ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Aspettando le Sezioni Unite sull’apertura di borse senza autorizzazione del P.M. in ambito fiscale
Intervista di Enrico Manzon ad Alberto Marcheselli e Francesco Pistolesi
Con l’ordinanza interlocutoria n. 10664 del 22 aprile 2021 la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ne interroga le Sezioni Unite su di una questione, molto delicata, inerente ai diritti del contribuente in fase di istruttoria amministrativa ed alla relativa disciplina di principio costituzionale, unionale e convenzionale. Nel caso di specie risultano in particolare implicati gli obblighi informativi dell'agenzia fiscale in ordine a tali diritti, l'efficacia del consenso del contribuente e le conseguenze giuridiche di eventuali vizi del consenso stesso causati dalla violazione di detti obblighi.
In vista della pronuncia del Supremo Collegio, anche in un’ottica di servizio, la Rivista, che già si è occupata dell’argomento – cfr. G.Iacobelli, Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente? La questione al vaglio delle Sezioni unite - ha interpellato due autorevoli tributaristi accademici, il prof. Alberto Marcheselli ed il prof. Francesco Pistolesi, i cui apprezzati interventi abbiamo già avuto modo di ospitare.
Specificamente, seguendo la traccia della pronuncia in commento, a loro è stato chiesto di analizzare i punti seguenti: Il rilievo giuridico del consenso del contribuente, anche in forma di contegno passivo, nel caso di illegittima compressione di un suo diritto di matrice costituzionale, unionale e convenzionale verificatosi in sede di verifica fiscale; gli oneri informativi facenti carico all’Amministrazione finanziaria affinché il comportamento collaborativo del soggetto verificato sia valido: determinazione del concetto giuridico di "consenso libero e informato"; la sorte delle prove acquisite illegittimamente e la possibilità di discriminarle in ragione del diverso livello di lesività dei diritti del contribuente ravvisabile nell’azione svolta dall’Amministrazione finanziaria.
Queste le loro interessanti risposte.
§§§
Prof.Alberto Marcheselli
Ordinario diritto tributario Università di Genova
Le conseguenze delle violazioni istruttorie tributarie e gli effetti della condotta del contribuente durante la verifica fiscale, tra buona fede, proporzionalità e diritti fondamentali
Sommario: 1. La natura e l’interesse tutelato dalle norme sulle indagini tributarie. - 2. Il consenso del contribuente: funzione, limiti, caratteristiche ed efficacia. Il consenso libero e informato - 3. Atteggiamento passivo, silenzio e condotta inerte: quale spazio per un consenso tacito? I doveri informativi della PA e gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia del contribuente e del suo difensore - 4.Una diversa prospettiva per la condotta inerte del contribuente durante la verifica: sono possibili effetti probatori o sulla attribuzione della successive spese processuali?
1. La natura e l’interesse tutelato dalle norme sulle indagini tributarie
La premessa che la violazione delle regole sulle indagini tributarie possa determinare la caducazione dell’avviso di accertamento tributario può essere data per solida e robusta (in tal senso convergono, nel loro dialogo, le varie giurisdizioni: ex plurimis Cass. SS.UU. 16424/02, CGUE, 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C‑419/14, EU:C:2015:832, punto 89).
Sul piano più teoretico che pratico si può, in effetti, discutere se la conseguenza sia una invalidità derivata o, come a me pare più corretto, una inutilizzabilità del risultato della indagine illegittima, ma la scelta che si fa quanto a questa opzione non appare praticamente rilevante quanto al tema da affrontare. Per convenzione terminologica, allora, di qui in poi mi riferirò indifferentemente a inutilizzabilità o illegittimità, come se fossero sinonimi, nulla mutando in pratica.
Ciò posto, appare altrettanto pacifico che non tutte le violazioni sono suscettibili di produrre tale effetto. In termini generali, è intuitivo che anche la “sanzione” per la violazione istruttoria deve essere giustificata da e proporzionata alla violazione.
Tale giustificazione e proporzione non sussiste quando o si tratti di violazioni di norme che non riguardano la proiezione esterna dell’attività amministrativa (norme di organizzazione interna) o, comunque, di violazione di insufficiente gravità.
In termini generali e a questi fini, le norme sull’istruttoria possono allora distinguersi, tenendo presente una premessa: appaiono poter inficiare l’accertamento o le violazioni di norme che esprimano la congruità della procedura seguita al suo scopo (accertare con sufficiente precisione e plausibilità l’entità del presupposto), ovvero le norme che segnino i limiti esterni del potere della Amministrazione Finanziaria e dello Stato rispetto ad interessi altrui. Tra gli interessi con cui l’accertamento tributario può venire in conflitto non pare infatti che il contribuente possa pretendere di azionare quelli spettanti al soggetto pubblico.
Alla luce di ciò, le norme sull’istruttoria sembrano così potersi classificare: a) norme interne di organizzazione dell’attività degli uffici; b) norme finalizzate a garantire l’accuratezza dell’accertamento; c) norme di garanzia di diritti e interessi privati, del contribuente e di terzi; d) norme di garanzia di interessi pubblici diversi da quelli relativi all’attuazione dei tributi.
Tenendo ferma la premessa posta poco sopra, la violazione di norme dei tipi sub a) e d) non pare allora poter determinare l’illegittimità dell’accertamento. Si tratta di norme che non servono a garantire la realizzazione della funzione (un accertamento che misuri con ragionevole plausibilità la ricchezza) e/o tutelano interessi dello Stato (e quindi non possono configurare limiti esterni del potere).
L’illegittimità sembra invece poter colpire le violazioni delle norme degli altri due generi, sempre che si tratti di violazione di sufficiente gravità.
A questo proposito, ben può essere un criterio di supporto la ricerca di un valore costituzionale sottostante.
Come criterio interpretativo, laddove manchi una prescrizione espressa di nullità/inutilizzabilità, può certamente essere utile interrogarsi sul fatto se la regola intenda presidiare valori costituzionali che entrino in tensione rispetto agli atti di indagine. In tali casi, in effetti, la norma esprime, effettivamente e certamente, un limite del potere, e il criterio del valore costituzionale risulta congruente con il criterio appena enunciato.
Naturalmente, la decisività di tale criterio non può neppure eccessivamente enfatizzarsi, in un duplice senso. Da un lato, molte delle iniziative di indagine impattano con libertà costituzionali (ed è quindi sostenibile che le relative regole li ponderino e tutelino, per cui il criterio non è particolarmente selettivo, se applicato in senso proprio), dall’altro, il criterio della individuazione del valore costituzionale sottostante può valere solo come criterio interpretativo di selezione dei casi rilevanti (cioè: determinano sicuramente inutilizzabilità le regole legislative che tutelino tali valori), non come possibilità di sostituzione, alla valutazione e disciplina legislativa, di un controllo diffuso di costituzionalità.
Detto più chiaramente: a fronte di una regola sull’istruttoria e in mancanza di una sanzione espressa di inutilizzabilità, in caso di violazione della regola, è corretto chiedersi se quella norma limitasse il potere di indagine (ed è corretto affermare che lo fa sempre e sicuramente quando pondera tra valori costituzionali).
Ma non sarebbe corretto invertire il ragionamento e confondere tra condizione sufficiente e condizione necessaria: se una regola limita il potere non è che questa possa essere ritenuta irrilevante, quanto alla inutilizzabilità, rifacendosi e sostituendosi, tout court e sempre, da parte del giudice la verifica sulla correttezza della ponderazione legislativa. Salvi gli spazi di interpretazioni costituzionalmente orientate, ove si ritenesse che la regola che limita il potere non fosse assisa su una proporzionata ponderazione dei valori costituzionali, la via sarebbe o quella di elevarne questione di legittimità costituzionale o, nelle materie armonizzate, porsi un delicato problema di disapplicazione, per contrasto con il principio di proporzionalità.
Ne consegue che determina la inutilizzabilità dei dati probatori acquisiti solo: i) la violazione di norme che disciplinano il potere di acquisizione, sufficientemente gravi e corrispondenti a un interesse privato, del contribuente o di terzi; ii) la violazione di norme che definiscono gli standard di affidabilità del materiale probatorio (categoria fondamentale di norme di questo ultimo tipo è dato da quelle sul contraddittorio procedimentale come strumento di adeguamento dell’accertamento fondato su dati standard alla realtà del contribuente - Cass., sez. un., 26635/2009 o più in generale come complemento istruttorio).
2. Il consenso del contribuente: funzione, limiti, caratteristiche ed efficacia. Il consenso libero e informato
Il secondo profilo rilevante è quello del consenso.
In senso proprio, si tratta del problema della efficacia delle manifestazioni di volontà del contribuente, che accetti che si verifichino nei suoi confronti determinate conseguenze giuridiche. In senso lato, si tratta dell’espressa accettazione del compimento da parte degli operanti di determinate attività.
Un primo ostacolo di ordine generale sembrerebbe opporsi al ritenere che tale consenso possa avere degli effetti in materia tributaria, e si tratta della – pacifica – indisponibilità del diritto tributario. Sul punto però occorre fare subito una precisazione, che appare sostanzialmente svuotare di rilevanza l’argomento. Che il diritto tributario sia materia indisponibile significa solo una cosa: che la fonte degli obblighi tributari non è volontaristica e, pertanto, essi non possono essere modificati per effetto della volontà: non ci si può obbligare né liberare volontariamente, né i debiti possono essere in tutto o in parte rimessi.
Ma ciò non significa affatto che, per quanto attiene la attuazione del tributo, le scelte delle parti non possano essere prive di effetti. Per esempio, l’imputato nel processo penale …non può decidere di andare in prigione, perché la libertà personale non è disponibile, ma può ammettere il reato, non contestare le accuse del pubblico ministero, non appellare le sentenze, non chiedere la sospensione dell’ordine di esecuzione, ecc. Simmetricamente, nello stesso processo, il P.M., ancorché il diritto penale sia l’apoteosi della materia indisponibile, può certamente, effettuare tutte le scelte procedimentali. È appena il caso di notare che, persino la negligenza nella gestione del procedimento non sarebbe rimediabile per un intervento sostitutivo del giudice: se l’imputato o il Pubblico Ministero non presentano appello nei termini, non ostante la delicatezza estrema della materia, non vi è alcun correttivo.
Ma vi è di più.
Quando si tratta della materia delle indagini, tale conclusione esce confermata e rafforzata dal fatto che il consenso della cui ammissibilità ed efficacia si discute non ha affatto ad oggetto l’obbligo di pagare, ma consentire deroghe al sacrificio di posizioni giuridiche diverse. Si tratta, ad esempio, di discutere se il contribuente possa validamente rinunciare alle regole previste, ad esempio, a tutela della sua vita privata, e simili.
La distinzione tra diritti economici oggetto della pretesa tributaria e diritti fondamentali intersecantisi con le indagini tributarie, è perfettamente colta in sede eurounitaria (si vedano ad esempio le Conclusioni dell’Avvocato generale Kokott del 2 luglio 2020, procedimenti riuniti C-245/2019 e C-246/2019, caso État luxemburgeois, in particolare al § 71), mentre stenta a farsi strada nel diritto interno.
La soluzione, per la verità, appare molto semplice e lineare: il consenso è valido se esprime un atto di disposizione di diritti suscettibili di gestione e disposizione (e nei limiti in cui lo siano): si tratta di concetti puramente civilistici che nulla hanno a che vedere con la materia tributaria, che è solo l’occasione in cui la frizione con il diritto personale avviene. Così come il soggetto non può fare, se non entro certi limiti, validi atti di gestione della propria integrità fisica, ma può ad esempio, far entrare nel proprio domicilio chi vuole (e la cosa coerentemente esclude anche il delitto di violazione di domicilio), non si vede perché non potrebbe consentire a iniziative di indagine tributaria anche al di fuori dei limiti della legge tributaria, se si rimane nei limiti del consentito esercizio civilistico del diritto.
Le regole tributarie stabiliscono il punto di equilibrio tra potere pubblico tributario e diritti individuali: si può dire che strutturalmente presuppongano il dissenso e la necessità di costrizione. Ove il dissenso non vi sia, vi è solo l’ostacolo della indisponibilità (o superamento dei limiti di disponibilità), che non dipende affatto dalle regole tributarie, ma da quelle civilistiche. Tale indisponibilità, attese le posizioni coinvolte nella istruttoria tributaria (domicilio, riservatezza e simili) risulta di non probabile configurazione. Le ipotesi di indisponibilità concernono diritti rinunciare ai quali, sostanzialmente, sarebbe contrario al buon costume e all’ordine pubblico (integrità fisica, personalità, libertà morale, ecc.), ma non si tratta di norma di diritti su cui la indagine tributaria possa incidere. Una possibile eccezione, tuttavia, vi è, ed è quella della protezione dei dati personali, se la si intende, come pare si debba, non quale proiezione di un diritto individuale, ma interesse della collettività, correlato con la libertà e democrazia collettiva (ex multis, A. Mantelero, Personal data for decisional purposes in the age of analytics: from an individual perspective to a collective dimension of data protection, in Computer Law & Security Review, 2016, 238 ss.).
Insomma, il consenso vale come fatto che, escludendo costrizione, implica il venir meno delle necessarie cautele previste per l’esercizio di poteri.
Da tale premessa derivano alcuni corollari.
Innanzitutto, il fatto che il consenso ha un ruolo solo rispetto alle situazioni e alle regole che concernano l’esercizio di poteri o l’attivazione di obblighi. Il consenso è irrilevante (non è né richiesto, né sanante) per attività di indagine che non implichino soggezione o costrizione.
E, soprattutto, il fatto che il consenso rilevante è solo quello che significhi che il soggetto al potere accetta il sacrificio del suo interesse compresso dall’indagine, senza che sia necessario attivare alcun potere o costrizione: detto in altre parole, il consenso deve essere libero e informato.
Libero significa che non deve sussistere alcuna costrizione, né diretta né indiretta. Diretta sarebbe ove il consenso fosse ottenuto attraverso la prospettazione di conseguenze sfavorevoli: non sarebbe libero il consenso ottenuto prospettando sanzioni, proprie o improprie, specifiche o vaghe, sia che tali conseguenze esistano, sia che siano soltanto minacciate, o anche solo oggetto di vaga allusione (in formule sibilline quali “con le conseguenze di legge”).
Anzi, considerato che l’attività degli operanti l’indagine è naturalmente e normalmente autoritativa, l’unica soluzione idonea a sgombrare il campo da equivoci è l’espressa informazione del fatto che dalla scelta del soggetto all’indagine non potranno scaturire conseguenze sanzionatorie, in senso lato (ovviamente restano escluse le valutazioni strategiche di convenienza). Tale ultimo aspetto transita già nel concetto di consenso informato: il consenso efficace è solo quello che viene manifestato sapendo di poterlo adottare senza conseguenze sanzionatorie, da un lato, e nella consapevolezza del suo effetto giuridico: rendere non necessarie garanzie che altrimenti paralizzerebbero le indagini.
Il consenso non riguarda solo lo svolgimento materiale delle operazioni (il non opporsi, come purtroppo spesso in maniera non sufficientemente avvertita si ritiene) ma anche – necessariamente - il fatto che, in tal modo, non sono più necessarie le garanzie procedimentali. Ciò comporta che gli operanti che vogliano valersi del consenso devono giocare a carte scoperte: informare del fatto che il consenso è libero e che, in sua assenza non sarebbe possibile procedere.
In difetto, non si vede come possa, in rigorosi termini giuridici, ipotizzare un consenso efficace.
3. Atteggiamento passivo, silenzio e condotta inerte: quale spazio per un consenso tacito? I doveri informativi della PA e gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia del contribuente e del suo difensore
Il terzo problema è se il consenso debba essere espresso o possa essere tacito, manifestato con la inerzia o attraverso comportamenti concludenti.
La soluzione del problema deve essere espressa in modo articolato, sia perché vengono in gioco diversi aspetti, sia perché le fattispecie ipotizzabili solo alquanto diverse.
Una prima ipotesi, coerentemente a quanto fin qui espresso, è quella in cui gli operanti informino l’interessato in modo trasparente del fatto che nella fattispecie è necessario il consenso, che questo è libero e domandino se egli lo esprima. In questo caso il problema del silenzio è sostanzialmente di scuola, in termini pratici. Viene difficile ipotizzare in concreto che il contribuente, sollecitato, rimanga inerte come una Sfinge. Ove si dia questo – invero bislacco – caso, non sembra, di per sé, espresso un consenso, diventando semmai rilevante la somma di silenzio e comportamento successivo. Sempre ragionando in termini puramente astratti non sarebbe sproporzionato, sempre in questa ipotesi fantasiosa, ritenere che al contribuente non costerebbe alcun sacrificio esprimere un sì e un no, ma resta comunque il fatto che, se anche il silenzio si potesse interpretare come assenso, dovrebbe valutarsi la condotta successiva: il contribuente collabora (per esempio: apre la porta? Si scansa e fa entrare gli operanti?). In questo caso, un silenzio successivo a una trasparente informazione, seguito da una condotta collaborativa potrebbe effettivamente esprimere per fatti concludenti un assenso: pretendere successivamente di qualificarlo come opposizione appare contrario a buona fede.
Ma fuori da questa ipotesi, di fantasia, la costruzione di un valido consenso sembra normalmente da escludere.
In particolare, tutte le volte che il contribuente non venga informato (o non vi sia certezza che sia a conoscenza altrimenti) del carattere decisivo del consenso (cioè del fatto che manca la necessaria autorizzazione) non si vede come il silenzio e il comportamento del contribuente potrebbero valere come valida rinuncia alle garanzie procedurali.
Non è sostenibile, perché non è proporzionato e conforme a buona fede né ipotizzare che il contribuente dovrebbe …sapere da solo se l’autorizzazione esiste, né che sia egli a dover chiedere e pretendere di sapere se l’autorizzazione esiste: non si vede perché, in base ai principi di buona fede e proporzionalità, la Pubblica Amministrazione potrebbe agire in modo non trasparente e contrario a buona fede senza andare incontro a conseguenze, se non quando il contribuente solleciti il rispetto del suo diritto, quasi che le regole siano da applicarsi a richiesta.
Tale soluzione è particolarmente abnorme perché il comportamento trasparente della P.A., oltre che doveroso, è anche di semplice adempimento: si tratta semplicemente di rispettare la legge e adempiere semplicissimi oneri (o premunendosi di autorizzazione, che si può ottenere anche in forme semplificate e urgenti, o, in difetto di questo primo adempimento dovuto, almeno informare il contribuente). Sanare l’inadempimento, grave, di due semplici doveri ribaltando l’onere sul contribuente appare particolarmente sbilanciato e ingiustificato (oltre che incentivante di condotte negligenti).
Idem, di regola, quando la condotta non sia libera.
Va, in effetti, tenuto presente che quando degli esponenti della pubblica autorità si presentano in modo ufficiale e non viene esplicitato che l’attività di indagine non può esperirsi in modo autoritativo, risulta pressoché impossibile ipotizzare che il contribuente sia consapevole del fatto di potersi legittimamente opporre. Anche senza evocare il metus rispetto alla autorità, è evidente che l’Autorità agisce in modo … naturalmente e ordinariamente autoritativo. Lo spazio per ritenere un implicito consenso nelle situazioni ambigue appare pertanto assai ristretto, salvo quanto si dirà subito oltre.
Residua un solo profilo, nuovamente sostanzialmente di scuola.
Quello in cui gli operanti informino trasparentemente della mancanza di autorizzazione, ma tacciano sul fatto che un libero consenso potrebbe essere sanante.
In questa ipotesi, e solo in questa ipotesi, ci si può effettivamente domandare se non si possa fare qualche distinzione soggettiva, considerando le qualità del soggetto che subisce materialmente l’indagine. È diverso, per esemplificare, il caso dell’accesso presso un pensionato delle poste, o presso un commercialista che eserciti professionalmente l’assistenza tributaria. Ovvero, appare diversa la condizione del soggetto ad indagine che sia assistito da un professionista da quello che non lo sia assistito. Un professionista, ragionevolmente, sa che senza l’autorizzazione che manca nella fattispecie la sua collaborazione è decisiva, e in questo caso, e solo in questo caso, il silenzio unito a una condotta collaborativa potrebbe essere significativo di un consenso implicito.
Non così, però, nel caso in cui manchi l’informazione degli operanti, perché nel bilanciamento tra una pubblica amministrazione che agisca in modo non trasparente e doppiamente negligente resta comunque sproporzionato ritenere che sia il soggetto passivo della indagine, anche se tecnicamente preparato, a chiedere di verificare la legittimità del potere. La legge va rispettata nei confronti di tutti, non solo di chi non la conosca.
Si potrebbe, inoltre, ritenere che, se il contribuente, che è stato informato della illegittimità istruttoria, non è assistito da un professionista dopo essere stato avvertito della possibilità di farsi assistere, la sua situazione equivalga a quella di chi fruisce di assistenza: tutto sommato egli, per sua scelta, affronta l’indagine senza curarsi di integrare la sua difesa con le necessarie competenze tecniche, così rispondendo degli effetti della sua negligenza e imprudenza. Nel particolare caso in cui invece egli non sia assistito ma non fosse neanche stato informato, ai sensi dell’art. 12, del diritto di assistenza del difensore, la situazione si ribalterebbe: il contribuente aveva il diritto di essere informato della sua facoltà di assistenza tecnica: mancando questa doverosa informazione può ritenersi che egli non sia stato né negligente né imprudente e torna pertanto esclusa la possibilità di un implicito consenso sanante, nei limitati casi in cui questo potrebbe sussistere. In tal senso si potrebbe sciogliere il nodo evidenziato da Cass. ord. 10664/2021, nella rimessione alle SS.UU.
Tale consenso resta tuttavia radicalmente precluso, salvo questo caso di scuola, a nostro avviso, se chi subisce l’indagine non è almeno informato sul presupposto che rende il consenso decisivo (manca l’autorizzazione) o non è libero. Se colui che subisce l’indagine non sa che essa non potrebbe essere legalmente svolta, come può il suo non opporsi equivalere ad accettarla anche se non può essere legalmente svolta? Mancherebbe il presupposto decisivo del consenso sanante.
4. Una diversa prospettiva per la condotta inerte del contribuente durante la verifica: sono possibili effetti probatori o sulla attribuzione della successive spese processuali?
Da ultimo, va considerato se il silenzio e l’inerzia del contribuente durante le indagini non possano avere, comunque, effetti giuridici diversi, e congrui con il principio di buona fede e proporzionalità.
Un primo aspetto concerne il versante probatorio e in particolare se non contestare dei rilievi non implichi comunque una condotta di ammissione, ovvero una non contestazione tale da ingenerare effetti giuridici.
Come noto, ammissione e non contestazione operano a due livelli diversi. Il primo è se la condotta possa essere una prova del fatto affermato dall’Agenzia. La non contestazione invece avrebbe l’effetto di esonerare l’Agenzia dell’onere della prova, secondo il principio di cui, per il processo civile, all’art. 115, comma 1. Nel primo caso dal comportamento del soggetto si trarrebbe una prova contro di lui, nel secondo, dal suo comportamento deriverebbe l’esonero dall’onere della prova dell’Agenzia.
Entrambe le configurazioni sono a nostro avviso deboli, salvo che nel senso che si dirà. Sul piano, per così dire, semantico il silenzio è sicuramente del tutto ambiguo: il tacere può tranquillamente equivalere al riservarsi le contestazioni ad altra sede, magari per meglio articolarle e specificarle. Sul piano giuridico, dovrebbe individuarsi la fonte, per un dovere di contestare.
Essa non si trova nelle norme espresse (che prevedono il dovere di rispondere alle domande ma non di contestare le affermazioni), e può porsi il dubbio se non derivi dal dovere di buona fede.
La questione è delicata: da un lato il prendere posizione sui fatti affermati dalla controparte, limitandosi a negarli, può apparire un onere di modesta incisività, dall’altro va detto che l’onere di contestazione è previsto dalla legge nel processo e ciò potrebbe parere tutt’altro che casuale: in quel caso ci si trova davanti a un soggetto terzo e imparziale e si sta giocando la partita nell’area protetta dalla presenza di un arbitro. Ritenere che, per effetto di un atteggiamento passivo durante le indagini, il soggetto si veda privato della possibilità di provare la propria ragione successivamente davanti al giudice appare decisamente sproporzionato. Più ponderato appare invece ritenere che tale condotta debba essere valutata insieme a tutto il materiale probatorio, quale argomento di prova (art. 116 c.p.c. applicato analogicamente), senza derivarne automatismi e regole rigide.
In effetti, il silenzio durante le indagini può essere indicativo di cose diverse ed opposte (da un estremo all’altro: timore riverenziale, difficoltà temporanea a organizzare la difesa, scelta strategica attendista, malizioso silenzio nel tentativo di predisporre prove false nelle more, ecc.…).
In sintesi, il silenzio è un elemento da valutare, ma sulla base di un giudizio di fatto caso per caso, non suscettibile di ipostatizzazioni in regole (o massime giurisprudenziali) rigide.
Per altro verso, sembra di dover ritenere che l’unico silenzio rilevante sia quello che si protrae fino a dopo la conclusione delle indagini ed è mantenuto anche dopo il rilascio del processo verbale e l’offerta di un termine per le osservazioni (non potendosi valorizzare in assenza di tale possibilità). Ritenere che sia rilevante anche il mero tacere “in diretta” durante le indagini è palesemente sproporzionato e creerebbe una notevole impasse anche alla stessa attività di indagine. Il discorso dovrebbe infatti simmetricamente rovesciarsi. Ove il contribuente si opponesse sollevando eccezioni, qualora i verificatori non le contrastassero immediatamente ne deriverebbe un pregiudizio ad una successiva contro-argomentazione da parte degli enti impositori. Ne conseguirebbe una rigidità per le attività di indagine che non ha alcuna proporzionata giustificazione, da un lato, e si presterebbe ad abusi e strumentalizzazioni assai gravi, da entrambe le parti.
Infine, non sembrano esservi ostacoli a valutare il silenzio e la sua corrispondenza alla buona fede nel momento della determinazione e attribuzione delle spese dell’eventuale successivo giudizio. La tendenza della giurisprudenza sembra, infatti, espansiva nel riconoscere sempre maggiore spazio, accanto alla regola della soccombenza, alla regola della valorizzazione della “responsabilità” per aver determinato l’insorgenza di una lite che sarebbe stata evitabile. Si tende sempre più a valorizzare la condotta delle parti anche prima del processo, verificando quale di esse non abbia fatto quanto di ragionevole per evitare la lite, anche in adempimento dei doveri di buona fede. Così si afferma che paga le spese, tra l’altro, la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi [Cass. 13.1.2015, n. 373]. Lungo questa via potrebbero allora valorizzarsi non solo condotte procedimentali quali l’omessa partecipazione al contraddittorio ma più in generale sottrarsi alla dialettica procedimentale e si tratterebbe probabilmente di una conclusione ragionevole e proporzionata, attuativa, in modo ponderato, del principio di buona fede.
Prof. Francesco Pistolesi
Università degli Studi di Siena
Le Sezioni Unite chiamate a pronunciarsi sul rilievo del consenso del contribuente a fronte di attività istruttorie fiscali che ne ledano diritti fondamentali
Sommario: 1. La rilevanza del consenso del contribuente - 2. Il consenso libero e informato - 3. La sorte dei mezzi istruttori acquisiti illegittimamente - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza del consenso del contribuente
Con l’ordinanza interlocutoria n. 10664 del 22 aprile 2021, la Sezione V della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della decisione su tre importanti questioni:
- se, in caso di apertura di una valigetta reperita nel corso di un accesso presso il luogo di svolgimento dell’attività del contribuente, la mancanza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina, prevista dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972[1], possa essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza ivi presumibilmente contenuta;
- se, qualora si dia una risposta positiva alla questione che precede, il consenso possa considerarsi “libero e informato” anche qualora l’Amministrazione finanziaria non abbia reso edotto il titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza della facoltà, contemplata dall’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria[2];
- se, infine, l’eventuale inosservanza di detto obbligo di informazione e il conseguente vizio del consenso del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza comporti la non utilizzabilità della documentazione acquisita in mancanza della prescritta autorizzazione.
Il primo profilo è quello, forse, più agevole da affrontare.
La mancanza di autorizzazione ex art. 52, comma 3, cit. può essere sopperita dal consenso dell’interessato all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Infatti, non è frutto del caso che la norma in esame si riferisca all’apertura “coattiva”, ossia eseguita senza la condivisione (o, quanto meno, “non opposizione”) del titolare del diritto tutelato dallo stesso precetto.
Se il soggetto garantito acconsente – o non esprime dissenso – all’apertura, viene meno la “coattività” e con essa l’esigenza dell’autorizzazione, richiesta dall’art. 52, comma 3 cit., quest’ultima occorrendo solo quando faccia difetto la disponibilità dell’interessato a che l’Amministrazione finanziaria entri in possesso del contenuto “di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
La natura del diritto tutelato giustifica la soluzione esposta. Si tratta del diritto alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, qualificato come inviolabile dall’art. 15, comma 1, Cost., e soggetto a “limitazione” solo “per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”, stando al successivo comma 2. Ossia un diritto che, in difetto dell’opposizione del titolare, è ritenuto dal legislatore – con valutazione discrezionale che non appare irragionevole – suscettibile di “limitazione” pur in difetto dell’autorizzazione dell’Autorità competente. A quest’ultima è dato ricorrere soltanto quando tale titolare neghi l’apprensione di quanto trovasi nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Diversamente, per l’accesso nel domicilio e per la perquisizione personale[3], è – a mio avviso – meritevole di condivisione l’indirizzo interpretativo della Cassazione, ricordato dall’ordinanza n. 10664/2021, per cui il consenso – o il mancato dissenso – non sopperisce alla mancanza dell’autorizzazione.
Difatti, in tali evenienze, la “coattività” dell’attività istruttoria, e quindi il consenso – o l’omessa opposizione – non rileva. In ogni caso, è indispensabile l’autorizzazione, in quanto i valori tutelati – l’inviolabilità del domicilio, dall’art. 14 Cost., e della libertà personale, dall’art. 13 Cost. – sono talmente essenziali da postulare sempre il preventivo vaglio del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria, oltre alla sussistenza – nel caso dell’accesso in locali adibiti a esclusivo uso abitativo – di “gravi indizi” di violazioni delle norme tributarie, come stabilito dall’art. 52, comma 2, cit.
In conclusione, dell’autorizzazione non può mai prescindersi per le indagini fiscali consistenti nell’accesso nel domicilio e nella perquisizione personale, mentre per quelle volte ad acquisire il contenuto di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli” il consenso – o la mancata manifestazione del dissenso – del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza elide la necessità di detta autorizzazione, essa rendendosi necessaria solo qualora l’Organo procedente ricorra all’apertura “coattiva”[4]. Ciò poiché tale diritto alla segretezza ha natura “disponibile”, volendo riprendere l’espressione impiegata nell’ordinanza di cui trattasi[5].
Poi, nell’ordinanza in esame il consenso espresso viene accomunato alla “mancata manifestazione di un dissenso del contribuente o di terzi rispetto all’esercizio di una attività ispettiva eseguita al di fuori delle garanzie predisposte dal legislatore”[6].
In particolare, tale equiparazione viene in rilievo allorché la Cassazione illustra le proprie precedenti prese di posizione in ordine all’inefficacia sanante del consenso e, appunto, del mancato dissenso in presenza di accesso domiciliare non autorizzato.
Nell’argomentare siffatta inefficacia, la Corte Suprema ha anche evidenziato che “l’eventuale consenso o dissenso dello stesso contribuente all’accesso, legittimo od illegittimo che sia, è del tutto privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge”[7].
Questa corretta osservazione riveste duplice interesse ai nostri fini.
Per un verso, conferma quanto osservato poc’anzi sulla rilevanza sanante del consenso quando l’autorizzazione sia richiesta per l’apertura “coattiva” di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”. Non solo, la “coattività” non può che sottendere, oltre alla mancanza del consenso, anche il contegno passivo del contribuente o la “mancata manifestazione di un dissenso”, per usare l’espressione impiegata dall’ordinanza n. 10664/2021. Quindi, se l’interessato acconsente esplicitamente o comunque non si oppone – non dissentendo, appunto – a siffatta apertura, non ci si trova al cospetto di un’attività contrassegnata dalla “coattività”, di modo che si può fare a meno dell’autorizzazione.
Per l’altro verso, laddove tale “coattività” non viene in giuoco poiché il legislatore – nei ricordati casi dell’accesso domiciliare e della perquisizione personale – non ne fa menzione, il consenso o il contegno inerte del soggetto investito dall’attività istruttoria è irrilevante e, dunque, non vale a sollevare l’Amministrazione finanziaria dalla necessità di munirsi della prescritta autorizzazione.
Ciò, oltretutto, trova conforto anche in un’altra considerazione, fondata sul buon senso. Se il consenso rileva, è fondato attribuire la stessa valenza pure all’atteggiamento passivo o al non dissenso, che dir si voglia. Ove invece il consenso sia privo di incidenza, lo stesso deve dirsi per la “mancata manifestazione di un dissenso”.
2. Il consenso libero e informato
Nell’ordinanza n. 10664/2021 si legge che il consenso preventivo e informato del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza rappresenta il “necessario bilanciamento tra i valori costituzionali che entrano in gioco nella vicenda”, ossia l’interesse pubblico – che trova il proprio fondamento nell’art. 53 Cost. – alla corretta acquisizione dei tributi (indispensabili per far fronte alle esigenze della collettività), da un lato, e, dall’altro, la tutela della riservatezza delle comunicazioni personali[8].
Trattasi di affermazione del tutto condivisibile, cui può aggiungersi la considerazione che, insieme al rispetto del diritto alla segretezza della corrispondenza, viene in rilievo pure l’interesse pubblico al corretto svolgimento dell’azione amministrativa volta a verificare gli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Parimenti apprezzabile è l’ulteriore convincimento enunciato dalla Suprema Corte in tale ordinanza, secondo cui “solo il consenso validamente prestato, cioè espresso dal soggetto titolare del diritto di libertà oggetto di compressione ed effettivo, possa consentire di ritenere che siano venute meno le esigenze di garanzia poste a tutela dei valori costituzionalmente tutelati della libertà della persona, al cui presidio è prevista dal legislatore la necessità della previa autorizzazione”[9].
Quindi, se il diritto alla segretezza della corrispondenza è – come credo – “disponibile”, ossia suscettibile di limitazione con la condivisione – o la non opposizione – dell’avente diritto, il consenso deve risultare “validamente espresso, il che comporta che sia stato adeguatamente informato, cioè che sia reso in piena libertà di giudizio”, come sempre correttamente evidenzia l’ordinanza oggetto di attenzione[10].
Detto consenso libero e informato dev’essere enunciato dal titolare del diritto tutelato, che può non coincidere con il contribuente interessato dall’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria. Per intendersi, può accadere che, nel corso – per esempio – di un accesso presso la sede di una società di capitali, sia chiesto di aprire una borsa a un dipendente, a un amministratore o a un collaboratore esterno, ossia a un soggetto diverso dal contribuente destinatario della verifica fiscale. È tale soggetto “diverso” che deve acconsentire all’apertura e che deve, perciò, essere adeguatamente informato del fatto che quanto reperito all’interno della borsa potrebbe essere utilizzato come elemento di prova per avanzare una pretesa impositiva e/o sanzionatoria nei suoi riguardi, oltre che del contribuente per cui è stata avviata l’indagine fiscale.
Pertanto, perché l’acquisizione istruttoria sia legittima, è necessario che il titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza acconsenta espressamente – o comunque non si opponga – all’apertura della borsa, avendo piena e preventiva consapevolezza che quanto ivi contenuto potrà essere impiegato dall’Ente impositore per muovere un addebito nei suoi confronti e/o del distinto soggetto investito dall’azione istruttoria.
Sono convinto che tale consapevolezza difetti quando il contribuente su cui si appunta la verifica non sia stato informato della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, secondo quanto previsto dall’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, come avvenuto nel caso affrontato dall’ordinanza n. 10664/2021.
L’omissione di tale informazione impedisce la presenza di un professionista avente la capacità di verificare la correttezza dello svolgimento dell’indagine fiscale e di rappresentare al contribuente o al “diverso” soggetto titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza le conseguenze discendenti dall’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Tuttavia, anche qualora tale informazione sia stata resa e il contribuente non abbia ritenuto di farsi assistere da un professionista nel corso della verifica fiscale, l’Organo procedente non potrà sottrarsi dal rappresentare al contribuente o al terzo gli effetti derivanti dalla prestazione del consenso – o dalla “mancata manifestazione di un dissenso” – all’apertura della borsa. E ciò dovrà risultare da apposita verbalizzazione, atta a dimostrare che il consenso eventualmente reso – o il dissenso non enunciato – è stato, appunto, libero e informato.
In altri termini, le conseguenze derivanti dal rinvenimento della corrispondenza possono essere talmente significative e pregiudizievoli per il soggetto avente la disponibilità della borsa, per restare all’esempio fatto, che l’Amministrazione finanziaria non può esimersi dal segnalarle quando il soggetto verificato non sia assistito da un professionista.
In tal senso depone, oltre che il rispetto dei valori costituzionali del diritto alla segretezza della corrispondenza e del diritto di difesa, quanto sancito dall’art. 10, comma 1, della L. n. 212/2000, in forza del quale i rapporti fra i contribuenti e l’Ente impositore sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
Non solo, la necessità che il consenso sia libero e informato per poter evitare il ricorso all’autorizzazione, in caso di acquisizione del contenuto di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”, trova conferma nei principi del diritto europeo e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Da un canto, l’art. 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e l’art. 8 della CEDU, affermando il diritto di ogni individuo al rispetto delle proprie comunicazioni, elevano il diritto alla segretezza della corrispondenza a principio fondamentale del diritto europeo e convenzionale.
Dall’altro canto, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[11] – facendo leva sul principio del “giusto processo”, sancito dall’art. 6 della CEDU – afferma da tempo il “diritto al silenzio”, inteso come diritto di non cooperare alla propria incolpazione nel contesto di un procedimento amministrativo che potrebbe sfociare nell’irrogazione di sanzioni con carattere punitivo. Non solo, analogo diritto può desumersi dagli artt. 47 e 48 della CDFUE, secondo l’interpretazione offertane dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[12].
Non v’è dubbio che tale “diritto al silenzio” presuppone che la disponibilità a condividere con l’Amministrazione finanziaria elementi di prova emergenti dalla propria corrispondenza sia frutto di una determinazione pienamente consapevole e scevra da condizionamenti.
In sostanza, se il contribuente ha il diritto a non cooperare con l’Organo amministrativo che svolge l’istruttoria, vi può abdicare soltanto esprimendo un consenso libero e informato. Diversamente, solo grazie all’autorizzazione rilasciata dalla competente Autorità giudiziaria, l’Organo suddetto potrà acquisire i dati istruttori contenuti nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Da ultimo, queste considerazioni sono significativamente confortate dalla Corte Costituzionale, che – con la sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 – ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale.
In particolare, dalla pronuncia della Consulta, che richiama i rammentati principi e la giurisprudenza sovranazionali, si può trarre un’indicazione valevole pure nella materia tributaria: se è indebita ogni forma di pressione sul contribuente o sul terzo volta ad acquisire prove potenzialmente a loro sfavore, la collaborazione da tali soggetti eventualmente prestata non può che essere frutto di un consenso libero e informato.
3. La sorte dei mezzi istruttori acquisiti illegittimamente
Se difetta l’informazione ex art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, i mezzi istruttori acquisiti all’interno di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli” in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 non possono essere utilizzati. Ciò non esclude, peraltro, che l’atto impositivo, sulla scorta di altre prove legittimamente reperite, possa comunque risultare idoneo a perseguire efficacemente l’illecito fiscale eventualmente commesso dal privato.
Questa conclusione si impone avendo riguardo al valore, costituzionalmente garantito, del diritto alla segretezza della corrispondenza.
Vero è che si tratta di un diritto “disponibile”, come evidenziato in precedenza, ossia suscettibile di compressione in presenza del consenso libero e informato. Ma è altrettanto indiscutibile che, se detto consenso difetta, non può ammettersi l’impiego delle prove reperite violando un principio, al pari dell’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, sancito e tutelato dalla Costituzione.
Detto altrimenti, ammettere l’uso degli elementi istruttori ottenuti in spregio del diritto alla segretezza della corrispondenza ne comporterebbe una lesione intollerabile. Lesione che, nel bilanciamento di valori che necessariamente si impone, non può giustificarsi adducendo l’esigenza di assicurare il corretto prelievo impositivo.
Ciò in ragione del fatto che, se l’Organo procedente si fosse premurato di ottenere un effettivo consenso del titolare del diritto al riserbo delle comunicazioni personali, il diritto alla segretezza della corrispondenza ben avrebbe potuto retrocedere dinanzi alla ricordata necessità di acquisire i tributi ex lege dovuti.
Si deve pervenire allo stesso esito anche quando l’informazione di cui all’art. 12, comma 2, cit. sia stata resa ma il contribuente non si sia avvalso della facoltà disciplinata da tale norma e l’Amministrazione finanziaria non abbia rappresentato al titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza le conseguenze della sua disponibilità a consentire l’apertura della borsa. L’assenza di un professionista unitamente all’omessa verbalizzazione degli effetti discendenti dalla prestazione del consenso rende inefficace il consenso – o la non opposizione – di detto titolare e, quindi, cagiona l’illiceità dell’acquisizione dei mezzi istruttori, determinandone, per l’effetto, la relativa non utilizzabilità.
Per terminare, occorre chiedersi se la mancanza dell’informazione ex art. 12, comma 2, cit. infici l’impiego di ulteriori prove reperite durante l’attività di controllo fiscale.
Il consenso libero e informato occorre ogni qual volta il privato è coinvolto in operazioni istruttorie che postulano la sua attiva partecipazione e che possono consentire il reperimento di elementi di prova adducibili contro di esso. Mi riferisco, essenzialmente, al caso (assai frequente nella prassi) in cui vengano richieste informazioni al contribuente o ai suoi dipendenti, collaboratori, clienti, fornitori e via discorrendo. Tutti costoro, prima di rendere tali informazioni, devono essere pienamente consapevoli che esse potranno poi essere utilizzate come elementi di prova[13] a loro carico. Cosicché l’omissione dell’informazione ex art. 12, comma 2, cit. può seriamente pregiudicare questi soggetti.
Viceversa, il difetto della ricordata informazione è irrilevante per l’acquisizione di quei dati istruttori in ordine ai quali la menzionata attiva partecipazione del contribuente o dei terzi risulta priva di rilievo. Si pensi, ad esempio, all’acquisizione e all’esame di documenti contabili ed extracontabili liberamente accessibili e disponibili o al controllo di beni e strumenti posti nei locali ove si svolge l’accesso.
Insomma, l’omissione dell’indicazione contemplata dall’art. 12, comma 2, cit. non inficia l’atto finale del procedimento amministrativo volto a contestare l’illecito fiscale. Sarebbe una conseguenza eccessiva, contraria al principio di proporzionalità, del mancato rispetto della regola procedimentale dettata dalla norma in discussione[14]. Detta mancanza, però e come evidenziato, si riverbera – pur in difetto di una previsione normativa ad hoc – sulle prove reperite in sede di accesso per le quali è indispensabile la partecipazione attiva e consapevole del contribuente e di eventuali soggetti terzi, rendendole non utilizzabili. Tali prove, difatti, risultano acquisite in violazione di primari valori costituzionali, quali il diritto alla segretezza della corrispondenza, nel caso affrontato dall’ordinanza oggetto di attenzione, o il diritto di difesa, sancito dall’art. 24 Cost., qualora siano acquisite informazioni impiegabili a conforto di pretese impositive e sanzionatorie azionabili nei riguardi di coloro che le rendono.
Infatti, non occorre alcuna puntuale sanzione ex lege per affermare – come, del resto, in più occasioni ha fatto la giurisprudenza ricordata nell’ordinanza n. 10664/2021 – che un mezzo istruttorio non è suscettibile di impiego laddove sia stato acquisito in spregio a fondamentali principi costituzionali.
4. Conclusioni
Tirando le fila dei rilievi svolti, sui temi sollevati dall’ordinanza varie volte rammentata possono enunciarsi, secondo chi scrive, le seguenti conclusioni:
- la mancanza di autorizzazione della competente Autorità giudiziaria all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli” può essere sanata dal consenso o dalla “mancata manifestazione di un dissenso” del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza: in sostanza, l’autorizzazione è indispensabile solo per l’apertura “coattiva”;
- tuttavia, detto consenso o difetto di dissenso dev’essere “libero e informato” e, per essere tale, occorre che l’Amministrazione finanziaria abbia avvertito il contribuente verificato della facoltà di farsi assistere da un professionista; in ogni caso, laddove detto contribuente non si sia avvalso di tale diritto, l’Organo procedente deve rappresentare all’interessato le conseguenze derivanti dal consenso o dalla “mancata manifestazione di un dissenso”;
- l’inosservanza di siffatti obblighi informativi rende non utilizzabili le prove reperite nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli” in carenza di autorizzazione e quelle ottenute chiedendo dati e notizie al contribuente o al terzo.
[1] Per i controlli in materia di imposte dirette, l’art. 33, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973 rinvia all’art. 52 cit. Sul tema, v. A. Viotto, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002.
[2] Sull’argomento, v. S. Muleo, Il consenso nell’attività di indagine amministrativa, in AA. VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2007, p. 99 ss.; G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2012; M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2013.
[3] Nell’ordinanza in esame la perquisizione personale viene equiparata all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli”. In realtà, come evidenziato nel testo, pare corretto riferire il carattere della “coattività” solo alla menzionata apertura e non alla perquisizione personale, di modo che per quest’ultima il consenso risulta, in ogni caso, privo di rilievo.
[4] In questi termini, v. G. Iacobelli, Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente? La questione al vaglio delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 27 maggio 2021.
[5] Cfr. paragrafo 5.4.1.
[6] Cfr. paragrafo 5.1.
[7] Cfr. Cass., sez. V, 6 giugno 2018, n. 14701.
[8] Cfr. paragrafo 5.4.1.
[9] Cfr., di nuovo, paragrafo 5.4.1.
[10] Cfr. sempre paragrafo 5.4.1.
[11] V. sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] Cfr. sentenza “D.B. contro CONSOB” del 2 febbraio 2021, C-481/19.
[13] Le dichiarazioni di terzi, secondo la giurisprudenza (v., per esempio, Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903), hanno solo valenza indiziaria. Le dichiarazioni del contribuente, alla stregua di una confessione stragiudiziale, possono invece rappresentare prove dirette dei fatti controversi. Su questi temi, per ulteriori ragguagli, mi permetto di richiamare F. Pistolesi, Il processo tributario, Torino, 2021, pp. 127 ss.
[14] Sull’argomento sia consentito rinviare a F. Pistolesi, La “invalidità” degli atti impositivi in difetto di previsione normativa, in Riv. dir. trib., 2012, I, pp. 1135 ss. Cfr. altresì S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Padova, 2012; A. Comelli, Poteri e atti nell’imposizione tributaria. Contributo allo studio degli schemi giuridici dell’accertamento, Padova, 2012; F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2015.
Bibliografia:
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S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, pp. 113 ss.;
I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993, 217 e ss.;
G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, p. 299 e ss.
G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2012
S. La Rosa, Scritti scelti, vol. II, Torino 2011, pp. 697 ss.
R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, 2013
A. Marcheselli, L’accertamento tributario, poteri e diritti nei procedimenti fiscali, in corso di pubblicazione, Giuffré 2021
A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano 2018
Le conclusioni dell’Avvocato Generale sulle questioni pregiudiziali poste dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del 2020: il Consiglio di Stato nega la tutela comunitaria sugli appalti, ma la decisione non è sindacabile in Cassazione
1. Lo scorso 9 settembre 2021 l’Avvocato Generale della Corte di giustizia UE ha presentato le proprie conclusioni nella Causa C – 497/20, originata dal rinvio pregiudiziale sollevato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con l’ordinanza n. 19598 del 18 settembre 2020[1]. In attesa della decisione della Corte di giustizia, le conclusioni dell’Avvocato Generale prendono posizione sulle tre questioni poste dalla Cassazione, evidenziando alcuni aspetti sin d’ora meritevoli di segnalazione.
2. Come si ricorderà, il rinvio pregiudiziale è maturato nel giudizio d’impugnazione di una decisione del Consiglio di Stato promosso a suo tempo da un concorrente escluso da una gara per l’affidamento di un appalto pubblico. Il Consiglio di Stato si era limitato ad esaminare (e rigettare) soltanto le censure proposte dal concorrente con riferimento alla valutazione della propria offerta, ma aveva dichiarato inammissibili le ulteriori contestazioni rivolte all’intera procedura, sul presupposto che il concorrente escluso fosse privo di legittimazione a censurare la regolarità della gara nel suo complesso. Nel ricorrere in Cassazione ai sensi dell’articolo 111, co. 8 Cost., il concorrente escluso contestava al Consiglio di Stato di avere erroneamente dichiarato inammissibili le censure rivolte alla procedura nel suo complesso, in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con il diritto ad un ricorso effettivo così come interpretato dalla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE.
Dal suo canto, pur ritenendo la denunciata violazione configurabile alla stregua di una questione inerente la giurisdizione, la Cassazione rilevava come, allo stato, l’ammissibilità del ricorso fosse ostacolata da una “prassi interpretativa nazionale”, chiaramente esplicitata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, secondo la quale la violazione del diritto dell’Unione europea non sarebbe inquadrabile in una questione di giurisdizione, ma integrerebbe una semplice violazione di legge, come tale incensurabile attraverso il ricorso per Cassazione previsto dall’articolo 111, co.8, Cost.
Di qui le tre questioni poste in via pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, che possono così sintetizzarsi:
i) una prima questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi interpretativa che, in base dell’articolo 111, co.8, Cost., assume l’inutilizzabilità del ricorso per Cassazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con il diritto europeo;
ii) una seconda questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., esclude la proponibilità del ricorso in Cassazione per contestare le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano immotivatamente omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia;
iii) una terza questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi giurisprudenziale nazionale che, come quella applicata dall’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, ritiene insussistente la legittimazione del concorrente escluso a contestare nel suo complesso la regolarità della gara, anche ove l’esclusione non risulti definitivamente accertata e sebbene l’eventuale accoglimento dell’impugnazione possa indurre l’amministrazione ad avviare una nuova procedura. In questo quadro vanno, dunque, collocate le conclusioni dell’Avvocato Generale, che di seguito vengono sinteticamente riassunte.
3. Per quanto riguarda la prima questione, l’Avvocato Generale tiene preliminarmente a precisare che il parametro normativo di riferimento debba essere esattamente individuato nella Direttiva 89/665 che tutela il diritto a un ricorso effettivo, in conformità all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Con questa precisazione, l’Avvocato Generale osserva che, nell’attuazione della Direttiva 89/665, gli Stati membri, conformemente alla loro autonomia procedurale, conservano “la facoltà di adottare norme che possono rivelarsi differenti da uno Stato membro all’altro” e che una limitazione del diritto a un ricorso effettivo ai sensi dell’articolo 47 “può quindi essere giustificata soltanto se prevista dalla legge, se rispetta il contenuto essenziale di tale diritto e se, in osservanza del principio di proporzionalità, è necessaria e risponde effettivamente a finalità d’interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”, precisando ulteriormente che l’articolo 47 della Carta “non impone un doppio grado di giudizio” e che, in virtù di tale disposizione, il principio della tutela giurisdizionale garantisce il diritto di accesso “soltanto a un giudice”. Di conseguenza, se la disciplina dello Stato membro garantisce l’accesso a un giudice, conferendo a tale giudice la competenza a esaminare il merito della controversia, i principi di tutela giurisdizionale sanciti dall’articolo 47 e dalla Direttiva 89/665 non possono ritenersi violati, proprio in quanto non “impongono un ulteriore grado di giudizio per porre rimedio a un’applicazione erronea di dette norme da parte del giudice di appello”.
Nel descritto contesto di riferimento, il fatto che il ricorso in Cassazione previsto dall’articolo 111, co. 8, Cost. sia limitato alle sole questioni di giurisdizione non può pertanto “essere considerato di per sé contrario al diritto dell’Unione neppure laddove precluda l’impugnazione di una decisione con la quale il giudice di secondo grado ha applicato un’interpretazione del diritto nazionale che, oggettivamente, è contraria al diritto dell’Unione”, proprio in quanto il diritto italiano prevede pacificamente l’accesso a un giudice competente a esaminare il merito della controversia.
Sulla base di queste premesse, l’Avvocato Generale conclude così che “l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che esso non osta a una norma quale l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana, come interpretato nella sentenza n. 6/2018, secondo la quale un ricorso in cassazione per motivi di «difetto di potere giurisdizionale» non può essere utilizzato per impugnare sentenze di secondo grado che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea”.
Nel rassegnare le conclusioni, l’Avvocato Generale tiene comunque a precisare che la soluzione a un’errata applicazione del diritto europeo da parte di un giudice di ultima istanza andrebbe piuttosto individuata in “altre forme procedurali”, quali un ricorso per inadempimento ai sensi dell’articolo 258 TFUE, ovvero un’azione del “tipo Francovich” che consenta di far valere la “responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei diritti dei singoli riconosciuti dal diritto dell’Unione”.
4. In relazione alla seconda questione, l’Avvocato Generale evidenzia preliminarmente che “l’obbligo di adire la Corte in via pregiudiziale, previsto all’articolo 267, terzo comma, TFUE, incombente agli organi giurisdizionali nazionali avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso, rientra nell’ambito della cooperazione istituita al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione, nell’insieme degli Stati membri, tra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, e la Corte”, precisando che, a norma dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, “una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è in linea di principio tenuta a rivolgersi alla Corte, quando è chiamata a pronunciarsi su una questione di interpretazione del diritto dell’Unione”.
Nel descritto contesto di riferimento, al diritto nazionale sarebbe pertanto soltanto vietato di “impedire a un organo giurisdizionale nazionale di avvalersi della suddetta facoltà o di conformarsi al suddetto obbligo”. Sicchè, laddove al giudice interno sia riconosciuta la possibilità di effettuare un rinvio pregiudiziale, ovvero sia previsto l’obbligo di effettuare tale rinvio, spetterebbe esclusivamente ad esso “valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emanare la propria decisione, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte”. La mancata adizione della Corte in via pregiudiziale verrebbe così ad integrare una illegittimità sostanziale o procedurale, ma non “una questione di competenza giurisdizionale ai seni dell’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana”, con la conseguenza che, come anche precisato per la prima questione, la soluzione ad un’eventuale errata applicazione degli obblighi derivanti dall’articolo 267 TFUE andrebbe individuata in altre forme procedurali, quali un ricorso per inadempimento o un’azione volta a far valere la responsabilità dello Stato.
In base a questi presupposti, l’Avvocato Generale conclude che il diritto europeo e, in particolare l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, l’articolo 19, paragrafo 1, TUE e l’articolo 267 TFUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, “non ostano a che le norme relative al ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione siano interpretate ed applicate nel senso di precludere che dinanzi alle Sezioni Unite della Corte suprema di cassazione sia proposto un ricorso per cassazione finalizzato a impugnare una sentenza con la quale il Consiglio di Stato ometta, immotivatamente, di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte”.
5. Quanto alla terza questione, l’Avvocato Generale ribadisce i principi affermati dalla giurisprudenza europea, secondo i quali “il criterio determinante l’obbligo del giudice di esaminare il ricorso della ricorrente è che ciascuna delle parti del procedimento ha un interesse legittimo all’esclusione delle offerte presentate dagli altri concorrenti”. In base a tali principi, preordinati a una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, la censura del concorrente escluso diretta a travolgere l’intera procedura andrebbe comunque esaminata in quanto “non si può escludere la possibilità che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicatario quanto di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto”. Più esattamente, l’esistenza di una siffatta possibilità sarebbe sufficiente a radicare la legittimazione (e/o l’interesse) del concorrente escluso all’impugnazione, poiché l’ipotetico accoglimento dell’impugnazione potrebbe comunque arrecargli una precisa utilità, consentendogli, ad esempio, di partecipare alla nuova procedura eventualmente indetta dall’amministrazione. Resta inteso che il concorrente escluso sarebbe comunque privo di legittimazione (a contestare l’intera procedura) nelle ipotesi in cui l’esclusione sia stata confermata “da una decisione che ha acquistato forza di giudicato prima che il giudice investito del ricorso contro la decisione di affidamento dell’appalto si pronunci”.
Nel caso di specie, al momento di proposizione del ricorso al Consiglio di Stato, l’esclusione del concorrente non risultava ancora definitiva, ragion per cui, come rilevato dall’Avvocato Generale, le censure dirette a travolgere l’intera procedura avrebbero dovuto essere esaminate, anche in considerazione del fatto che il loro eventuale accoglimento avrebbe potuto inficiare la regolarità delle altre offerte in gara prefigurando l’ipotetica indizione di una nuova procedura. Conseguentemente, al fine di garantire il diritto ad un ricorso effettivo, il Consiglio di Stato avrebbe dovuto applicare i richiamati principi affermati dalla giurisprudenza europea, riconoscendo in capo al concorrente escluso la legittimazione a contestare la regolarità della procedura di gara.
6. Sebbene non sia questa la sede per compiere più ampi approfondimenti, le conclusioni dell’Avvocato Generale forniscono alcune precise indicazioni.
In primo luogo, evidenziano che, nel ritenere inammissibili le censure dirette a travolgere l’intera procedura di gara, il Consiglio di Stato avrebbe erroneamente applicato il diritto europeo e, segnatamente, i principi in materia di effettività della tutela giurisdizionale come anche interpretati dalla Corte di giustizia.
In secondo luogo, rivelano che il diritto nazionale, nella misura in cui limita ai profili di giurisdizione il ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, non contrasterebbe con il principio di effettività della tutela giurisdizionale così come riconosciuto e tutelato a livello europeo.
In terzo luogo, danno atto che eventuali errori del giudice nazionale di ultima istanza in ordine all’applicazione del diritto europeo sarebbero pur sempre riparabili mediante un eventuale ricorso per inadempimento, ovvero attraverso un’azione volta a far valere la responsabilità dello Stato membro.
Non resta a questo punto che attendere la decisione della Corte di giustizia.
E. Z.
[1] Per i commenti all’ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 2020, M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; F. FRANCARIO, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021; G. TROPEA, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; B. NASCIMBENE, P. PIVA, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni grave e manifeste del diritto dell’Unione europea?, ib., 24 novembre 2020.
Sull’interruzione del processo per fallimento della parte: commento a Cass. S.U. 7 maggio 2021, n. 12154
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – Fallimento ed interruzione dei processi. 2. – Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile. 3. – La soluzione delle Sezioni Unite del 2021. 4. – La novità “processuale” partorita dalla Cassazione. 5. – Conclusioni.
1. Fallimento ed interruzione dei processi
L’ampia e dotta sentenza delle Sezioni Unite in commento si occupa di una problematica per lunghissimo tempo ignota agli studiosi del diritto fallimentare, per la decisiva considerazione che la disciplina originaria della legge fallimentare del ’42, sul punto non dava adito a dubbi interpretativi di sorta.
È noto che l’apertura del concorso tra i creditori del fallito determina l’interruzione di tutti i processi pendenti, purchè riferiti a rapporti di natura patrimoniale, visto che essa produce la perdita della capacità di stare in giudizio del soggetto che lo subisce e la nascita contestuale, salve le eccezioni previste nell’art. 46 l.fall., della legitimatio ad processum in capo al solo curatore.
L’art. 43, primo comma, l.fall. si limita ancora oggi seccamente a stabilire che nelle controversie in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, sta in giudizio il curatore; e questa norma secondo la granitica giurisprudenza della S.C. determina appunto quella perdita della «capacità di stare in giudizio» che al pari della morte, ai sensi dell’art. 299 c.p.c., costituisce causa di interruzione del processo.
Ora, verificatosi l’evento interruttivo – id est la dichiarazione di fallimento di una delle parti –, tradizionalmente nella vigenza della legge del ’42, trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 300, commi primo, secondo e quarto, c.p.c., con la conseguenza che se la parte era stata dichiarata fallita dopo la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore, l’interruzione si verificava solo se e quando il medesimo lo avesse dichiarato in udienza o lo avesse notificato alle altre parti; nei casi in cui invece l’apertura del concorso si era verificata dopo la dichiarazione della contumacia della parte, l’interruzione si verificava nel momento in cui l’evento fosse stato documentato dalla parte in bonis, oppure fosse stato certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti o atti di cui all’art. 292 c.p.c.
Siffatto inquadramento dell’istituto, pacificamente applicato in giurisprudenza per oltre sessant’anni, ebbe a subire una rilevante modifica con l’introduzione del terzo comma all’art. 43 l.fall., ad opera dell’art. 41, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, a tenore del quale l’apertura del fallimento «determina l’interruzione del processo».
La norma novellata è stata interpretata costantemente dalla successiva giurisprudenza edita, anche della S.C., nel senso che la dichiarazione di fallimento di una parte processuale, determina ipso iure l’interruzione del giudizio in corso, rendendo così irrilevante, ai fini della produzione del relativo effetto la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito, come pure la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento, nonché tutti gli altri atti e i fatti previsti dal quarto comma dell’art. 300 c.p.c., nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca la parte dichiarata contumace.
Corollario necessario di questo indiscusso assunto, è che la disciplina processuale del fallimento, quale evento interruttivo automatico, deve oggi essere ricercata nell’ambito dei casi in cui il codice di rito prevede e regola eventi che producono appunto automaticamente l’interruzione del giudizio: cioè negli artt. 299, 300, comma terzo, e 301 c.p.c., letti in combinato disposto con l’art. 305 c.p.c.
E la Consulta (Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17), investita della questione di legittimità dell’art. 305 c.p.c., in relazione ai parametri degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui fa decorrere dall’interruzione del processo per l’apertura del fallimento, ai sensi dell’art. 43, comma terzo, l.fall., anziché dalla data di “effettiva” conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita e dai soggetti che hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento, con sentenza interpretativa di rigetto ha già avuto modo di affermare che, in base ai princìpi da essa stessa espressi nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c. in relazione alle ipotesi di interruzione ipso iure previste dagli artt. 299, 300 comma 3, 301 c.p.c., si era consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l’orientamento secondo cui il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui di tale evento abbia avuto conoscenza “in forma legale” la parte interessata alla riassunzione; sicché il relativo dies a quo può ben essere diverso per una parte rispetto all’altra.
Sulla problematica in oggetto, poi, una significativa novità è stata introdotta con il d.lgs. 12 febbraio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (di seguito il c.c.i.i.) - destinato tuttavia ad entrare in vigore, dopo l’ennesimo rinvio, forse, il prossimo 16 maggio 2022 -, il quale nel comma 3 dell'art. 143 stabilisce espressamente che il termine per la riassunzione del processo decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice.
Dunque, è certo che - almeno per il futuro - sarà necessaria la dichiarazione di interruzione da parte del giudice, perché decorra il termine per la riassunzione del processo, mentre nulla soggiunge il Codice in ordine a quale sia lo strumento per assicurare a tutte le parti la “conoscenza legale” di questa dichiarazione, come tale idonea a fare decorrere il termine per la riassunzione o per la prosecuzione.
Due, allora, sono le problematiche sorte all’esito della cennata novella del 2006 dell’art. 43 l.fall. e che – come da atto la sentenza in commento – hanno dato vita ad orientamenti contrastanti: i) la necessità o meno che, anche nel regime vigente, l’evento interruttivo venga dichiarato dal giudice, affinché decorra il termine per la sua riassunzione o prosecuzione; ii) quale debba ritenersi la forma di “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, sufficiente ad assicurare il decorso del termine fissato la prosecuzione o la riassunzione con riguardo a tutte le parti del processo, nonché al curatore fallimentare.
2. Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile
Per capire le rilevanza delle questioni poste dai quesiti surriferiti, è assai interessante esaminare il caso concreto portato all’esame delle Sezioni Unite della S.C., a seguito dell’ordinanza interlocutoria spiccata dalla Prima sezione civile (Cass. 12 ottobre 2020, n. 21961), con la quale è stata appunto sollecitata la rimessione al massimo consesso del giudice di legittimità.
Una società titolare di un conto corrente bancario conviene in giudizio l’istituto di credito per ottenere la sua condanna alla restituzione delle somme indebitamente trattenute nell’ambito del detto rapporto; il tribunale condanna la banca alla restituzione in favore della correntista di una determinata somma; proposto appello da parte dell’istituto di credito, ed interrotto il relativo processo in seguito alla dichiarazione di fallimento della società appellata, l’appellante riassume il giudizio, ma la curatela del fallimento della società, costituendosi nel giudizio riassunto, eccepisce l’estinzione del processo, assumendo che la banca non lo aveva tempestivamente riassunto, visto che quest’ultima aveva già ricevuto da oltre sei mesi l’avviso di cui all’art. 92 l.fall., la cui comunicazione avrebbe dovuto essere considerata idonea a determinare la sua “conoscenza legale” dell’evento interruttivo anche nell’ambito del giudizio d’appello.
La corte di appello accoglie l’eccezione della curatela e dichiara estinto il giudizio di appello; la banca propone allora ricorso per cassazione lamentando che la corte di appello abbia dichiarato l’estinzione del giudizio di secondo grado, individuando quale momento in cui avrebbe avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo, la ricezione dell’avviso di cui all’art. 92 l.fall. da parte del curatore del fallimento, anziché quello in cui era intervenuta la dichiarazione dell’interruzione del processo, all’udienza davanti al giudice del gravame.
Insomma, dalla lettura della vicenda sottoposta alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria, si capisce benissimo che, dopo la riforma del 2006, fermo l’orientamento a tenore del quale la dichiarazione di fallimento produce ex lege l’interruzione del giudizio, non era ancora sufficientemente chiaro nella giurisprudenza – neppure di legittimità – se occorra o meno una dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e quando si possa dire che le parti abbiano avuto “conoscenza legale” del medesimo, al fine di individuare il dies a quo del termine di decadenza per riassumere o per proseguire il giudizio.
3. La soluzione delle Sezioni Unite del 2021
Le Sezioni Unite osservano anzitutto che la duplice modifica dell’art. 43 l.fall., prima nel 2006 – con l’introduzione del terzo comma che prescrive l’interruzione automatica dei processi – e poi nel 2015 – con l’inserimento di un quarto comma, in forza del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, in forza del quale le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, appare chiaramente volta, da un lato, ad attenuare, con l'automaticità dell'interruzione dei processi pendenti, i costi del contenzioso non endoconcorsuale e così, indirettamente, la durata dei fallimenti, dall'altro lato, ad istituire regole di trattazione selettiva per tutti i processi in cui assuma la qualità di parte l'organo concorsuale.
Del resto, l’art. 25 della Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, tra le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, prescrive che gli Stati membri provvedono affinché «il trattamento delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione avvenga in modo efficiente ai fini di un espletamento in tempi rapidi delle procedure».
La scelta del legislatore del 2006 di rendere applicabile l’art. 305 c.p.c. con la conseguente estinzione del processo, ove non proseguito o riassunto nel termine ora trimestrale, appare allora chiaramente ispirata ad esigenze di celerità delle procedure, anche se occorre evidenziare – come puntualmente fanno le S.U. – che l’estinzione in caso di inerzia non è la sorte riservata a tutti i processi pendenti al momento della dichiarazione di fallimento di una parte, posto che in altri casi la dichiarazione di fallimento costituisce motivo di improcedibilità della lite, come quando è necessaria la migrazione della domanda in sede di accertamento del passivo.
Ora, secondo il Giudice di legittimità occorre chiedersi se la ricordata soluzione prospettata per il futuro dall’art. 143, comma 3, c.c.i.i. possa essere utilmente impiegata anche nella vigenza dell’attuale art. 43 l.fall.; e ciò pure tenendo a mente che l’art. 2, comma 1, lett. m), della legge 19 ottobre 2017, n. 155, nel dettare i principi di delega per la riforma della crisi d'impresa e dell'insolvenza, ha attribuito al legislatore delegato la potestà di riformulare le disposizioni all'origine dei contrasti interpretativi, così da consentirne il superamento, in coerenza con gli stessi principi della legge delega.
Il Giudice di legittimità sottolinea allora come la regola fissata nell'art. 143, comma 3, c.c.i.i. – quella della necessità della dichiarazione giudiziale dell’interruzione – non esprime una assoluta novità, mostrando all'evidenza di coincidere, come già evidenziato nell’ordinanza interlocutoria, con uno degli orientamenti formatisi presso la S.C.; dunque, la scelta del legislatore riformista si è limitata a selezionare un'interpretazione possibile, tra le più finora seguite, delimitando la portata dell'istituto e pertanto, per quel che qui rileva, non assumendo una radicale natura anche legislativamente innovativa.
E già in precedenza le S.U. della Cassazione hanno chiarito che il codice della crisi e dell'insolvenza «è testo in generale non applicabile - per scelta del legislatore - alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, primo comma, c.c.i.i.), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro» (Cass. S.U. n. 12476 del 2020; Cass. S.U. n. 8504 del 2021).
Anche la relazione illustrativa al Codice sullo specifico punto ribadisce che, per consentire al curatore di costituirsi nei giudizi che hanno ad oggetto rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione, l'apertura della stessa comporta di diritto l'interruzione automatica del processo - ed è il principio riflesso anche nell’attuale art. 43, comma terzo, l.fall. - ma per assicurare il diritto di difesa delle parti, il termine della riassunzione decorre dal momento in cui il giudice dichiara l'avvenuta interruzione.
Dai superiori elementi, nella sentenza in esame le Sezioni Unite ricavano quella continuità normativa che giustifica l’opzione in favore della scelta ermeneutica fatta dal legislatore del 2019; e anzi, ribadisce la decisione che ci occupa, come già aveva fatto nella sua requisitoria il Procuratore Generale, che la soluzione codicistica non costituisce affatto un ritorno all’ancien regime, perché esigere la declaratoria giudiziale dell'interruzione affinché scatti l’onere di riassunzione del processo non significa affatto ripristinare il regime in base al quale l'interruzione non era automatica, visto che il giudice può addivenire alla dichiarazione di interruzione del procedimento per il solo fatto di essere venuto a conoscenza della sopravvenuta procedura fallimentare e a prescindere dalla dichiarazione del difensore del fallito.
La sentenza in commento, peraltro, osserva che pure ad aderire alla tesi che possa invocarsi in via ermeneutica l’opzione legislativa fatta propria per il futuro dal Codice, rimane non sufficientemente chiaro se la dichiarazione giudiziale di interruzione, determini il decorso del termine solo per alcuni soggetti, come si potrebbe evincere dal riferimento alla sola “riassunzione” e non anche alla “prosecuzione”, così delimitando la previsione della decorrenza del termine, almeno nella sua formula espressa, alla sola altra parte non colpita da fallimento.
Insomma, si tratta di capire se anche per il curatore il termine per la prosecuzione del processo decorra dalla dichiarazione del giudice e ciò, peraltro, considerato che il predetto curatore non ha di norma mai “conoscenza legale” della dichiarazione di interruzione, salvo che sia resa in un'udienza cui egli abbia presenziato, ovvero gli sia stata notificata come atto autonomo dall’altra parte.
La conclusione della Corte è perentoria: in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma terzo, l.fall., il termine per la riassunzione ad opera della parte non fallita, come quello per la prosecuzione su iniziativa del curatore della fallita, decorre sempre e soltanto da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia stata portata a conoscenza di ciascuna parte cui spetta riassumere o proseguire, compreso quindi il curatore fallimentare.
Orbene, nulla quaestio se la dichiarazione di interruzione viene ad essere conosciuta da tutte le parti – compreso il curatore – perché pronunciata in udienza con ordinanza, ai sensi dell’art. 176, comma secondo, c.p.c.: dalla data della pronuncia del giudice che dichiara l’interruzione decorrerà per tutti il termine trimestrale per la riassunzione o la prosecuzione del processo.
Quando l’ordinanza che dichiara interrotto il processo non sia stata pronunciata in udienza, invece, affinchè decorra il termine trimestrale essa dovrà essere comunicata alle parti in lite, secondo quanto previsto dall’art. 136 c.p.c. in generale per tutti i provvedimenti del giudice, oppure notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato, in modo da determinarne quella “conoscenza legale” che in maniera ora esclusiva determina il decorso del termine per riassunzione o prosecuzione.
Così ricostruita la disciplina vigente, allora, nella vicenda all’esame della S.C. la soluzione diviene obbligata: poiché la conoscenza legale dell’evento interruttivo si è verificata in capo alla banca appellante soltanto con la dichiarazione di interruzione resa all’udienza dal giudice di appello, la sentenza impugnata - che ha erroneamente dichiarato estinto il giudizio, ancorchè riassunto nel termine decorrente dalla pronuncia giudiziale di interruzione - merita di essere cassata; spetterà dunque al giudice del rinvio riesaminare nel merito le doglianze formulate dall’appellante.
4. La novità “processuale” partorita dalla Cassazione
Ma ecco che in cauda venenum: dopo avere fatto in maniera apprezzabile chiarezza sulla necessità della dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e sugli eventi che determinato quella conoscenza legale che fa decorrere il termine per riassumere o proseguire il giudizio, la sentenza di cui ci occupiamo sottopone agli interpreti una novità processuale inattesa, peraltro estranea al caso sottoposto dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, che come visto si riferiva ad una tardiva riassunzione da parte del soggetto rimasto in bonis e non al caso della prosecuzione su iniziativa del curatore.
Secondo le Sezioni Unite, a prescindere dalla notifica a cura della controparte al curatore fallimentare della parte fallita dell’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo, sarà il cancelliere dell’ufficio giudiziario a doverla comunque comunicare al predetto curatore, affinchè decorra il termine per la prosecuzione del processo.
Per giustificare siffatta perentoria conclusione, la sentenza in commento si impegna in una diffusa motivazione che attinge anche a profonde suggestioni del diritto convenzionale europeo.
Il collegio parte dall’idea che la connotazione pubblicistica della procedura concorsuale, una volta aperta, imponeva di escludere che «una regola tanto solenne quanto puntuale, come l'interruzione ipso jure del giudizio in cui sia parte un fallimento, venisse arbitrata opportunisticamente o discrezionalmente, ma in modo di fatto casuale, dall'iniziativa di una parte rimettendo la sua verifica».
Constatata la doverosità giudiziale della dichiarazione di interruzione, le Sezioni Unite affermano che anche la priorità di trattazione dei giudizi in cui sia parte un soggetto fallito, disposta con il cennato d.l. n. 83 del 2015, si inserirebbe in una logica tutta tesa ad assicurare una efficace raccolta delle informazioni sull'eventuale dichiarazione di fallimento resa a carico di una parte, in modo da consentire ai giudici di rendere tempestivamente e anche d'ufficio la descritta dichiarazione, in coerenza agli artt. 127 e 175 c.p.c. e l’art. 81-bis disp. att. c.p.c.
Si ricorda, ancora, che lo scopo legittimo di assicurare il regolare funzionamento della giustizia, più volte è stato enunciato dalla Corte EDU con riguardo all'art. 6 §1 della Convenzione EDU, poiché amministrare la giustizia senza ritardi ingiustificati che possano comprometterne la credibilità e l'effettività, realizza un interesse generale della società («court proceedings unhindered by unjustified delays»: Corte EDU 15 ottobre 2015, in Konstantin Stefanov v. Bulgaria § 64).
D'altra parte lo stesso principio di «sécurité juridique» secondo la declinazione dell'art. 6 §1 della Convenzione EDU, tende a garantire una certa stabilità delle situazioni giuridiche e a favorire la fiducia nella giustizia, quali elementi fondamentali di uno Stato di diritto (Corte EDU 29 novembre 2016, in Paroisse gréco-catholique Lupeni et autres c. Roumanie, § 116), così che il bilanciamento tra il diritto di accesso alla giustizia e la perdita della possibilità di esercizio dell'azione lascia agli Stati membri margini d'intervento, ma evitando al contempo un eccesso di formalismo che minerebbe «l'équité de la procédure» e «une souplesse excessive» (Corte EDU 17 gennaio 2012, in Stanev c. Bulgaria §§ 229-231).
La conclusione, indefettibile, per il Giudice di legittimità è che non vi è alcun ostacolo alla comunicazione d'ufficio dell'ordinanza dichiarativa di interruzione del processo al curatore fallimentare, a seguito della dichiarazione di fallimento di una parte, ancorchè si tratti di un soggetto che non vi aveva assunto la medesima qualità.
Se invero il dies a quo per la decorrenza del termine di cui all'art. 305 c.p.c. viene fatto coincidere con la produzione della conoscenza dell'evento interruttivo, secondo un procedimento che parte dalla dichiarazione giudiziale e si realizza mediante la successiva facoltativa notificazione al curatore fallimentare, a cura della parte costituita, allora deve ammettersi analoga attività di comunicazione da parte dello stesso ufficio giudiziario; si tratta, infatti, di una forma di produzione della conoscenza che condivide con l'iniziativa della parte interessata «la natura di fattispecie meno extraprocessuale, in questa accezione, perché pur sempre originante dalla constatazione del fallimento assunta in primo luogo dal giudice del processo interrotto e dunque volta a veicolare una sua pronuncia, per quanto meramente dichiarativa».
Ora, certamente i cennati ampi richiami all’esigenza – garantita anche dal diritto convenzionale – di assicurare un processo equo e regolare, con una durata ragionevole, evitando inutili formalismi e costi anche economici a carico della collettività, sono tutti ampiamente condivisibili ed apprezzabili in linea generale.
Il fatto è, però, che non spetta alla Corte di Cassazione – e neppure alle sue Sezioni Unite – di ergersi a legislatore; dunque, quando il codice di rito, all’art. 136 c.p.c., prevede che le comunicazioni a cura del cancelliere si fanno nei casi previsti dalla legge o su ordine del giudice, è all’evidenza che occorre individuare quali siano siffatti casi, rinvenibili uno per uno nel tessuto normativo e non invocando genericamente i principi generali.
E dal combinato disposto degli artt. 134, 170 e 292 c.p.c. si capisce che, da sempre, le ordinanze - compresa quella che dichiara l’interruzione del giudizio per intervenuto fallimento della parte - devono essere comunicate a cura dell’ufficio giudiziario alle sole parti che siano costituite in giudizio, tramite il difensore, ma giammai al contumace, né al soggetto che, a seguito della perdita della capacità di stare in giudizio della parte processuale, per legge ne acquista la relativa legittimazione.
È vero che la parte non colpita dall’evento interruttivo pacificamente può notificare di sua iniziativa l’ordinanza al curatore fallimentare, al fine di provocarne la conoscenza legale e fare decorrere il termine per la prosecuzione del giudizio, onde guadagnare la sua eventuale estinzione, ma è chiaro che si tratta appunto di una facoltà in capo alla parte interessata, alla quale non può contrapporsi un dovere d’ufficio – per il cancelliere –, che non ha alcun fondamento normativo; e ciò senza neppure considerare difficoltà concreta dell’onere che viene posto in capo al cancelliere, id est di ricercare un nominativo (quello del curatore fallimentare), che potrebbe essere ignoto, potendo avere in thesi l’ufficio giudiziario notizia certa dell’apertura del concorso, ma non del professionista nominato dal tribunale fallimentare, magari situato in altro distretto di corte d’appello.
5. Conclusioni
In definitiva, la pronuncia in commento appare assai apprezzabile laddove – anticipando la futura soluzione adottata dal Codice della crisi – stabilisce una volta per tutte che solo dopo che il giudice abbia dichiarato l’evento interruttivo, potrà decorrere il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto.
Parimenti merita sicuro plauso la scelta – improntata a chiarezza e a semplificazione – di fare decorrere sia la riassunzione che la prosecuzione della lite, dal momento in cui l’ordinanza che dichiara l’interruzione è conosciuta dalle parti in udienza, oppure a seguito di comunicazione del cancelliere o notificazione a cura dell’altra parte.
Quella che lascia perplessi, invece, è l’idea che – solo per l’evento dichiarazione di fallimento – in difetto di una norma di qualsivoglia natura, si possa imporre al cancelliere di comunicare l’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo direttamente al curatore fallimentare, cioè non al difensore della parte, ovvero alla parte stessa, ma ad un soggetto che è in quel momento estraneo al processo, essendo solo titolare di una legittimazione ex lege a proseguirlo.
Insomma, la legge processuale italiana non prevede che il cancelliere comunichi alcunchè a chi non è ancora parte del processo; e questo obbligo non può essere rinvenuto invocando i principi generali in tema di ragionevole durata del processo, perché allora un tale onere si dovrebbe estendere all’evidenza a tutti i procedimenti civili, né la specialità del procedimento fallimentare e la sua natura pubblicistica – in mancanza di una previsione espressa nella legge fallimentare, come quella appunto del terzo comma dell’art. 43 – autorizzano a ritenere che il codice di rito possa subire una così plateale eccezione agli oneri che incombono sull’ausiliario del magistrato.
Giustizia insieme pubblica il testo della sentenza delle Sezioni Unite civili n.24410/2021 che ha deciso una vicenda in tema di affissione del crocifisso all'interno delle aule scolastiche, in attesa dell'imminente commento alla decisione.
Il comunicato della Corte di Cassazione reso in data 9 settembre 2021:
"Con la sentenza n. 24414, pubblicata in data odierna, la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, si è occupata dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. In particolare, la questione esaminata riguardava la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. La Corte di cassazione ha affermato che la disposizione del regolamento degli anni venti del secolo scorso – che tuttora disciplina la materia, mancando una legge del Parlamento – è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi.
Il docente dissenziente non ha un potere di veto o di interdizione assoluta rispetto all’affissione del crocifisso, ma deve essere ricercata, da parte della scuola, una soluzione che tenga conto del suo punto di vista e che rispetti la sua libertà negativa di religione.
Nel caso concreto le Sezioni Unite hanno rilevato che la circolare del dirigente scolastico, consistente nel puro e semplice ordine di affissione del simbolo religioso, non è conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità. Ciò comporta la caducazione della sanzione disciplinare inflitta al professore. L’affissione del crocifisso – al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo – non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione.
Non è stata quindi accolta la richiesta di risarcimento danni formulata dal docente, in quanto non si è ritenuto che sia stata condizionata o compressa la sua libertà di espressione e di insegnamento".
Dopo aver indagato il tema della comunicazione, oggetto della rubrica della Rivista presentata con l’editoriale del 18 maggio 2021 attraverso il pensiero della magistratura di legittimità e di merito (si rimanda ai contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli) ed aver approfondito il valore della comunicazione e della parola quale mezzo di emancipazione dell’individuo e della società grazie allo scritto di Francesco Messina passando per un’analisi del tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta e della questione cruciale della comprensibilità e della conoscibilità dell’attività giurisdizionale attraverso il pensiero di Marcello Basilico, Giustizia insieme ha dedicato una serie di interviste ai professionisti della comunicazione e, facendo seguito a quelle di Rosaria Capacchione, Giovanni Bianconi, sono stati coinvolti i giornalisti Claudia Morelli e Giovanni Tizian
È seguito l'approfondimento di Edmondo Bruti Liberati sul drafting relativo all'attuazione della dir.UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza- La problematica attuazione della direttiva UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza-.
Oggi è la volta dell'Avvocato David Cerri, con un contributo dedicato alla comunicazione dell'Avvocato.
Giustizia e comunicazione. 12) La comunicazione dell’avvocato
di David Cerri
Sommario: 1. La comunicazione dell’avvocato - 2. La comunicazione delle associazioni - 3. La comunicazione delle istituzioni.
1. La comunicazione dell’avvocato
Argomento non semplice: già il titolo è equivoco. Perché dell’avvocato, e non degli avvocati o dell’avvocatura? Si tratta evidentemente di punti di vista differenti. C’è poi un’altra premessa da fare: chi scrive rappresenta solo se stesso, non ha certamente la pretesa di esprimere l’opinione dell’intera avvocatura italiana, nè di una sua parte presunta maggioritaria, tantomeno delle sue istituzioni.
Messo in guardia il lettore, affrontiamo comunque il tema, iniziando dal profilo citato per primo: la comunicazione del singolo professionista o del singolo studio richiama subito alla mente quella che di solito si definisce come la “pubblicità”. Si dica allora che questo tema, affacciatosi prepotentemente alla ribalta anche delle professioni forensi italiane negli ultimi anni, sulla scia di un facile entusiasmo per esperienze di altri ordinamenti (non ben conosciute né intese) alla prova dei fatti si è rivelato scarsamente interessante. Chi abbia infatti studiato come la questione della pubblicità dell’avvocato ci sia evoluta in ordinamenti come quello statunitense, dopo celebri sentenze della Corte Suprema degli anni ‘70, e faccia poi un paragone con l’attualità italiana, si rende subito subito conto di come la diversità non solo e non tanto degli ordinamenti, quanto piuttosto del contesto giuridico, delle relative tradizioni, e soprattutto dell’ambiente sociale ed economico abbia fatto sì che l’uso che se ne fa in quel paese (e anche in altri paesi europei, sia pur con tutt’altre modalità) non sia paragonabile né per qualità né per quantità alla nostra più recente esperienza. La motivazione a mio parere è piuttosto semplice: nel contesto eurounitario limitazioni alla concorrenza, anche sotto il profilo delle comunicazioni commerciali, sono ben previste (e direi a maggior ragione nelle professioni regolamentate rispetto alle imprese) in nome della tutela del pubblico interesse. La direttiva 2006/123/CE, cosiddetta Bolkenstein, espressamente ci rammenta all’art. 24 che “Le regole professionali in materia di comunicazioni commerciali sono non discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse generale e proporzionate”; se si legge come se ne è fatta applicazione in Italia col D.Lgs. n.59 del 2010 (art.34, c.3): “I codici deontologici assicurano che le comunicazioni commerciali relative ai servizi forniti dai prestatori che esercitano una professione regolamentata sono emanate nel rispetto delle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare, l'indipendenza, la dignità e l'integrità della professione, nonche' il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione” si vede inoltre come subito di seguito la norma si concluda con la pedissequa ripetizione del principio adottato in sede europea poco sopra riportato.
È questo infatti un caso esemplare nel quale la normativa deontologica aiuta l’ interpretazione e l’applicazione della legge statale. Il codice deontologico forense prevede all’art.17 in primo luogo il carattere essenziale della pubblicità dell’avvocato in Italia: quello informativo, e non meramente commerciale. L’art. 35 dettaglia poi l’applicazione di quel principio, i cui canoni sono quelli già conosciuti dalle discussioni sulle comunicazioni commerciali: trasparenza, veridicità, correttezza, non equivocità, non ingannevolezza, col divieto di informazioni denigratorie, suggestive o comparative.
Non è una singolarità del nostro ordinamento, perché lo stesso C.C.B.E., nel suo codice richiama all’art.2.6, 1 i criteri della veridicità e della correttezza, nonché i principi fondamentali della professione, sempre (come si ricava dall’intero sistema del codice e dal suo preambolo) a tutela del superiore pubblico interesse della tutela della collettività, mediante l’espresso riferimento allo “stato di diritto” ed alla “buona amministrazione della giustizia”; se si vuol declinare il termine di collettività in altro modo (francamente meno coinvolgente, a tacer della diversità ontologica) precisiamo allora: del consumatore.
Ancor meglio l’indagine svolta dalla Commissione sulla Concorrenza dell’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - O.C.S.E. (DAF/COMP/(2007)39) sulle restrizioni alla concorrenza nel settore legale, ha infatti evidenziato il fenomeno dell’adverse selection, cioè che a far maggior ricorso alla pubblicità sono i legali che mostrano di avere la minore qualità; ed ha affermato a chiare lettere che “la nozione di pubblico interesse è più ampia della necessità di correggere i difetti del mercato”, per concludere che tra gli argomenti a favore di (proporzionate) limitazioni alla pubblicità si staglia quello di “Prevent charlatans from obtaining business”… che non ha bisogno di traduzione.
Singolari e fortemente contestate dei professionisti sono state quindi, e comprensibilmente, le interpretazioni offerte dall’A.G.C.M. che in numerosi interventi ha avuto modo di ritenere assurdo il riferimento a criteri come decoro e dignità, propri invece di tutti gli ordinamenti professionali in Italia, in Europa, ed in generale non solo nel mondo delle democrazie occidentali. Assurdo, al contrario, mi è sempre parso voler identificare tout court le professioni forensi con il mondo delle imprese, in particolare per la paradossale conseguenza che a seguire quei ragionamenti ne risulterebbe che i clienti degli avvocati dovrebbero avere meno tutele dei clienti delle imprese, alle quali codici del consumo come quello italiano, direttive eurounitarie, strumenti di autoregolamentazione delle aziende consentono invece una tutela consolidata anche in normative direttamente applicabili (pensiamo soltanto alla disciplina delle comunicazioni ingannevoli). Anche tali punte polemiche, peraltro, sono andate stemperandosi di fronte alla costatazione - fatta propria in primo luogo dalle stesse principali agenzie pubblicitarie -che di queste modalità di marketing (concetto ben più ampio) gli avvocati italiani hanno fatto ben scarso uso; e se, come accennato all’inizio, parlare degli avvocati italiani in generale può sembrare un’affermazione troppo generica e totalizzante, diciamo meglio allora: della stragrande maggioranza di loro; le grandi law firms, le cui case madri sono spesso di matrice estera, in realtà dal punto di vista professionale ed in particolar modo sociologico hanno molto poco a che fare con l’avvocato come la maggior parte di noi lo conosce. Basterebbe leggere le cronache di questi giorni a margine dell’arbitrato Rizzoli/RCS, con le colorite descrizioni dei professionisti dei grandi studi che vi hanno partecipato, per rendersene meglio conto. Una dimostrazione è data ripetutamente dalle indagini del Censis, che continuano a registrare anche di recente come il principale strumento di acquisizione della clientela sia il cosiddetto passa parola. Tutto ciò non significa ignorare I tentativi, spesso un po’ penosi, di pubblicità fatta in casa da numerosi studi: basta una veloce carrellata in rete per rendersene conto. C’è molto da dubitare però che tali tentativi diano dei frutti consistenti, senza naturalmente voler qui considerare le limitazioni di natura normativa e deontologica pur esistenti. Anche a questo proposito, però, torna decisivo il richiamo al pubblico interesse, che dovrebbe essere meglio apprezzato proprio considerando l’esperienza degli ordinamenti che assai prima del nostro hanno riconosciuto questa possibilità ai professionisti. Mi piace allora ricordare quanto mi riferiva il professor Settis, notissimo storico dell’arte, nel corso di un’intervista di qualche anno fa per una rivista giuridica che curavo. A proposito della sua esperienza di amministratore del Getty Museum a Malibu - esperienza che lo portava naturalmente a contatti con grandi studi professionali di Los Angeles - il professore mi riferiva parlando di questi temi che proprio uno dei suoi interlocutori gli raccontava con una certa amarezza come il regime di ampia libertà nella rappresentazione pubblicitaria dei professionisti californiani provocasse un grave danno sociale a carico delle categorie meno dotate di strumenti per interpretare correttamente una reclame televisiva, un cartellone affisso in autostrada, un annuncio fatto su un giornale o su internet. In particolare vittime di professionisti con pochi scrupoli erano, a detta di quel legale, gli immigrati ispanici di recente ingresso, che cadevano vittime della scarsa conoscenza delle consuetudini statunitensi, affidandosi così inutilmente, se non con danno, ad avvocati che ricordavano il famoso Lionel Hutz dei Simpson (se vi ricordate, è quello il cui motto è “Cause vinte in 30 minuti o pizza gratis!”, e che Lisa Simpson definisce uno “schyster”, termine che non oso tradurre ad un uditorio raffinato come quello di questa Rivista. In effetti uno sguardo su quel mondo è piuttosto interessante, se lo si vede come una possibile anticipazione di quello che sarebbe potuto accadere anche in Europa e in particolare in Italia ove non ci fosse una cura particolare della tutela della collettività di fronte agli operatori economici, di ogni tipo, miranti esclusivamente ricavare un profitto dalle loro attività. In altre parole nessuna regola significherebbe averne una sola: massimo profitto col minimo sforzo, il che, mi si consentirà, non è la migliore soluzione. A pensar diversamente sono rimasti gli epigoni del momento d’oro del neoliberismo selvaggio.
La comunicazione informativa, allora: segue agevolmente ed in primo luogo anche nel nostro paese i canali internet, spesso senza dover ricorrere a specifiche professionalità tecniche (e si vede…); si attua prevalentemente con la presentazione dei siti degli studi, delle informazioni utili per la scelta del professionista, nonché di tutte quelle altre indicazioni di tipo pratico (un esempio banale, la sede dello studio con suggerimenti per raggiungerlo, i parcheggi, e così via); naturalmente le aree di prevalente attività dei professionisti (vedremo poi l’uso che sarà fatto dei titoli di specializzazione, quando anche questa possibilità sarà ampiamente sfruttata; sin d’ora mi sentirei di dire che i risultati, sotto questo profilo, saranno minori di quelli forse attesi, per il semplice fatto che la realtà italiana vede una miriade di studi composti da pochi professionisti, una diffusione sul territorio capillare (anche in relazione all’elevato numero di fori), ciò che comporta che il fregiarsi del titolo di specialista in un dato ambito potrebbe in realtà avere l’effetto controproducente di escludere l’ interesse del potenziale cliente sotto tanti altri profili, magari egualmente trattati dal medesimo professionista con apprezzabile competenza, benchè non “bollinata”: staremo a vedere.
C’è infine, anche un altro tipo di pubblicità formalmente informativa ma sostanzialmente commerciale: quella delle interviste fasulle, fenomeno non così irrilevante se alcuni Ordini territoriali avevano sentito già da tempo l’opportunità di dotarsi di apposite delibere sull’argomento. Questione peraltro superata – da chi se lo può permettere – con gli interventi più sinceramente sfacciati su riviste nate ad hoc, di solito patinate, e che mi spingono a ricordare il titolo dell’opera del critico formalista russo Viktor Šklovskij, Il punteggio di Amburgo, e la sua spiegazione: “Il punteggio di Amburgo è importantissimo. Tutti gli incontri di lotta sono truccati. Gli atleti si fanno mettere con le spalle a terra secondo le istruzioni dell’impresario. Ma una volta l’anno si riuniscono ad Amburgo in una osteria e lottano a porte chiuse, con le tende tirate.
Lottano a lungo, con ostinazione, senza eleganza. Il punteggio di Amburgo serve a stabilire la classe reale di ciascun lottatore e ad evitare il totale discredito. Anche in letteratura non se ne può fare a meno” concludeva Šklovskij, e neppure nel nostro ambito. Ed i migliori giudici sono anche per noi i colleghi, cui potrebbero aggiungersi i magistrati, seguendo l’esempio di altre formule, come Find a Lawyer della Law Society of England and Wales, fondate sul peer review.
2. La comunicazione delle associazioni
Finora ho cercato di tratteggiare la comunicazione tesa in gran parte all' acquisizione ed alla cura della clientela, e pertanto dal punto di vista del singolo studio; gli avvocati però, associati nelle loro forme di aggregazione, tendono a svolgere anche altri tipi di comunicazione, che solo in parte possono essere ricondotti ad una forma di “pubblicità di categoria” e/o della stessa singola associazione. In questa prospettiva gli interessi che si vogliono coltivare sono sovente, ed in linea generale, quelli della tutela della stessa categoria, se si vuole in un' ottica sindacale (più frequente per alcune e minore in altre), con un particolare interesse alle esigenze degli iscritti al singolo ente, di solito riunitisi per la comunanza dell’ attività prevalentemente svolta. Tra le associazioni specialistiche formalmente riconosciute come “maggiormente rappresentative“ in attuazione del Regolamento n.1/013 C.N.F., di applicazione dell’articolo 35 c.1 lett. s) L. n. 247/2012, si annoverano alcune tra le più note – come (sperando di non suscitare reazioni da parte delle altre che non ricorderò solo per motivi espositivi…) le Unioni delle Camere Penali e delle Camere Civili, e le diverse di avvocati della famiglia (come AIAF, ONDIF, Cammino ecc.) e del lavoro (come AGI); ma non mancano associazioni “generaliste” che vantano una diffusione capillare sul territorio, come - una per tutte - l‘AIGA. Ebbene, quelle di maggiori dimensioni ed “anzianità” godono di veri uffici stampa, che ne permettono la costante presenza non solo nella pubblicistica di settore, ma anche nella opinione pubblica, tramite frequenti e mirati interventi sui quotidiani di maggior notorietà sui temi dell' attualità politica e sociale. Un altro profilo, attentamente curato dalle associazioni - e che costituisce buona parte delle loro attività di proselitismo – è quello della formazione continua, dove l' allestimento di convegni ed incontri di studio costituisce non solo un importante mezzo di accrescimento culturale dell’intera categoria, ma indubbiamente anche uno strumento di promozione della singola associazione: mentre si rende un servizio, quasi sempre poco costoso se non gratuito , ci si presenta ai colleghi in termini di efficienza ed aggiornamento. Già la parzialissima enumerazione delle diverse associazioni fa comprendere come la comunicazione dei professionisti forensi italiani non sia comparabile con quella di altri operatori della giustizia, come i magistrati, che oltre ad avere regole dettate dal legislatore, per l'ovvio rilievo pubblico della loro funzione, hanno anche organi di autogoverno che consentono l'adozione di regole; regole che almeno nella loro ispirazione dovrebbero indirizzare i comportamenti dei membri di quell’ordine (penso anche soltanto alle Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale adottate dal CSM nel 2018). L’avvocatura, pur essendo una professione regolamentata, con la costituzione di un organo apicale e di organi territoriali regolati dalla legge, non ha certamente (in primo luogo forse per le sue dimensioni) la possibilità di esprimere con una sola voce le sue indicazioni: ciò che nel contempo è un male, per la sicura minore efficacia, ma anche un bene, perché le diverse opinioni vengono alla luce del sole ed a conoscenza diretta dell'opinione pubblica. Quest'ultima riflessione ci porta diritto all'ultimo paragrafo di questo intervento.
3. La comunicazione istituzionale
Le istituzioni forensi, in Italia, come tutti sanno sono regolate dalla legge, e non da oggi ma dal 1874, con la tragica parentesi fascista. La loro natura di organi pubblici è causa ed insieme effetto del loro ruolo; non ci si associa liberamente all’Ordine di appartenenza, ma lo si deve fare, perché il legislatore – in ossequio, oggi, ai principi costituzionali – ha ritenuto che dovesse essere assicurato alla collettività l’affidamento in professionisti “verificati” (con tutte le debolezze delle “verifiche”, delle quali non è questa la sede per parlare), aggiornati e corretti, svolgenti un ruolo sociale ineliminabile (almeno nelle nostre democrazie). Può quindi apparire non scontato che tale istituzioni svolgano, oltre a quella definibile come una consueta comunicazione istituzionale, (relativa alle informazioni necessarie allo svolgimento della professione – a livello locale e nazionale - , ai servizi per i cittadini, ai rapporti con gli altri protagonisti del sistema giustizia) un intervento più esplicito, destinato ad influenzare direttamente l’opinione pubblica e la politica. Sarebbe però veramente ingenuo pensare che, data l’occasione, essa non venga colta, al pari di quello che fanno gli altri operatori. Questa è la strada che da alcuni anni ha intrapreso anche il Consiglio Nazionale Forense, dapprima con il ricorso (non troppo felice) alla collaborazione di agenzie specialistiche, poi con l’iniziativa del quotidiano Il Dubbio, nato nel 2015 tra le polemiche di buona parte dell’avvocatura. Polemiche spesso dettate dai costi non modesti dell’impresa, ma anche da una contrarietà di fondo ad esprimere una presenza in senso lato “politica” della categoria, da riservare piuttosto, secondo alcuni ed in una prospettiva sindacale, alle libere associazioni. Non starò qui certamente a fare la storia dei rapporti tra C.N.F. ed O.U.A., prima, e O.C.F., dopo (sigle per iniziati che, appunto, sarebbe troppo lungo spiegare) ma oggi è innegabile che, nel succedersi di direttori (aveva iniziato Sansonetti) che hanno dato una propria impostazione alla pubblicazione, questa sia entrata di diritto tra quelle citate d’obbligo nelle rassegne stampa; conseguenza forse inevitabile della perenne querelle sullo stato comatoso della giustizia italiana, la cui lettura semplificata vede additare come responsabili ora la magistratura, ora l’avvocatura, ora l’esecutivo di turno, e spesso tutte e tre.
Di sicuro questo tipo di pubblicazione può contribuire alla crescita culturale della categoria ed insieme del paese (ho in mente, per esempio, interventi recenti e posti in adeguato risalto sulla lingua di genere, di Barbara Spinelli e Stefania Cavagnoli); si può essere più perplessi nell’insistenza da un lato su temi dell’attualità “spicciola” e, dall’altro, su battaglie capitali come quella per “l’introduzione dell’ avvocato in costituzione” (personalmente credo che l’avvocato ci sia già, eccome, e che forse è nella normativa ordinaria che dovrebbero essere apprestate più adeguate tutele e soprattutto risorse: ma – al solito: ormai lo si sarà capito come la penso…– nell’interesse principale della collettività, non in quello della categoria, che ne risulterà garantito di riflesso).
Ricordo infine come, al pari delle associazioni, e come ho già ricordato, anche le istituzioni forensi a tutti i livelli si presentino all’interno ed all’esterno della categoria con l’attività svolta per la formazione, tanto per l’accesso che continua. Un professionista competente per far fronte ai suoi obblighi necessita di una formazione iniziale e di un aggiornamento continuo di alto livello; non è un caso che con la dismissione dei poteri dei poteri disciplinari in favore dei nuovi Consigli Distrettuali gli Ordini territoriali abbia visto crescere esponenzialmente le iniziative formative, spesso tramite la costituzione di appositi enti (come le numerose Fondazioni) che danno continuità a strutture organizzativamente complesse, assai spesso in proficua collaborazione con le Università (anche indipendentemente dall’esistenza di apposite convenzioni) ed assicurandone la “tendenziale gratuità” richiesta. E’ questa attività formativa (anche per il coinvolgimento interdisciplinare di altre professioni e della magistratura, per quello di altre istituzioni pubbliche, e talvolta caratterizzata anche dall’apertura alla cittadinanza: un esempio le manifestazioni per la Giornata della Memoria) che mi pare costituisca il miglior biglietto da visita dell’avvocatura italiana, ed in ogni caso la forma di “comunicazione” che prediligo.
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