudenza ormai consolidata, v., Cass., sez. trib., n. 11481/2022; Id., n. 1213/2023; Id., n. 16122/2023; Id. n. 14771/2024; Id. n. 22416/2024.
[7] Cass., sez. un., n. 26283/2022.
[8] Corte cost., n. 190/2023.
[9] Le pronunce a favore dell’impugnazione davanti al giudice tributario sono citate a nt. 4. In favore dell’opposizione davanti al giudice dell’esecuzione si era invece espressa Cass., sez. VI-3, n. 20928/2017.
[10] Trib. Palermo, 11 agosto 2023, n. 3840.
[11] CGT I gr. Vicenza, 14 settembre 2023, n. 273.
[12] Cass., sez. III, n. 13533/2021; Id., n. 9000/2022; Id., n., 3520/2023; Id., n. 5476/2023; Id., n. 10034/2023; Id., n. 16004/2024.
[13] Cass., sez. III, n. 16236/2022; Id., n. 36568/2023; Id., n. 9155/2024.
[14] C. Glendi, Quale termine di efficacia del pignoramento per l’esecuzione esattoriale, in GT- Riv. giur. trib., 2020, 746, ma già E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 562, trattandosi di qualcosa di più di un pignoramento, una vera e propria auto assegnazione del credito.
[15] Cass., sez. III, n. 20294/2011; Cass., sez. VI-3, n. 24541/2014; Cass., sez. III, n. 21258/2016; Id., n. 16236/2022.
[16] CGT I gr. Prato, 16 agosto 2023, n. 71.
[17] Ord. Trib. Lecce, 22 maggio 2019, citata da C. Spalluto e S. Carluccio in ProntoProfessionista.it del 22 luglio 2020.
[18] in tal senso M. R. Giugliano, L’ordine di pagamento diretto ex art. 72-bis d.p.r. n. 602/73: dall’interpretazione evolutiva della giurisprudenza di legittimità alla recente legislazione di urgenza, in inexecutivis.it, 25 luglio 2022, in specie § 7.
[19] Cass., sez. un., n. 34447/2019.
La Strage di Marzabotto 80 anni dopo
Il 29 settembre 1944 alle prime luci dell’alba aveva inizio la più grande strage di civili compiuta dai nazisti in Europa occidentale. Si trattava di un'operazione militare per l'annientamento dei gruppi partigiani e il rastrellamento del territorio nemico. L’eccidio di Montesole non si configura come una rappresaglia bensì come un rastrellamento finalizzato al massacro, parte di una strategia più ampia applicata nel 1944 e nel 1945 dalle truppe tedesche in Italia. L’obiettivo era terrorizzare la popolazione civile al fine di evitare la formazione di qualsiasi forma di resistenza o disperdere gruppi di resistenza già formati.
Sotto il comando del maggiore Walter Reder, più di mille soldati nazisti con elementi italiani appartenenti alla Guardia nazionale repubblicana circondarono una vasta area intorno al Montesole, nei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Vado in provincia di Bologna, procedendo poi sistematicamente, casa per casa, a rastrellare tutta la popolazione civile con una violenza atroce e inaudita perpetrata anche contro bambini molto piccoli e persone anziane. Incendiarono case e intere borgate, ammazzando anche gli animali.
L'eccidio venne compiuto in 115 luoghi diversi tra paesini, case sparse, chiese, cimiteri.
Tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 i militari della 16a Divisione corazzata granatieri delle SS, con la complicità e il supporto di fascisti italiani, assassinarono circa 800 persone, tra cui 221 bambini di età compresa fra i 14 giorni di vita e i 13 anni. Ai pochi sopravvissuti fu impedito per giorni di seppellire i cadaveri, e molti corpi furono rinvenuti mesi dopo. Le mine disseminate dai tedeschi in ritirata continueranno a uccidere, fino al 1966, altre 55 persone. Nel 1951 il paese di Caprara sopra Panico, già sede comunale, sarà dichiarato "nucleo abitato scomparso".
Il procedimento penale fu istruito dalla Procura Militare di La Spezia e il processo di primo grado, avanti il Tribunale Militare di La Spezia, iniziato nella primavera del 2005, vedeva imputati 17 ufficiali delle SS.
Il 13 gennaio del 2007, dopo 23 udienze dibattimentali, venivano dichiarati responsabili del massacro 10 dei 17 ufficiali a processo. Il 7 maggio 2008 la Corte Militare d'Appello di Roma confermava gli esiti della sentenza di primo grado.
Il Processo di La Spezia è stato possibile grazie al ritrovamento nel 1994 del cosiddetto “armadio della vergogna” nella cancelleria della Corte militare di Appello presso la Procura Generale Militare, a Palazzo Cesi in Roma. Si trattava di un armadio con le ante rivolte verso il muro, chiuso da una catena, con al suo interno vari fascicoli riguardanti crimini nazifascisti in Italia tra cui l’eccidio di Marzabotto.
Un altro responsabile della strage, il maggiore Walter Reder, fu giudicato responsabile del massacro di Marzabotto dal Tribunale militare di Bologna nel 1951.
La memoria è viva anche grazie ai sopravvissuti, che soprattutto a partire dalle testimonianze rese a La Spezia hanno iniziato a parlare pubblicamente e nelle scuole.
Tutto il territorio colpito dalla strage è oggi compreso nel Parco storico di Montesole, i cui principali obiettivi oltre alla tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale sono conservare il patrimonio storico e mantenere aperta la riflessione su quanto accaduto per contribuire alla costruzione di una cultura di pace rivolta soprattutto alle giovani generazioni.
La distruzione del tessuto sociale e la devastazione prodotta a Montesole nel 1944 è ancora testimoniata dalle rovine presenti sul territorio. Sono pietre e mura che parlano, a chi le sa ascoltare. Marzabotto-Monte Sole è uno spazio di riflessione sul nostro tempo e sul rapporto tra diritto alla verità, la memoria, il pericolo dell’oblio, l’urgenza di una educazione alla legalità che significhi anche educazione alla pace.
Epigrafe di Salvatore Quasimodo
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati ed arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto,
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira,
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua Brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini di ogni terra
non dimenticano Marzabotto,
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
Il Tribunale di Firenze, con l’ordinanza che si annota, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 (pubblicata in GU n.187 del 10 agosto 2024 ed entrata in vigore il 25 agosto 2024), nella parte in cui ha abrogato l’art. 323 c.p., per violazione degli articoli 97, 11 e 117, comma 1 Cost. (in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione - cd. Convenzione di Merida - adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116.
Il Tribunale, premessa la rilevanza dell’abrogatio criminis, ha affrontato la delicata questione del sindacato in malam partem, rilevando che la preclusione ex art. 25 Cost. di sentenza costituzionale, con effetti penali in malam partem, è ammessa nel caso di specie per “contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, co. 1 Cost.” (come chiarito dalla stessa sentenza Corte Cost. n. 8/2022 e più diffusamente da Corte Cost., n. 236 del 2018, n. 143/2018 e n. 37/2019).La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma che ha abrogato il reato di cui all’art. 323 c.p. è correlata all’effetto che si determina sul buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione per il venir meno di un presidio penale contro gli abusi dei pubblici ufficiali.
Richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 8/2022, il Tribunale di Firenze ha dunque ritenuto che l’affermazione per cui in astratto le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni, non vale nel caso di specie in quanto il vuoto di tutela determinato dall’abrogazione tout court dell’art.323 c.p. e dalla sostanziale inapplicabilità del novellato art. 346 bis c.p. si pone in contrasto con l’art. 97 Cost.
Secondo il Tribunale di Firenze è dunque affetta da irragionevolezza la norma abrogativa dell’art. 323 c.p. “atteso che: da un lato, non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. “paura della firma” o “burocrazia difensiva”) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (ed ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale; dall’altro lato, non appare adeguatamente ponderato (e men che meno contenuto o neutralizzato)l’effetto dirompente che può avere la riforma, per il venir meno dell’effetto general-preventivo spiegato dalla presenza nell’ordinamento di una norma di chiusura che -seppur ormai relegata ad operare in casi eccezionali di particolare ed obiettiva gravità- evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura”.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.