ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giulia Cavallone, un ricordo
di Sibilla Ottoni
Dal 21 settembre 2020, al Tribunale di Roma, c’è un’aula intitolata alla memoria di Giulia Cavallone. Qualche parola, allora, per ricordare chi era Giulia, e per raccontarlo a coloro che non l’hanno conosciuta, se frequentando quell’aula, leggendo quella targa, chiederanno di lei.
Si è svolta pochi giorni fa la cerimonia di intitolazione dell’ex aula 18 del Tribunale penale di Roma alla memoria di Giulia Cavallone, giovane magistrato, scomparsa a soli 36 anni lo scorso aprile dopo una lunga lotta contro la malattia. Una lotta combattuta anche, fino all’ultimo, dentro quell’aula ed in quelle stanze della Settima Sezione.
La partecipazione e la commozione testimoniate durante la cerimonia non sono dovute soltanto alla giovane età, allo sconcerto che inevitabilmente si prova di fronte alla notizia di una morte prematura ed ingiusta. Chi vi ha partecipato sa che c’è qualcos’altro; qualcosa che spiega non tanto e non soltanto l’onore riconosciutole, ma anche, soprattutto, l’autenticità e la dura intensità di questo cordoglio.
Quel qualcosa era tangibile nell’aria durante la commemorazione. Coloro che non hanno mai incontrato Giulia potrebbero non averne colto appieno il colore, il tono. Non aver sentito, come a noi è parso di sentire, i commenti sarcastici che lei avrebbe riservato ai pochi ma inevitabili scivolamenti nella retorica che caratterizzano, forse, ogni cerimonia solenne. Non aver visto, come a noi è parso di vedere, il sorriso ironico che le sarebbe affiorato nel prendere atto di quel velo di malinconia che alcuni le hanno inventato negli occhi, nell’ascoltare le versioni altrui di quegli ultimi giorni di udienza, così sfumatamente ma sensibilmente diverse dalla propria. Eppure, certamente, anche chi non l’ha mai incontrata ha dovuto arrendersi all’incontenibile tremore delle mani, alla nota spezzata nella voce, alla forza delle parole pronunciate per lei in quell’occasione dai congiunti, dagli amici e dai colleghi.
Di lei è stato detto che era mite, gentile, disponibile. Che era una giurista di notevole spessore. Che era un magistrato di grande impegno, serietà, dedizione alla funzione. Chiunque sia avvezzo al tenore delle celebrazioni grandi o piccole, riservate o solenni, che accompagnano ogni mutamento di funzioni, di ufficio, di carriera, o finanche ai toni contenuti nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, sentirà risuonare in questi attributi il vuoto dell’étiquette. Ma chi era in quella sala ha potuto percepire quel qualcosa, apprezzare uno scarto: comprendere che Giulia era tutte queste cose davvero.
Era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali a cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici.
E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli. Quasi impercettibili nel contegno impeccabile che Giulia aveva in ogni contesto, nell’orgoglio del suo riserbo. Eppure c’erano.
La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano.
Come ha ricordato Edoardo, il suo compagno, la vita di Giulia è stata profondamente intenzionale. Dedicata costantemente a lavorare su di sé, ed attraverso questo lavoro, capace di fare da esempio, di seminare il germe di qualcosa che le sopravvive.
Nel cortile della città giudiziaria, un ulivo è stato messo a dimora in memoria di Giulia, con una targa che recita: “Siate giusti, siate gentili”. L’auspicio è che quella targa, così come quella affissa davanti all’aula che porta il suo nome, possano stimolare, insieme al ricordo, una riflessione più profonda sul ruolo di ciascuno di noi, non solo come magistrati. In onore di un giudice e di una donna di tutta sostanza ed alcuna apparenza, che credeva profondamente in quello che faceva e che con questa attenzione, con questa intenzione, ha svolto la funzione che aveva scelto.
Decidere nell’emergenza. Limitazione e bilanciamento dei diritti fondamentali - Video del webinar AIPDA del 9.10.2020 L'Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo - AIPDA ha dedicato il suo convegno annuale al tema della limitazione e del bilanciamento tra diritti fondamentali nell'emergenza pandemica, prendendo spunto dall’intervista di Jurgen Habermas e Klaus Gunter e dalla rilettura operata dalla dottrina giuspubblicistica italiana ospitate da GiustiziaInsieme.
Il video riproduce gli atti del Convegno, presieduto da Carla Barbati e coordinato dal Prof. Fabio Francario, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Franco Scoca, Mimmo Sorace, Pierluigi Portaluri, Antonio Bartolini, Cecilia Corsi, Matteo Gnes e Chiara Cacciavillani.
Ripartire dai fatti: per un diritto delle relazioni familiari che parta dall’esperienza
Una vicenda processuale emblematica, sul cui sfondo si intrecciano più traiettorie giuridiche, psicologiche e socio-politiche di Ilaria Boiano
Nell’annotare il decreto della Corte d’Appello di Roma - Sezione per i minorenni, decreto 3 gennaio 2020, n.2 - Est. Pierazzi, si procederà a ripercorrere i parametri di verifica della compatibilità dei provvedimenti con il benessere dei minori, per poi dedicare uno spazio alla riflessione critica della cornice teorico-politica all’interno della quale si inseriscono le attività di accertamento e di decisione dell’autorità giudiziaria in ambito di diritto di famiglia e regolamentazione dell’affidamento dei figli.
Sommario: 1. La vicenda giudiziaria e i provvedimenti oggetto di reclamo - 2. I criteri di controllo della conformità al superiore interesse dei minori dei provvedimenti in materia di regolamentazione dell’affidamento dei figli - 3. La cornice discorsiva “mother blaming” quale forma di discriminazione nei confronti delle donne.
1. La vicenda giudiziaria e i provvedimenti oggetto di reclamo
Il provvedimento in commento interviene nel contesto di una vicenda familiare e processuale molto articolata, tuttavia sempre più comune dinanzi agli uffici giudiziari: una donna decideva di interrompere la relazione sentimentale con il compagno e chiedeva la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore dinanzi al Tribunale ordinario, lamentando profili di inadeguatezza del padre, il quale, a sua volta, attribuiva alla madre del bambino comportamenti ostativi all’esercizio della sua genitorialità.
Il Tribunale ordinario stabiliva l’affidamento del minore ai servizi sociali, con collocamento dello stesso presso la madre, regolava la frequentazione paterna, limitando la responsabilità genitoriale di entrambi alle questioni di ordinaria amministrazione e rimettendo al servizio sociale le decisioni più importanti inerenti il minore. Tale decisione si basava principalmente sulle valutazioni della consulente tecnica incaricata della valutazione delle competenze genitoriali: all’esito dell’indagine nessuno dei genitori è stato ritenuto «inidoneo a svolgere il compito genitoriale», ma venivano segnalate «significative difficoltà nella relazione tra i due adulti, specie da parte della [donna] che evitava o limitava al massimo l’interazione con l’[uomo], e come tali difficoltà fossero tali da potenzialmente costituire un grave pregiudizio per il futuro sereno e positivo sviluppo [del figlio]. In particolare, l’ausiliaria del giudice rilevava che «l’analisi complessiva del profilo di personalità e del funzionamento psicologico della [donna] pone in evidenza due livelli di genitorialità decisamente diversi e divaricati: da una parte ella risponde ai basilari bisogni di protezione e sicurezza del figlio: dall’altra, tende a costituire, in termini fattuali e psicologici anche se non intenzionalmente, un ostacolo allo strutturale, evolutivo bisogno [del figlio] di accedere serenamente e con continuità alla figura paterna». Con riferimento al padre, invece, la consulente tecnica rilevava «come lo stesso manifestasse la tendenza a riversare sull’altro e sull’esterno le proprie problematiche, in maniera anche rivendicativa e strumentale», senza tuttavia approfondire come questo atteggiamento interferisse nella relazione con la controparte e, soprattutto, con il figlio.
Nel tempo i rapporti tra le parti si sono fortemente deteriorati: la donna veniva aggredita nel corso di una visita paterna al figlio, l’uomo denunciava a sua volta il nonno materno per aggressione e dava avvio a una campagna giudiziaria inarrestabile, arrivando a presentare contro la donna ben diciassette denunce e atti di integrazione, per lo più a margine della sua frequentazione del figlio.
Il provvedimento del Tribunale ordinario veniva impugnato dinanzi alla Corte di appello che interinalmente disponeva che gli incontri padre-figlio si svolgessero in contesto protetto, respingendo poi nel merito l’impugnazione delle parti e, sulla base di un aggiornamento dei servizi sociali, invitava la donna ad assicurare «un intervento agevolatore» della frequentazione padre-figlio, indicava un percorso di sostegno alla genitorialità per entrambi i genitori e suggeriva l’avvio di un percorso terapeutico anche per il minore «per superare le crescenti preoccupanti difficoltà e paure ad incontrare e frequentare il genitore non convivente». Quest’ultimo, ritenendo sempre la madre responsabile di un comportamento ostativo della sua genitorialità, proponeva ricorso innanzi al Tribunale per i Minorenni ai sensi degli artt. 330, 333 e 336 c.c. per ottenere la dichiarazione di decadenza della donna dall’esercizio della responsabilità genitoriale e per ottenere l’allontanamento del bambino dalla madre e dalla sua famiglia con collocamento presso di sé, previo eventuale inserimento in una struttura residenziale educativa.
Nell’ambito del giudizio così instaurato, mentre si susseguivano reciproche denunce, poi rimesse in ottica conciliativa, il bambino giungeva a rifiutare nettamente l’incontro con il padre ribadendo dinanzi al Tribunale «di non volere vedere il padre perché ne ha paura e di essere felice con la madre e con i nonni, giungendo a scoppiare più volte in pianto al reiterarsi delle richieste di riconsiderare il suo rifiuto, ribadendo di avere paura del padre e di non volere essere allontanato dalla propria casa. Tale paura veniva riportata dal minore anche agli operatori del Servizio Sociale, che hanno riferito che il bambino chiedeva di far sì che il padre non si recasse più per incontrarlo al centro sportivo, perché lo spaventava».
A seguito di ulteriore consulenza tecnica, questo rifiuto veniva attribuito, ancora una volta, «causalmente» alla madre, la quale, a dire dell’ausiliaria del giudice, avrebbe nel tempo «condizionato psicologicamente, direttamente/indirettamente e volontariamente/involontariamente, [il figlio] per cancellare la figura paterna, non garantendo una tutela alle cure e il diritto alla bi-genitorialità del minore». Come “terapia” la consulente indicava al Tribunale di allontanare il minore «in via immediata e urgente dalla madre e dal suo contesto familiare; di trasferirlo in una struttura protetta per minori per un periodo non inferiore a tre mesi, con rientro presso l’abitazione del padre; di sospendere tutti i contatti tra madre e figlio per un periodo di tre mesi; di prevedere un trattamento psicologico comprensivo di psicoterapia sul minore e il recupero del rapporto affettivo padre-figlio». Prima il Tribunale per i minorenni incaricava il servizio sociale di individuare «una struttura altamente specialistica per presa in carico e predisposizione di un percorso di psicoterapia diretto “anche” al ripristino del rapporto con il padre, di attivare con urgenza incontri in spazio neutro, senza la madre, con cadenza trisettimanale “gradatamente implementata”, anche nel periodo estivo, ai quali il minore avrebbe dovuto essere accompagnato da educatore domiciliare o altra persona individuata dal tutore». Con successivo provvedimento, ritenendo il minore «esposto al serio rischio psicopatologico di sviluppare negativamente la propria personalità e l’identità del proprio sé, con possibile sostituzione della figura paterna, rischio che il Tribunale deve scongiurare con un immediato intervento a tutela del bambino anche al fine di garantire il suo diritto alla bigenitorialità», il Tribunale per i minorenni disponeva l’immediato allontanamento del minore dalla madre ed il suo collocamento presso il padre, l’immediato avvio del minore al percorso psicoterapeutico, con incontri protetti tra la madre ed il figlio con cadenza ogni quindici giorni alla presenza di personale specializzato e previsione di interventi di sostegno e monitoraggio del Servizio Sociale. Nel caso in cui il collocamento presso il padre fosse risultato difficoltoso, il Tribunale disponeva che il minore avrebbe dovuto essere inserito in una casa famiglia per il tempo necessario al recupero del rapporto padre-figlio.
La madre procedeva quindi a impugnare entrambi i decreti dinanzi al Tribunale per i minorenni e poi riassumeva il giudizio dinanzi alla Corte di appello di Roma, sezione minorenni.
Il decreto in commento interviene nella vicenda giudiziaria fin qui ricostruita non confermando la decisione del Tribunale per i minorenni di dare seguito alle indicazioni della consulente tecnica e compie un’operazione giuridica di cui la vicenda processuale, ma anche in generale l’orientamento giurisprudenziale di merito in tema di regolamentazione dell’affidamento dei minori, risultava avere urgenza: il giudice del gravame tenta di ricentrare l’attenzione dei soggetti coinvolti, in particolare di quelli istituzionali, sul bambino, restituendo a quest’ultimo la dignità di soggetto di diritto nei confronti del quale ogni misura adottata deve rispondere a criteri di ponderazione rigorosa e rispettosa dei suoi diritti fondamentali, senza dimenticare di segnalare come le relazioni familiari e affettive siano per loro natura refrattarie a interventi coercitivi, addirittura demandati all’esecuzione con ausilio della forza pubblica, fatto che per quanto possa sembrare di facile comprensione e massima di esperienza comune, è sempre più spesso ignorato nella prassi giudiziaria.
Preliminarmente in questa breve nota si procederà a ripercorrere i parametri di verifica della compatibilità dei provvedimenti con il benessere del minore interessato così come delineati dal provvedimento in esame.
Si dedicherà poi uno spazio alla riflessione critica della cornice teorico-politica all’interno della quale si assestano ancora le attività di accertamento e di decisione dell’autorità giudiziaria in ambito di diritto di famiglia e regolamentazione dell’affidamento dei figli: questo settore, infatti, risulta sempre di più piegato dal paradigma della bigenitorialità perfetta di elaborazione psico-sociale, perseguita con ogni mezzo, anche coercitivo, in quanto individuato dai “professionisti del conflitto” (mediatori familiari, terapeuti e psicologi forensi), quale baricentro della salute mentale del minore, e con lui della “salute pubblica”, minacciate l’una dall’assenza del padre come figura concreta e l’altra dal padre inteso come archetipo della norma (G. Petti-L. Stagi, Nel nome del padre. Paternità, conflitti e governo della famiglia neoliberale, Ombre Corte, 2015).
2. I criteri di controllo della conformità al superiore interesse dei minori dei provvedimenti in materia di regolamentazione dell’affidamento dei figli
La Corte di appello, prendendo le mosse innanzitutto dalla ricostruzione fattuale della vicenda, sottolinea la concretezza della paura della donna al mantenimento di un rapporto del figlio «con una figura paterna che lei sinceramente ritiene pericolosa, che agisce con quello che sembra una sorta di freddo intento risarcitorio nei confronti della [donna]», anche se questo significa «spaventare, come è accaduto, [il figlio] inviando le forze dell’ordine presso la sua abitazione e attentare alla tranquillità della sua vita familiare con un inusitato stillicidio di denunce, nei confronti della [madre] e dei suoi familiari, che certamente ha contribuito a fare percepire dalla reclamante [l’uomo] come oggettivamente minaccioso».
Si ristabilisce così ordine tra gli elementi che l’autorità giudiziaria deve vagliare, restituendo il giusto valore conoscitivo a una ricostruzione documentata dei fatti che le parti sottopongono all’autorità giudiziaria, prima che gli stessi fatti siano “manipolati” fino quasi a sparire dietro le valutazioni psicodiagnostiche
La Corte prosegue quindi rilevando che sotto il profilo giuridico non può essere messo in discussione «il diritto della [donna] di recuperare la propria serenità attraverso la rielaborazione e la presa di distanza da una relazione che per lei è stata fonte di sofferenza e umiliazione», senza trascurare tuttavia anche il diritto del padre «di vedere rispettati i giorni e gli orari degli incontri con il figlio».
Queste due posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte devono essere bilanciate nel procedimento relativo alla disciplina dell’affidamento del minore senza mai prendere il sopravvento sul suo superiore interesse, concetto che nel provvedimento in commento non rimane più vuota formula, ma si concretizza nel «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.).
È questa la dimensione che racchiude salute fisica e psichica, ma anche l’insieme dei fattori che assicurano il pieno sviluppo e realizzazione della personalità del minore, e che «riveste un rilievo assolutamente preminente», ma in concreto nella vicenda in esame ignorato dal Tribunale per i minorenni allorché ha disposto di procedere all’allontanamento del bambino dalla casa familiare con collocamento presso il padre ovvero in casa famiglia, con drastica limitazione dei rapporti con la madre.
Il superiore interesse del minore che pur è menzionato quale principio che ispira il provvedimento impugnato, secondo l’autorità del gravame «non appare sorretto da un adeguato bilanciamento, in mancanza del quale esso rischia di risolversi in una formula precostituita, che non tiene conto delle situazioni concrete che giungono all’attenzione del giudice nel caso specifico, accogliendo soluzioni apparentemente definitive ma di fatto inapplicabili e fonti di eccessiva sofferenza per il minore».
Il Giudice d’appello sottolinea, infatti, che la decisione del Tribunale per i minorenni non superi positivamente il controllo di corrispondenza del decisum con il benessere del bambino e in particolare rileva come nell’adozione della misura abbia omesso di: a) valutare comparativamente gli effetti sul minore del provvedimento rispetto al beneficio atteso; b) assicurare gradualità della misura adottata; c) verificare la fattibilità/sostenibilità della misura che ne condiziona l’efficacia.
Con riguardo alla valutazione comparativa degli effetti dell’allontanamento coattivo dalla casa familiare e l’interruzione, seppure temporanea, di ogni rapporto con la madre e la famiglia materna, la Corte di appello rileva la grave lacuna tanto nel decreto reclamato quanto nella consulenza tecnica d’ufficio di un approfondimento degli effetti sul bambino dell’allontanamento e del trauma conseguente e si propone così una modalità di attuazione coattiva del diritto alla bigenitorialità del minore, declinato nei fatti come esercizio di una potestà che si realizza attraverso l’annullamento ritorsivo dell’altro genitore sulla pelle del bambino, ridotto a res strumentale all’esercizio di una prerogativa unilaterale. Lo stesso diritto alla bigenitorialità, come elaborato in sede dottrinaria e giurisprudenziale, così è tradito dal momento che come si legge nel provvedimento in commento, «in quanto la bigenitorialità non è un principio astratto e normativo, ma è un valore posto nell’interesse del minore, che deve essere adeguato ai tempi e al benessere del minore stesso» (da ultimo Cassazione civile sez. I, 17/09/2020, n.19323), mentre attraverso misure come quelle disposte nel provvedimento oggetto di reclamo si pratica nei fatti una sostituzione di una figura genitoriale all’altra, per lo più del padre alla madre (cfr. Comitato Cedaw, Concluding observations- Italy, 2017; L. Pomicino; L.Beltramini; P. Romito, Freeing Oneself From Intimate Partner Violence: A Follow-Up of Women Who Contacted an Anti-violence Center in Italy Violence Against Women, 2019, Vol. 25 n. 8, pp. 925–944), anche prospettando il ricorso all’ausilio della forza pubblica, così legittimando modalità di natura smaccatamente punitiva nei confronti del bambino, privato del suo mondo da un giorno all’altro.
Come si legge nel decreto in commento, «il dolore vivo della forzata separazione, con drastica limitazione anche dei contatti telefonici, rimane sullo sfondo, recessivo rispetto alla ritenuta prevalenza dell’interesse alla attuazione coattiva del sempre richiamato diritto alla bigenitorialità».
Richiamando quindi l’attenzione sulla necessità per il giudicante di avvicinarsi al caso concreto e mettersi in ascolto dei fatti per realizzare effettivamente l’interesse concreto del minore coinvolto, senza piegare la realtà alla luce di assiomi astratti con misure che assurgono a trattamenti inumani, la Corte di appello legge nella paura del minore la misura concreta della non corrispondenza tra interesse del minore e il provvedimento adottato: «non appare realistico presumere che la paura [del bambino], e la paura della madre che [il bambino] mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. [il bambino] si troverebbe così […] incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e paura e comunque estranea».
Come si può pensare di ricostruire la relazione di fiducia e affetto con il padre in questa situazione di sofferenza? Si domanda la Corte di appello, ma, ancora, si domanda chi scrive, quale diritto o libertà fondamentale di una persona si realizza attraverso misure punitive dello stesso soggetto titolare del diritto o della libertà che si intende garantire?
È nel paradosso sotteso a questi interrogativi che si rinviene l’illegittimità della decisione impugnata, che non è caso isolato, ma ricalca un orientamento acriticamente adottato dagli uffici giudiziari sul territorio e finanche recepito dalla Suprema Corte, (Cassazione civile, 19 maggio 2020, n. 9143, sez. I, con nota di G.E. Aresini, Bigenitorialità: un valore da preservare a tutti i costi? Ilfamiliarista.it, 20 luglio 2020), così come il suo disancoraggio da solidi riferimenti medico-scientifici, considerato il rigetto unanime da parte della comunità scientifica del nesso causale tra presunto atteggiamento induttivo della madre e rischio di involuzione psicopatologica del minore, argomento a fondamento della cosiddetta “alienazione genitoriale”, anche indicata con la sigla PAS, dall’inglese Parental Alienation Syndrome, di recente oggetto di attenzione da parte del Ministero della salute che, a seguito di interrogazione parlamentare della senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, ha sottolineato nella risposta del 29 maggio 2020 l’uso improprio del concetto di alienazione nei termini di sindrome nei procedimenti di separazione e affidamento e degli interventi di “riprogrammazione” dei bambini attraverso l’allontanamento (per una lettura critica si rinvia a M. Crisma, P. Romito, L’occultamento delle violenze sui minori: il caso della Sindrome da Alienazione Parentale. Rivista di Sessuologia, n. 31 vol. 4, pp. 263-270; P. Romito, Storia della Sap, la sindrome che esiste solo in Tribunale. Sanità24, 2013; G. Kim Blank, T. Ney, The deconstruction of conflict in divorce litigation: a discursive critique of parental alienation syndrome and the alienated child, in Family Court Review, vo. 44, n. 1, 2006, pp. 135-148).
La seconda ragione per la quale la Corte di appello di Roma non ha confermato il provvedimento di allontanamento e di collocamento del minore presso il padre, è strettamente conseguenziale allo scorretto bilanciamento operato tra i diversi profili di rischio per il benessere del bambino e attiene al difetto di gradualità della misura disposta: il giudice del gravame ribadisce che «per ricostruire una relazione padre-figlio basata sulla fiducia e sull’affetto non esistono scorciatoie normative e l’avvicinamento deve essere necessariamente graduale» e appare «velleitario ritenere che sia possibile ricostruire un legame parentale recidendo l’altro. E questo rimane vero anche ove si condividesse la convinzione della CTU della sostanziale artificiosità della paura [del bambino] nei confronti del padre».
In questo passaggio argomentativo del decreto in commento l’autorità giudicante si sofferma a censurare qualsivoglia approccio rigido che reiteri «in una escalation provvedimentale il contenuto del precetto ineseguito» e nella consapevolezza della natura complessa che hanno le relazioni umane, comprese quelle familiari, si legge un inusuale quanto cruciale invito a «pazientemente continuare a tentare altre strade», evitando di comportarsi
“come i geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali scoprendo che nell’esperienza due rette apparentemente parallele spesso si incontrano, rimproverassero alle linee di non mantenersi diritti, come unico rimedio alle disgraziate collisioni che si verificano; mentre in realtà non vi è altro rimedio che respingere l’assioma delle parallele e costruire una geometria non euclidea” (Keynes, 2013, pp 200-201, in Petti-Stagi, cit., p. 15).
Nel caso di specie, secondo la Corte, «il principio di gradualità richiede la previsione di prescrizioni puntuali e concrete che tengano conto degli impegni attuali e concreti [del bambino], impegni che devono immediatamente essere ripresi nella loro pienezza scolastica, sportiva e sociale», così rigettando la percorribilità dell’operazione di “riprogrammazione” individuale e sociale che la misura disposta si prefigge: per ristabilire la relazione con il padre, secondo la prospettiva teorica avallata dal provvedimento impugnato, si dovrebbe reagire recidendo bruscamente quella con la madre e con tutto il mondo che il bambino ha costruito grazie alla sua mediazione.
Oltre a non risultare graduale né misura rispettosa del benessere del minore, l’ordine di allontanamento del minore dalla madre con collocamento presso il padre ovvero presso struttura residenziale non è stato sottoposto, secondo la Corte di appello, a una rigorosa verifica in ordine alla sua concreta fattibilità/sostenibilità, presupposto che condiziona l’efficacia.
Sul punto la Corte di appello sottolinea infatti come la mancata esecuzione dei provvedimenti precedentemente adottati nelle sedi giudiziarie, in parte riconducibile anche a incolpevoli limiti e difficoltà organizzative dei servizi territoriali, non può rimediarsi con provvedimenti altrettanto ineseguiti, ma, ancora una volta, «con la sperimentazione di percorsi differenti».
In definitiva, si rinviene nel provvedimento in commento un’esortazione all’autorità giudiziaria di prime cure ad avere coraggio e riappropriarsi della propria funzione di giudice capace, più di altri soggetti istituzionali e professionisti “del disagio”, di porsi in prossimità ai minori e all’aspettativa di protezione che, come emerge dalla pratica processuale, gli stessi sempre e ancora ripongono nell’autorità giudiziaria.
Il passaggio argomentativo sopra richiamato smaschera, in chiusura, anche le inadeguatezze dei servizi chiamati a intervenire nei procedimenti di regolamentazione dell’affidamento con le funzioni più svariate (dal monitoraggio al supporto, dalla mediazione alla protezione), ma senza risorse concretamente sufficienti e senza professionalità adeguate. E così, ritornando al caso concreto, l’intervento che richiederebbe la presenza di educatore esperto per ventiquattro ore al giorno è di fatto ineseguibile, in quanto non può essere fornito dal servizio un intervento di tale natura per più di tre ore giornaliere, se non ricorrendo ad operatori privati pagati dal padre, «soluzione non adeguata sia per la mancanza di garanzie sulla professionalità di tali soggetti che per la mancanza di terzietà che il rapporto economico inevitabilmente ingenererebbe».
Peraltro, questo corollario dell’ordine di collocamento presso il padre, ma con ausilio di figura professionale ventiquattro ore al giorno sottende una valutazione di complessiva inadeguatezza della figura genitoriale paterna che avrebbe meritato maggiore approfondimento nella motivazione: si giunge a disporre l’allontanamento di un bambino dalla madre, comunque sempre ritenuta «rispondente ai basilari bisogni di protezione e sicurezza del figlio», con incontri protetti con cadenza quindicinale, per collocarlo presso l’altro genitore che però si ritiene necessitare di ausilio permanente per svolgere la sua funzione genitoriale.
La Corte di appello di Roma procede quindi ad approfondire nel caso in esame in base ad elementi concreti il modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, le rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, indicando come strada percorribile per vagliare la possibilità, in sicurezza, di ristabilire una relazione affettiva tra padre e figlio, con gradualità e nel rispetto dei tempi del minore, la progressiva attribuzione al padre della responsabilità di impegni quotidiani che concretizzano nel caso in esame i doveri di cura e accudimento. Così, nella prospettiva del giudice del gravame, la genitorialità si vede tradotta in concreto e secondo diritto in responsabilità dell’adulto nei confronti dei minori, superando la prospettiva ancora prevalente nella quale la genitorialità viene declinata secondo logiche rivendicative che richiamano il superato istituto della potestas genitoriale.
3. La cornice discorsiva “mother blaming” quale forma di discriminazione nei confronti delle donne
Lo sfondo lungo il quale si è dipanata la vicenda processuale venuta all’esame della Corte di appello di Roma è il prodotto dell’intreccio di più traiettorie discorsive giuridiche, psicologiche e socio-politiche: dal principio della bigenitorialità di produzione giurisprudenziale al criterio “dell’accesso”, elaborato in sede di valutazioni psicoforensi per valutare il comportamento di un genitore nell’agevolazione della relazione del figlio con l’altro, passando per l’alienazione genitoriale e la terapia della “minaccia” per ristabilire la relazione genitoriale minata dall’alienante.
Tutte questioni divulgate attraverso una narrazione in apparenza neutra dal punto di vista di genere, che però risulta nella pratica processuale intrisa di pregiudizi sessisti contro le donne, additate sempre come responsabili delle difficoltà relazionali tra i padri e i figli e ciò a seguito di valutazioni psicodiagnostiche che generalizzano luoghi comuni e stereotipi e si dilettano in giudizi prognostici di futuri danni che da comportamenti materni etichettati nei termini di “eccesso di protezione” potrebbero derivare alla salute psicofisica dei figli. Ciò, peraltro, si innesta in una cornice di analisi veicolate da noti autori contemporanei (cfr. tra i vari M. Recalcati; L. Zoja; C. Risé), che attraverso l’elaborazione di un sapere psicoanalitico divulgativo, non di rado accattivante e accessibile, individuano nella «società senza padre» (Fatherless Society), e quindi senza “norma”, il nodo della crisi della società contemporanea, un disagio sociale che va curato «con una nuova Legge, un nuovo Padre e un nuovo Ordine» (G. Petti-L. Stagi, cit., p. 9). Concausa del pericolo della società senza padri, insieme alla crisi della mascolinità come tradizionalmente costruita (sul tema si rinvia a S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, 2009; L. Gasparrini, Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, Settenove, 2016), sono le donne, contro le quali si è stratificato un repertorio di narrazioni “mother blaming”, che imputano loro, proprio in quanto madri, la responsabilità di tutti i comportamenti definibili come socialmente devianti, in un processo di colpevolizzazione che non avviene mai in forma diretta, ma occultando la critica rivolta alle donne dietro l’elogio dei valori della famiglia tradizionale e le preoccupazioni per una sana bigenitorialità che garantisca pari diritti e doveri per entrambi i genitori, promuovendo il discorso della genitorialità responsabile e cooperativa, a sostegno sia di madri sia di padri, come co-beneficiari di una genitorialità parificata.
Se da una parte, in questo registro narrativo, la famiglia è chiamata in causa perché si faccia pienamente carico del suo ruolo di agenzia di controllo primario, in base al presupposto che la sua dissoluzione e l’indebolimento della figura paterna come riferimento normativo, siano alla radice delle numerose patologie sociali che affliggono la società contemporanea, dall’altra parte con la separazione la famiglia di viene a sua volta patologica e il rimedio allora è fissarne la struttura a un quadro di normalità claustrofobica. Ogni comportamento difforme o modello organizzativo divergente da quello nucleare binario diviene sospetto e rilevante dal punto di vista nosografico. Così, scrive la sociologa Gabriella Petti, si curano le patologie sociali con la patologizzazione della famiglia attraverso una narrazione in apparenza neutra dal punto di vista di genere, che però si traduce in una violenza istituzionale di genere rivolta alle donne in modo così sproporzionato da potersi qualificare nei termini di discriminazione diretta nei confronti delle donne (cfr. Comitato CEDAW, 2011; 2017; GREVIO, 2020) e che rende concreta esperienza la paura «di perdere i figli», minaccia che comunemente le donne si sentono rivolgere dal partner che subisce la fine della una relazione sentimentale, soprattutto quando la ragione della fine della relazione è la determinazione delle donne a non subire più violenza dal partner (cfr. COE, Explanatory Report to the Istanbul Convention, 2011).
Quest’operazione culturale e politica che accomuna gran parte degli ordinamenti giuridici con una legislazione formalmente avanzata in tema di diritto di famiglia, uguaglianza di genere e prevenzione della violenza nei confronti delle donne, è riprodotta e amplificata dalla gestione legale della separazione e dell’affidamento dei figli: la magistratura, per reagire alla narrazione degli uffici giudiziari, divulgata anche grazie alla stampa, quali contesto pregiudizievolmente orientato contro i padri, descritti come deprivati dell’affetto filiale e resi poveri dagli obblighi di mantenimento, offre sempre più terreno agli esperti della mediazione familiare e alla psicologica forense che veicolano indisturbati il regime discorsivo della bigenitorialità e il suo risvolto patologico dell’alienazione genitoriale. Prendono così il sopravvento, in particolare attraverso l’istituto della consulenza tecnica d’ufficio disposta ex art. 61 c.p.c., valutazioni psicodiagnostiche che generalizzano luoghi comuni e stereotipi sessisti (R.E. Emery, R. K. Otto, W.T. O’Donohue, A Critical Assessment Of Child Custody Evaluations. Limited Science and a Flawed System. Psychological Science in the Public Interest, vol. 6 n. 1, pp. 1-29), e sottopongono conclusioni prognostiche di futuri danni che deriverebbero ai figli per lo più da comportamenti materni di protezione, così veicolando nei processi civili paradigmi argomentativi deterministici degni del scuola penale positivista di inizio Novecento, mentre la violenza, fisica o psicologica, non di rado direttamente assistita dai bambini e che spesso è la causa fattuale della loro resistenza a incontrare da soli il padre, viene oscurata, se non proprio occultata (Women’s Aid, Child First: Safe Child Contact Saves Lives, 2017; L. Pomicino; L.Beltramini; P. Romito, Freeing Oneself From Intimate Partner Violence: A Follow-Up of Women Who Contacted an Anti-violence Center in Italy Violence Against Women, 2019, Vol. 25 n. 8, pp. 925–944).
La giustizia viene quindi riorganizzata deformalizzando la ritualità processuale: in caso di inadeguatezza del regime di affidamento condiviso alla situazione concreta, ignorando che esperienza comune per le donne è subire dall’ex partner l’esercizio della genitorialità quale pretesto per continuare a esercitare controllo sulla loro vita, l’interpretazione della norma e i principi di diritto cedono il passo a resoconti psicologici, rapporti dei servizi sociali, indagini sulla personalità dei genitori ed esame della condizione psicologica dei minori. Nell’amministrazione del diritto, l’ausiliare del giudice si contrappone all’autorità giudiziaria come soggetto “davvero” super partes, sebbene la sua imparzialità, terzietà ed equidistanza dalle parti sia quantomeno discutibile alla luce delle molteplici relazioni professionali che si intrecciano tra gli esperti che si avvicendano continuamente nei ruoli di consulenti d’ufficio e di parte dinanzi ai medesimi uffici giudiziari. Si consideri inoltre che la postura che per lo più si predilige come garanzia di imparzialità è la distanza dai fatti così come accertati dall’autorità giudiziaria, compresa quella penale, e ciò anche dinanzi a provvedimenti definitivi, ritenendo, del tutto arbitrariamente, che sui fatti debba prevalere la loro interpretazione alla luce di un sapere che si offre come tecnico, ma che in concreto è intriso di orientamenti ideologici e visioni normalizzanti dei rapporti familiari (cfr. G. Petti, L. Stagi, cit.).
Le dinamiche della famiglia in via di scioglimento sono infatti solitamente ricostruite dall’esperto psicoforense definendo le esperienze a prescindere da come le narrano coloro che direttamente le sperimentano, arrogandosi il diritto di definire la “verità delle cose” attraverso la prospettazione di eventi in una storia lineare dalla quale sparisce l’imponderabilità dei sentimenti, compresa la paura dei bambini, ma anche le dinamiche di sopraffazione e controllo, ascrivendo generalmente la crisi familiare al determinismo ammantato di scientificità delle caratterizzazioni psicologiche delle parti con lo scopo di rendere la crisi stessa intellegibile nella cornice discorsiva più rassicurante del conflitto reciproco.
Ciò avviene nel contesto di elaborati che a un’attenta lettura rivelano la diffusione di un copione standard nel quale si alternano personaggi predefiniti dai tratti personologici più comuni con reminiscenze di profili nosologici ormai superati: le donne, per esempio, sono ancora stigmatizzate con valutazioni di isteria o istrionismo che dovrebbero essere, al più, oggetto di approfondimento sociologico in una prospettiva storica, in quanto schemi superati e contestati per la loro infondatezza scientifica e il portato stigmatizzante contro le donne, non di certo riferimenti di una psicologia contemporanea (cfr. S. Ferraro, La semimbecille e altre storie. Biografie di follia e miseria: per una topografia dell’inadeguato, Meltemi, 2017).
I conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale, costrutto veicolato attraverso le consulenze tecniche d’ufficio e recepito dalla prosa giudiziaria per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico che richiede intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, tutte figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, non di rado ponendo a carico delle parti spese irragionevoli che non tengono conto delle disparità economiche tra i genitori, così minando gravemente il principio di uguaglianza dinanzi alla legge.
Le prescrizioni che intervengono nel corso delle consulenze tecniche, spesso in assenza di ratifica da parte dell’autorità giudiziaria, non disinnescano le contrapposizioni tra le parti, ma ne aumentano l’intensità, mentre i bambini sono iperresponsabilizzati quale baricentro dell’equilibro tra i genitori attraverso la formula plastica del superiore interesse, e il loro rifiuto nei confronti di uno dei genitori, di solito il padre, viene patologizzato nei termini di alienazione parentale.
La paura manifestata dalle donne nei confronti degli ex partner, pur motivata da condotte pregresse che hanno giustificato l’adozione di misure di protezione, è per lo più stigmatizzata nei termini di “incapacità” delle donne di spostare l’attenzione dalla propria esperienza della relazione con l’ex partner a quella tra i figli/le figlie e l’ex partner nella sua qualità di padre, ciò ignorando che nella regolamentazione dell’affidamento la stessa legge impone di tener conto dei comportamenti pregiudizievoli, compresi quelli di violenza domestica (cfr. articolo 31 Convenzione di Istanbul) e, in generale, della qualità della relazione tra i genitori e dei genitori con i figli prima e dopo la crisi familiare (Cassazione civile sez. I, 20/11/2019, n.30191).
La “terapia” che si propone è la ridistribuzione dei ruoli familiari attraverso “misure di cura” che però nei fatti si confondono con “misure di punizione” del genitore ritenuto “alienante”: la prescrizione che di solito si rinviene negli elaborati di valutazione psicoforense, proprio come nel caso oggetto di controllo da parte della Corte di appello di Roma, è l’allontanamento coatto del minore dalla casa materna e il successivo reinserimento in quella paterna, dopo un passaggio di una comunità residenziale recidendo i contatti con la madre in una conseguenzialità logica, oltre che scientifica, tra causa ed effetti, problema e rimedio, completamente sospesa, senza trascurare che sono costantemente travalicati anche i limiti giuridici dell’istituto della consulenza tecnica, che da contesto di valutazione si trasforma in spazio di intervento terapeutico di dubbia correttezza deontologica, oltre che giuridica.
Con il provvedimento in commento, la Corte di appello di Roma prende le distanze da un governo delle relazioni familiari demandato alle discipline psicoforensi e sottolinea la necessità di rivolgersi alle vicende familiari e in particolare alle relazioni genitori-figli con uno sguardo nuovo e consapevole: l’indubbia complessità della decisione in casi riguardanti le relazioni familiari non può comportare la delega in bianco della decisione al consulente tecnico, ma bisogna ristabilire la preminenza del diritto quale parametro di riferimento del diritto delle relazioni familiari, con la consapevolezza che le relazioni umane non possono essere né misurate e spartite geometricamente né imposte come prescrizione o terapia, ma si costruiscono nella dimensione di esperienza di ciascuno/a e ponendosi in ascolto autentico della parola dei bambini e delle bambine.
A proposito di giudici, di coscienza e di fede
di Vincenzo Vitale
Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto, apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto (Piero Calamandrei)
Il solo ammonimento ai giudici di giudicare secondo scienza e coscienza non basta. Ci vorrebbero delle norme per stabilire quanto piccola può essere la conoscenza e quanto grande la coscienza (Karl Kraus ).
Molto mi ha interessato la lettura della bella intervista rilasciata da Gabriella Luccioli, apparsa su questa rivista alcuni giorni fa e dal titolo “Il mestiere del giudice e la religione” (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1317-il-mestiere-del-giudice-e-la-religione), dal momento che tocca aspetti particolarmente delicati e coinvolgenti anche dal punto di vista psicologico.
Senza dubbio, le risposte che ella fornisce alle intriganti domande poste da Roberto Conti, dimostrano la pluridecennale esperienza di una persona impegnata probabilmente nel più arduo dei compiti, quello di ripartire le ragioni dai torti.
Tuttavia, mi pare doveroso – quasi come omaggio a un tale impegno per tanto tempo profuso – spendere poche parole nel tentativo di operare alcune brevi chiarificazioni concettuali tanto più necessarie quanto più si prendano sul serio le affermazioni contenute nell’intervista.
1) Innanzitutto, va precisato, visto che nel corso della conversazione se ne fa quasi dei sinonimi, che una cosa è la religione e altra cosa la fede.
Mentre infatti la religione rappresenta – in modo tendenziale - l’insieme delle credenze, dei culti, dei riti e perfino delle impalcature storiche e culturali dei tre monoteismi[1] nel rapporto con la divinità, la fede indica invece in modo diretto l’apertura del se verso l’infinito di Dio, l’ascolto che alla chiamata di Dio l’uomo riesca a prestare.
Ne viene che mentre della religione e dei suoi retaggi – lo si voglia o no - sono impregnate le istituzioni, le dinamiche sociali, i costumi e perfino il lessico politico, invece la fede risponde ad una logica diversa, direttamente derivabile dalla vocazione di ciascuno.
Da un certo punto di vista, potrebbe dirsi che la religione si afferma ed opera in un contesto sociale, la fede nell’ambito tendenzialmente personale.
E tuttavia, esse sono strettamente collegate, dal momento che una religione senza fede si ridurrebbe ad una semplice prassi sociale e una fede senza espressione religiosa rimarrebbe seppellita nella coscienza individuale: entrambe ne rimarrebbero vulnerate in modo da perdere la loro stessa identità.
Chiedendo venia per l’inevitabile approssimazione delle precedenti considerazioni, va perciò affermato che, proprio in virtù delle sue caratteristiche, la fede non può che pervadere di se l’intera dimensione personale di chi la professi, senza lasciarsi rinchiudere nell’asfittico recinto di una psicologia individuale.
In altri termini, la fede contrassegna la persona in modo integrale. E la persona – si badi – non si riduce al semplice individuo, monade tendenzialmente irrelata dal contesto umano ove si trovi a vivere. La persona esprime il soggetto umano nella pluralità indeterminata delle relazioni con altri soggetti e che lo costituiscono come tale, nei modi di un reticolo di connessioni esistenziali soltanto all’interno delle quali l’io può nascere e affermarsi[2]: per usare termini filosoficamente significativi nel lessico di Heidegger, diremmo che ogni essere umano – poiché la persona è costitutivamente proiettata verso gli altri - si rende tale nel Mitdasein[3].
In questa prospettiva, se si comprende bene che – come giustamente afferma Gabriella Luccioli – non “esista un diritto del magistrato ad esternare il suo credo religioso” né quello della società a conoscerlo, non si comprende invece come la fede, di cui eventualmente il giudice sia portatore, possa essere assimilata agli “stereotipi inconsciamente alimentati, ( ai) pregiudizi, (ai) convincimenti radicati e mai posti in discussione, ( alle) esperienze di vita, (a) forme mentali, (a) dati caratteriali…”, dei quali bisognerebbe liberarsi o, almeno, assumere adeguata consapevolezza allo scopo di arginarli.
In realtà, la fede rappresenta una dimensione qualificante, in modo non rimettibile, la persona umana che la professi: essa la intride dall’interno, la orienta nella visione del mondo, ne produce la “conversione”[4], ne segna una autentica palingenesi: l’”uomo nuovo”, insomma, di cui parla S. Paolo nelle sue epistole.
Ma proprio per questo, la fede non si può dismettere, quando si fuoriesca dalle mura domestiche, come si riponesse nell’armadio la giacca da camera per indossare il soprabito.
Per questa ragione, il giudice che abbia il dono della fede non può che vedere le cose da giudicare – e per fortuna! - nell’orizzonte da essa aperto, propiziato, sostenuto.
D’altra parte, la fede non consegna al diritto alcun contenuto specifico, ma fa qualcosa di molto più significativo: gli reca in dote un supplemento di senso.
Essa non solo non fornisce contenuti, ma “introduce nel circolo ermeneutico, nel quale ragione e coscienza dei giuristi si dialettizzano, una parola nuova, che né la ragione né la coscienza, in quanto tali, sono capaci di formulare”[5].
Si tratta insomma, per la fede, di raffinare e approfondire – nel senso dell’umanesimo integrale - l’orizzonte di quella pre-comprensione[6], che rappresenta la più compiuta e feconda acquisizione della lezione ermeneutica contemporanea ed alla quale moltissimo deve anche quella strettamente giuridica nella sua quotidiana opera di interpretazione[7].
Si dà qui dunque per acquisito, per un verso, che la fede[8] – qualora se ne abbia il dono – rimane parte integrante ed ineliminabile della coscienza giudicante e che, per altro verso, essa non mortifica, ma anzi esalta, dotandola di una più raffinata sensibilità, la capacità euristica propria del giurista.
2) E siccome abbiamo testé parlato di coscienza, mette conto di soffermarsi brevemente su come, della coscienza del giudice ,si tratti nelle pagine della intervista qui commentata.
E debbo dire che se ne tratta in modo alquanto originale, dal momento che mentre si afferma da un lato che “la tutela effettiva dei diritti” potrà realizzarsi soltanto attraverso “una maturazione della coscienza collettiva e un ritorno a ragionamenti lucidamente argomentati”, da un altro lato, si ribadisce che dal momento che “il magistrato è istituzionalmente deputato ad attuare un interesse generale”, ciò, in alcuni casi, “impone la limitazione della sua libertà di coscienza”.
Insomma, un’idea di coscienza alquanto singolare – non me ne voglia Gabriella Luccioli – in forza della quale nel caso essa sia collettiva è bene che si espanda e maturi, mentre in caso sia quella del giudice, allora va limitata nell’interesse generale.
Considerazioni, queste appena indicate, che inducono una doppia perplessità.
La prima perché, nonostante tutto, la collettività organizzata sarà depositaria certo di opinioni, di sensazioni, di saperi, di ideologie, ma difficilmente di una coscienza degna di esser appellata con questo specifico nome, se non usando di una metafora; utile certamente, suggestiva forse, ma sempre e soltanto metafora che ne utilizza il termine destinato a designarla, ma per significare altro e di ben diverso dalla coscienza.
Questa, infatti, sorge e fiorisce, in senso autentico, soltanto dalla e nella persona umana, nella pienezza delle sue caratteristiche relazionali.
La seconda perplessità deriva invece dal considerare come la coscienza non tolleri in nessun caso di esser limitata, pena la sua completa dissoluzione; e che, per converso, se una dimensione interiore dell’uomo – e qui del giudice – può esser limitata, allora non si tratta certo della coscienza, ma di qualcosa d’altro: appunto di opinioni, di sensazioni, di saperi, di ideologie.
Ma non si tratta comunque della coscienza, perché questa non si muove certo come una fisarmonica, pronta a contrarsi o ad espandersi a seconda della opportunità del momento.
Quanto da me sostenuto si capisce subito considerando come l’esperienza comune – quella tanto valorizzata da Giuseppe Capograssi[9] – lo confermi senza ombra di dubbio.
Significativa in proposito la definizione che egli propone di coscienza, indicata come “la consapevolezza concreta e obiettiva dell’umanità della vita”[10].
Come dire che la coscienza è il vero organo della sensibilità che ogni uomo usi per sintonizzarsi sulla obiettiva realtà della vita propria e degli altri suoi simili e che, come tale, o c’è o non c’è, non conoscendosi sue possibili gradazioni o affievolimenti.
Che sia così ce lo suggerisce lo stesso ètimo del termine: cum-scientia, per significare una sensibilità che nasce e si afferma non in chiave monadica, bensì’ comune, irreversibilmente solidaristica e che perciò in alcun caso può essere limitata o conculcata in quanto non totalmente disponibile neppure dal suo stesso portatore[11].
Un minimo di memoria storica lo conferma, ricordando come ogni compressione della coscienza individuale finisca con il ripercuotersi inevitabilmente e in modo radicale sulle relazioni con gli altri.
Si deve al celebre saggio dedicato da Hannah Arendt[12] ad Adolf Eichmann la dimostrazione di come un semplice ottundimento della coscienza possa condurre un uomo mediocre, incolto, anche pauroso verso i superiori gerarchici, a sterminare sistematicamente decine di migliaia di esseri umani come nulla fosse, come un lavoro da svolgere burocraticamente.
Eichmann non ha nulla dell’eroe malvagio, ma dotato di una sua pur perversa grandezza, quali potrebbero essere Attila o Gensis Kahn – sanguinari sterminatori dei nemici ma capaci di passare alla storia; egli non è che un grigio funzionario nazista, la cui coscienza dimidiata è divenuta incapace di cogliere la “concreta ed obiettiva umanità della vita”[13].
Intendo insomma affermare che se la coscienza viene compressa o limitata, semplicemente scompare, si dissolve come tale: non si danno “percentuali” sopravvissute di coscienza quando questa venga compressa o limitata.
Pensare come realistiche simili “percentuali” varca la soglia dell’impossibile, perché la coscienza non è costruita da parti giustapposte, in modo che staccandone alcune, le altre possano continuare a “funzionare” come nulla fosse: ogni minima espressione della coscienza – per futile che possa apparire – la contiene tutta intera e chi indebitamente la comprima, isolandone un frammento, non fa in realtà che emarginare la coscienza nella sua totalità[14].
La coscienza si comporta qui come l’infinito ( e la coscienza è infinita per definizione[15] ) matematico: ogni parte dell’infinito è a sua volta infinita ( per esempio, la serie dei numeri naturali è infinita, ma quella dei numeri pari, di cui essa è composta, è anch’essa infinita).
Per questa ragione, ogni singolo atto compiuto nell’ambito di una presunta limitazione di coscienza è in realtà compiuto “senza coscienza”, nel buio assoluto di una coscienza ormai spenta e silenziosa.
In questa prospettiva, ipotizzare che il giudice – per esempio, nel contesto delle procedure abortive richieste da una minorenne – debba imporre alla propria coscienza, nell’interesse generale, di tacere, mi pare cosa molto pericolosa, perché significa, né più né meno, che gli si chiede di decidere “senza coscienza”, il che è francamente assurdo e contrario, contrarissimo all’interesse generale.
Non si riesce a spiegare razionalmente come sia possibile chiedere al giudice di giudicare facendo a meno della coscienza: chiedergli cioè di giudicare, ma senza giudicare, perché giudicare a prescindere dalla coscienza è palesemente impossibile, in quanto l’organo del giudizio è la coscienza e non un’altra cosa.
In realtà, in tal modo, si chiede al giudice di divenire null’altro che un funzionario, scrupoloso burocrate che “manda avanti” la pratica, ma del tutto estraneo al tasso di giustizia o di ingiustizia delle norme che presiedono al suo operato.
Il giudice diviene così altro da se. Letteralmente, si perde.
3) Il ruolo primario svolto dalla coscienza era stato peraltro assai bene inteso dal Cardinale John Henry Newman, il quale, nella sua celebre lettera al Duca di Norfolk, così scrive: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo ( il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore ), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia, prima alla Coscienza e poi al Papa”[16]: il che non gli impedì di essere canonizzato, ovviamente dal Papa – nella specie Papa Francesco – il 13 ottobre del 2019.
Il passo citato, molto noto e sottoposto ad innumerevoli commenti, viene qui alla nostra attenzione perché serve a sottolineare come, per il convertito ( dall’anglicanesimo) Newman, il Papa c’è perché c’è la coscienza e non viceversa.
Il primato della coscienza rispetto alla pur somma autorità del Papa, per il Cardinale, altro non significa che il primato della ragione e della sensibilità rispetto all’autorità.
Questo assunto ci mette subito davanti ad altre, impegnative affermazioni dovute alla riflessione di Gabriella Luccioli, laddove ella censura – citando Giuseppe Pera - il giudice che si sentisse vincolato da “direttive promananti da autorità ecclesiastiche…in particolare quando siano in questione i diritti fondamentali di libertà dei cittadini” o dove ravvisa la inesistenza di spazi di conciliabilità fra precetti evangelici e diritto positivo in tema di aborto, di indissolubilità del matrimonio, di divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso, di aiuto al suicidio.
Orbene, è il caso di evidenziare come - a parte il fatto che mi pare del tutto improbabile che giudici italiani abbiano mai subordinato le loro decisioni a direttive ecclesiastiche - non siano i precetti evangelici ad essere invocati da chi intenda schierarsi contro aborto, divorzio, matrimonio fra omosessuali ed eutanasia, bensì lo sia la ragione giuridica in quanto tale, vale a dire la coscienza del giurista.
In proposito, non è inutile ricordare come, per esempio in tema di aborto, il retto uso della ragione giuridica – del tutto immune da contaminazioni di carattere fideistico o ecclesiastico – sia stato alla base di posizioni contrarie alla sua legalizzazione e dovute ad esponenti di primissimo piano della cultura assolutamente laica.
Ne cito soltanto tre, ma di indiscutibile qualità.
Pier Paolo Pasolini sul punto fu categorico: “Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni e nel comportamento quotidiano…io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente”[17].
Non diversamente Norberto Bobbio: “Ho parlato di tre diritti: il primo, quello del concepito, è fondamentale, gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati…il fatto che l’aborto sia diffuso è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale…il furto d’auto è diffuso, quasi impunito, ma questo legittima il furto?...L’individuo è uno, singolo. Nel caso dell’aborto c’è un ‘altro’ nel corpo della donna. Il suicida dispone della sua singola vita. Con l’aborto si dispone di una vita altrui…E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere[18]”.
Da un altro punto di vista, è stata Oriana Fallaci, della quale rimarrà indimenticabile il sofferto incipit di una lettera indirizzata a chi non nacque, a scrivere: “ Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla….si. C’eri. Esistevi[19]”.
Nella prospettiva della cultura giuridica cattolica, peraltro, né Sergio Cotta[20] né Augusto del Noce[21] né Francesco D’Agostino[22] – vale a dire tre fra i più noti ed eminenti intellettuali cattolici degli ultimi decenni – hanno mai adoperato argomenti di carattere religioso o di matrice ecclesiastica, per stigmatizzare la inaccettabilità giuridica della legge sulla interruzione della gravidanza, facendo invece appello ad una rigorosa quanto esigente razionalità giuridica.
E come loro molti altri.
Ciò significa che né il pensiero laico né quello cattolico – significativamente coincidenti nella critica alla legalizzazione dell’aborto – hanno avuto bisogno di altro che non fossero le argomentazioni di taglio strettamente giuridico per formalizzare la loro censura.
Ne viene che i precetti evangelici – al contrario di quanto temuto e asseverato da Gabriella Luccioli - con l’aborto, in sede giuridica, non hanno nulla da spartire: similmente potrebbe dirsi per il matrimonio fra omosessuali, per l’indissolubilità del matrimonio, per l’aiuto al suicidio[23].
Si tratta infatti di verità di ragione, per quanto di una ragione immune – questa volta è davvero il caso di dirlo! – da pregiudiziali ideologiche di genere politico o sessuale.
4) Per concludere queste osservazioni, va chiarito brevemente il ruolo che la fede possa esercitare nei confronti della ragione e in particolare nei confronti della ragione giuridica.
Come accennato sopra, la fede non fornisce alla ragione contenuti nuovi e specifici, ma la orienta nel verso di un più ampio e profondo orizzonte di senso.
Ecco perché anche i non credenti – come Pasolini, Bobbio e Fallaci – ben possono giungere a conclusioni identiche a quelle dei credenti – Cotta, Del Noce, D’Agostino – in tema di bioetica: perché usano tutti in modo corretto la ragione, confrontandosi tutti con i medesimi contenuti.
Tuttavia, la fede cerca di impedire che la ragione cada negli errori più tipici che la storia del pensiero ha abbondantemente mostrato e che possono giungere a mortificarla, fino alla derelizione di se.
So bene di non affermare qui nulla di nuovo, dal momento che tutta la tradizione del pensiero occidentale – da S.Agostino a S.Tommaso fino alla influenza eminente che la scolastica esercitò sulla cultura successiva – si è spesso preoccupata di coniugare le istanze della fede con quelle della ragione.
Mi limito ad alcune brevissime e necessariamente schematiche considerazioni.
Innanzitutto, non si creda che la fede possa essere alimentata a misura del depotenziamento della ragione, quasi che meno spazio occupi la ragione, più ne rimanga per la fede.
E’ piuttosto vero il contrario: senza una ragione capace di svolgere il proprio ruolo fino in fondo, anche la fede viene posta in pericolo, dal momento che rischia di ridursi a semplice superstizione o di dileguare nelle nebbie della mitologia.
Similmente, la ragione ha bisogno che la fede svolga anch’essa il proprio ruolo fino in fondo, altrimenti rischia di chiudersi pericolosamente nel circolo asfittico della propria autoreferenzialità.
La ragione, insomma, costruisce; la fede alimenta e fonda. La ragione logicizza; la fede mostra i limiti della logica. La ragione conclude; la fede mostra una ulteriorità rispetto ad ogni conclusione. La ragione assolutizza; la fede relativizza. La ragione tende ad escludere; la fede ad includere.
E il diritto? Come si dialettizza con la fede?
Il diritto pensa di esaurire il dicibile; la fede gli ricorda che il più rimane ancora da dire. Il diritto cerca la proporzione rigorosa; la fede gli ricorda che nessuna proporzione basta a se stessa. Il diritto afferma la simmetria; la fede gli ricorda la fecondità della dissimmetria. Il diritto pensa di poter comprendere tutto; la fede gli ricorda che proprio quando sembra di aver tutto compreso, c’è ancora tutto da comprendere: la fede sa infatti – e lo ricorda al diritto - che ogni essere umano è un mistero, e che come tale va rispettato e custodito.
Ecco perché affinando la sensibilità della propria coscienza verso la fede e l’orizzonte da questa dischiuso, il giudice non potrà mai ridursi, dimenticando le cose come in effetti sono, a semplice custode del nichilismo, dello scientismo o del formalismo, come purtroppo oggi si rischia di farlo divenire, assolutizzando il dettato del diritto e delle ideologie che spesso ne condizionano le interpretazioni.
Infatti, soltanto una sana e feconda dialettica fra ragione e fede potrà tenerlo saldamente ancorato alla realtà della giustizia ( cioè della vita ), che del diritto rappresenta il principio fondativo.
Affinché egli non sia costretto a ripetere ( e noi con lui ) - come il Re di Ionesco – che “non c’è più niente di normale da quando l’anormale è diventato la norma”[24].
[1] Non prendo qui volutamente in esame le forme religiose non monoteistiche in quanto bisognerebbe dedicar loro – in forza della loro struttura logica e storica – un discorso a parte che qui non è possibile. Inoltre, nelle religioni politeistiche, non è possibile parlare di “fede” in senso proprio.
[2] A partire dalla nascita: si viene concepiti e si nasce attraverso una relazione biunivoca che diviene triadica.
[3] Sein und Zeit, § 9, 12.
[4] Chi si converte, del resto, non vede cose diverse da chi non lo abbia fatto: vede, infatti, le medesime cose, ma da un diverso “punto di vista”: questo il significato proprio del convertere.
[5] F.D’Agostino, Il diritto come problema teologico, in Il diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia e teologia del diritto, Torino, 1995, pag. 30: prendo qui in prestito a proposito della fede, le espressioni di cui nel testo e adoperate da D’Agostino in riferimento alla teologia del diritto.
[6] J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, tr. It., Napoli, 2010.
[7] H.G.Gadamer, Verità e metodo, tr.it., Milano, 2000.
[8] E’ il caso di precisare come la fede non vada intesa come il possesso definitivo e formalmente appreso di un dato trascendente, ma come la risposta, sempre in pericolo di essere revocata in dubbio, alla chiamata di Dio: ciò per dire che l’uomo di fede non è esente dal rovello del dubbio, come del resto l’agnostico non è esente dalla tentazione della fede. Il tema è colto e splendidamente sviluppato da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia, 2012.
[9] Analisi dell’esperienza comune, in Opere, I, Milano, 1959.
[10] Obbedienza e coscienza, in Opere, V, Milano, 1959.
[11] Si può utilmente leggere, per intendere il faticoso nascere della coscienza giuridica e il suo relazionarsi costitutivo con gli altri, il delizioso racconto di S. Zweig, Gli occhi dell’eterno fratello, Milano, 2013, al quale ho dedicato attenzione nel mio saggio Cosa cercano i giuristi nella letteratura? , in “Forum italicum. A journal of italian studies”, London, 2019, n. 53, pp. 232 ss., al quale mi permetto di rinviare.
[12] Alludo ovviamente a La banalità del male, tr. It., Milano, 2019.
[13] Si tratta senza dubbio qui di una esemplificazione estremizzata, ma è proprio estremizzandone gli effetti che meglio si può cogliere il senso dei fenomeni.
[14] Cfr. H.U.Von Balthasar, Il tutto nel frammento, tr. It., Milano, 2017.
[15] Come bene mette in luce la riflessione di H.Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. Milano, 2002.
[16] Lettera al Duca di Norfolk: coscienza e libertà, tr. It., Milano, 1999, p. 236.
[17] Scritti corsari, Milano, 1990, p. 98.
[18] Tempi del 22/05/2013.
[19] Lettera a un bambino mai nato, Milano, 2019, p. 5.
[20] Cfr. Il diritto come sistema di valori, Cinisello Balsamo, 2004.
[21] Cfr. L’epoca della secolarizzazione, Milano, 1980.
[22] Cfr. Bioetica e biopolitica. Ventuno voci fondamentali, Torino, 2011.
[23] Lo ha esaurientemente mostrato A.R.Vitale, di cui cfr. L’eutanasia come problema biogiuridico, Milano, 2017.
[24] E. Ionesco, Il Re muore, Torino, 1963, p. 23.
Il caso Vos Thalassa: il “carosello” delle scriminanti in un apparente conflitto fra legge penale e principio di non-refoulement
di Pietro Maria Sabella
Sommario: 1. La prospettiva di indagine - 2. Il soccorso in mare in Zona SAR. Fatto storico e fatto tipico - 2.1. Il riconoscimento in primo grado della scriminante della legittima difesa per lesione del principio di non refoulement - 2.2. La riforma nel giudizio di secondo grado - 3. Il carosello delle scriminanti e la neutralità del principio di non respingimento nel caso Vos Thalassa. Verso il superamento di un manicheismo fra diritto penale e diritto umanitario - 4. «Esternalizzazione delle frontiere», soccorso in mare e tutela dei confini - 5. Legittima difesa degli imputati o adempimento di un dovere del Capitano? - 6. I requisiti della legittima difesa. Alcune riflessioni sull’attualità del pericolo, la volontaria causazione e necessità della reazione nel caso Vos Thalassa - 7. La «stanchezza della catastrofe». Conclusioni.
1. La prospettiva di indagine
Commentare la sentenza della Corte di Appello di Palermo, n. 1525 del 3 giugno 2020, sul caso Vos Thalassa, rappresenta per il penalista un compito arduo, che impone di procedere con adeguata cautela.
La tentazione di addentrarsi nei meandri più sensibili delle problematiche connesse alle dinamiche socio-politiche dei flussi migratori nel Mediterraneo potrebbe, infatti, indurre l’interprete ad abbandonare il punto di vista del giurista per adottare una prospettiva diversa, probabilmente sfocata e intrisa di componenti eterogenee.
È del resto indubbio che dal momento che la cornice normativa volta a (cercare di) regolare il fenomeno migratorio appare molto articolata e complessa e per questo poco efficace e lineare, ogni potenziale decisione assunta da una Corte italiana, straniera o sovranazionale sul tema possa destare perplessità e rischi di sconfinare in valutazioni poco coerenti con le scelte dell’ordinamento in materia penale. Si tratta allora di considerare i fatti oggetto di accertamento alla luce dei canoni e principi tipici di quel diritto penale che, al di là delle sue più varie declinazioni concrete, continuano a svolgere un insostituibile ruolo di strumento di garanzia per i soggetti a cui si applica.
In questo senso, dunque, potrebbe risultare sempre ostico e insoddisfacente il tentativo di permeare la materia di canoni e prospettive di giudizio ad essa estranee. Con ciò si intende dire che la giurisdizione penale non può rappresentare il forum destinatae solutionis nel quale effettuare un bilancio complessivo circa le politiche europee e internazionali in materia di controllo e regolamentazione dei flussi migratori e delle frontiere (di recente, in particolare sulla criminalizzazione del favoreggiamento irregolare dell’immigrazione clandestina, cfr. V. Mitsilegas, I fondamenti normativi dell’incriminazione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Analisi delle problematiche linee di confine tra diritto europeo e diritto internazionale, in V. Militello, A. Spena, A. Mangiaracina, L. Siracusa (cur.) I traffici illeciti nel mediterraneo. Persone, stupefacenti, tabacco. Torino, 2019, pag. 166 s.). Si tratta piuttosto del luogo eletto per accertare se un dato comportamento abbia assunto o meno una rilevanza penale meritevole di sanzione in relazione all’ordinamento considerato. Solo questo “parziale” ma fondamentale apporto da parte del giudice può sollecitare una riflessione più ampia, contribuendo così con le altre scienze e tecniche alla cristallizzazione dei limiti dell’intervento in materia e alla prospettazione di rimedi e soluzioni.
Ecco perché il commento al caso Vos Thalassa che seguirà verte principalmente sull’ipotesi di riconoscimento della scriminante della legittima difesa, ex art. 52 c.p., rispetto a delle condotte di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, di cui agli artt. 336 c.p. e 337 c.p., poste in essere da due migranti contro l’equipaggio che li stava soccorrendo e sulla configurabilità del reato di favoreggiamento all’immigrazione irregolare di cui all’art. 12 del d.lgs. m. 286/1998. Non ci si occuperà invece della natura e dei criteri di applicabilità del diritto al non refoulement per i soccorsi effettuati in zona SAR (c.d. «search and rescue»), in quanto il principio di non respingimento – come si vedrà - appare comunque del tutto neutrale rispetto alla condotta, ai fatti accaduti e al ruolo delle cause di giustificazione.
2. Il soccorso in mare in zona SAR. Fatto storico e fatto tipico
Occorre prendere le mosse dagli avvenimenti che riportano all’8 luglio 2018, data in cui il rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana e adibito alle attività di supporto di una piattaforma petrolifere libica, comunica alle autorità italiane del Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC) di aver recuperato 67 migranti presenti a bordo di una piccola e malridotta imbarcazione in procinto di affondare. Il salvataggio avviene in zona SAR libica. Per tale ragione, l’Autorità italiana si attiva e cerca di dare avviso agli omologhi africani, competenti a gestire e coordinare gli aiuti ai natanti nella zona in cui avviene il recupero dei migranti coinvolti.
In assenza di un riscontro immediato da parte delle autorità libiche, in adempimento dei doveri di soccorso, il rimorchiatore procede verso Lampedusa, ovvero verso il c.d. place of safety più vicino secondo le Convenzioni e i Trattati in vigore.
Tuttavia, durante la traversata, da Tripoli giunge una risposta, avente ad oggetto la richiesta di trasbordo dei migranti a favore delle motovedette nordafricane, in acque internazionali, a circa 15 miglia marine dalla costa. Per tale ragione, la Vos Thalassa inverte la rotta per procedere verso sud.
Da quel momento, alcuni migranti a bordo, resosi conto dell’inversione verso la Libia, per scongiurare il ritorno verso quei lidi, assumono un comportamento minaccioso e aggressivo, accerchiando, spintonando e usando violenza – anche verbale (con minacce di morte) - nei confronti dei componenti dell’equipaggio e dello stesso Capitano. Questi, nel timore di poter essere fisicamente interessato, contatta nuovamente l’Autorità italiana, la quale invia la nave militare Diciotti, che carica i migranti per sbarcare infine in Sicilia.
All’arrivo in terraferma, due fra i migranti riconosciuti per essere stati i protagonisti della “tentata rivolta” e gli autori dei fatti di reato, vengono arrestati, come anticipato, con l’accusa di violenza e minaccia, resistenza a Pubblico Ufficiale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
2.1. Il riconoscimento in primo grado della scriminante della legittima difesa per lesione del principio di non refoulement
Quanto alla vicenda processuale relativa alla qualificazione del fatto, va innanzitutto ricordato che in primo grado, il GUP di Trapani, in rito abbreviato, (Trib. Trapani, Ufficio Gip, sent. 23 maggio 2019, dep. 3 giugno 2019) riteneva che le condotte ascritte ai due imputati, adeguatamente riscontrate in sede istruttoria, erano idonee a configurare in concorso le ipotesi di cui ai delitti di cui agli artt. 336 e 337 c.p., nonché al reato di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 268/1998 (favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare).
Tuttavia, procedeva ad assolvere gli imputati, ritenendo applicabile la scriminante della legittima difesa, sul presupposto che questi avessero agito in siffatto modo per tutelare il proprio diritto (o interesse qualificato) a non essere respinti verso la Libia, ovvero verso un Paese in cui sarebbero stati sottoposti al pericolo concreto di violenze e trattamenti inumani e degradanti. In particolare, secondo il giudice di Trapani, i due migranti avrebbero difeso il proprio diritto al non refoulement, riconosciuto dal diritto consuetudinario internazionale, oltre che dal Trattato di Amburgo del 1979, respingendo con la violenza l’attacco e la potenziale violazione ad esso prodotto dall’equipaggio italiano che, in adempimento di un dovere illegittimo, stava riconducendo i migranti sotto l’autorità marittima libica (per un primo commento alla decisione di primo grado cfr. A. Natale, Caso Vos Thalassa: il fatto, la lingua e l’ideologia del giudice, in Quest. Giust., del 23 luglio 2020; L. Masera, La legittima difesa dei migranti e l’illegittimità dei respingimenti verso la Libia (caso Vos Thalassa), in www.penalecontemporaneo.it, del 24 giugno 2019).
A differenza che in altri casi simili (vedi anche caso Rackete, cfr. C. Ruggiero, Dalla criminalizzazione alla giustificazione delle attività di ricerca e soccorso in mare. Le tendenze interpretative più recenti alla luce dei Casi Vos Thalassa e Rackete, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1/2020, pag. 185-214; per il caso Open Arms F. De Vittor, Soccorso in mare e favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: sequestro e dissequestro della nave Open Arms, in Diritti umani e diritto internazionale, 2/2018, pag. 443-453) dunque, il Giudice di Trapani non intravedeva i profili applicativi della causa di giustificazione dello stato di necessità, sul presupposto che l’aggressione fosse direttamente dipesa dall’equipaggio italiano dal quale i migranti hanno cercato di difendersi.
Per potere cogliere appieno il senso complessivo della vicenda, può essere utile comunque approfondire l’analisi degli elementi essenziali intorno ai quali la sentenza del giudice di prime cure si è sviluppata per giungere all’applicazione della legittima difesa. Molto dell’argomentazione adottata, infatti, si fonda sulla ricostruzione della normativa sovranazionale e internazionale in materia di soccorso in mare dei migranti, di divieto di non respingimento e di trattamento disumano e degradante. Ciò con lo scopo, non proprio celato fra le righe, di far primeggiare su ogni altro profilo l’esigenza di tutela della figura del migrante e della sua protezione da eventuali rimpatri che ne possano mettere in pericolo la vita e l’integrità personale e morale.
Tuttavia, la conseguenza è stata quella di privilegiare, nella qualificazione del «diritto posto in pericolo», una prospettiva asincrona con il diritto penale e, nella specie, con gli elementi costitutivi della legittima difesa e riprodurre una ricostruzione delle norme di diritto internazionale certamente idonea ad evidenziare la gravità del pericolo derivante da un eventuale rimpatrio dei migranti in Libia o nei Paesi di origine, in cui i diritti umani sono scarsamente tutelati.
Correttamente, comunque, in un primo momento, il Tribunale di Trapani enuncia le norme internazionali applicabili al caso di specie e, in generale, alla ricerca e al salvataggio delle persone in mare. Individua nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, nella Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974 e, ancora più specificamente, nella Convenzione di Amburgo del 1979 sul salvataggio in mare nelle c.d. «zone SAR», i capisaldi normativi di riferimento, dai quali ricava l’esistenza di un obbligo di salvataggio in mare della vita umana, il quale, peraltro, richiede l’individuazione del c.d. place of safety dove far sbarcare (per un approfondimento su tale nozione quale luogo in cui possano avere effettiva tutela i diritti umani dei soggetti soccorsi in mare si veda M. Starita, Il dovere di soccorso in mare e il “diritto di obbedire al diritto” (internazionale) del comandante della nave privata, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 1/2019, pag. 5 s.; R. Virzo, Il coordinamento di norme di diritto internazionale applicabili allo status di rifugiati e dei bambini migranti via mare, in Rivista del diritto della navigazione, 1/2016, pag. 143 s.).
Qualora i migranti, sempre in virtù delle norme di diritto internazionale, possano godere dello status di rifugiati o godere dell’asilo, il diritto allo sbarco in una terra sicura si colora anche di un ulteriore significato, che obbliga i soccorritori a trasportare questi individui in un territorio in cui possa essere garantita la protezione internazionale. Di qui il divieto di respingimento e la necessità di far approdare i migranti in Europa.
In seconda battuta, il Tribunale di Trapani non accoglie la richiesta di domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia in merito al contrasto fra la disciplina della Convenzione di Amburgo e il principio di protezione dal respingimento di cui all’art. 21 della Direttive 2011/95/UE e Direttiva 2013/32/UE, che il Pubblico Ministero aveva promosso per valutare l’applicabilità al caso di specie della causa di non punibilità di cui all’art. 393-bis c.p., in ragione del fatto che la Convenzione di Amburgo non legittima il rimpatrio in Libia dei migranti soccorsi, ma ne impone il loro ricovero in un porto sicuro. Il giudice di prime cure ragiona quindi sulla compatibilità del Memorandum di intesa fra Italia e Libia del 2017 con il diritto internazionale consuetudinario e con la Convenzione di Amburgo del 1979 (per un approfondimento sul memorandum, cfr. L. Di Majo – I. Patroni Griffi, Migrazioni e relazioni bilaterali fra Italia e Libia dal Trattato di Bengasi del 2008 al Memorandum of Understanding del 2017, in Rassegna di diritto pubblico europeo, 2018, pag. 203 s.). Il giudice conclude nel senso che tale accordo, con il quale il Governo italiano e quello temporaneo libico hanno stabilito le condizioni di cooperazione per contrastare l’immigrazione irregolare nella c.d. zona SAR ed in particolare il potere della marina libica di chiedere alle autorità italiane la consegna e l’affidamento dei migranti soccorsi in tale tratto di mare, risultasse in contrasto, in primo luogo, con la Convenzione di Amburgo, per violazione del divieto di non refoulement, che all’epoca della sottoscrizione del Memorandum aveva già acquisito il rango di jus cogens. Di conseguenza, afferma sempre il Tribunale, la Convenzione italo-libica sarebbe priva di validità, poiché in conflitto con l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, il quale afferma che «è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale». Inoltre, per la stessa ragione, il Memorandum sarebbe risultato altresì incompatibile con l’art. 10 Cost., in ossequio al quale l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, fra cui rientrerebbe anche il principio del divieto di non respingimento. In altri termini, le autorità italiane, riportando i migranti verso la Libia, avrebbero agito in ottemperanza ad un ordine illegittimo, adottato in violazione del diritto internazionale consuetudinario. Così facendo avrebbero leso il diritto soggettivo dei migranti/rifugiati/richiedenti asilo di potere accedere al place of safety.
Solo al termine dello sforzo ricostruttivo della cornice normativa internazionale, che in sentenza occupa quasi i due terzi dell’intera pronuncia e con la quale in pratica si dà atto di una disapplicazione di un Trattato, il Tribunale procede a verificare se nel caso di specie fosse applicabile una scriminante, in particolare la legittima difesa.
Come detto, argomenta a favore di tale soluzione, assumendo che i fatti di reato commessi siano stati realizzati proprio per contrastare una situazione di pericolo «concreto» ed «attuale» venutasi a creare a causa del comportamento dell’equipaggio italiano della Vos Thalassa che, nel tentativo di portare i migranti verso le coste libiche, in adempimento di un ordine illegittimo, poiché fondato sul Memorandum, avrebbe «attaccato» e leso il diritto al non respingimento degli stessi.
Quanto al primo profilo, il Giudice di Trapani ritiene che la condotta del comandante della nave, che aveva cercato di riportare in Libia i migranti soccorsi, nella convinzione erronea di adempiere ad un ordine legittimo dell’autorità, configurasse una «offesa ingiusta», da intendersi come contra ius (cfr. C.F. Grosso, voce Legittima Difesa, in Enc. Dir. XXVII, Milano, 1974 pag. 36). Si sarebbe trattato, quindi, di un comportamento contrario agli obblighi internazionali di salvataggio e protezione.
La decisione esclude poi che lo stato di pericolo incombente sui migranti soccorsi potesse ritenersi «volontariamente determinato». Il Tribunale di Trapani argomenta circa l’involontarietà del pericolo affermando semplicemente che i migranti erano spinti dalla necessità impellente di salvare la propria vita (vedi pag. 67 della decisione: «Nulla di volontario, quindi, ma la spinta di una necessità impellente di salvare la propria vita»). In questo senso, il viaggio in mare faceva parte di un lungo percorso intrapreso per allontanarsi da luoghi pericolosi e non vivibili.
In merito agli elementi dell’«attualità del pericolo», della «proporzione» e della «necessità dell’azione difensiva», il Tribunale di Trapani dedica pochissime riflessioni. In relazione al primo profilo, la sentenza si limita a richiamare una precedente pronuncia della Corte di Cassazione, per la quale questo requisito «implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente».
Con riferimento al criterio della proporzione, il Tribunale ritiene che i migranti coinvolti abbiano difeso in modo proporzionato i beni giuridici oggetto di aggressione, consistenti nella vita, nell’integrità fisica, nonché nell’interesse a non essere sottoposti a trattamenti disumani e alla tortura. L’esigenza di impedire il rimpatrio verso Paesi in cui i migranti sarebbero stati sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani meriterebbe dunque di essere difesa anche attraverso l’impiego di azioni violente e minacciose nei confronti dei Pubblici Ufficiali italiani.
Di contro, invece, a detta del Tribunale di Trapani, l’equipaggio italiano avrebbe agito a tutela del diritto alla propria autodeterminazione. Dal bilanciamento dei due interessi in gioco, sarebbe stato inevitabile dovere assicurare una maggiore tutela ai migranti mediante il riconoscimento della scriminante di cui all’art. 52 c.p.
Infine, circa la necessità dell’azione difensiva, il Tribunale di Trapani afferma come in assenza di una reazione, seppur violenta e minacciosa da parte degli imputati, tutti i soggetti soccorsi sarebbero stati inevitabilmente ricondotti in Libia. In quel frangente, inoltre, in mancanza di un traduttore e non potendo essere fatto agevolmente uso della lingua italiana o inglese, non sarebbe stato possibile fare ricorso a diverse modalità di difesa del proprio diritto a sbarcare in un porto sicuro.
Le condotte realizzate, dunque, risultavano interamente scriminate. Per tale ragione, il Tribunale di Trapani assolveva perché il fatto non costituisce reato.
2.2. La riforma nel giudizio di secondo grado
La Corte di Appello di Palermo ha invece riformato la decisione di primo grado e condannato i due migranti per i fatti di reato di cui agli artt. 336 e 337 c.p. e art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286/1998 (per un primo commento, cfr. L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia non possono invocare la legittima difesa: una decisione che mette in discussione il diritto al non refoulement, in www.sistemapenale.it, del 21 luglio 2020). Per ricostruire l’iter argomentativo della decisione ora in esame, occorre muovere dalle eccezioni esposte dalla Pubblica Accusa nella impugnazione della sentenza di primo grado. In particolare, la richiesta del P.M. avanzava i rilievi seguenti:
- i Trattati internazionali richiamati dal Tribunale di Trapani riconoscerebbero quale diritto soggettivo esclusivamente il diritto di asilo e non anche quello di non refoulement, che costituirebbe, viceversa, solo un principio di condotta imposto ai singoli Stati. Per tale motivo, dunque, non potrebbe ritenersi scriminato il comportamento di chi agisca con violenza o minaccia nei confronti di un soccorritore per tutelare un interesse non protetto direttamente a favore dell’individuo;
- in ogni caso, il Giudice di Trapani avrebbe errato sia nell’identificazione del c.d. «porto sicuro», che nell’individuazione dell’autorità effettivamente competente a gestire il soccorso. Trattandosi di zona SAR libica, solamente il Paese nordafricano sarebbe il responsabile dell’attività di soccorso e traduzione in luogo sicuro;
- il GUP avrebbe inoltre errato nel disapplicare in via interpretativa il Trattato di Amburgo poiché recepito in Italia con atto avente valore di legge. In questo senso, bene avrebbe fatto il Pubblico Ministero del primo grado a sollevare questione per ottenere una pronuncia interpretativa sulle direttive europee 2011/95/UE e 2013/32/UE da parte della CGUE, per chiarire i rapporti circa il diritto di asilo, proprio di ciascun individuo e il diritto al non refoulement, posto come condizione di operatività degli Stati in fase di soccorso e non come diritto individuale del migrante. Non facendo ciò, il Tribunale di Trapani avrebbe legittimato qualsiasi azione violenta o aggressiva volta ad opporsi alle attività di soccorso non in linea con le proprie aspettative;
- la scriminante della legittima difesa difetterebbe del requisito dell’«attualità del pericolo» in quanto «al momento in cui i migranti avevano posto in essere le condotte violente e minacciose, al più sarebbe stato violato il principio di non respingimento che, come detto, costituisce un obbligo per lo Stato e non anche un diritto soggettivo per i soggetti soccorsi in mare; molti dei quali, avevano deciso liberamente di affidarsi a pericolose organizzazioni criminali per realizzare un loro progetto di vita europeo» (pag. 5 sentenza).
Tuttavia, pur riconoscendo la complessità dei temi sui quali si incentra il caso, la Corte di Appello considera «mal posta» la dicotomia tra diritto del migrante e principio regolatore per lo Stato che opera il soccorso e ritiene assolutamente centrale verificare, in primo luogo, l’esistenza dei requisiti della legittima difesa nel caso di specie.
La Corte, per ragioni di “economia processuale” decide così di non soffermarsi più sulla ricostruzione dell’impianto normativo internazionale in materia di non respingimento, lasciando comunque intendere che anche da una diversa prospettazione della natura di tale principio si sarebbe in ogni caso concluso in senso negativo circa il riconoscimento della legittima difesa. Ed infatti, l’elemento centrale e decisivo per negare l’applicabilità della legittima difesa è quello della volontaria causazione da parte dei due migranti del pericolo venutosi concretamente a realizzare. Il Collegio, infatti, sostiene fermamente che il pericolo in cui sono incorsi gli imputati sia stato, in realtà, volontariamente causato o, quantomeno, preventivamente accettato dagli stessi. Se infatti è vero che «la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell’ingiustizia dell’offesa, ma per mancanza del requisito della necessità della difesa» - sostiene la Corte di Appello, richiamando la giurisprudenza di legittimità -, sarebbe arduo intravedere nel caso di specie gli elementi della «involontarietà» e della «necessità della difesa».
A detta dei Giudici di Palermo, infatti, i migranti coinvolti nel processo si sarebbero autonomamente e volontariamente messi in pericolo. Questi avrebbero agito pianificando la traversata lungo il mare Mediterraneo in condizioni di estremo pericolo e con l’aiuto di associazioni criminali organizzate. In questo contesto, l’intervento dell’unità navale italiana non sarebbe stato un fatto causalmente imprevedibile bensì «l’ultimo di una serie di atti programmati, finalizzati a raggiungere il suolo europeo, con una serie di tappe prefissate» (pag. 9 della sentenza).
Le condotte violente e minacciose, imputate ai due migranti, peraltro, non sarebbero state poste in essere per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì «come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio di non essere portata a termine a causa dell’adempimento da parte della Vos Thalassa di un ordine impartito da uno Stato sovrano che aveva la competenza sulla Zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi».
A sostegno della propria argomentazione, la Corte di Appello precisa che il richiamo alla normativa internazionale, contraltare per valutare l’ammissibilità della legittima difesa, non avrebbe avuto comunque come esito il riconoscimento della scriminante e ciò in virtù anche di un generale criterio di ragionevolezza. Sostiene infatti la Corte di Appello di Palermo che sarebbe «davvero in contrasto con i principi di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico e persino in qualche modo criminogena, una interpretazione dei principi regolatori della causa di giustificazione della legittima difesa, applicata al diritto del mare, che consentisse ai migranti di azionare sempre e comunque comportamenti obiettivamente illeciti nei confronti di equipaggi marittimi che non assecondassero la loro volontà di raggiungere le coste europee, peraltro in situazioni di pericolo intenzionalmente causate; o la cui causazione sia stata da loro volontariamente accettata».
Dunque, avrebbe errato il Tribunale di Trapani applicando la scriminante della legittima difesa a favore di chi agisca in maniera violenta in una situazione di pericolo volontariamente causata. Per di più, le condizioni di pericolo non sarebbero neanche state determinate da uno stato di necessità concreto e tangibile. Ciò impedirebbe di riconoscere sia l’esimente dello stato di necessità che della legittima difesa.
Nell’ultima parte della motivazione in diritto, la Corte di Appello interviene in modo molto critico sulle argomentazioni della sentenza di primo grado, rilevando come queste siano fondate più su un «approccio ideologico alle soluzioni della vicenda che non su una serena analisi degli istituti giuridici». In particolare, nelle battute finali, la Corte tenta quasi di ammonire il giudice di Trapani, incorso nell’errore di aver dismesso il ruolo proprio per «creare delle scorciatoie» anche pericolose e scriminare così dei comportamenti dotati di significativo disvalore penale.
In conclusione, esclusa dunque l’esistenza di alcuni dei presupposti che consentono di riconoscere la legittima difesa, la Corte procede a ripercorrere i fatti come contestati e già provati in primo grado e a dichiarare la responsabilità penale dei due imputati, in riforma della prima decisione, per i delitti di violenza o minaccia, resistenza a Pubblico Ufficiale (336 e 337 c.p.) e favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286/1998).
3. Il carosello delle scriminanti e la neutralità del principio di non respingimento nel caso Vos Thalassa. Verso il superamento di un manicheismo fra diritto penale e diritto umanitario
Alla luce di quanto fin qui riportato, in primo luogo, emerge chiaramente come le due decisioni, di primo e secondo grado, siano state formulate sulla base di un approccio ermeneutico completamente antitetico.
Se il Tribunale di Trapani ha fondato le proprie argomentazioni a favore dell’applicazione della scriminante sull’esistenza del divieto di non refoulement, quale principio immanente, ricavandolo dalla normativa internazionale in materia, la Corte di Appello di Palermo ha, invece, agito esattamente al contrario. Ovvero, pur nel rispetto della normativa internazionale, ha privilegiato l’esigenza di verificare i presupposti della scriminante, ritenendo di contro indifferente, ai fini della qualificazione del fatto, accertare che il divieto di respingimento si ponga quale diritto soggettivo assoluto o quale mero principio di condotta per lo Stato.
Tuttavia, entrambe le prospettive interpretative sono caratterizzate per dare luogo ad un atto di scelta preciso, di volontà, con cui, attraverso il carosello delle scriminanti, si è inteso offrire indirettamente un modello di approccio ai fenomeni del naufragio e soccorso dei migranti in mar Mediterraneo.
In un certo qual modo, sia il giudice di Trapani che la Corte di Appello di Palermo (ma ciò è riscontrabile anche in altri casi), si sono abbandonati al canto delle sirene, orientando la propria decisione verso un obiettivo, sia pure a costo di maturare motivazioni in diritto che prestano il fianco a varie critiche. In particolare, è stata messa da parte ogni sorta di argomentazione rispetto alla configurabilità del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 268/98, che probabilmente non avrebbe mai dovuto essere contestato ed applicato per assenza degli elementi costitutivi della fattispecie. In entrambe le sentenze, infatti, non vengono dedicate riflessioni circa l’applicabilità della fattispecie che tuttavia, nello specifico, la Corte di Appello ritiene correttamente perfezionata.
Ebbene, però, nel complesso, la decisione della Corte di Appello di Palermo appare maggiormente coerente con i principi e i canoni della materia penale rilevanti per la soluzione di questo complesso caso.
Se, per un verso, i giudici di Palermo non hanno saputo rinunciare a commentare la decisione di primo grado anche per profili non direttamente collegati alle fattispecie coinvolte, smarrendo a tratti la propria visuale dall’oggetto principale della questione, per un altro, non hanno riscontrato particolari difficoltà nel riformare una decisione molto fragile circa l’identificazione degli elementi costitutivi della legittima difesa.
La Corte di Appello di Palermo, infatti, si concentra direttamente sull’analisi dei requisiti della legittima difesa, non senza prima segnalare che l’alternativa della qualificazione del divieto di non refoulement quale diritto soggettivo o prerogativa dello Stato e non del singolo (sulla natura del diritto, fra gli altri, F. Salerno, L’obbligo internazionale di non-refoulement dei richiedenti asilo in Diritti Umani e Diritto, 2010, pag. 487 s.) sia, come ricordato, non solo «mal posta», ma anche irrilevante per la definizione del caso. In proposito, la Corte non interviene direttamente sulla natura del divieto di non respingimento e sugli effetti che tale principio produce nella risoluzione del caso di specie, ma ne dichiara la “neutralità” rispetto alla configurabilità dei requisiti della legittima difesa. E ciò non perché la Corte di Palermo si trovasse in imbarazzo o in difficoltà nel riconoscere il non refoulement come diritto soggettivo, quanto piuttosto perché non individua nella sede penale il luogo adatto al controllo circa l’effettività del diritto internazionale consuetudinario e pattizio da parte degli Stati e alla diretta disapplicazione di norme e Trattati internazionali.
Del resto, non v’è dubbio che il divieto di non respingimento assuma le vesti di un diritto dell’individuo, riconosciuto sia dal diritto internazionale, in primis, dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, sia, per quanto attiene più da vicino l’UE, dall’art. 78 del TFUE, dalla Convenzione EDU (art. 3) e dalla Carta di Nizza (art. 19).
Recentemente, la stessa Corte EDU, con le sentenze Sharifi c. Italia e Grecia del 2014, Khalifia c. Italia del 2015, nonché già nel 2012 con la sentenza Hirsi c. Italia (fra i vari commenti, S. Mirate, Gestione dei flussi migratori e principio di “non refoulement”: la Corte EDU condanna l’Italia per i respingimenti forzosi di migranti in alto mare, nota a Corte Eur. Dir. Uomo, Grande Camera, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa et al. C. Italia, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2/2013, pag. 454-465; C. Cellamare, Brevi note sulla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo nell’affare Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in Studi sull’integrazione europea, 2012, pag. 493 s.; A. Liguori, La Corte Europea dei diritti dell’Uomo condanna l’Italia per i respingimenti verso la Libia del 2009: il caso Hirsi, in Riv. Dir. Int.,2/2012, pag. 415-443) aveva infatti provveduto a ricavare tale principio dall’art. 3 CEDU e a sancire il principio per il quale gli Stati firmatari devono rispettare il divieto di non refoulement non solamente durante i controlli di frontiera, ma anche in operazioni di soccorso in alto mare.
Nello specifico, la sentenza Hirsi ha affermato che tale principio vieterebbe non solamente il rimpatrio della persona nel Paese di origine in cui rischierebbe di essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti e, in generale, alla violazione dei diritti umani, ma anche il suo trasferimento in altri Paesi in cui vi sia il rischio di un successivo rimpatrio nel Paese di origine, ovvero il respingimento indiretto.
Anche l’ordinamento giuridico nazionale italiano gode di una disciplina specifica in tema di divieto di respingimento per i soggetti richiedenti asilo politico e per i rifugiati. Per l’esattezza, l’art. 19 del Testo Unico sull’Immigrazione del 1998, come modificato con la legge n. 110/2017 che ha introdotto il delitto di tortura (cfr., fra gli altri, E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, pag. 217 s.), prevede che non possa essere disposta l’espulsione o il respingimento in Stati in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, religione, sesso, lingua, cittadinanza, opinioni politiche, etc., nonché quando esistano fondati motivi di ritenere che il soggetto rischi di essere sottoposto a tortura o alla violazione dei diritti umani.
Eppure, probabilmente, la Corte di Palermo avrebbe dovuto dedicare qualche spunto di riflessione in più in merito ai profili più critici della materia, che non attengono – come visto – alla qualificazione giuridica del principio di diritto internazionale, ma alla giurisdizione e alla competenza delle autorità nazionali nei soccorsi dei migranti in alto mare e all’azionabilità del diritto al non respingimento da parte del singolo individuo. Ciò evidenzia, da un lato, come in un tribunale non si possano prospettare significative soluzioni a tutti i problemi legati ai flussi migratori, peraltro disapplicando di fatto un trattato internazionale; dall’altro, fa comprendere che nel momento in cui la materia penale acceda a questi temi e diventi, obtorto collo, strumento di prevenzione e contrasto alla realizzazione di reati, essa debba essere applicata nei termini obiettivati nel testo adottato dal Legislatore.
Ciò si traduce, per quanto specificamente attiene al caso in esame, al dovere del giudice di verificare con precisione se il comportamento posto in essere dai due migranti imputati risulti realmente scriminato, non solo in virtù dell’esistenza di un principio di diritto internazionale consuetudinario immanente, pienamente accettato e riconosciuto, ma della conformità della condotta ai requisiti specifici che escludono la pena. Anche nell’ambito del diritto umanitario e dell’immigrazione, dunque, non si può prescindere, per l’applicazione della pena, dall’effettuare un bilanciamento degli interessi in conflitto, una verifica del c.d. «mezzo adeguato» per il raggiungimento di uno scopo consentito dall’ordinamento; nel caso della legittima difesa, tutto ciò richiede il riscontro, quantomeno, del carattere dell’offesa ingiusta, dell’attualità del pericolo, della sua volontaria causazione e della proporzionalità fra difesa e offesa.
4. «Esternalizzazione delle frontiere», soccorso in mare e tutela dei confini
Calibrare l’intervento della norma penale nel settore che coinvolge i diritti umanitari non è dunque affatto agevole. Da tempo ormai la politica di gestione dei flussi migratori portata avanti dall’UE e dai singoli Paesi membri è connotata, oltre che da una gran confusione, da finalità di contrasto all’immigrazione irregolare, di mantenimento della sicurezza nazionale e di lotta ai traffici illeciti nel mediterraneo (di recente, vedi V. Militello – A. Spena – A. Mangiaracina – L. Siracusa (a cura di), I traffici illeciti nel mediterraneo. cit.) che, per certi aspetti, mal si conciliano con esigenze umanitarie e di tutela dei diritti umani.
La moltiplicazione degli interessi da tutelare ha così prodotto una parcellizzazione della produzione normativa, a tutti i livelli, ed una chiara sovrapposizione fra attività di sorveglianza e controllo delle frontiere e attività di salvataggio. Tant’è vero che le Capitanerie di Porto e la Guardia Costiera, istituzionalmente preposte al soccorso in mare, sono oggi pienamente coinvolte nelle operazioni di contrasto all’immigrazione irregolare.
La c.d. «esternalizzazione delle frontiere», ha prodotto rapidamente una evidente incertezza nell’individuazione, interpretazione e applicazione dei principi in materia di soccorso e salvataggio. Resa ancora più lampante dall’inefficacia della politica migratoria europea che ha lasciato molti spazi sia all’espansione di modelli bilaterali di accordo fra Stati ma, in alcuni casi, anche all’uso della forza (soprattutto lungo il confine greco-turco e sullo stretto di Gibilterra) con decisive conseguenze sulla violazione dei diritti umani, in mare e su terra.
Nel Mediterraneo centrale, la frontiera è diventata letteralmente un luogo liquido, che si materializza solo dove si trova il titolare del diritto o dove si manifesta la condotta rilevante per il diritto nazionale e internazionale (cfr. P. De Sena, La nozione di giurisdizione statale nei trattati sui diritti dell’uomo, Torino, 2002). Gli Stati europei di destinazione dei flussi migratori hanno dunque spostato le procedure di controllo dei flussi migratori al di fuori del proprio territorio, trasferendo le responsabilità derivanti in capo a soggetti terzi, organi statali o privati che siano. Le misure c.d. di «pull-back» oggetto, ad esempio, del Memorandum fra Italia e Libia del 2017, hanno dunque lo scopo di trattenere in un territorio straniero i migranti, onde lì verificare l’esistenza dei requisiti per esercitare il diritto di asilo, per ottenere lo status di rifugiato, ed essere così eventualmente accolti in Europa.
Nel caso che qui interessa, dunque, senza entrare per adesso nel merito della conformità del Memorandum al diritto internazionale pattizio e consuetudinario (di cui si lamenta l’illegittimità perché non è stato ratificato secondo la procedura di cui all’art. 80 della Cost.), se ne dovrebbe dedurre, prima facie, che il controllo e l’accertamento sui presupposti per potere godere dello status di rifugiato o di richiedente asilo avrebbe dovuto essere esercitato dall’Autorità libica, a ciò deputata proprio in virtù dell’accordo bilaterale.
Dunque, in virtù di tale premessa, non solo l’equipaggio italiano non sarebbe stato legittimamente incaricato di “prendere in consegna” i migranti nella zona SAR interessata, ma avrebbe dovuto necessariamente trasferirli in favore delle motovedette libiche. Solo quell’autorità, sempre in base al Trattato, avrebbe avuto il dovere di accertare se quei migranti fossero in possesso dei requisiti per non essere respinti nuovamente nei loro territori d’origine. Si manifesta, quindi, un chiaro corto-circuito. Questo meccanismo è stato, infatti, evidentemente predisposto per favorire in modo primario esigenze di controllo dei confini nazionali a discapito di una buona gestione dei flussi migratori in conformità ai principi di diritto internazionale e dei diritti umani.
5. Legittima difesa degli imputati o adempimento di un dovere del Capitano?
In base a questa sommaria conclusione, ai fini del riconoscimento della legittima difesa, sarebbe stato difficile rinvenire sia il requisito dell’ingiustizia dell’offesa, per quanto latamente intesa, e l’attualità del pericolo, che si sarebbe concretizzato solo al momento del controllo da parte delle autorità libiche.
Tuttavia, del vizio intrinseco di conformità del Memorandum fra Italia e Libia del 2017 al diritto internazionale pattizio, probabilmente – e non è detto che ciò sia stato corretto -, la Corte di Appello di Palermo decide di non occuparsene direttamente, neanche sollevando questione di costituzionalità per violazione dell’art. 117, I comma, Cost., o artt. 10 e 80 Cost. E ciò non per timore di addivenire ad una decisione con cui disconoscere la natura del principio di non-refoulement, ma per la consapevolezza che se il fatto fosse stato posto in essere nel “pieno rispetto” del diritto internazionale, in ogni caso, non sarebbe stato possibile rinvenire tutti gli estremi della legittima difesa nelle condotte violente e minacciose dei due imputati riscontrate anche nel giudizio di primo grado, seppur giustificate dalla scriminante ricordata.
Se si considera però che il giudizio penale non è, come già più volte detto, il luogo in cui si possa procedere ad una disapplicazione implicita di una norma di diritto internazionale e che il Memorandum fra Italia e Libia potrebbe comunque risultare legittimo poiché adottato in virtù del procedimento di stipulazione semplificata degli accordi (per un approfondimento manualistico, cfr. N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, 2009, Torino, pag.185-193; è sufficiente ricordare due casi esemplari di stipulazione semplificata: il primo concerne l’adesione alle Nazioni Unite, sanata dopo un decennio dalla richiesta di ammissione con l. 848/1957 e il Trattato di Osimo del 1975, che affrontava la questione dei confini del nostro Paese con la Ex-Jugoslavia) difficilmente potrebbe ritenersi de plano illegittimo l’ordine impartito dal MRCC al Capitano della Vos Thalassa.
In questa situazione e in assenza di una dichiarazione di illegittimità esplicita del Trattato, va riconosciuto che il Capitano della Vos Thalassa ha adempiuto ad un dovere imposto da una norma giuridica e ad un ordine legittimo dell’Autorità, ai sensi dell’art. 51 c.p. In questo senso, dunque, la condotta sarebbe formalmente legittima e l’offesa arrecata al diritto dei migranti a non essere respinti «giusta» (cfr. Grosso C.F., voce Legittima difesa, op. cit., pag. 36).
Nel caso di specie, stante quanto premesso, i presupposti formali e sostanziali di legittimità dell’ordine sembrano riscontrabili e difficilmente potrebbe attribuirsi al Capitano della Vos Thalassa il potere di sindacare la legittimità dell’ordine (cfr. A. Santoro, L’ordine del superiore nel diritto penale, Torino, 1957, pag. 169 s.).
Né si può riconoscere a tale soggetto un potere di verifica dei presupposti di legittimità della fonte normativa in base alla quale proviene l’ordine; ciò, sia in virtù del fatto che, in linea di principio, l’accertamento di legittimità spetterebbe ai superiori e, al più, ad altri organi dello Stato, sia per mancanza degli strumenti tecnico-giuridici per apprezzare la reale conformità dell’ordine alla norma del Trattato.
Infine, anche a voler ritenere che il Capitano abbia dato esecuzione ad un ordine illegittimo, questi sarebbe esentato da responsabilità in quanto, per errore di fatto, avrebbe comunque ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo dell’autorità. Non parrebbe infine possibile ritenere che l’ordine di inversione di rotta impartito potesse presentare una «manifesta criminosità» (cfr. G. Fornasari, Le cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega per un nuovo codice penale, in Ind. Pen., 2/1994, pag. 365 s.) che, invece, non avrebbe escluso la responsabilità penale dell’agente. Del resto, almeno in una prima battuta, l’ordine rilasciato non assumeva i connotati di un fatto di reato o di un crimine contro l’umanità.
In questo contesto, a loro volta, le condotte di aggressione e di minaccia esercitate dai migranti, al più, in presenza di tutti i requisiti richiesti, avrebbero potuto essere scriminate in forza di uno stato di necessità, ex art. 54 Cost., che, come noto, però, tende a salvaguardare non un qualsiasi diritto da una offesa ingiusta come nella legittima difesa, bensì «il pericolo attuale di un danno grave alla persona». L’offesa, peraltro, non sarebbe stata esercitata contro un terzo, bensì contro il putativo aggressore.
Probabilmente, dunque, questa argomentazione avrebbe potuto agevolare sia una lucida ricostruzione delle norme e dei principi sui Trattati internazionali e conseguentemente una soluzione più strutturata circa la selezione della scriminante da impiegare.
6. I requisiti della legittima difesa. Alcune riflessioni sull’attualità del pericolo, la volontaria causazione e necessità della reazione nel caso Vos Thalassa
Tuttavia, la Corte di Appello di Palermo non prende in considerazione l’ipotesi di valutare la conformità della condotta del Capitano della Vos Thalassa al diritto, tanto da propendere comunque per la qualificazione dell’offesa come «ingiusta».
Alcune riflessioni possono ora essere spese sui requisiti della legittima difesa onde verificare la tenuta della decisione della Corte di Appello.
Non si tornerà invece sulla sentenza del Tribunale di Trapani. Questa appare decisamente troppo fragile sul punto, per il semplice fatto che le argomentazioni non sono fondate su elementi concreti e attuali, bensì su ricostruzioni generalizzate del diritto internazionale e dei presupposti della legittima difesa anche attraverso eccessivi richiami a testi e documenti privi, in sé, di un’efficacia probatoria in sede penale (vedi relazioni dell’UNHCR).
Come già anticipato, la sentenza della Corte di Appello si concentra prevalentemente sul riconoscimento della volontaria causazione del pericolo o della consapevole accettazione del rischio da parte dei migranti imputati, quale componente idonea a far venire meno i requisiti della necessità della difesa o dell’ingiustizia dell’offesa, dunque dell’esimente nel suo complesso. In particolare, riscontra tale elemento nel fatto che i migranti abbiano volontariamente accettato il rischio di intraprendere un viaggio molto difficile, governato da organizzazioni criminali, dall’esito incerto. La Corte di Appello di Palermo, quindi, non lega l’evento che fa emergere la volontarietà della causazione del pericolo con il momento del naufragio e con il soccorso in mare espletato dalle Autorità Italiane. Tuttavia, secondo un’altra lettura resa da alcuni commentatori, la Corte di Appello avrebbe inteso legare l’evento che fa emergere la volontarietà della causazione del pericolo con il momento del naufragio. Tale prospettiva ha condotto a criticare questa scelta (cfr. F. Cancellaro, Caso Vos Thalassa: una discutibile pronuncia della Corte di Appello di Palermo sui rapporti tra legittima difesa e non-refoulement, in ADiM blog, agosto 2020; L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia, op. cit., pag. 9 s.), per segnalare invece che la non volontaria causazione del pericolo sia un elemento costitutivo dello stato di necessità, che il pericolo di naufragio possa riferirsi solo alla verifica della sussistenza o meno di questa sola causa di giustificazione e che, infine, questo fatto nulla abbia a che fare con il pericolo di respingimento.
Pur rilevando la problematicità del ricorso in questo campo ad un istituto come la legittima difesa sottoposto continuamente a innovazioni per spinte di politica-criminale elettorale, appare possibile affermare che la Corte di Palermo abbia correttamente ritenuto che il requisito della volontarietà del pericolo causato possa applicarsi anche a questa scriminante. Sul punto, dottrina e giurisprudenza hanno espresso un giudizio unanime: le divergenze esistenti, infatti, non hanno ad oggetto l’ammissibilità del criterio della causazione volontaria del pericolo nella legittima difesa, bensì la possibilità di far venire meno il requisito della necessità della difesa o dell’ingiustizia dell’offesa. Se ne deduce che l’art. 52 c.p. non è applicabile al soggetto che si metta dolosamente in pericolo o che affronti una situazione di rischio prevista ed accettata (cfr. C.F. Grosso, voce Legittima difesa, op.cit., pag. 46.).
Riconoscere poi in capo all’imputato migrante, che si mette in viaggio, l’accettazione del rischio o la sua volontaria causazione è probabilmente un atto che tocca molte corde, che invade più campi e prospettive, e che rischia di giudicare ogni interprete secondo una visione manichea e dicotomica del tema migrazione, per la quale l’applicazione della sanzione penale corrisponde ad uno spirito conservatore, mentre la non punibilità esprime ragioni liberali e più umanitarie. Eppure, ciò che bisogna garantire, soprattutto nelle aule del tribunale, è che la componente emotivo-politica rimanga estranea al giudizio e non, al contrario, quella normativa.
Nel caso di specie, poi, la Corte di Appello ha inteso legare la volontaria determinazione del pericolo non al singolo “evento” del naufragio, come da alcuni ritenuto, ma al respingimento prospettato (poi comunque non realizzato grazie all’intervento finale della nave Diciotti). Il naufragio rappresenta l’accadimento tragico per antonomasia nelle vie terribili del Mediterraneo ma, nella prospettiva della Corte appare da esaminare nell’insieme, con tutti i segmenti di condotta che hanno determinato i migranti a trovarsi a bordo della Vos Thalassa in quel momento e in quelle condizioni.
Il naufragio rappresenta dunque solo una parte della condotta complessiva, nella quale gli imputati si sono trovati nella situazione di mettere essi stessi in pericolo il proprio diritto, consistente non certo ad essere accolti in Italia, ma a suffragare qui l’esistenza delle condizioni che avrebbero determinato il non respingimento nei loro Paesi di origine. Non vi è alcun elemento, peraltro, allo stato dell’arte, che possa dimostrare, a contrario, che in mancanza dell’azione violenta e minacciosa da parte degli imputati, questi, non sarebbero stati sottoposti ad un controllo circa l’esistenza delle condizioni e dei requisiti per riconoscere lo status di rifugiato o di avente il diritto di asilo e comunque rimpatriati dallo Stato italiano.
In questo senso, è infatti opportuno tenere sempre a mente che il diritto al non refoulement non combacia con il diritto a entrare in suolo italiano o in quello di un altro Paese europeo, bensì con la necessità di assicurare l’accoglienza in un porto sicuro, ovvero in un luogo in cui il respingimento verso il Paese di origine non sia consentito, al pari di forme di trattamento disumani e degradanti della persona, sempre che non vi siano comprovate ragioni di rischio per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico.
Semmai, in questo contesto, la Corte di Appello di Palermo, insieme alla volontaria causazione del pericolo o alla sua consapevole previsione, avrebbe dovuto accertare in modo più specifico l’esistenza dei requisiti dell’«attualità del pericolo» e della «necessità della reazione». Infatti, presupposto fondamentale della legittima difesa è che, in assenza dell’intervento immediato dell’Autorità pubblica, l’aggressione provochi un pericolo attuale di offesa ad un bene giuridico idoneo a determinare solo quel tipo di reazione e nessun’altra.
In primo luogo, occorre dunque accertare che la minaccia di lesione e offesa al bene sia concreta, incombente, se non imminente al momento del fatto, tale per cui l’unico mezzo per mettere al riparo il bene posto in pericolo sia da rinvenire solo in uno specifico comportamento, come in questo caso, in un atto violento o minaccioso.
Eppure, a rigor di logica, l’offesa che si ritiene arrecata determinando così il pericolo di respingimento non aveva ancora assunto i caratteri dell’attualità nel momento in cui la Vos Thalassa si era diretta nuovamente verso il mare territoriale libico. In quel momento, rebus sic stantibus, il pericolo poteva solo essere eventuale, potenziale o al più futuro. Conseguentemente, per ciò che concerne la necessità della difesa e, indirettamente l’elemento della proporzione, i due soggetti imputati avrebbero potuto reagire con comportamenti meno dannosi nei confronti dell’equipaggio, nella consapevolezza di potere fra l’altro interloquire direttamente con l’autorità statuale, ora italiana, ora libica.
Del resto, il giudizio circa l’esistenza di un pericolo attuale va effettuato su basi oggettive esistenti al momento della realizzazione della condotta offensiva. Queste, infatti, devono apparire idonee, secondo la migliore scienza e esperienza, a provocare l’evento lesivo che si vuole scongiurare mediante l’azione difensiva. Argomentare sulla base di circostanze conoscibili, eventuali, o conosciute solo dall’offensore o da chi si difende, condurrebbe proprio a sottoporre la legittima difesa ad applicazioni incerte, condizionate eccessivamente dai valori che l’oggetto del giudizio pone in evidenza o, comunque, al rinvio alla legittima difesa putativa, ex art. 59, 1° comma, c.p. Tuttavia, come noto, questa può configurarsi solo se e in quanto l’erronea opinione della necessità di difendersi venga fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare nella mente dell’agente la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo che, comunque, deve trovare correlazione nelle circostanze oggettive in cui la difesa si manifesta. Tale prospettiva, oltre a non essere stata discussa dalla Corte di Palermo, non rappresenta effettivamente una strada praticabile alla luce delle circostanze in cui il fatto è avvenuto.
Così come sostenere l’attualità del pericolo (senza per questo sminuire la gravità degli accadimenti) sulla base dei soli report effettuati dagli organismi internazionali sulle violazioni dei diritti umani in Libia, significherebbe imporre un ragionamento presuntivo che indipendentemente dalla fondatezza fattuale aggirerebbero il necessario riscontro concreto per accertare l’integrazione nel fatto dei requisiti della scriminante. Pur se in relazione al diverso requisito della proporzionalità può essere utile menzionare che l’introduzione da parte del Legislatore di una presunzione per i casi di violazione di domicilio abbia scatenato dubbi e contestazioni di ogni tipo (fra i primi commenti all’ultima novella in materia legge n. 36 del 26 aprile 2019,G.L. Gatta, La nuova legittima difesa: un primo commento, in www.penalecontemporaneo.it, del 01 aprile 2019), a favore, e ritengo ragionevolmente, di una valutazione concreta e caso per caso del requisito.
Al tempo stesso, come già anticipato, sembrerebbe difficile poter intravedere gli elementi della legittima difesa putativa, la quale – si ricorda – non può valutarsi esclusivamente alla luce di criteri soggettivi, identificabili, come in questo caso, nel timore o nello stato d’animo dell’agente, ma sulla base di elementi oggettivi, chiaramente riscontrabili e che denotano l’imminente e certa lesione del bene giuridico del soggetto che si difende (cfr. G. De Vero, Le scriminanti putative, in Riv. It. Dir. E proc. Pen., 1998, pag. 773 s.). Il rischio, come è stato evidenziato negli ultimi anni, sempre alla luce delle modifiche apportate alla legittima difesa (ancora S. Aprile, Un’altra riforma della legittima difesa: molta retorica e poche novità, in Cass. Pen., 7/2019, pag. 2414-2425) è quello di arricchirla di componenti soggettive strumentalmente idonee ad orientare l’istituto verso obiettivi di politica criminale piuttosto dubbi (da ultimo per quanto riguarda l’elemento del «grave turbamento», vedi F. Bacco, Il «grave turbamento» nella legittima difesa. Una prima lettura, in Dir. Pen. Cont., 5/2019, pag. 53-74).
In conclusione, dunque, al di là della più o meno discutibile scelta di ancorare l’argomentazione a favore della responsabilità penale degli imputati sull’esistenza della volontarietà del pericolo causato, una rigorosa valutazione dei requisiti della legittima difesa, in particolare dell’attualità del pericolo e della necessità della difesa, avrebbe tendenzialmente comunque condotto allo stesso risultato.
7. La «stanchezza della catastrofe». Conclusioni
Nell’attesa dunque di constatare come si orienterà la Corte di Cassazione, è indubbio che casi come quello della Vos Thalassa, della Open Arms o della Diciotti, meritino un rapido intervento del Legislatore, nazionale ma soprattutto euro-unitario, volto a regolamentare il fenomeno della migrazione nel Mediterraneo alla luce di un chiaro ed effettivo bilanciamento degli interessi in rilievo, dei diritti umani e delle esigenze di sicurezza nazionale.
Sono proprio i drammatici accadimenti legati ai fenomeni migratori di quest'ultimo ventennio a mettere a dura prova la tenuta di alcuni fra i principi più significativi delle democrazie occidentali contemporanee e, quindi, a meritare urgentemente una rivalutazione della disciplina in materia, anche in relazione ai profili penalistici, per scongiurare l'acuirsi del fenomeno, non abituarsi alla «stanchezza della catastrofe» (Z. Bauman, I migranti risvegliano le nostre paure. La politica non può rimanere cieca, intervista a cura di A. Guerrera, in La Repubblica, 29 agosto 2015) e garantire così un equilibrio fra sicurezza pubblica ed esigenze umanitarie.
Del resto, anche la disciplina in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, qui venuta in gioco per il tramite dell’art. 12, 3° comma, dimostra come non vi sia chiarezza circa le modalità con cui affrontare la crisi umanitaria in corso, in cui, troppo spesso la persona è vista come un mezzo e non come un fine.
Tuttavia, fino a quel momento, attribuire al Giudice Penale tale compito significherebbe rendere incerti i paradigmi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, lasciando eccessivi spazi a interventi che, peraltro, rischiano di alterare in modo troppo discrezionale la scala dei valori obiettivata dall’ordinamento.
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