Sull’interruzione del processo per fallimento della parte: commento a Cass. S.U. 7 maggio 2021, n. 12154
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – Fallimento ed interruzione dei processi. 2. – Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile. 3. – La soluzione delle Sezioni Unite del 2021. 4. – La novità “processuale” partorita dalla Cassazione. 5. – Conclusioni.
1. Fallimento ed interruzione dei processi
L’ampia e dotta sentenza delle Sezioni Unite in commento si occupa di una problematica per lunghissimo tempo ignota agli studiosi del diritto fallimentare, per la decisiva considerazione che la disciplina originaria della legge fallimentare del ’42, sul punto non dava adito a dubbi interpretativi di sorta.
È noto che l’apertura del concorso tra i creditori del fallito determina l’interruzione di tutti i processi pendenti, purchè riferiti a rapporti di natura patrimoniale, visto che essa produce la perdita della capacità di stare in giudizio del soggetto che lo subisce e la nascita contestuale, salve le eccezioni previste nell’art. 46 l.fall., della legitimatio ad processum in capo al solo curatore.
L’art. 43, primo comma, l.fall. si limita ancora oggi seccamente a stabilire che nelle controversie in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, sta in giudizio il curatore; e questa norma secondo la granitica giurisprudenza della S.C. determina appunto quella perdita della «capacità di stare in giudizio» che al pari della morte, ai sensi dell’art. 299 c.p.c., costituisce causa di interruzione del processo.
Ora, verificatosi l’evento interruttivo – id est la dichiarazione di fallimento di una delle parti –, tradizionalmente nella vigenza della legge del ’42, trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 300, commi primo, secondo e quarto, c.p.c., con la conseguenza che se la parte era stata dichiarata fallita dopo la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore, l’interruzione si verificava solo se e quando il medesimo lo avesse dichiarato in udienza o lo avesse notificato alle altre parti; nei casi in cui invece l’apertura del concorso si era verificata dopo la dichiarazione della contumacia della parte, l’interruzione si verificava nel momento in cui l’evento fosse stato documentato dalla parte in bonis, oppure fosse stato certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti o atti di cui all’art. 292 c.p.c.
Siffatto inquadramento dell’istituto, pacificamente applicato in giurisprudenza per oltre sessant’anni, ebbe a subire una rilevante modifica con l’introduzione del terzo comma all’art. 43 l.fall., ad opera dell’art. 41, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, a tenore del quale l’apertura del fallimento «determina l’interruzione del processo».
La norma novellata è stata interpretata costantemente dalla successiva giurisprudenza edita, anche della S.C., nel senso che la dichiarazione di fallimento di una parte processuale, determina ipso iure l’interruzione del giudizio in corso, rendendo così irrilevante, ai fini della produzione del relativo effetto la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito, come pure la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento, nonché tutti gli altri atti e i fatti previsti dal quarto comma dell’art. 300 c.p.c., nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca la parte dichiarata contumace.
Corollario necessario di questo indiscusso assunto, è che la disciplina processuale del fallimento, quale evento interruttivo automatico, deve oggi essere ricercata nell’ambito dei casi in cui il codice di rito prevede e regola eventi che producono appunto automaticamente l’interruzione del giudizio: cioè negli artt. 299, 300, comma terzo, e 301 c.p.c., letti in combinato disposto con l’art. 305 c.p.c.
E la Consulta (Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17), investita della questione di legittimità dell’art. 305 c.p.c., in relazione ai parametri degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui fa decorrere dall’interruzione del processo per l’apertura del fallimento, ai sensi dell’art. 43, comma terzo, l.fall., anziché dalla data di “effettiva” conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita e dai soggetti che hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento, con sentenza interpretativa di rigetto ha già avuto modo di affermare che, in base ai princìpi da essa stessa espressi nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c. in relazione alle ipotesi di interruzione ipso iure previste dagli artt. 299, 300 comma 3, 301 c.p.c., si era consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l’orientamento secondo cui il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui di tale evento abbia avuto conoscenza “in forma legale” la parte interessata alla riassunzione; sicché il relativo dies a quo può ben essere diverso per una parte rispetto all’altra.
Sulla problematica in oggetto, poi, una significativa novità è stata introdotta con il d.lgs. 12 febbraio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (di seguito il c.c.i.i.) - destinato tuttavia ad entrare in vigore, dopo l’ennesimo rinvio, forse, il prossimo 16 maggio 2022 -, il quale nel comma 3 dell'art. 143 stabilisce espressamente che il termine per la riassunzione del processo decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice.
Dunque, è certo che - almeno per il futuro - sarà necessaria la dichiarazione di interruzione da parte del giudice, perché decorra il termine per la riassunzione del processo, mentre nulla soggiunge il Codice in ordine a quale sia lo strumento per assicurare a tutte le parti la “conoscenza legale” di questa dichiarazione, come tale idonea a fare decorrere il termine per la riassunzione o per la prosecuzione.
Due, allora, sono le problematiche sorte all’esito della cennata novella del 2006 dell’art. 43 l.fall. e che – come da atto la sentenza in commento – hanno dato vita ad orientamenti contrastanti: i) la necessità o meno che, anche nel regime vigente, l’evento interruttivo venga dichiarato dal giudice, affinché decorra il termine per la sua riassunzione o prosecuzione; ii) quale debba ritenersi la forma di “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, sufficiente ad assicurare il decorso del termine fissato la prosecuzione o la riassunzione con riguardo a tutte le parti del processo, nonché al curatore fallimentare.
2. Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile
Per capire le rilevanza delle questioni poste dai quesiti surriferiti, è assai interessante esaminare il caso concreto portato all’esame delle Sezioni Unite della S.C., a seguito dell’ordinanza interlocutoria spiccata dalla Prima sezione civile (Cass. 12 ottobre 2020, n. 21961), con la quale è stata appunto sollecitata la rimessione al massimo consesso del giudice di legittimità.
Una società titolare di un conto corrente bancario conviene in giudizio l’istituto di credito per ottenere la sua condanna alla restituzione delle somme indebitamente trattenute nell’ambito del detto rapporto; il tribunale condanna la banca alla restituzione in favore della correntista di una determinata somma; proposto appello da parte dell’istituto di credito, ed interrotto il relativo processo in seguito alla dichiarazione di fallimento della società appellata, l’appellante riassume il giudizio, ma la curatela del fallimento della società, costituendosi nel giudizio riassunto, eccepisce l’estinzione del processo, assumendo che la banca non lo aveva tempestivamente riassunto, visto che quest’ultima aveva già ricevuto da oltre sei mesi l’avviso di cui all’art. 92 l.fall., la cui comunicazione avrebbe dovuto essere considerata idonea a determinare la sua “conoscenza legale” dell’evento interruttivo anche nell’ambito del giudizio d’appello.
La corte di appello accoglie l’eccezione della curatela e dichiara estinto il giudizio di appello; la banca propone allora ricorso per cassazione lamentando che la corte di appello abbia dichiarato l’estinzione del giudizio di secondo grado, individuando quale momento in cui avrebbe avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo, la ricezione dell’avviso di cui all’art. 92 l.fall. da parte del curatore del fallimento, anziché quello in cui era intervenuta la dichiarazione dell’interruzione del processo, all’udienza davanti al giudice del gravame.
Insomma, dalla lettura della vicenda sottoposta alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria, si capisce benissimo che, dopo la riforma del 2006, fermo l’orientamento a tenore del quale la dichiarazione di fallimento produce ex lege l’interruzione del giudizio, non era ancora sufficientemente chiaro nella giurisprudenza – neppure di legittimità – se occorra o meno una dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e quando si possa dire che le parti abbiano avuto “conoscenza legale” del medesimo, al fine di individuare il dies a quo del termine di decadenza per riassumere o per proseguire il giudizio.
3. La soluzione delle Sezioni Unite del 2021
Le Sezioni Unite osservano anzitutto che la duplice modifica dell’art. 43 l.fall., prima nel 2006 – con l’introduzione del terzo comma che prescrive l’interruzione automatica dei processi – e poi nel 2015 – con l’inserimento di un quarto comma, in forza del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, in forza del quale le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, appare chiaramente volta, da un lato, ad attenuare, con l'automaticità dell'interruzione dei processi pendenti, i costi del contenzioso non endoconcorsuale e così, indirettamente, la durata dei fallimenti, dall'altro lato, ad istituire regole di trattazione selettiva per tutti i processi in cui assuma la qualità di parte l'organo concorsuale.
Del resto, l’art. 25 della Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, tra le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, prescrive che gli Stati membri provvedono affinché «il trattamento delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione avvenga in modo efficiente ai fini di un espletamento in tempi rapidi delle procedure».
La scelta del legislatore del 2006 di rendere applicabile l’art. 305 c.p.c. con la conseguente estinzione del processo, ove non proseguito o riassunto nel termine ora trimestrale, appare allora chiaramente ispirata ad esigenze di celerità delle procedure, anche se occorre evidenziare – come puntualmente fanno le S.U. – che l’estinzione in caso di inerzia non è la sorte riservata a tutti i processi pendenti al momento della dichiarazione di fallimento di una parte, posto che in altri casi la dichiarazione di fallimento costituisce motivo di improcedibilità della lite, come quando è necessaria la migrazione della domanda in sede di accertamento del passivo.
Ora, secondo il Giudice di legittimità occorre chiedersi se la ricordata soluzione prospettata per il futuro dall’art. 143, comma 3, c.c.i.i. possa essere utilmente impiegata anche nella vigenza dell’attuale art. 43 l.fall.; e ciò pure tenendo a mente che l’art. 2, comma 1, lett. m), della legge 19 ottobre 2017, n. 155, nel dettare i principi di delega per la riforma della crisi d'impresa e dell'insolvenza, ha attribuito al legislatore delegato la potestà di riformulare le disposizioni all'origine dei contrasti interpretativi, così da consentirne il superamento, in coerenza con gli stessi principi della legge delega.
Il Giudice di legittimità sottolinea allora come la regola fissata nell'art. 143, comma 3, c.c.i.i. – quella della necessità della dichiarazione giudiziale dell’interruzione – non esprime una assoluta novità, mostrando all'evidenza di coincidere, come già evidenziato nell’ordinanza interlocutoria, con uno degli orientamenti formatisi presso la S.C.; dunque, la scelta del legislatore riformista si è limitata a selezionare un'interpretazione possibile, tra le più finora seguite, delimitando la portata dell'istituto e pertanto, per quel che qui rileva, non assumendo una radicale natura anche legislativamente innovativa.
E già in precedenza le S.U. della Cassazione hanno chiarito che il codice della crisi e dell'insolvenza «è testo in generale non applicabile - per scelta del legislatore - alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, primo comma, c.c.i.i.), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro» (Cass. S.U. n. 12476 del 2020; Cass. S.U. n. 8504 del 2021).
Anche la relazione illustrativa al Codice sullo specifico punto ribadisce che, per consentire al curatore di costituirsi nei giudizi che hanno ad oggetto rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione, l'apertura della stessa comporta di diritto l'interruzione automatica del processo - ed è il principio riflesso anche nell’attuale art. 43, comma terzo, l.fall. - ma per assicurare il diritto di difesa delle parti, il termine della riassunzione decorre dal momento in cui il giudice dichiara l'avvenuta interruzione.
Dai superiori elementi, nella sentenza in esame le Sezioni Unite ricavano quella continuità normativa che giustifica l’opzione in favore della scelta ermeneutica fatta dal legislatore del 2019; e anzi, ribadisce la decisione che ci occupa, come già aveva fatto nella sua requisitoria il Procuratore Generale, che la soluzione codicistica non costituisce affatto un ritorno all’ancien regime, perché esigere la declaratoria giudiziale dell'interruzione affinché scatti l’onere di riassunzione del processo non significa affatto ripristinare il regime in base al quale l'interruzione non era automatica, visto che il giudice può addivenire alla dichiarazione di interruzione del procedimento per il solo fatto di essere venuto a conoscenza della sopravvenuta procedura fallimentare e a prescindere dalla dichiarazione del difensore del fallito.
La sentenza in commento, peraltro, osserva che pure ad aderire alla tesi che possa invocarsi in via ermeneutica l’opzione legislativa fatta propria per il futuro dal Codice, rimane non sufficientemente chiaro se la dichiarazione giudiziale di interruzione, determini il decorso del termine solo per alcuni soggetti, come si potrebbe evincere dal riferimento alla sola “riassunzione” e non anche alla “prosecuzione”, così delimitando la previsione della decorrenza del termine, almeno nella sua formula espressa, alla sola altra parte non colpita da fallimento.
Insomma, si tratta di capire se anche per il curatore il termine per la prosecuzione del processo decorra dalla dichiarazione del giudice e ciò, peraltro, considerato che il predetto curatore non ha di norma mai “conoscenza legale” della dichiarazione di interruzione, salvo che sia resa in un'udienza cui egli abbia presenziato, ovvero gli sia stata notificata come atto autonomo dall’altra parte.
La conclusione della Corte è perentoria: in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma terzo, l.fall., il termine per la riassunzione ad opera della parte non fallita, come quello per la prosecuzione su iniziativa del curatore della fallita, decorre sempre e soltanto da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia stata portata a conoscenza di ciascuna parte cui spetta riassumere o proseguire, compreso quindi il curatore fallimentare.
Orbene, nulla quaestio se la dichiarazione di interruzione viene ad essere conosciuta da tutte le parti – compreso il curatore – perché pronunciata in udienza con ordinanza, ai sensi dell’art. 176, comma secondo, c.p.c.: dalla data della pronuncia del giudice che dichiara l’interruzione decorrerà per tutti il termine trimestrale per la riassunzione o la prosecuzione del processo.
Quando l’ordinanza che dichiara interrotto il processo non sia stata pronunciata in udienza, invece, affinchè decorra il termine trimestrale essa dovrà essere comunicata alle parti in lite, secondo quanto previsto dall’art. 136 c.p.c. in generale per tutti i provvedimenti del giudice, oppure notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato, in modo da determinarne quella “conoscenza legale” che in maniera ora esclusiva determina il decorso del termine per riassunzione o prosecuzione.
Così ricostruita la disciplina vigente, allora, nella vicenda all’esame della S.C. la soluzione diviene obbligata: poiché la conoscenza legale dell’evento interruttivo si è verificata in capo alla banca appellante soltanto con la dichiarazione di interruzione resa all’udienza dal giudice di appello, la sentenza impugnata - che ha erroneamente dichiarato estinto il giudizio, ancorchè riassunto nel termine decorrente dalla pronuncia giudiziale di interruzione - merita di essere cassata; spetterà dunque al giudice del rinvio riesaminare nel merito le doglianze formulate dall’appellante.
4. La novità “processuale” partorita dalla Cassazione
Ma ecco che in cauda venenum: dopo avere fatto in maniera apprezzabile chiarezza sulla necessità della dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e sugli eventi che determinato quella conoscenza legale che fa decorrere il termine per riassumere o proseguire il giudizio, la sentenza di cui ci occupiamo sottopone agli interpreti una novità processuale inattesa, peraltro estranea al caso sottoposto dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, che come visto si riferiva ad una tardiva riassunzione da parte del soggetto rimasto in bonis e non al caso della prosecuzione su iniziativa del curatore.
Secondo le Sezioni Unite, a prescindere dalla notifica a cura della controparte al curatore fallimentare della parte fallita dell’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo, sarà il cancelliere dell’ufficio giudiziario a doverla comunque comunicare al predetto curatore, affinchè decorra il termine per la prosecuzione del processo.
Per giustificare siffatta perentoria conclusione, la sentenza in commento si impegna in una diffusa motivazione che attinge anche a profonde suggestioni del diritto convenzionale europeo.
Il collegio parte dall’idea che la connotazione pubblicistica della procedura concorsuale, una volta aperta, imponeva di escludere che «una regola tanto solenne quanto puntuale, come l'interruzione ipso jure del giudizio in cui sia parte un fallimento, venisse arbitrata opportunisticamente o discrezionalmente, ma in modo di fatto casuale, dall'iniziativa di una parte rimettendo la sua verifica».
Constatata la doverosità giudiziale della dichiarazione di interruzione, le Sezioni Unite affermano che anche la priorità di trattazione dei giudizi in cui sia parte un soggetto fallito, disposta con il cennato d.l. n. 83 del 2015, si inserirebbe in una logica tutta tesa ad assicurare una efficace raccolta delle informazioni sull'eventuale dichiarazione di fallimento resa a carico di una parte, in modo da consentire ai giudici di rendere tempestivamente e anche d'ufficio la descritta dichiarazione, in coerenza agli artt. 127 e 175 c.p.c. e l’art. 81-bis disp. att. c.p.c.
Si ricorda, ancora, che lo scopo legittimo di assicurare il regolare funzionamento della giustizia, più volte è stato enunciato dalla Corte EDU con riguardo all'art. 6 §1 della Convenzione EDU, poiché amministrare la giustizia senza ritardi ingiustificati che possano comprometterne la credibilità e l'effettività, realizza un interesse generale della società («court proceedings unhindered by unjustified delays»: Corte EDU 15 ottobre 2015, in Konstantin Stefanov v. Bulgaria § 64).
D'altra parte lo stesso principio di «sécurité juridique» secondo la declinazione dell'art. 6 §1 della Convenzione EDU, tende a garantire una certa stabilità delle situazioni giuridiche e a favorire la fiducia nella giustizia, quali elementi fondamentali di uno Stato di diritto (Corte EDU 29 novembre 2016, in Paroisse gréco-catholique Lupeni et autres c. Roumanie, § 116), così che il bilanciamento tra il diritto di accesso alla giustizia e la perdita della possibilità di esercizio dell'azione lascia agli Stati membri margini d'intervento, ma evitando al contempo un eccesso di formalismo che minerebbe «l'équité de la procédure» e «une souplesse excessive» (Corte EDU 17 gennaio 2012, in Stanev c. Bulgaria §§ 229-231).
La conclusione, indefettibile, per il Giudice di legittimità è che non vi è alcun ostacolo alla comunicazione d'ufficio dell'ordinanza dichiarativa di interruzione del processo al curatore fallimentare, a seguito della dichiarazione di fallimento di una parte, ancorchè si tratti di un soggetto che non vi aveva assunto la medesima qualità.
Se invero il dies a quo per la decorrenza del termine di cui all'art. 305 c.p.c. viene fatto coincidere con la produzione della conoscenza dell'evento interruttivo, secondo un procedimento che parte dalla dichiarazione giudiziale e si realizza mediante la successiva facoltativa notificazione al curatore fallimentare, a cura della parte costituita, allora deve ammettersi analoga attività di comunicazione da parte dello stesso ufficio giudiziario; si tratta, infatti, di una forma di produzione della conoscenza che condivide con l'iniziativa della parte interessata «la natura di fattispecie meno extraprocessuale, in questa accezione, perché pur sempre originante dalla constatazione del fallimento assunta in primo luogo dal giudice del processo interrotto e dunque volta a veicolare una sua pronuncia, per quanto meramente dichiarativa».
Ora, certamente i cennati ampi richiami all’esigenza – garantita anche dal diritto convenzionale – di assicurare un processo equo e regolare, con una durata ragionevole, evitando inutili formalismi e costi anche economici a carico della collettività, sono tutti ampiamente condivisibili ed apprezzabili in linea generale.
Il fatto è, però, che non spetta alla Corte di Cassazione – e neppure alle sue Sezioni Unite – di ergersi a legislatore; dunque, quando il codice di rito, all’art. 136 c.p.c., prevede che le comunicazioni a cura del cancelliere si fanno nei casi previsti dalla legge o su ordine del giudice, è all’evidenza che occorre individuare quali siano siffatti casi, rinvenibili uno per uno nel tessuto normativo e non invocando genericamente i principi generali.
E dal combinato disposto degli artt. 134, 170 e 292 c.p.c. si capisce che, da sempre, le ordinanze - compresa quella che dichiara l’interruzione del giudizio per intervenuto fallimento della parte - devono essere comunicate a cura dell’ufficio giudiziario alle sole parti che siano costituite in giudizio, tramite il difensore, ma giammai al contumace, né al soggetto che, a seguito della perdita della capacità di stare in giudizio della parte processuale, per legge ne acquista la relativa legittimazione.
È vero che la parte non colpita dall’evento interruttivo pacificamente può notificare di sua iniziativa l’ordinanza al curatore fallimentare, al fine di provocarne la conoscenza legale e fare decorrere il termine per la prosecuzione del giudizio, onde guadagnare la sua eventuale estinzione, ma è chiaro che si tratta appunto di una facoltà in capo alla parte interessata, alla quale non può contrapporsi un dovere d’ufficio – per il cancelliere –, che non ha alcun fondamento normativo; e ciò senza neppure considerare difficoltà concreta dell’onere che viene posto in capo al cancelliere, id est di ricercare un nominativo (quello del curatore fallimentare), che potrebbe essere ignoto, potendo avere in thesi l’ufficio giudiziario notizia certa dell’apertura del concorso, ma non del professionista nominato dal tribunale fallimentare, magari situato in altro distretto di corte d’appello.
5. Conclusioni
In definitiva, la pronuncia in commento appare assai apprezzabile laddove – anticipando la futura soluzione adottata dal Codice della crisi – stabilisce una volta per tutte che solo dopo che il giudice abbia dichiarato l’evento interruttivo, potrà decorrere il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto.
Parimenti merita sicuro plauso la scelta – improntata a chiarezza e a semplificazione – di fare decorrere sia la riassunzione che la prosecuzione della lite, dal momento in cui l’ordinanza che dichiara l’interruzione è conosciuta dalle parti in udienza, oppure a seguito di comunicazione del cancelliere o notificazione a cura dell’altra parte.
Quella che lascia perplessi, invece, è l’idea che – solo per l’evento dichiarazione di fallimento – in difetto di una norma di qualsivoglia natura, si possa imporre al cancelliere di comunicare l’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo direttamente al curatore fallimentare, cioè non al difensore della parte, ovvero alla parte stessa, ma ad un soggetto che è in quel momento estraneo al processo, essendo solo titolare di una legittimazione ex lege a proseguirlo.
Insomma, la legge processuale italiana non prevede che il cancelliere comunichi alcunchè a chi non è ancora parte del processo; e questo obbligo non può essere rinvenuto invocando i principi generali in tema di ragionevole durata del processo, perché allora un tale onere si dovrebbe estendere all’evidenza a tutti i procedimenti civili, né la specialità del procedimento fallimentare e la sua natura pubblicistica – in mancanza di una previsione espressa nella legge fallimentare, come quella appunto del terzo comma dell’art. 43 – autorizzano a ritenere che il codice di rito possa subire una così plateale eccezione agli oneri che incombono sull’ausiliario del magistrato.