ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dagli uomini d’onore agli uomini d’amore
di Lia Sava
Il titolo del nostro momento di confronto è suggestivo e, ad un tempo, bellissimo. “Uomini d’onore e uomini d’amore” sono espressioni che richiamano due categorie concettuali nettamente distinte perché non c’è nulla di più distante dalla declinazione dell’amore rispetto all’appartenenza al sodalizio di stampo mafioso impastato di un malsano concetto di “onore”. Ed è proprio la potenza evocativa dell’antitesi fra “l’onore e l’amore” (consentitemi la semplificazione) che permette di avviare una riflessione sul ruolo del cristiano nel tempo che viviamo e che impone, al battezzato, di individuare la sua strada per essere “uomo d’amore” nel contesto in cui opera e nel suo rapporto con i doveri che gli derivano dal suo essere cittadino, in un panorama che vede gli stati occidentali, ad un tempo, laici e multiculturali. In prima battuta mi sovviene una considerazione semplice ma, mi consta, non scontata. Invero, il Cristianesimo ha segnato una sorta di sostanziale rivoluzione nei rapporti fra essere credenti e società. Nel Vangelo Gesù insegna: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma cosa significa davvero questa espressione e qual è il corretto rapporto che un cristiano, che vuole essere “uomo d’amore”, deve avere rispetto alla cosa pubblica? In prima battuta occorre evidenziare che Gesù è stato ben chiaro: la laicità dello Stato (al di là delle fuorvianti interpretazioni dei secoli bui della storia della Chiesa) si fonda, a ben vedere, proprio su questa espressione. E torniamo alla nostra domanda, che richiede una risposta ancora più complessa nel momento in cui quello stesso cristiano che la pone a sé stesso riveste un ruolo pubblico. Ed io mi chiedo (io che questa domanda me la sono posta e continuo a pormela): se il mio essere cristiano deve plasmare nell’ essenza profonda la mia vita, come posso, rispettando i doveri e gli oneri connessi al mio lavoro, essere autenticamene “soldato di Cristo”, prestando così ossequio a quello che sono diventata nel momento in cui sono stata cresimata? Non è facile rispondere a tutti gli interrogativi sopra esposti. Ma occorre provarci perché l’unicità dell’essere umano non può scindersi con riguardo ad un aspetto così delicato. Invero, un dato costituisce la precondizione per un approccio corretto alle questioni. Un cristiano vive all’interno di un contesto sociale ove lavora e si relaziona e, se è vero che percorre un cammino personale, però, l’itinerario si costruisce in relazione con l’altro. In questo cammino nel lavoro, in famiglia, all’interno dei gruppi sociali ove opera un cristiano deve improntare il suo agire alla luce dei valori della sua religione. Questo significa essere cristiano. Ciò implica accoglienza e rispetto anche dei non cristiani e sforzo massimo per offrire un contributo etico alla società. Quindi una prima risposta può essere questa, per essere “un uomo d’amore” devo applicare il principio di uguaglianza fra tutte le fedi e fra tutte le etnie e cioè devo praticare la via del dialogo anche con il “diverso da me” perché per un cristiano la relazione autentica con l’altro è uno dei pilastri della sua fede. “Un uomo d’amore” sa dialogare perché il dialogo consente di combattere l’indifferenza verso la povertà, verso la miseria, verso gli ultimi. Un secondo aspetto da considerare riguarda il rapporto fra il cristiano e le regole statali. Qualcuno ha usato l’espressione “laicizzazione del cristianesimo”. In realtà, come ho già sopra evidenziato, la laicità è insita nel messaggio evangelico, come diceva Don Bosco: occorre essere buoni cristiani ed onesti cittadini e non si può essere cristiani autentici senza essere, nel contempo, onesti cittadini. A maggior ragione un cristiano che esercita una funzione pubblica deve guardare ai laici (a chi non crede, a chi appartiene ad altre religioni, a chi è indifferente ad ogni profilo spirituale) con uno sguardo scrupoloso, rivolto all’incontro utilizzando la lente di ingrandimento di quei valori evangelici dei quali egli è portatore. Al cristiano autentico, soprattutto nell’ambito lavorativo nel quale opera, non sono consentite “chiusure autoreferenziali”, ma deve “aprirsi” all’altro facendo il proprio dovere con assoluto scrupolo. Se il cristiano non fa il proprio dovere con scrupolo, umiltà, attenzione e disponibilità al confronto “con l’altro e verso l’altro”, non può dirsi cristiano autentico. Ma cosa significa essere cristiani e coniugare i valori di una fede autentica nel messaggio evangelico con lo svolgimento del proprio lavoro? Io mi sono data una risposta che chiaramente è declinata sulla mia professione (essere magistrato in una terra peculiare come quella siciliana). Ebbene io devo, in particolare, rendere un servizio giustizia rapido, efficace, essere sempre vigile per il rispetto del principio di uguaglianza fra tutti gli uomini ed individuare strumenti per la tutela degli ultimi, il tutto volto a creare un’uniformità nel trattamento fra situazioni analoghe, ancora una volta in piena attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Quindi “l’uomo d’amore”, è scrupoloso ed attento al rispetto delle regole nello svolgimento del suo lavoro. Inoltre, credo sia molto importante sottolineare che il messaggio evangelico pone l’accento sull’apertura di Gesù a tutti gli uomini, a prescindere dal loro essere credenti, peccatori, appartenenti ad altre religioni perché il messaggio d’amore è rivolto ad ogni creatura ed ecco che mi appaiono inconsistenti le obiezioni che pure qualcuno muove nel momento in cui si afferma che nelle professioni “l’essere cristiano” potrebbe pregiudicare l’attuazione del principio di uguaglianza rispetto ad esempio ai musulmani, agli induisti o agli ebrei. In realtà è esattamente il contrario, in quanto essere autenticamente testimoni del messaggio evangelico all’interno del proprio percorso lavorativo senza nessuna ostentazione del proprio credo, implica l’accoglienza ed il rispetto (e l’amore) per tutti a prescindere dalla loro formazione politica o religiosa. Un cristiano inteso come “colui che segue il messaggio di Gesù” si deve impegnare in ogni ambito professionale, sociale, politico per contribuire alla realizzazione della giustizia, della pace, della libertà e dei diritti di tutti gli uomini. E vado oltre. Un cristiano deve essere fiero della sua fede e pienamente consapevole dell’apporto che può dare a tutela dei valori volti alla promozione del benessere individuale di ciascuno. Il rispetto del principio di uguaglianza è, dunque, la precondizione attraverso la quale comprendere come un cristiano può effettivamente dare il suo contributo per “il salto etico” indispensabile per la realizzazione di un mondo migliore. Dobbiamo, inoltre, chiederci se sono sufficienti il rispetto del principio di uguaglianza, la capacità di dialogo, lo scrupolo nell’osservanza delle regole e l’umiltà nell’approccio relazionale per essere definiti “uomini d’amore” e, ad un tempo, buoni cristiani nel momento in cui svolgiamo la delicata professione di magistrato o, comunque, allorché si esercita un qualsiasi incarico pubblico. Come mi è capitato di dire più volte, sono affascinata dalla figura del beato Giudice Rosario Livatino perché in maniera limpida ha tracciato, ormai 40 anni fa, una sorta di impianto culturale del cristiano che esercita non solo il delicato compito del giudicare, ma che si relaziona, fra l’altro, in senso più ampio, con la gestione della cosa pubblica. Un approccio sobrio, rigoroso, coerente, efficace. Invero, se esiste, ed è valore fondamentale, l’autonomia fra Chiesa e Stato, va riconosciuto al cristiano il diritto di testimoniare, sempre nel sacrosanto rispetto del principio di laicità, i valori della sua religione nel contesto in cui opera e svolge la sua attività: questo Livatino l’ha fatto. Procediamo con alcuni esempi. Pensiamo ad una controversia civile che vede contrapposti un attore ed un convenuto che cercano, attraverso l’operato del giudice, la tutela dei loro diritti ed il magistrato che applica con scrupolo e rigore le norme del Codice civile, saprà studiare e leggere, con scrupolo, ogni carta di quel fascicolo processuale consapevole che dietro quelle pagine c’è una vicenda umana, una sofferenza, una disuguaglianza da colmare. Questa è un’operazione ermeneutica che ogni giudice (cristiano o non cristiano) deve compiere, ma un cristiano lo farà anche con un punto di vista peculiare che si ricollega al suo essere cristiano. E mi spiego, se un magistrato, che si dice cristiano, non studia con massima attenzione le carte processuali, se non è disponibile all’ascolto delle parti, se è sprezzante e si sente gonfio del suo potere, quel magistrato, oltre ad essere un pessimo magistrato, non è cristiano nel senso autentico del termine. Un cristiano guarda l’individuo cercando di percepire l’altro che ha di fronte come soggetto da rispettare, da tutelare, a prescindere dalla sua fede, dalla sua appartenenza etnica, dalla sua classe sociale. I problemi si complicano quando ci troviamo di fronte ad un reato. Un magistrato che si occupa di penale ogni giorno si confronta: “con un fatto umano sporco di terra” e deve cercare di dargli dignità giuridica. In ambito penale ci troviamo di fronte ad un uomo che ha violato la sfera di altri uomini, creando un danno ingiusto e, in alcuni casi, come accade per i reati di criminalità organizzata, seminando morte. Rispetto ad un reato da accertare, il magistrato autenticamente cristiano oltre allo studio scrupoloso delle carte ed al rispetto per tutte le parti processuali, saprà non assumere posizioni preconcette, saprà (specialmente se fa il pubblico ministero) tener conto anche degli elementi di prova a favore degli indagati, rifuggirà da ogni tentazione mass mediatica, non si sentirà “investito da una missione”, ma avrà sempre presente che, in base al principio di uguaglianza, deve ricercare la verità per ripristinare l’equilibrio che il reato stesso ha compromesso. Anche in questo caso, un magistrato che si dice cristiano e che pone al centro dello svolgimento della sua attività il proprio ego invece che il servizio per l’altro non può ritenersi autenticamente portatore, nel suo quotidiano, del messaggio di Gesù e, ad un tempo, non realizza quello che è il fine ultimo della giustizia penale e cioè ricostruire e ricomporre in chiave equilibratrice e rieducativa le conseguenze di una lesione di valori fondamentali. Al contrario, un magistrato non cristiano che si pone nello svolgimento della sua professione realizzando, in concreto, lo studio del fascicolo, il rispetto dell’altro, la sobrietà e l’umiltà nella consapevolezza di poter sbagliare, realizza in pieno il messaggio evangelico anche se, per ipotesi, non è battezzato. Ciò che mi pare assolutamente evidente è che in un momento storico come quello confuso nel quale viviamo, ove pare frantumarsi il barlume etico dell’uguaglianza dei diritti, dell’uguaglianza fra tutti i cittadini (a prescindere dalla loro fede o etnia), la fedeltà al Vangelo e cioè la coerenza del cristiano può davvero fare la differenza. Possiamo, dunque, affermare che, nel pieno e rigorosissimo rispetto del principio di laicità, un magistrato cristiano (come qualsiasi cristiano) per essere effettivamente coerente con il messaggio evangelico, non deve essere un ottuso e chiuso difensore di una cristianità fatta di apparenza, ma deve essere testimone, in ogni sfera esistenziale e quindi anche nello svolgimento del proprio lavoro, della parola di Gesù. Ed arriviamo al discorso sulla coerenza. Un cristiano, per essere “uomo d’amore”, deve essere coerente con i dettami del Vangelo e deve operare in una società pluralista, senza preclusioni all’apertura verso ogni soggetto con il quale si trovi ad interagire. Un cristiano non fa “guerre sante”, ma si apre al suo prossimo con disponibilità e coraggio mostrandosi coerente e mai autoreferenziale. Un cristiano non impone la sua religione, ma si deve mostrare portatore nel quotidiano di quei valori che non possono e non devono essere limitati alla sua sfera privata, ma devono illuminare ogni aspetto della sua vita, quindi anche quello lavorativo. Un cristiano, adempiendo con scrupolo ai propri doveri, si pone, nel rapporto con gli altri, anche come “testimone della sua fede”. Credo che se riuscissimo ad essere cristiani coerenti, se riuscissimo a mostrarci come autentici portatori dei valori che Gesù ha insegnato 2000 anni fa, sarebbe superata la crisi del cristianesimo che ci schiaccia.
Voglio concludere ricollegandomi all’esperienza professionale che mi caratterizza ormai da quasi un trentennio che è quella di magistrato che si occupa di criminalità organizzata e che, quindi, ha avuto ed ha contatti con i soggetti che definiamo collaboratori di giustizia e che sono di frequente l’emblema di un tentativo individuale di ricomporre, anche sotto il profilo spirituale, frammenti di un’esistenza consumata sotto l’usbergo dei disvalori delle mafie.
Nella mia esperienza ho potuto verificare che alcuni di questi uomini, pur non essendo religiosi in senso classico, avvertono nel profondo un bisogno di spiritualità al quale ancorarsi per “fare ammenda” del male causato. Non tutti ovviamente, ma alcuni, una volta avviato un autentico percorso collaborativo, hanno sentito il bisogno di compiere azioni positive nei confronti del prossimo come, ad esempio, prendersi cura dei bisognosi. In altri, specie dopo molti anni dell’avvio della collaborazione, ho notato una crescita etica ed una progressiva consapevolezza dei gravi crimini commessi. L’incontro con i familiari, ad esempio, di coloro che hanno ucciso, può definirsi come l’epifenomeno di un cammino di consapevolezza dal lato del collaboratore di giustizia e di autentico perdono da parte delle vittime. Perché la vittima, e cioè in molti casi i familiari dei soggetti sterminati dall’organizzazione mafiosa, attraversano anch’essi un travaglio del quale occorre tenere conto e con il quale misurarsi. Io cristiano, battezzato, cresimato, educato al concetto di perdono secondo il messaggio evangelico, devo confrontarmi con soggetti criminali che hanno ucciso mio padre, mio figlio, mio fratello. Confrontandomi con numerose di queste vittime, ho potuto comprendere che la prima fase è quella del dolore straziante, della rabbia, della disperazione, dell’odio nei confronti dell’assassino, al punto che tutta l’impalcatura esistenziale pare crollare. Ma con il tempo, almeno per alcuni, inizia un’altra fase e cioè la fase della consapevolezza nuova: quella della necessità di confrontarsi con il perdono. Ed un “uomo d’amore” dal perdono non può prescindere. Non è facile perdonare chi ti ha portato via gli affetti più grandi ma il cristiano autentico deve cimentarsi con la sfida del perdono. Per quella che è la mia esperienza, alcune vittime di mafia ci sono riuscite e quell’ incontro con i carnefici, adesso pentiti dei loro misfatti, si è rivelato salvifico per entrambi. In chiave di sintesi, credo di aver compreso, dopo quasi 35 anni di professione, che Gesù si mostra nel cammino spirituale, non necessariamente religioso, di ognuno di noi, proprio attraverso gli occhi di coloro che siamo chiamati a giudicare e nei confronti dei quali dobbiamo porci “sullo stesso piano”, senza preconcetti, senza condizionamenti di sorta, perché solo questo “angolo prospettico” consente di applicare la norma al caso concreto sostanziando i valori alti che il servizio giustizia deve realizzare.
Voglio concludere, ancora una volta, con il principio per me fondamentale di laicità dello Stato. La ricerca del bene, del giusto, la necessità della salvaguardia dei diritti di tutti è aspirazione di coloro che auspicano un mondo migliore a prescindere dal loro credere in Dio, dal loro credo religioso. Un cristiano autentico, per essere “uomo d’amore”, non deve mai dimenticarlo e deve agire per l’inclusione e per l’accettazione delle differenze. Invero, Gesù ci indica un metodo per la ricerca del giusto che può essere praticato da chiunque, a prescindere dal credo religioso praticato. Ed è il solo strumento per essere, autenticamente, “uomini d’amore”. Dovremmo comprendere che, in presenza di tutto il male che ci circonda, abbiamo una sola ricetta salvifica. Rispondere al male con il bene. Invero, se si risponde al male con il male lo nutriamo, lo fortifichiamo e lo rendiamo invincibile. Il che significa perdere ogni speranza. Se, invece, impariamo a rispondere al male con il bene noi lo depotenziamo fino ad annullarlo. Credo che questa sia la sola strada per vivere da “uomini d’amore”.
Intervento di Lia Sava al Meeting di Rimini 2024.
Immagine: Caspar David Friedrich, Due uomini contemplano la luna, olio su tela, 1825-30, Metropolitan Museum of Art, New York.
Radici e valore del codice di procedura civile
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti. - 2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti. - 3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo. - 4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice. - 5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei? - 6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti.
Ha ottantadue anni il codice di procedura civile, detto “del 1940”, ma in realtà entrato in vigore il 21 aprile 1942.
Il codice fu emanato in attuazione di una legge di delega approvata quasi un ventennio prima, la legge 30 dicembre 1923, n.2814[1].
Il primo tentativo di attuare la delega fu autorevolmente compiuto tra il 1924 e il 1926, nell’ambito della commissione per la riforma dei codici formata dal Ministro guardasigilli Aldo Oviglio[2].
Poiché i codici da riformare erano quattro, la commissione, presieduta dallo stesso guardasigilli, fu divisa in quattro sottocommissioni: la sottocommissione A (per il codice civile), presieduta da Vittorio Scialoja; la sottocommissione B (per il codice di commercio), presieduta da Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione; la sottocommissione C (per il codice di procedura civile), presieduta da Lodovico Mortara; la sottocommissione D (per il codice della marina mercantile), presieduta da Raffaele Perla, presidente del Consiglio di Stato.
La sottocommissione C aveva Giuseppe Chiovenda come vicepresidente e tra i componenti più autorevoli c’erano Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei, Federico Cammeo ed Enrico Redenti.
La prima riunione si tenne il 25 e 26 giugno 1924 (giorni terribili per l’accidentata e dolorosa storia del nostro giovane Paese, recentissimamente ingiuriato nei suoi più profondi valori dall’infame assassinio di Giacomo Matteotti) e registrò una sonora sconfitta dell’oralità chiovendiana, in favore della quale si erano schierati Calamandrei, Menestrina e Zanolla[3], ma non gli altri, compreso Carnelutti, il quale aveva invece proposto una soluzione di compromesso, fondata sul principio dell’immediatezza temperata[4].
Chiovenda, deluso, rassegnò immediatamente le sue «irrevocabili dimissioni» dalla vicepresidenza e dalla sottocommissione[5], che poi ritirò dopo che il guardasigilli, con missiva del 23 luglio, aveva ribadito la sua intenzione di respingerle[6].
Nel frattempo, però, Mortara aveva istituito un comitato ristretto con il compito di predisporre uno schema di progetto, nominando relatore Carnelutti.
Carnelutti lavorò indefessamente per mesi e alla fine del mese di maggio del 1925 licenziò un imponente progetto del nuovo processo di cognizione di 426 densissimi articoli, cui sarebbero seguiti, l’anno successivo, 293 articoli sul processo di esecuzione.
Il progetto di Carnelutti, redatto, «con mirabile diligenza, pari alla dottrina»[7], rifletteva una concezione del processo non derivante «né dalla scuola esegetica né da quella sistematica», ma, «tutta e soltanto dal pensiero» del suo autore; per questo provocò sconcerto nell’ambito della sottocommissione, in seno alla quale sorsero «discussioni che restarono veramente memorande per chi ebbe la fortuna di parteciparvi»[8].
Le discussioni, tuttavia, quanto più erano ‹‹memorande›› tanto più nuocevano alla speditezza dei lavori, sicché il progetto fu presentato al Ministro solo il 24 giugno 1926, quando ormai Aldo Oviglio era stato sostituito da Alfredo Rocco, il quale ne rimase talmente insoddisfatto da relegarlo nel più buio dei cassetti ministeriali, destinato a non più riaprirsi[9].
2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti.
Il secondo tentativo si ebbe nel 1932.
Il 20 luglio, Alfredo Rocco apprese, dal giornale che stava leggendo sulla sua scrivania di Via Arenula, la notizia di essersi dimesso[10]. Sullo scranno ministeriale salì Pietro de Francisci, allievo di Pietro Bonfante, a sua volta allievo di Vittorio Scialoja.
Esponente di primo piano del regime[11], il nuovo guardasigilli non era simpatico a Calamandrei, il quale tramanda un episodio, accaduto quando de Francisci aveva concluso l’esperienza ministeriale, raccontato da Codignola e asseritamente confermato da Gentile, secondo cui l’ex Ministro, rifiutatosi a causa dell’età e delle condizioni di salute di sottoporsi alle prove atletiche riservate ai gerarchi fascisti, sarebbe stato irriso da Starace in presenza degli altri gerarchi. Calamandrei commenta con disgustata ironia, non già il fatto che de Francisci aveva rifiutato di esibirsi nelle stucchevoli prove atletiche ideate da Starace, quali il salto delle baionette e quello del cerchio in fiamme, ma il fatto che l’ex Ministro della giustizia, rettore dell’Università di Roma e presidente dell’istituto di cultura fascista, non aveva saputo proferire alcuna parola di protesta per l’irrisione di Starace, non ostante lo «sconcio suon di risa» degli altri gerarchi[12].
De Francisci, storico del diritto romano, considerato, nel settore di sua competenza, un vero e proprio «rinnovatore»[13], in tre discorsi tenuti al Parlamento tra il 1933 e il 1934 illustrò le sue idee sul codice di procedura civile del futuro, le quali erano fondate su tre punti fondamentali: il rafforzamento dei poteri del giudice (sia sotto il profilo della direzione processuale che sotto il profilo delle iniziative istruttorie e decisorie); la responsabilizzazione delle parti (con la previsione di un sistema di sanzioni volte a dissuaderle dalla proposizione di domande temerarie, di eccezioni dilatorie e, in genere, di condotte contrarie alla buona fede processuale); l’eccezionalità dell’appello[14].
Per l’attuazione della delega, diversamente da Oviglio, che aveva istituito un’apposita sottocommissione di cui avevano fatto parte tutti i più importanti processualisti, de Francisci preferì rivolgersi ad un unico studioso, un legislatore solitario. La scelta, verosimilmente caldeggiata dall’ormai non più giovane ma sempre influente Vittorio Scialoja, cadde su un membro della scuola dell’anziano maestro: Enrico Redenti, discepolo di quel Vincenzo Simoncelli che di Scialoja era stato allievo, collega e genero[15].
La chiamata di de Francisci giunse a Redenti sul finire del 1932 e Redenti consegnò il suo progetto alla fine del 1934. Nel mese di ottobre di quell’anno, quando era giunto quasi alla fine del lavoro, scrisse che la novità saliente del venturo processo sarebbe consistita nella previsione che il giudice e le parti (evidentemente, prima di dar corso alla trattazione e all’istruzione, ma dopo aver veduto «le carte della causa») si mettessero seduti «intorno ad un tavolo» al fine di «sfrondare tutto quello che non serve», «cavare il nocciolo o il gariglio da ogni questione» e far emergere, «in molti casi, anche la verità dal metaforico pozzo»[16].
Peraltro, il Ministro de Francisci, ricevuta una copia del progetto, fece appena in tempo ad inviarla a Chiovenda con la preghiera di fargli avere il suo parere[17], prima di essere a sua volta “dimissionato”.
Agli inizi del 1935 a Via Arenula arrivò un altro storico (questa volta non di diritto romano ma di diritto comune), anch’egli professore all’Università di Roma (di cui de Francisci era stato nel frattempo nominato Rettore), nonché esponente del regime.
Anche Solmi, ça va san dire, era antipatico a Calamandrei, il quale, quattro anni dopo (il 23 luglio 1939), ne avrebbe salutato le dimissioni dicendo che il «grasso liberalone che si era messo a far lo squadrista e a metter la sua firma alle leggi razziste per il gusto di passare alla storia» era stato «scacciato via» senza che gli fossero dati «neanche gli otto giorni, come uno stalliere»[18].
Solmi pubblicò il progetto già redatto da Redenti durante il Ministero de Francisci[19], ma, prima, nominò una nuova commissione (di cui faceva parte lo stesso Redenti) con il compito di redigere un nuovo progetto.
Chiunque lesse i 745 articoli del corposo testo legislativo, dunque, sapeva di leggere un testo già vecchio, destinato ad essere superato dai lavori della nuova commissione ministeriale[20].
3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo
Il progetto preliminare redatto dalla Commissione nominata da Solmi[21] – siamo al terzo tentativo di attuare la legge di delega – fu pubblicato al principio dell’estate del 1937, anno che aveva già visto impoverirsi la scienza processuale nel mese di gennaio, per essere venuto a mancare Mortara[22], e che l’avrebbe vista impoverirsi ulteriormente nel mese di novembre, quando sarebbe mancato anche Chiovenda[23].
Il progetto preliminare Solmi, perseguendo l’intento di attuare la c.d. concezione pubblicistica del processo, presentava una marcata connotazione autoritaristica, configurando decisamente il giudizio civile quale giudizio inquisitorio ad impulso d’ufficio[24].
Il Ministro chiese alle Università di esprimere il loro parere. La Regia Università di Firenze – ovverosia, Piero Calamandrei – non mancò di far sentire la sua voce fermamente critica.
Calamandrei osservò che la soppressione del principio dispositivo avrebbe avuto effetti sciagurati, poiché esso principio rappresentava la proiezione sul piano processuale del principio sostanziale della disponibilità dei diritti soggettivi; pertanto, la sua totale sostituzione con il «principio d’ufficialità» avrebbe significato, in sostanza, «abolire il diritto privato», «trasformare in diritto pubblico tutto quanto il diritto civile», e, in definitiva, fare come «quei regimi in cui si è voluto totalmente e consapevolmente abolire la proprietà privata ed in generale il diritto soggettivo individuale»[25].
Il parere di Calamandrei – particolarmente per il riferimento al codice sovietico – lasciò il segno, poiché il «concittadino di Farinata»[26], che aveva nella scrittura «un dono che depongono gli Dei nella culla»[27], era sapientemente riuscito a toccare il nervo scoperto del regime: l’ossessione per la ineluttabilità delle lotte di classe preconizzate da Marx, che sarebbe stata alla base di tutti gli obiettivi di politica legislativa di diritto privato del regime: dall’unificazione dei codici, alla “commercializzazione” della disciplina civilistica tradizionale dei contratti e delle obbligazioni, alla sostituzione della nozione di commerciante con quella generica e totalizzante di imprenditore.
Solmi fece dunque macchina indietro[28] e, nel gennaio del 1939, pubblicò un progetto definitivo[29] (quello che, secondo Redenti, sarebbe poi divenuto il «codice vigente»[30]) in cui era stato raccolto il suggerimento di Calamandrei di introdurre «una netta distinzione tra il gruppo di controversie su rapporti indisponibili o intransigibili … e quello di tutte le altre controversie su rapporti di mero diritto privato», facendo in modo che, solo per il primo il principio inquisitorio potesse essere «rigidamente attuato», mentre, per il secondo, i poteri istruttori del giudice restassero «necessariamente» più limitati[31].
4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice
Peraltro, il progetto definitivo Solmi non divenne il nuovo codice, perché nel luglio del 1939, come si è detto, anche Solmi fu “dimissionato”. Al Ministero di grazia e giustizia fu chiamato Dino Grandi, il quale, essendo dotato di uno spessore politico ben più rilevante di quello dei predecessori, capì che, se si fosse veramente voluto fare il nuovo codice di procedura civile – siamo al quarto tentativo – non solo sarebbe occorso riunire in una virtuosa alleanza tutti e tre i più autorevoli processualisti (Carnelutti, Calamandrei, Redenti), ma sarebbe stato necessario altresì metterli dinanzi ad un obiettivo ben determinato e, per loro, indisponibile.
In altri termini, non si poteva chiedere ai tre grandi di preparare il codice da capo perché ciò, non solo avrebbe prolungato i tempi, ma avrebbe probabilmente suscitato discussioni che sarebbero state non meno memorande di quelle che, tredici anni prima, avevano condannato all’insuccesso il tentativo di Carnelutti e al fallimento il Ministero Rocco.
Facendo di necessità virtù, bisognava invece lavorare su quello che c’era. Quello che c’era era il progetto definitivo Solmi.
Pur nominando una nuova commissione, formata – sembra – da nove persone[32], Grandi si affidò ad un comitato ristretto: nell’ottobre del 1939 chiamò a sé in un incontro riservato Calamandrei, a cui era legato da rapporti di reciproca stima e finanche di amicizia, e gli disse – sono parole dello stesso Calamandrei – che «un suo incaricato, Conforti, avrebbe rielaborato il progetto Solmi, avvalendosi delle critiche mie, di Carnelutti e di Redenti»[33].
In altre e più chiare parole, il progetto Solmi, dopo essere stato diligentemente riordinato da Leopoldo Conforti (che, quale magistrato della procura generale presso la Cassazione, si occupava prevalentemente di diritto penale!), avrebbe potuto essere eventualmente interpolato, integrato e persino rielaborato sulla base delle osservazioni dei tre processualisti.
I lavori, iniziati sullo scorcio del 1939, si svolsero speditamente e il nuovo codice fu pubblicato il 28 ottobre 1940, per entrare in vigore, dopo una lunga vacatio, il 21 aprile 1942, accompagnato dalla celeberrima Relazione, scritta – come tutti sanno – da Calamandrei.
5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei?
In una bellissima lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, Calamandrei, con la solita incisività della sua inimitabile prosa, nel difendere il codice da chi lo apostrofava come “fascista”, avrebbe detto che esso costituiva l’eredità di un cinquantennio di studi[34].
Un’affermazione di difesa, formulata da colui che Salvatore Satta avrebbe ammirato come «uomo d’azione» e «giurista martire»[35]; e tuttavia un’affermazione difficilmente contestabile, ove si pensi a tutti i tentativi di riforma susseguitisi dalla fine della prima guerra mondiale, che avevano visto impegnato il gotha della processualcivilistica italiana e che erano sfociati nei progetti di Chiovenda, di Mortara, di Carnelutti e di Redenti, dei quali, non ostante il contesto autoritario e illiberale in cui era venuta maturando, non poteva non essere restata traccia nella nuova opera legislativa.
Ma chi era il vero “padre” del nuovo codice?
Se Redenti e Carnelutti non esitarono, il primo a prenderne le distanze[36], il secondo a proclamare la paternità delle idee e dei principi in esso recepiti[37], Calamandrei si schermì, affermando che il nuovo codice prendeva a base gli insegnamenti di Chiovenda[38].
A tale affermazione lo studioso fiorentino diede sostanza, citando sette volte il Maestro di Premosello nella Relazione, così consentendo il radicamento della diffusa ed autorevole opinione secondo cui il “codice del 1940” sarebbe il codice di Chiovenda[39].
In realtà, lo stesso Calamandrei era ben consapevole che più che degli altri grandi processualisti, il “codice del 1940” era il suo codice.
Non tanto per essere riuscito – sapientemente eludendo la ricezione nel testo normativo degli eccessi autoritaristici del progetto preliminare Solmi – nell’intento di mantenere la struttura tradizionale del processo civile quale processo dispositivo ad impulso di parte (artt.99, 112, 115, 306 ss. c.p.c.), limitando il modello inquisitorio ad un novero circoscritto di procedimenti dettati per la tutela di particolari situazioni soggettive, deputate alla protezione di interessi superiori ed indisponibili[40], nonché di conservare il principio della procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri del giudice, dinanzi alla possibilità di ampliarne a dismisura la discrezionalità e di consentirne persino l’arbitrio[41]; ma anche per aver vissuto, con consapevolezza e dignità, il dramma morale dello scienziato che si pone al servizio di un regime illiberale per dare ai suoi concittadini un codice migliore o, comunque, per risparmiargliene uno peggiore.
6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
Nel risolvere in senso positivo l’interrogativo etico se dovesse o meno rendere la collaborazione richiestagli da un governo che aveva ingiuriato i valori della libertà e della democrazia, quando essa collaborazione sarebbe potuta servire al miglioramento del Paese, Calamandrei mostrò di aver recepito le idee tramandategli dai suoi due grandi maestri in ordine alla missione del giurista.
Il 16 gennaio 1920, nel proludere dalla cattedra della facoltà giuridica di Siena[42], egli aveva ricordato, con commozione, la prolusione che ventidue anni prima aveva tenuto, dalla stessa cattedra, il suo «indimenticabile maestro», Carlo Lessona.
In quella circostanza Lessona, nell’indicare L’indirizzo scientifico della procedura civile, aveva posto in luce la posizione di grande responsabilità della scienza processuale, la quale avrebbe dovuto fondarsi sul «metodo storico, che ci rivela la evoluzione e le leggi del pensiero giuridico applicato al giudizio civile» e sull’analisi della legislazione comparata, per guidare il legislatore all’adozione, «sull’esempio degli altri Stati», dei «principi giuridici che vi fecero buona prova». Lessona aveva quindi concluso che egli studiava «pel vantaggio della Scienza e della Patria»[43].
Il riconoscimento alla scienza giuridica del ruolo di motore della crescita morale e civile del Paese si sarebbe ritrovato, di lì a qualche anno, anche negli scritti di Chiovenda, nei quali sarebbe stato espresso con le stesse parole utilizzate da Lessona.
Lo studioso di Premosello, infatti, aveva chiuso la celeberrima Prefazione alla terza edizione dei Principii del 1923, con l’avvertenza che quel lavoro trovava il suo ultimo fondamento nel «desiderio vivissimo di servire con tutte le [sue] forze la [sua] Scienza e la [sua] Patria»[44].
La comparazione tra la Prolusione lessoniana del 1898 e la Prefazione chiovendiana del 1923 consente di apprezzare che i due esponenti di scuole antagoniste, pur nell’ambito di contrapposte concezioni metodologico-scientifiche, avevano avuto tuttavia la medesima visione della scienza giuridica quale strumento indispensabile della crescita morale della Nazione e, dunque, l’identica sensibilità per la delicatezza e la responsabilità del ruolo del giurista, chiamato a servire non solo la Scienza ma anche la Patria.
L’eredità ricevuta dai suoi grandi maestri, fondata sul comune riconoscimento alla riflessione giuridica della dignità di strumento del progresso civile e politico della Nazione e sulla comune attribuzione al giurista del ruolo di propulsore della coscienza sociale nella direzione di quel progresso, non soltanto era stata posta da Calamandrei a presupposto di quella osmosi tra i due insegnamenti e i due metodi che ritroviamo alla base della sua opera più importante, il Trattato in due volumi su La Cassazione civile[45]; ma costituì anche il fondamento morale della scelta di collaborare in maniera decisiva ai lavori della commissione Grandi, impegnandosi in misura superiore agli altri studiosi nell’ambito del comitato ristretto, al fine di dar vita ad una legge che non fosse l’espressione di un regime, ma, appunto, delle diverse generazioni di studi che avevano fatto l’età aurea della scienza processuale italiana[46].
Il codice del 1940, sorto dal «desiderio vivissimo di servire la Scienza e la Patria», nel bene nel male (tra recriminazioni talora stucchevoli e progetti di cambiamento talora improponibili), governa ancora oggi le nostre controversie civili.
Indebolito certo, ma non ancora, per fortuna, travolto da propositi di riforma male intesi e peggio attuati.
[1] Legge 30 dicembre 1923, n. 2814: Delega al Governo per emendamenti al codice civile e per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile in occasione della unificazione legislativa con le nuove Provincie, in G.U. 8 gennaio 1924, n.6.
[2] Aldo Oviglio, dapprima membro del partito radicale, poi militante nelle file dei nazionalisti, infine “fascista di maniera” (così, citando una frase attribuita al prefetto di Bologna, F. Conti, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, vol. 80, 2014), pur giustificando inizialmente le azioni squadriste, recuperò dignità umana e politica indignandosi per il delitto Matteotti e facendosi espellere dal partito per aver contrastato in sede parlamentare un disegno di legge lesivo dell’indipendenza della magistratura. Fu Ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia nel primo governo Mussolini, dall’indomani della marcia su Roma al 5 gennaio 1925.
[3] G. Tarello, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, III, 1, 1973, 766 ss.
[4] F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi - La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 264.
[5] La decisione, manifestata oralmente all’esito della deludente seduta del 26 giugno 1924, fu poi formalizzata in una lettera del 2 luglio successivo, che Cipriani ha rinvenuto tra le Carte di Chiovenda a Premosello (cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 265, nota 23).
[6] Le dimissioni di Chiovenda, dapprima reiterate con lettera dell’8 luglio, furono revocate qualche settimana più tardi, dopo che il Ministro Oviglio aveva ribadito la sua intenzione di respingerle con due missive del 4 e del 23 luglio (cfr. F. Cipriani, ult. cit.).
[7] Così, nella veste di presidente della sottocommissione C, L. Mortara, Relazione al Ministro, in Commissione reale per la riforma dei codici. Sottocommissione C, Codice di procedura civile, Progetto, Roma, 1926, III-IV.
[8] Così P. Calamandrei, Note introduttive allo studio del progetto Carnelutti (1928), ora in Opere giuridiche, cit., I, 187 ss., part.197.
[9] Nel 1936 Mortara ci avrebbe informato che il progetto, «conosciuto sotto il nome autorevole del Carnelutti», era stato posto «in disparte» dal guardasigilli Alfredo Rocco (cfr. (L. Mortara), Recensione a Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile, in Giur. it., 1936, IV, 110). L’anno successivo Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione e già presidente della sottocommissione B, avrebbe, inoltre, rivelato che lo stesso Rocco, evidentemente insoddisfatto del progetto presentatogli, si era posto personalmente all’opera per scrivere un nuovo codice di procedura civile «omogeneo, italiano, fascista» (cfr. M. D’Amelio, Codice di procedura civile. Progetto del Ministro guardasigilli Alfredo Rocco, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 3).
[10] A. Barbera, Nazione e Stato in Alfredo Rocco, Andria, 2001, 99.
[11] Sebbene de Francisci fosse fedelissimo di Mussolini, va tuttavia ricordato che la sua dottrina sarebbe stata riconosciuta e onorata anche in epoca post-fascista: nel 1956 gli sarebbero stati consegnati i quattro volumi degli Studi in onore, con le adesioni, tra gli altri, di Carnelutti e Redenti; non avrebbe aderito, invece, Calamandrei.
[12] P. Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, I, Firenze, 1982, 57.
[13] S. Riccobono, Studi in onore di Pietro de Francisci, I, Milano, 1956, VIII.
[14] Dei discorsi tenuti da de Francisci alla Camera e al Senato tra il 1933 e il 1934 ci informa F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti (e alle radici del codice di procedura civile) (2005 con postilla 2006), in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 347-348.
[15] Redenti si laureò a Roma con Vicenzo Simoncelli con una tesi su I magistrati del lavoro. Simoncelli, già allievo di Vittorio Scialoja, ne divenne il genero, sposandone la figlia Giulia (cfr. G. Chiovenda, Commemorazione di Vincenzo Simoncelli, letta nell’Aula Magna della R. Università di Roma il 14 febbraio 1918).
[16] Così E. Redenti, Sul nuovo progetto del codice di procedura civile, in Foro it., 1934, IV, 181. Pur nella forma enfatica dell’esposizione (che era figlia dei tempi e che ha indotto molti studiosi moderni – a cominciare da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 354 – a ritenere che il legislatore si muovesse nel quadro di una concezione autoritaria del processo civile che non prometteva nulla di buono per i diritti e le facoltà delle parti), la comunicazione di Redenti esprimeva un’esigenza reale, ancora oggi avvertita come attualissima: l’esigenza che il giudice arrivi alla trattazione della causa, adeguatamente informato sugli esatti termini della stessa, al fine di potere esercitare con proficua consapevolezza e auspicabile fruttuosità i poteri direttivi, istruttori, decisori e, prima ancora, conciliativi, non semplicemente formulando alle parti l’auspicio di mettersi d’accordo ma ponendole dinanzi ad un’ipotesi concreta di soluzione della controversia fondata su una prognosi allo stato degli atti, tenendo conto dell’effettivo thema decidendum e dello specifico thema probandum e, quindi, del (pur vago) fumus di fondatezza o infondatezza delle domande e delle relative eccezioni. Ciò che, a sua volta, presuppone, ovviamente, da un lato, che il giudice faccia uno studio preventivo delle carte di causa e, dall’altro, che al momento dell’inizio della trattazione in udienza, le parti abbiano già detto tutto, sia sul piano assertivo che sul piano istruttorio, nell’ambito di una discovery già adeguatamente compiuta.
[17] La circostanza risulta da una lettera del 2 febbraio 1935 del nuovo Ministro Arrigo Solmi allo stesso studioso di Premosello, rinvenuta da Cipriani tra le Carte Chiovenda e pubblicata da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 355.
[18] P. Calamandrei, Diario, I, 1939-1941, Roma, 2015, 62.
[19] Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori per la riforma del codice di procedura civile. Schema di progetto del libro primo, Roma, 1936.
[20] Sotto il profilo strutturale, i 745 articoli del progetto Redenti non apparivano particolarmente innovativi: era previsto che, dopo gli atti introduttivi, le parti si ritrovassero dinanzi al giudice in una «udienza preparatoria» (peraltro fissata dal presidente con rescritto, e non individuata dall’attore con la citazione), conclusa la quale, se non si fosse addivenuti alla conciliazione, il presidente, sull’accordo delle parti, avrebbe fatto proseguire la causa dinanzi al giudice istruttore che, all’esito dell’assunzione delle prove, l’avrebbe rimessa al collegio. In caso di disaccordo, invece, le parti sarebbero state rimesse immediatamente al collegio per la trattazione delle questioni insorte, che sarebbero state decise con sentenza parziale, impugnabile solo con quella definitiva e previa riserva.
Sotto il profilo funzionale, invece, le novità erano molte giacché, nella prospettiva del rafforzamento dei poteri del giudice e della responsabilizzazione delle parti, era stabilito un sistema di preclusioni che impediva, in linea di principio, la modificazione delle conclusioni o la produzione di nuovi documenti; pertanto all’udienza preparatoria si arrivava con una discovery piena sia dal lato assertivo che dal lato istruttorio e con un thema decidendum e un thema probandum già sostanzialmente cristallizzati.
Il quadro era completato da un giudizio di impugnazione che si caratterizzava per un, piuttosto rigido, divieto di ius novorum, conformemente all’idea originariamente espressa da de Francisci di rendere l’appello un mezzo eccezionale, comunque configurato non come novum iudicium ma come mera revisio prioris instantiae.
[21] La Commissione, presieduta dallo stesso Solmi, era composta da tre magistrati (Gaetano Azzariti, Gaetano Cosentino, Giusepe Lampis) e da un avvocato (Guido Dallari) cui si aggiungeva, come detto, Redenti (unico professore).
[22] Lo studioso mantovano morì nelle prime ore del 1937, circondato dall’affetto dei familiari. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti (F. Carnelutti, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 103) che Calamandrei (P. Calamandrei, Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156) ma, in primis, proprio quel Chiovenda (G. Chiovenda, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 102) che era stato il rivale di una vita, il quale, a dispetto dell’usuale lenta meditazione con cui accompagnava l’uscita dei suoi studi, scrisse l’indimenticabile necrologio per Mortara in pochissimi giorni e lo declamò dalla cattedra l’11 gennaio 1937, alla ripresa delle lezioni dopo le vacanze natalizie.
[23] Lo studioso di Premosello morì il 7 novembre 1937. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti che Calamandrei nei memorabili necrologi pubblicati l’uno di seguito all’altro sulla Processuale (F. Carnelutti, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 297 ss.; P. Calamandrei, Il nostro Maestro (Ricordo di Giuseppe Chiovenda), in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 301 ss.) ed avrebbe avuto, sempre, negli anni, l’imperituro affetto e la commovente devozione tanto dei suoi allievi, quanto degli allievi degli allievi. Peraltro, il regime dell’epoca (che, nell’Università di Roma, attraverso il rettore Pietro de Francisci, aveva uno dei suoi esponenti più rappresentativi) non solo omise di onorarlo, ma non si peritò di ferire i suoi familiari nel momento del dolore, negando loro il permesso di svolgere la cerimonia funebre all’interno dell’ateneo. La circostanza non deve meravigliare, giacché Chiovenda, pur provenendo dalla stessa scuola di de Francisci, ne aveva preso abbondantemente le distanze e, sul piano politico, era uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce nel 1925. Ma l’immagine, dipinta con la consueta incisività da Calamandrei (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937- 5 novembre 1947), in Riv. dir. proc., 1947, I, 169 ss., part.171), della salma che si avviava verso il camposanto, seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, dopo che il rettore fascista non aveva permesso che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università per ricevere i tradizionali onori funebri, restituisce al “nostro Maestro” un onore ancora più grande, quale persona che aveva camminato sulla via della scienza in piena dignità e libertà morale.
[24] Secondo F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 361, il progetto preliminare Solmi costituiva il «trionfo dell’autoritarismo processuale». Per V. Andrioli e G.A. Micheli, Riforma del codice di procedura civile, in Ann. dir. comp., 1946, 209, si trattava addirittura di un progetto «poliziesco» perché non solo prevedeva il rafforzamento dei poteri d’impulso, dispositivi ed istruttori del giudice a discapito delle facoltà delle parti, soggette ad un rigido sistema di preclusioni, ma anche, a carico di queste e dei difensori, pesanti sanzioni pecuniarie, nonché l’abolizione dell’azione civile contro i giudici e la sostanziale impraticabilità della ricusazione.
[25] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, Relazione approvata dalla Facoltà di giurisprudenza della R. Università di Firenze nella seduta del 28 luglio 1937, ora in Opere giuridiche, cit., I, 295 ss.
[26] Così S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, Discorso commemorativo letto nell’aula magna dell’Università di Firenze il 30 aprile 1967, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 401 ss., part. 401 e 410.
[27] Così E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 2.
[28] G. Monteleone, L’apporto di Piero Calamandrei al progetto definitivo Solmi del codice di procedura civile, in Giust. proc. civ., 2011, 2, 429 ss.
[29] Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile. Progetto definitivo e relazione del guardasigilli on. Solmi, Roma, 1939.
[30] E. Redenti, Sul nuovo progetto di codice di procedura civile (1962), in Scritti e discorsi giuridici di un mezzo secolo, II, Milano, 1962, 731 ss., part.757.
[31] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 310.
[32] Cfr., al riguardo, G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro. Calamandrei, Grandi e il nuovo codice, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), a cura di Guido Alpa, Silvia Calamandrei e Francesco Marullo di Condojanni), Bologna, 2018, 125 ss..
[33] V. G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro, ecc., cit., 131: Calamandrei avrebbe rilasciato queste dichiarazioni nella deposizione resa il 27 novembre 1947 dinanzi alla Corte d’assise speciale di Roma.
[34] P. Calamandrei, Lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, in Lettere, Firenze, 1968, II, 446 ss., part. 450.
[35] S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, cit..
[36] Nelle osservazioni inviate al Ministero il 12 agosto 1940 (citate da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 369) Redenti scrisse di essere stato contrario ad alcune scelte «totissimis viribus».
[37] F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, V.
[38] P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Padova, 1941.
[39] V. M. Taruffo, Calamandrei e le riforme del processo civile, in Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano, 1990, 167 ss.
[40] Anche in questi procedimenti, che la dottrina avrebbe poi classificato nella categoria unitaria dei processi a contenuto oggettivo (cfr., sul tema, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) non si sarebbe rinunciato, peraltro, alla tecnica processuale dell’iniziativa di parte, seppur temperata dall’allargamento della categoria dei legittimati a proporre la domanda o dal conferimento del diritto di azione al pubblico Ministero, nonché dalla limitazione (ma mai dalla completa disapplicazione) dei principi della disponibilità delle prove e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Se non erro, le ipotesi di processo officioso puro storicamente conosciute dal nostro ordinamento sono state tre: quella prevista dall’art.6 legge fall. in ordine all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento; quella prevista dall’art.8 della legge sull’adozione dei minori in ordine alla dichiarazione di adottabilità; quella prevista dall’art.29 della legge n. 1766 del 1927 in tema di promozione dei giudizi dinanzi ai commissari per gli usi civici. E di queste tre, le prime due (l’art.6 legge fall., nella sua formulazione originaria, è stato sostituito dall’art.4 del d.lgs. n.5 del 2006; l’art.8 legge sull’adozione legittimante, nel suo testo iniziale, è stato sostituito dall’art.8 della legge n.149 del 2001) sono state poi eliminate.
[41] Tra i punti in cui il nuovo codice si differenzia nettamente dalla concezione calamandreiana vi è quello, importantissimo, del ricorso e del giudizio di cassazione: il pensiero di Calamandrei, lucidamente esposto nel grande trattato del 1920, che, da costituente, egli avrebbe avuto modo di contribuire a scolpire nel monistico art. 111 della Costituzione (ove la violazione di legge sarebbe stata individuata come unico motivo di ricorso), nel codice di procedura civile del 1940 sarebbe stato sconfessato dal pluralista art. 360, che non solo avrebbe aggiunto alla violazione di legge la diversa fattispecie della falsa applicazione, ma avrebbe anche aperto al sindacato in cassazione degli errores in procedendo, nonché, recependo prassi giurisprudenziali sviluppatesi nel vigore del vecchio codice – ma da Calamandrei fermamente contestate –, al controllo, ancor più penetrante, della motivazione.
[42] P. Calamandrei, L’avvocatura e la riforma del processo civile (1920), ora in Opere giuridiche, II, 12 ss..
[43] C. Lessona, L’indirizzo scientifico della procedura civile, in Scritti minori, S. Maria Capua Vetere, 1911, 279 ss., part. 287-297.
[44] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Terza ed., Napoli, 1923, XLIII-1328, part. XXIV.
[45] Sul punto ci si permette di rinviare alle osservazioni svolte nel nostro Rileggendo la Prefazione a La Cassazione civile: Calamandrei «allievo di due maestri», in Riv. dir. proc., 2020, 3, 1156 ss., part. 1172-1173.
[46] Per un più approfondito esame di tali tematiche – e, più in generale, per una analisi (attraverso il racconto delle opere, delle gesta e della vita dei protagonisti) di quella che è stata autorevolmente definita (A. Proto Pisani, Il processo civile di cognizione a trent’anni dal codice, in Riv. dir. proc., 1972, 37; C. Consolo, Il nuovo codice di procedura civile, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), cit., 229) l’età d’oro della scienza processuale italiana – ci si permette di rinviare al nostro I processualisti dell’età aurea – romantici, martiri ed eroi della procedura civile, Bari, 2021.
Gli elementi costitutivi della condotta associativa del reato di cui all’art. 416-bis c.p.
di Giovanni Ariolli
Sommario: 1. Premessa – 2. L’associazione mafiosa e i sodalizi di nuova emersione – 3. Il fenomeno dell’insorgenza di gruppi concorrenti o a soggettività differente – 4. La condotta di partecipazione – 5. Conclusioni.
1. Premessa.
È noto che la fattispecie associativa delineata dall'art. 416-bis c.p. è stata introdotta, nel sistema dei reati associativi, dalla legge Rognoni-La Torre n. 646 del 1982 per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà più "complesse" delle ordinarie associazioni criminali, in quanto storicamente dedite alla sopraffazione di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica[1].
Alla base dell’intervento normativo vi è stata anche l’esigenza, diffusamente avvertita nella società civile, di evidenziare il particolare disvalore della criminalità mafiosa, quale fenomeno socialmente dannoso a diversi livelli, tanto che in dottrina si è subito evidenziata l’attitudine plurioffensiva della fattispecie, capace di minacciare “oltre l’ordine democratico e l’ordine pubblico, anche le condizioni che assicurano la libertà di mercato e di iniziativa economica”[2].
Il tutto al fine di contrastare quella che è stata definita “una ricerca di dominio e di conquista illegale e violenta di spazi di potere reale” da parte delle associazioni di stampo mafioso, il cui operare, col tempo, si è andato affinando, con il ricorso all’uso di meccanismi sofisticati, ma non per questo meno dannosi e pericolosi[3].
È un dato incontestato, infatti, che le mafie tendono all’arricchimento non soltanto mediante atti strettamente delittuosi (estorsioni, usura, traffico di stupefacenti, ecc.), ma anche attraverso il reimpiego del denaro “sporco” in attività economico-produttive formalmente lecite, servendosi di imprese legate a doppio filo alla criminalità organizzata ovvero di imprenditori collusi che si prestano a riciclare denaro tramite reati tributari, ottenendo significativi vantaggi fiscali che altro non sono se non vere e proprie evasioni.
Il volto imprenditoriale della nuova mafia ha indotto le mafie “storiche” ad espandere la propria area di influenza anche al di fuori dei territori di riferimento, sino a spingersi in altre Regioni d’Italia e financo in altri Stati.
L’attività di penetrazione e di controllo di settori sempre più vasti dell’economia attraverso la commissione di delitti cd. lucro genetici rivela il volto nuovo delle associazioni di stampo mafioso, ormai lontane dalla realizzazione di quei reati a ristretta oggettività giuridica attraverso cui l’organizzazione ha pure conseguito la fama criminale[4].
L’efficace opera di repressione svolta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine ha poi determinato la comparsa, in territori storicamente caratterizzati dalla presenza di consessi mafiosi tradizionali, di nuove realtà criminali che, avvalendosi anche del contributo di chi in quei sodalizi abbia rivestito ruoli primari, tendono a ripeterne le gesta, perseguendo gli stessi obiettivi di illecito arricchimento.
Sempre più insistente, poi, è la presenza di organizzazioni straniere, anche con spiccata vocazione a intessere proficue relazioni internazionali, che, in virtù dei collegamenti con le organizzazioni criminali del Paese di provenienza, risultano coinvolte in una serie variegata di reati (dal traffico di droga al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dall’intermediazione illecita nella mano d’opera allo sfruttamento della prostituzione, al traffico di armi e di rifiuti), tanto da creare anche delle sinergie con le mafie tradizionali.
Sino ad arrivare alla comparsa di nuovi sodalizi che si prefiggono sia di operare con la metodologia propria delle organizzazioni tradizionali sia di inquinare il tessuto economico-sociale mediante forme di pressione e di condizionamento sulle amministrazioni pubbliche per accaparrarsi appalti o lucrose commesse pubbliche.
Un mosaico variegato di presenze organizzate, dunque, che ha richiamato la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi, per un verso, su come intendere i requisiti costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. in presenza di associazioni differenti da quelle tradizionali e, per altro verso, a definire la condotta partecipativa, al fine di evitarne dilatazioni, distinguendola da quella del concorrente esterno ovvero da chi assume la veste di connivente (si pensi ai diversi rapporti che possono instaurarsi tra l’imprenditore e l’associazione criminale).
Con la presente relazione, senza pretese di esaustività, ci si soffermerà sui rapporti tra il delitto in esame e le nuove forme di manifestazione della criminalità organizzata, nonché sull’individuazione degli elementi identificativi della condotta punibile, tenendo conto dei temi di intervento affidati agli altri contributi al fine di evitare ridondanti sovrapposizioni.
Infine, a distanza ormai di oltre quarant’anni dall’introduzione della fattispecie in commento, si affronterà il tema, anch’esso dibattuto, della persistente idoneità, alla stregua dell’attuale formulazione, della fattispecie di associazione di stampo mafioso a reprimere una criminalità organizzata che non solo ha assunto veste transnazionale, ma persegue le finalità illecite di arricchimento attraverso metodiche differenti[5].
2. L’associazione mafiosa e i sodalizi di nuova emersione.
Come in premessa osservato, dalle forme “tradizionali” che caratterizzano le mafie classiche storicamente insediate al Sud Italia, si è nel tempo assistito alla comparsa di nuove realtà che nascono per filiazione da associazioni radicate in tali contesti territoriali (con cui mantengono un collegamento ovvero da cui poi si distaccano in virtù della rivendicazione di una propria autonomia), ovvero da associazioni localmente denominate che, pur non essendo riconducibili a quelle tradizionali, ne riproducono, in tutto o in parte, gli stessi schemi, fino ad arrivare a neo formazioni di tipo politico-affaristico-criminale che si propongono di esercitare forme di condizionamento della cosa pubblica al fine di conseguire appalti o commesse.
Il legislatore del 1982, chiamato a definire i connotati strutturali e finalistici della nuova fattispecie, non si è limitato a "registrare" realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la 'ndrangheta, la camorra e la "Sacra corona unita", da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo - particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio e "fama" criminale da "spendere" come arma di pressione nei confronti dei consociati, ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire "parallelo", destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni, anche straniere, che, malgrado prive di un nomen e di una "storia" criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note (significativa al riguardo è anche la successiva modifica della rubrica della fattispecie in «Associazioni di tipo mafioso anche straniere» a seguito del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modif. nella L. 24 luglio 2008, n. 125).
L'adattamento di tale fattispecie a manifestazioni dinamiche delle condotte associative che si sono espresse attraverso (a) la delocalizzazione delle mafie storiche fuori dai territori di origine, (b) la emersione di mafie nuove, (c) la diffusione di mafie a base etnica ha portato la giurisprudenza a diversi processi di rielaborazione che, tuttavia, non devono condurre né nella dispersione della funzione di tutela anticipata che connota il reato associativo, né - di contro - ad attenuare il rigore probatorio nella dimostrazione del connotato essenziale degli aggregati mafiosi, ovvero la (pre)esistenza della forza di intimidazione.
Tuttavia, con riferimento alle finalità perseguite gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale - tipico di tutte le associazioni per delinquere – che può comprendere delitti di diversa natura (estorsioni, usura, omicidi, ecc.) oppure essere volto alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, all'impedimento o all'ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o a procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali, ovvero financo allo svolgimento di attività in sé lecite, come l'acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici.
Una pluralità di finalità tanto ampie che mal si concilia con l'individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di "tipo mafioso".
Deve ritenersi, invece, che il nucleo della fattispecie incriminatrice si collochi nel terzo comma dell'art. 416-bis c.p., laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell'associazione mafiosa - in sostanza, quelle finalità che si qualificano tali solo se c'è uno specifico "metodo" che le alimenta - delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini, indipendentemente dal loci ove detti sodalizi risultano costituiti e operare.
Per questo le organizzazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo storico dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse "non basta la parola" (il nomen di mafia, camorra, ‘ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di assimilazione normativa alle mafie storiche che rende necessaria un'attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto "simmetrie" fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro.
Il fulcro del processo d'"identificazione" non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso - puntualizza, infatti, l'art. 416-bis c.p. - l'associazione i cui partecipanti "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e di omertà che ne deriva".
Il metodo mafioso, così come descritto dal terzo comma dell'art. 416-bis c.p., colloca la fattispecie all'interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce "a struttura mista", in contrapposizione a quelli "puri", il cui modello sarebbe rappresentato dalla "generica" associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p.
La differenza consisterebbe proprio in quell'elemento "aggiuntivo" rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza. La circostanza, infatti, che l'associazione mafiosa sia composta da soggetti che "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva" parrebbe denotare - come l'uso dell'indicativo presente evoca - che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di "effettività": nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di "possedere in concreto" quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso.
Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza "oggettiva", tali da qualificare non soltanto il "modo d'essere" della associazione (l'affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo "modo di esprimersi" in un determinato contesto storico e ambientale.
Forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un "metodo" che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire "di esibizione", pur se priva di connotati eclatanti. Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale”, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l’organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro[6].
D'altra parte, anche in giurisprudenza si sottolinea come, in tema di associazione di tipo mafioso, sussiste il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. in caso di costituzione di una nuova struttura, operante in un'area geografica diversa dal territorio di origine dell'organizzazione di derivazione, che sprigioni, nel nuovo contesto, una forza intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile.
Principio, questo, affermato in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva qualificato come mafiosa un'articolazione della 'ndrangheta operante in Piemonte per l'utilizzo di metodi evocativi della capacità di assoggettamento di tale organizzazione, non attribuendo rilievo al fatto che non era stato replicato, nel territorio di espansione, il peculiare modello di insediamento della stessa[7].
Per altro verso, la Corte di legittimità non ha mancato di osservare che il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette "tradizionali", consistenti in grandi associazioni ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l'assoggettamento e l'omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle c.d. "mafie atipiche", costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, anche di etnia straniera, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività, avvalendosi del metodo "mafioso" da cui derivano assoggettamento ed omertà, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento[8].
Nel solco tracciato da tale giurisprudenza, con riferimento alle "mafie straniere", si è così affermata l’esistenza del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. allorché, pur senza avere il controllo di tutti coloro che lavorano o vivono in un determinato territorio, il sodalizio ha la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone appartenenti ad una determinata comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione ed omertà delle vittime[9].
La presenza, seppur necessariamente adattata alla realtà dimensionale, di una caratura "oggettiva" del metodo mafioso vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, anche in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale, particolarmente attenta a scrutinare tale profilo della pena, superando qualsiasi preclusione derivante dalla tesi del tertium comparationis e delle cosiddette "rime obbligate" (v. da ultimo le sentenze Corte cost., n. 236 del 2016; n. 40 del 2019 e, in tema di sanzioni "punitive", la sentenza n. 112 del 2019).
È proprio il metodo di cui l'associazione - per tipizzarsi - deve "avvalersi" a convincere del fatto che l'intimidazione e l'assoggettamento omertoso che ne devono derivare rappresentano, in sé, un "fatto" che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori "danni" scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine.
È un fatto che l'associazione mafiosa costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, l'ordine economico, quello sociale e quant'altro possa entrare nel programma del sodalizio, ma ciò non toglie che il relativo metodo – per integrare la fattispecie incriminatrice - allorché attenga a struttura autonoma ed originale, caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, debba andare al di là di una mera dichiarazione di intenti, altrimenti rischiando di far sconfinare il "tipo" normativo in connotazioni meramente soggettivistiche, sulla falsariga di modelli di "tipo d'autore", ormai preclusi al sistema[10].
In sostanza, l'associazione mafiosa è "strutturalmente" aperta: chiunque dia vita o partecipi ad un sodalizio che persegua quei fini con quel metodo, è chiamato a rispondere del reato, a prescindere dal nomen, dal territorio e dagli eventuali delitti specifici riferibili a quel sodalizio.
Non è la "mafiosità" del singolo o dei singoli a qualificare, in sé, l'associazione, ma è il "modo di essere e di fare" che individua il tratto che rende quella associazione "speciale" rispetto alla comune associazione per delinquere e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica - anche sul piano costituzionale - l'assai più grave trattamento sanzionatorio. Insomma, per come recentemente affermato dalle Sezioni unite Modaffari, un’associazione “che delinque” e non “per delinquere”.
Il problema è peraltro quello di stabilire, in concreto, quale sia la portata da annettere al "metodo mafioso", dal momento che l'estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza mette a fuoco il rischio che si corre nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch'esse non poco variegate.
Il che, ovviamente, ha lasciato spazio a quelle voci che hanno stigmatizzato la formulazione del reato di cui all'art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici.
È noto, a questo riguardo, come il principio di riserva di legge, che la dottrina qualifica come "tendenzialmente assoluta", sia consuetamente declinato secondo tre distinte, ma complementari, direttrici.
Anzitutto il principio di precisione, in virtù del quale le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte (evidenti i riverberi sul versante della colpevolezza). La giurisprudenza costituzionale, come è noto, ha al riguardo costantemente ritenuto che l'esigenza di precisione nella descrizione della fattispecie, che scaturisce dall'art. 25, comma 2, Cost., «non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (Corte cost., sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extra-giuridici diffusi (Corte cost., sentenze n. 42 del 1972 e n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (Corte cost., sentenza n. 126 del 1971).
Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l'ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a "giustificare" l'inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell'incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (Corte cost., sentenze n. 302 e n. 5 del 2004; n. 172 del 2014; n. 278 del 2019).
Dunque, i profili definitori offerti a proposito del "metodo mafioso" vanno "estrapolati" sulla base del contesto normativo in cui gli stessi sono collocati, senza dover necessariamente attingere ai dati della "storia" e delle "esperienze" maturate alla luce delle manifestazioni offerte dalle mafie, per così dire, tradizionali.
Accanto a ciò, viene però talvolta anche evocato il principio di determinatezza, dal momento che, richiamandosi "atteggiamenti" genericamente riconducibili ad una platea indifferenziata di soggetti, il cui tratto comune sarebbe rappresentato da un mero connotato "soggettivo interiore" (stato di intimidazione, di assoggettamento e di omertà), sfuggirebbe alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di "registrazione" e di prova. Dunque, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha puntualizzato che la valutazione del testo normativo «è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall'altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali».
Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza Corte cost., n. 96 del 1981, «nella dizione dell'art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà» (v. la già richiamata sentenza Corte cost., n. 172 del 2014).
Ma anche sotto questo specifico versante, il dato normativo, ove si condivida la prospettiva "oggettivistica" e "materiale" di cui prima si è detto, sfugge alle censure di "fattispecie sociologicamente orientata" di cui, specie in passato, il reato di cui all'art. 416-bis c.p. è stato fatto segno, dal momento che quei profili lato sensu ambientali connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del "fatto", che deve formare oggetto, naturalmente, di prova adeguata.
E ciò tanto più vale proprio nei casi in cui non si parli delle associazioni mafiose "tradizionali", ma di realtà ambientalmente e, se si vuole, culturalmente diverse, e per le quali sono solo i "fatti", e non le "denominazioni", a contare davvero.
Non è un caso, d'altra parte, che proprio sul versante della prova della "mafiosità" di un'associazione, la Corte di legittimità abbia, in più occasioni, avuto modo di affermare che, in tema di rilevanza dei risultati di indagini storico-sociologiche ai fini della valutazione, in sede giudiziaria, dei fatti di criminalità di stampo mafioso, il giudice deve tener conto, con prudente apprezzamento e rigida osservanza del dovere di motivazione, anche dei predetti dati come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza senza che ciò, peraltro, lo esima dal dovere di ricerca delle prove indispensabili per l'accertamento della fattispecie concreta oggetto del giudizio.
L'esistenza di un "metodo" che produce determinati effetti, costituisce, dunque, ordinario oggetto di prova, non diversamente dall'esistenza del sodalizio e delle finalità che, attraverso quel metodo, lo stesso persegue.
A conclusioni non dissimili sembra possibile pervenire anche in merito all'ultimo corollario che solitamente si desume dal principio di legalità: vale a dire quello di tassatività della fattispecie, il cui fine, come è noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, nonché degli artt. 1 e 199 c.p. e 25 Cost.
Sotto questo versante, si è osservato, sarebbero proprio i riferimenti di carattere sociologico, storico e culturale a permettere indebite "estensioni" alla fattispecie, in particolare sul versante delle associazioni non "tradizionali", dal momento che per queste ultime non potrebbe farsi appello proprio a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi - di antica "sperimentazione" - praticati nei territori "occupati" da mafia, camorra o ‘ndrangheta.
Ancora una volta, infatti, è proprio facendo leva sulla lettura "oggettivistica" del dato normativo che è possibile scongiurare un simile epilogo.
È di tutta evidenza, infatti, che, se per raggiungere gli obiettivi descritti dall'art. 416-bis c.p., un'associazione "priva di storia" determina, in un certo alveo sociale e ambientale, un clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa limitazione della sfera di autodeterminazione) e di omertà (qualcosa di cui non si deve parlare), non viene affatto in discorso un'applicazione "analogica" della fattispecie, ma una normale applicazione del "fatto" tipizzato.
Una diversa interpretazione creerebbe, d'altra parte, un'ingiustificata disparità di trattamento, giacché sarebbero assoggettate alla disciplina di maggior rigore solo le associazioni, per così dire, a "denominazione di origine controllata" e non quelle che perseguano gli stessi fini con gli stessi metodi e realizzino, per questa via, il medesimo coefficiente di maggior disvalore rispetto alla normale associazione per delinquere.
Il deficit di determinatezza della fattispecie è stato, peraltro, da parte di taluno traguardato nella prospettiva - all'apparenza non nitidamente scolpita nel testo normativo - qualitativa e quantitativa che l'intimidazione deve presentare per conseguire gli effetti dell'assoggettamento e di omertà, a loro volta utilizzati per il perseguimento dei fini dell'associazione.
L'evocazione, infatti, di paradigmi "generalizzati" di riferimento (intimidazione, assoggettamento, omertà sono chiaramente assunti come "fenomeni" meta individuali) assegna a tali elementi di fattispecie una dimensione chiaramente "collettiva", che esclude gli opposti estremi: da un lato, un effetto "totalizzante", di coazione che coinvolga l'intera popolazione di un determinato territorio; dall'altro, quello della "micro-entità" associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale.
Sul primo versante, non è senza significato la circostanza che la Corte di legittimità abbia anche di recente affermato che, ai fini della configurabilità dell'associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all'esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell'associazione o, addirittura, ne ignori l'esistenza[11].
A maggior ragione il discorso vale per le organizzazioni "non tradizionali", come si è affermato nei confronti dei clan Spada e Fasciani di Ostia nella già segnalate sentenze Sez. 5, n. 44156 del 2018 e Sez. 2, n. 10255 del 2019 (dep. 2020), nonché, di recente, a proposito del clan Casamonica (Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, Rv. 285908 – 02), ove il "metodo mafioso" va integralmente analizzato alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in un determinato ambito sociale e territoriale.
È evidente che, in questa cornice, non sarà l'atteggiamento del singolo a contare in sé e per sé, ma è la risposta "collettiva" a dimostrare che l'associazione ha raggiunto una capacità di intimidazione "condizionante" una generalità di soggetti, e che della stessa si avvale per il perseguimento degli obiettivi normativamente scolpiti dallo stesso art. 416-bis c.p.
"Assoggettamento" ed "omertà" rappresentano, dunque, gli "eventi" che devono scaturire dall'intimidazione: "fatti", quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale.
Deve pertanto in questo contesto condividersi l'assunto secondo il quale ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso con riguardo alle c.d. mafie non tradizionali è necessario che l'associazione abbia già conseguito, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio (cd. “fama criminale”).
Nella circostanza, la Suprema Corte ha correttamente puntualizzato che gli eventuali atti di violenza e minaccia realizzati da un'associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all'assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all'art. 416-bis c.p.[12]
D'altra parte, si è pure affermato che la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento, potendo essere funzionale al controllo e alla sottomissione di determinate zone del territorio ovvero financo di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità[13].
Forza intimidatrice, dunque, "a forma libera", dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una "flessibilità" delle tipologie espressive e delle forme d'intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente alla "persona", con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà.
Nel solco dei principi sopra delineati, quanto alla mafie non tradizionali, lungi dal ricorrere a formule stereotipe o a connotazioni meta-giuridiche o meramente sociologiche, spetterà al giudice di merito scandagliare la dinamica associativa tanto da un punto di vista strutturale e di episodi ad essa riferibili, quanto sul versante diacronico, relativo all'evoluzione subita nel tempo dal clan che ne ha consentito la trasmigrazione di fattispecie giuridica: dalla semplice associazione per delinquere al raggiungimento di quel quid pluris che ne ha permesso l'inquadramento in quella di tipo mafioso.
E ciò attraverso puntuali riferimenti a proposito non soltanto degli specifici settori di intervento del sodalizio, ma anche dall'evolversi della metodologia attraverso la quale, nel corso del tempo, una determinata area territoriale ed ambientale ha finito per essere significativamente asservita agli scopi, parte direttamente illeciti, parte invece di tipo "imprenditoriale gestorio", perseguiti dall'originaria compagine così trasformatasi in associazione mafiosa.
Un’indagine, dunque, che richiede una motivazione che si presenti del tutto coerente e in linea con i presupposti giuridici alla cui stregua è stata ritenuta configurabile la figura dell'associazione di stampo mafioso, evitandosi "torsioni" applicative dell'istituto o letture "sociologica" del fenomeno[14].
3. Il fenomeno dell’insorgenza dei gruppi concorrenti o a soggettività differente.
Nell’ambito delle dinamiche che caratterizzano le associazioni criminali, la giurisprudenza si è trovata dinanzi al caso, differente da quello delle mafie cd. tradizionali o di nuova costituzione (tema affidato alle altre relazioni), di formazioni che sorgono sulle “ceneri” di precedenti sodalizi, vuoi perché disarticolati dall’azione repressiva svolta dalle forze di polizia e dalla magistratura, vuoi perché sconfitti nell’ambito dei conflitti di successione che involgono le aree territoriali di rispettiva insistenza, che, in forza di nuove e vecchie adesioni, riescono a controllare alcuni settori del tessuto economico-sociale in precedenza sottoposti a differente egemonia.
Si è al cospetto, pertanto, di un fenomeno differente da quello della nuova articolazione periferica (c.d. "locale") di un sodalizio mafioso radicato nell'area tradizionale di competenza che mantenga collegamenti con la casa "madre" ed il cui modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico[15].
E neppure ricorre il caso della neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, giacché, rispetto ad essa, come in precedenza osservato, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis c.p., tra cui la manifestazione all'esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell'ambiente circostante[16].
È del tutto evidente come una siffatta autonomia (con tutto quel che ne consegue sul piano della analisi e della "effettività" del "metodo" e del clima di assoggettamento omertoso che ne deve scaturire) postuli uno iato tra vecchia e "nuova" aggregazione che deve porsi in termini, non soltanto strutturali, ma anche - e soprattutto - funzionali, nel senso che il sodalizio "locale" sia appunto - e "appaia" essere - entità scollegata da qualsiasi altra struttura configurabile alla stregua di "casa madre".
Dunque, può affermarsi come l'insorgenza di un nuovo "gruppo" finalisticamente e metodologicamente orientato al perseguimento di finalità mafiose ben possa "sfruttare" - volgendole a proprio vantaggio di sodalizio "neonato" - proprio la notorietà ed il conseguente assoggettamento omertoso derivante dalla attività - pregressa e perdurante - di gruppi mafiosi già occupanti in maniera stabilmente radicata il medesimo ambito territoriale.
D'altra parte, la continuità del quadro ambientale di riferimento si giova, sul piano ontologico, quante volte il nuovo sodalizio si ponga come "derivazione" storica di altra preesistente e notoria struttura, della quale finisce per costituire una sorta di "costola", dotata di vita e operatività proprie.
Al riguardo, la Corte di legittimità non ha mancato di sottolineare che la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici presenti sul territorio, può essere desunta da plurimi indicatori fattuali quali le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi, l'esercizio di una forza intimidatoria derivante dal vincolo associativo, nonché dal riconoscimento, da parte dell'associazione storicamente egemone, di una paritaria capacità criminosa al gruppo emergente[17].
Ma se tutto ciò è vero in un ambito di concorrenzialità territoriale in cui l'esprimersi del nuovo sodalizio operi, o possa operare, come elemento di "disturbo" per i clan tradizionali, è evidente che la "continuità" e compresenza mafiosa sia assai più agevolmente dimostrabile laddove la nuova realtà associativa sia controllata proprio da elementi che al vecchio gruppo egemone facevano notoriamente riferimento, e - soprattutto - da questo gruppo non sia stato in alcun modo "ostacolato" nei suoi iniziali propositi di dar vita ad una "propria" associazione, con un nomen distinto dai clan di più risalente "tradizione" pur insistenti nel territorio di causa.
Ebbene, in tale quadro di riferimento, il "manifestarsi" del “nuovo” gruppo si ammanta - per modalità, struttura, "notorietà" del contesto mafioso di provenienza, insistenza operativa sullo stesso territorio di pertinenza di quello stesso contesto, senza che ciò avesse ingenerato alcun tipo di frizione (dato, questo, anch'esso "evidente" nel territorio già oggetto di quell'assoggettamento omertoso) - di tutte le "prerogative" mafiose che già connotavano in passato l'attività di quegli stessi elementi.
Una fenomenologia, dunque, quella che viene qui in discorso, distinta dalla realtà diffusa delle c.d. "locali" di ‘ndrangheta, quanto da quella delle cosiddette "nuove mafie locali".
Nelle neoformazioni, infatti, è del tutto assente quella "assimilazione per rendita di posizione" o di utilizzo a propri fini dell'avviamento criminale ascrivibile ai consessi ivi insistenti, derivante dalla presenza sul territorio di associazioni nominativamente riconducibili al genus ed al paradigma di cui all'art. 416-bis c.p., nel cui alveo il "nuovo" gruppo si è formato e consolidato, condividendone gli scopi ed i metodi e realizzando la stessa tipologia di reati.
La "nuova" articolazione, infatti, non solo ripete le gesta notoriamente proprie delle associazioni di stampo mafioso da cui deriva, ma ha causalmente fruito, sotto il profilo rappresentativo, della traccia euristica genetica costituita dagli accertamenti giudiziari che hanno preceduto la sua formazione, della quale si è avvalsa non mediante meri propositi di carattere intimidatorio, ma esercitando in un'ottica di continuità in quel territorio la forza di intimidazione di tali conosciuti consessi organizzati, commettendo gli stessi delitti fine.
Insomma, una storia che si ripete, con analoghe metodologie e finalità ed anche comprimari (a quell'ambiente riferibili), che si è tradotta materialmente in atto[18].
Non si assiste, dunque, ad una novazione, bensì ad una successione a titolo particolare di un consesso che utilizza lo stesso metodo e persegue le medesime finalità criminali del precedente, nell'ambito di un pactum avente eguale natura - perfettamente riconducibile alla medesima societatis sceleris per modello e tipo - e destinato ad insistere in una realtà territoriale notoriamente già adusa a confrontarsi con realtà criminali di tal fatta.
E tanto più allorché la stretta continuità di tipo delinquenziale si lega poi ad una riscontrata operatività interna ed esterna del gruppo, che dà ragionevolmente conto della ricaduta del nomen sulla realtà circostante e del clima che ad essa ne consegue[19].
La costituzione di un gruppo formalmente nuovo all’interno di un territorio già controllato da cosche mafiose non vale, pertanto, ad escludere la configurabilità del reato, allorché il nuovo sodalizio riproduca struttura e finalità criminali del clan storico, realizzi la stessa tipologia di reati, sfruttando la notorietà del primo per mantenere lo stato di assoggettamento intimidatorio nella popolazione del territorio di pertinenza, in modo da far percepire una sorta di continuità tra le azioni del gruppo originario e le proprie.
Ad analoghe conclusioni è giunta di recente la Corte di legittimità allorché l’anello di congiunzione tra il vecchio gruppo e quello di nuova formazione sia costituito dalla presenza di soggetto che, risultando assente dal territorio di riferimento per un lungo arco temporale in quanto condannato per avere assunto ruoli apicali nel vecchio consesso mafioso, sia stato poi scarcerato, riprendendo le attività delittuose, unitamente ad altri individui, originariamente estranei a fattispecie associative di stampo mafioso, che allo stesso pregiudicato risultino aggregati (cd. gruppo mafioso a soggettività differente)[20].
Lungi dal far dipendere la mafiosità del gruppo dalla mera qualità soggettiva di chi, per detto reato, risulti già essere stato condannato, disattendendosi, altrimenti, i requisiti oggettivi di tipicità della fattispecie, la “caratura criminale” di chi ne sia venuto a capo, laddove sia spesa all’esterno dai sodali e registri anche la partecipazione di tale soggetto alla realizzazione dei reati scopo dell’associazione, può essere valorizzata al fine di desumere il potere intimidatorio del sodalizio, al cospetto della realizzazione di attività criminali diffuse.
Appare evidente, infatti, che la ripresa delle attività delittuose sul territorio da parte di un soggetto già condannato per associazione mafiosa in parte richiede nuove forme di esteriorizzazione, ma, richiamando la già ritenuta partecipazione del soggetto di vertice, ne sfrutta tale capacità criminale ai fini dell’imposizione in quella stessa area del vincolo intimidatorio; e ciò significa, pertanto, che ove i soggetti facente parte di tale nuova formazione abbiano richiamato nell’esecuzione dell’attività delittuose l’inserimento nel nuovo gruppo anche del soggetto definitivamente condannato, ne hanno chiaramente inteso sfruttare la fama criminale ai fini dell’imposizione dell’omertà e dell’intimidazione.
Il cd. «gruppo mafioso a soggettività diversa» - in quanto fattispecie intermedia tra le cd. nuove mafie e quelle storiche, ricostruito attorno a un soggetto già definitivamente condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e che abbia scontato la pena proprio per la particolarità della sua formazione, per l’inserimento nella stessa col ruolo organizzativo del soggetto già affermato essere “mafioso”, per il richiamo a tale presenza dotata di carattere intimidatorio nei confronti della collettività - si profila, pertanto, quale fattispecie associativa particolare che, se da un lato deve certamente essere dotata di capacità di esteriorizzare il potere intimidatorio e imporre una nuova e diffusa condizione di omertà, dall’alto mutua i caratteri tipici dell’organizzazione già in passato operativa sullo stesso territorio per cosiddetta “gemmazione”.
4. La condotta di partecipazione.
Così delineati i connotati strutturali dell’associazione di tipo mafioso, lasciando alle altre relazioni i necessari approfondimenti al riguardo, occorre soffermarsi sulle condotte incriminate nei primi due commi dell’art. 416-bis c.p. che, solo in parte, sembrano ricalcare il modulo tipico del reato associativo semplice.
In realtà, se tale similitudine è ravvisabile con riferimento ai ruoli apicali dell’organizzazione delineati dal secondo comma, trattandosi di posizioni funzionali capaci di manifestare, sul piano descrittivo, una maggiore attitudine connotativa della condotta punibile, peculiarità sono state ravvisate riguardo all’individuazione della condotta di chi “fa parte” dell’associazione di stampo mafioso che sembra richiedere un diverso apporto rispetto a quello di chi partecipa all’associazione per delinquere semplice di cui all’art. 416 c.p.
In presenza di un paradigma normativo che individua un delitto a forma libera, senza fornire alcuna indicazione specifica sulle modalità con cui si deve concretizzare tale partecipazione, tanto che alcuni hanno parlato di “tipicità incompiuta”, si è posto il problema se, ai fini della prova della condotta sia sufficiente l’adesione all’associazione di tipo mafioso, oppure occorra dimostrare quale ruolo l’agente abbia svolto all’interno del sodalizio e, quindi, quale sia stato il suo contributo causale.
La condotta del partecipe, infatti, può consistere nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purché non occasionale e, in ogni caso, apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale, con riferimento all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione[21].
Il tema, se si vuole avere riguardo agli elementi costitutivi del reato di associazione mafiosa, va affrontato sul piano del significato da attribuirsi alla partecipazione quale requisito di fattispecie, anche se una tale verifica interpretativa finisce per risentire dello specifico contesto probatorio su cui è chiamato a muoversi il giudice del merito in rapporto alla variegata realtà delle organizzazioni criminali.
La carenza definitoria della condotta non significa, però, rinunciare all’individuazione del contenuto minimo che la deve contraddistinguere, altrimenti rilegandosi la partecipazione a mero criterio interpretativo a carattere variabile o flessibile in ragione della situazione concretamente considerata, con il rischio di operare non consentite estensioni applicative della fattispecie, financo incorrendo nella violazione del principio di legalità.
Un conto, infatti, è il versante della prova, che attiene alla ricerca degli indici della condotta penalmente rilevante, altro, invece, quello di individuarne il significato normativo che, pur demandato in via interpretativa al giudice, va circoscritto al fine di contenere il più possibile derive creative.
Ciò posto, va anzitutto evidenziato che la partecipazione attiene ad un reato permanente. Non si tratta di un’ovvia constatazione, in quanto tale nesso relazionale ne sancisce, già sul piano causale, la netta distinzione rispetto a contributi non solo sporadici ma che, seppur idonei alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio, sono destinati ad esaurirsi all’atto del loro compimento, così assumendo, semmai, rilievo ai fini dell’integrazione del concorso esterno[22].
La partecipazione deve essere, infatti, sintomatica di persistenza in aderenza alla figura di concorrente necessario che il soggetto agente assume, a prescindere dalle forme in cui essa si manifesta. Inoltre, la sua valenza causale – essendo imprescindibile un’estrinsecazione che vada al di là di mere adesioni psichiche o di proselitismo culturale in ossequio al principio di materialità e di offensività – deve necessariamente valutarsi alla stregua della natura mista della fattispecie, dovendo l’organizzazione criminale essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica e democratica.
Ciò non vuol dire che la singola condotta di partecipazione debba essere di per sé dimostrativa dell’estrinsecazione del metodo mafioso, trattandosi di requisito proprio dell’associazione, ma che debba essere funzionale all’esistenza e al rafforzamento permanente del sodalizio, in uno con la non disgiunta finalità di concorrere al perseguimento degli scopi che tipicamente lo contraddistinguono per “tipologia”.
Il nesso di derivazione finalistica che colora in termini di pregnante disvalore la condotta di partecipazione deve, pertanto, rivelarsi efficiente sul piano causale, e ciò non tanto (e solo) perché elevato è l’editto sanzionatorio, ma in aderenza al principio di materialità secondo cui, ai fini della sussistenza di un reato, non basta la realizzazione di un comportamento materiale, ma è necessario che tale comportamento leda o ponga in pericolo beni giuridici.
Così sinteticamente delineati i canoni che debbono guidare l’interprete nello stabilire il significato della condotta di partecipazione, i maggiori problemi interpretativi si sono registrati riguardo alla rilevanza penale dell’affiliazione all’associazione mafiosa, essendosi formati sul tema due orientamenti contrapposti nella giurisprudenza di legittimità: uno tendente a ritenere sufficiente la mera affiliazione ad un’organizzazione criminale operante secondo il modello prefigurato dall’art. 416-bis c.p. (cd. modello organizzatorio); l’altro, invece, che considera tale adesione rituale inidonea se non accompagnata da elementi concreti e specifici, rivelatori del ruolo attivo svolto all’interno del sodalizio (cd. modello causale)[23].
Il contrasto ha determinato la rimessione della questione alle Sezioni unite, le quali, a distanza di anni dalle sentenze Demitry (Sez. U, n. 16 del 5/10/1994, Rv. 199386 – 01), Carnevale (Sez. U, n. 22372 del 30/10/2002, dep. 2003, Rv. 224181 – 01) e Mannino (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231670 – 01 e 231673 – 01) in tema di distinzione tra partecipe e concorrente eventuale, sono state chiamate a pronunciarsi “se la mera affiliazione ad un'associazione di stampo mafioso (nella specie 'ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall'associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell'art. 416-bis cod. pen. e della struttura del reato” [24].
Le Sezioni unite, con la sentenza n. 36958 del 27/05/2021 Modaffari, hanno affermato i seguenti principi di diritto:
«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi».
«Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione»[25].
I principi affermati attengono a due profili: il primo, di carattere sostanziale, relativo alla definizione degli elementi costitutivi della partecipazione; il secondo, di carattere processuale, che riguarda, invece, il versante della prova della condotta penalmente rilevante e i relativi indici dimostrativi.
Quanto ai requisiti della condotta di partecipazione, le Sezioni unite si rifanno alla definizione coniata dalla sentenza Mannino, nella quale si valorizza il carattere funzionale dell’inserimento del sodale nell’associazione, affermando che, in sede processuale, non ci si possa limitare a considerare lo status acquisito dal partecipe nell’ambito dell’associazione attraverso l’ingresso nel sodalizio, ma occorre provare la dimensione dinamica di tale ruolo; verificare, cioè, che siano stati realizzati atti di militanza associativa espressivi del ruolo funzionale acquisito[26].
La partecipazione non si esaurisce né in una mera manifestazione unilaterale, né in un’affermazione di status; essa, al contrario, richiede un’attività fattiva a favore della consorteria che attribuisca “dinamicità, concretezza e riconoscibilità alla condotta che si sostanzia nel prendere parte”.
Occorre, in sostanza, che quell’ingresso assuma carattere stabile in aderenza alla natura permanente del reato associativo e, soprattutto, si traduca in una “messa a disposizione”, vale a dire in via tendenzialmente durevole e continua delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio.
Una definizione che comprende, all'evidenza, sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della partecipazione, poiché esprime la necessità che essa sia sorretta da affectio societatis e dalla interazione causalmente orientata al conseguimento degli scopi sociali con gli altri associati.
La condotta di partecipazione potrà dirsi integrata solo quando la "messa a disposizione" assuma i caratteri della serietà e della continuità attraverso comportamenti di fatto - precedenti e/o successivi al rituale di affiliazione - non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell'associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l'adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di "irrevocabilità" (intesa, nel senso di una stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura.
A queste condizioni, la "messa a disposizione" non solo costituisce l'effetto dell'ammissione al gruppo - così superandosi le obiezioni secondo cui si punirebbe il mero accordo di ingresso, possibile soltanto nell’ambito dei reati a schema duplice in cui è prevista in forma alternativa la realizzabilità del tipo criminoso - ma indica un comportamento oggettivo e non solo intenzionale, attuale e non meramente ipotetico che finisce così per concretizzare e rendere riconoscibile il profilo dinamico della partecipazione, non potendo questo effetto condizionarsi in negativo e legarsi esclusivamente alla successiva - e, a volte, solo eventuale - "chiamata" per l'esecuzione di un incarico specifico, essendo l'adepto già inglobato nel gruppo e pronto per le necessità attuali o future della consorteria.
Un significato aderente alla natura mista della fattispecie associativa di stampo mafioso che, a differenza della categoria dei reati associativi puri, richiede un quid pluris, ossia la messa in opera del programma criminoso, mediante atti concreti ed inequivoci funzionali alla sua realizzazione, attraverso l’estrinsecazione del metodo mafioso. Un reato, quindi, di pericolo e danno, avente una valenza plurioffensiva, nei termini di associazione che delinque[27].
Ci si discosta, quindi, dal modello organizzatorio puro secondo cui non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all'associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità (con la cd. “messa a disposizione”) ad agire quale "uomo d'onore".
Sul punto la sentenza appare chiara, affermando: che la teoria organizzatoria mostra i suoi limiti nel momento in cui collega la fattispecie criminosa all'acquisizione della qualifica formale di associato, ritenendo sufficiente ai fini dell'integrazione del reato l'ingresso nel sodalizio e finendo per ritenere irrilevante l'attivazione o meno del partecipe a favore della consorteria; che l’assenza della punibilità dell’attività di reclutamento – a differenza di quanto invece stabilito in tema di terrorismo (art. 270-quater c.p.) - evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnato da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé compreso nella nozione tipica di partecipazione; che assume rilievo ai fini dell’interpretazione del dato normativo interno la stessa nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, la quale richiede che la persona che partecipi attivamente alle attività criminali dell'organizzazione.
Ravvisare la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa anche allorquando sia stata fornita la dimostrazione che il soggetto, pur sottoposto al rito dell'affiliazione, non abbia mai posto in essere alcuna attività per conto o nell'interesse del sodalizio appare del tutto contrario ai principi di materialità ed offensività[28].
Esigere, invece, che all’affiliazione segua una fattiva attivazione del soggetto in favore del sodalizio, di talché possa ritenersi che quell’ingresso abbia assunto una vocazione di stabilità, rende la partecipazione continente, sul piano sistematico, con la natura permanente del reato e ne segna la distinzione rispetto a contributi destinati ad essere sussunti nell’alveo del concorso esterno.
Occorre, dunque, che all’affiliazione si accompagni la concreta ed effettiva “attitudine” del nuovo adepto a svolgere i compiti allo stesso affidati, anche in un momento successivo al formale ingresso nel sodalizio, nonché a corrispondere ai desiderata dell'organizzazione di cui è venuto a far parte: solo in tal caso il dato formale accentra in sé quel connotato sostanziale di effettiva disponibilità che rende quella condotta pericolosa per il bene giuridico tutelato, accrescendo le potenzialità del sodalizio.
Ciò non significa, però, adesione in toto al modello causale, stante la possibilità di sovrapposizione di due categorie dogmatiche (concorso esterno e partecipazione) del tutto autonome e con profonde caratterizzazioni differenziali e la aprioristica svalutazione della condotta di "messa a disposizione" delle energie del singolo a favore del gruppo. E neppure al modello “misto”, la cui principale critica «si coagula, invece, sull'apparente carattere decisivo della causalità, in realtà di fatto inesistente, in quanto l'efficienza della condotta è assunta in re ipsa, per il solo fatto dell'ingresso nell'associazione»[29].
Non occorre, però, che le condotte di intraneità – anche a prescindere dalla commissione di delitti - siano financo espressive della capacità del singolo di avvalersi della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e capaci di produrre assoggettamento ed omertà nei suoi interlocutori, né un danno ai diritti dei singoli che si relazione con quell’affiliato, tanto da rappresentare, per ciò solo, un pericolo per l’ordine pubblico e gli altri beni tutelati in via cumulativa o alternativa dalla disposizione in commento.
Una tale opzione ermeneutica corre il rischio di determinare una sovrapposizione tra la condotta "di associazione", legata all'assunzione del ruolo di partecipe, con quella "dell'associazione", diretta ad attuare il programma delinquenziale che si traduce nell'esecuzione dei delitti scopo.
Inoltre, richiedere che alla condotta di partecipazione segua la lesione dei diritti dei singoli che si relazionano con quell’affiliato significa propendere per una lettura del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. quale fattispecie di evento e di danno, a discapito della componente di “pericolo” che pure alla fattispecie deve essere sistematicamente riconosciuta, la cui oggettività giuridica va ricondotta all’associazione in quanto tale.
Affinché sia integrata la condotta di partecipazione è, dunque, necessario (e sufficiente) la realizzazione di un qualsivoglia "apporto concreto", sia pur minimo, ma in ogni caso riconoscibile, alla vita dell'associazione, tale da far ritenere avvenuto il dato dell'inserimento attivo con carattere di stabilità e consapevolezza oggettiva.
Il partecipe non è, dunque, un neutrale e passivo osservatore delle dinamiche mafiose, delle quali viene più o meno messo a conoscenza, ma un soggetto che, in aderenza al giuramento di ingresso, concorre ad assicurare, mediante facta concludentia evocativi di stabile inserimento, la realizzazione delle finalità avute di mira dal sodalizio[30].
Che la nozione di partecipazione, per come coniata dalle Sezioni unite, si nutra di un quid pluris che consenta di escludere qualsiasi equivocità e staticità alla mera affiliazione è confermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, secondo cui la partecipazione mafiosa non si esaurisce né in una mera manifestazione di volontà unilaterale, né in una affermazione di status, richiedendo, invece, un'attivazione fattiva a favore della consorteria connotata da dinamicità e concretezza ed implicando, pertanto, quanto meno la riconoscibilità, se non addirittura il riconoscimento da parte degli aderenti al gruppo[31].
Se ne coglie, pertanto, la distinzione con il concorrente eventuale, il quale è, per definizione, colui che non vuol far parte dell'associazione e che l'associazione non chiama a "far parte", ma un soggetto al quale il sodalizio si rivolge e da cui riceve contributi favorevoli per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
Come hanno sottolineato le Sezioni Unite, è evidente che la verifica centrale per la configurabilità di una condotta di partecipazione mafiosa si muove sul piano probatorio: è solo sulla scorta delle evidenze disponibili che sarà possibile valutare se, per le caratteristiche assunte dal caso concreto, la compenetrazione nel tessuto criminale abbia generato o meno un'effettiva "messa a disposizione".
Per questo, anche l'affiliazione rituale può costituire, sul piano cautelare, grave indizio della condotta partecipativa, a condizione che la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un'offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione[32].
E tanto più laddove l’affiliazione si sia tradotta nell’attribuzione di qualifiche che sono logicamente dimostrative, alla luce degli elementi fattuali di contesto, dell’avvenuta attivazione del soggetto nell'ambito associativo (si pensi al conferimento della “dote” di ‘ndrangheta che segue al riconoscimento dei contributi prestati dal soggetto in favore del sodalizio ed è dunque dimostrativa, sul piano logico fattuale, di una persistente attivazione del soggetto che, in ragione del suo rilievo, ne ha determinato il riconoscimento).
Più in generale, pertanto, dopo l'ultimo arresto delle Sezioni Unite, gli indicatori elencati dalla sentenza Mannino come elementi dai quali desumere la partecipazione mafiosa tornano alla loro dimensione probatoria naturale e vengono depurati dal ruolo di elementi di fattispecie loro attribuito da alcune pronunce di legittimità.
Tra detti indicatori, a esempio, la commissione di delitti scopo è uno dei sintomi, normalmente quello più evidente, ma non l'unico, dell'inserimento nel sodalizio. Oltre a questo, devono comunque essere considerate anche le ulteriori e diverse condotte, che risultano essere il compimento di attività causalmente orientate a favore dell'associazione, dalle quali, sulla base degli elementi probatori acquisiti, emerga l'organicità del singolo che, reiterando condotte di semplice tenore esecutivo ovvero rafforzando e agevolando l'attività dell'associazione, ponga in essere comportamenti teleologicamente rivolti al perseguimento degli obiettivi dell'associazione stessa.
L’attenzione alle attività che l’affiliato ha compiuto a sostegno del sodalizio se, da un lato, consente di superare l’obiezione che si punisca un mero status soggettivo, dall’altro parimenti permette di prescindere dalla prova o dall’esistenza del rito di affiliazione allorché il soggetto abbia comunque prestato contributi che si sono rivelatisi idonei a concretizzare una “messa a disposizione” in favore del sodalizio.
Anche su tale aspetto la decisione delle Sezioni unite è chiara: l’assunzione fattuale di tale ruolo in altro modo desunta integra appieno la condotta di partecipazione allorché si traduca in una “messa a disposizione” propria dei requisiti di disvalore declinati dalla sentenza Modaffari [33]. E tanto non solo con riguardo alle mafie cd. tradizionali ove pure tali riti sono osservati, ma soprattutto rispetto alle nuove mafie ove l’inserimento nel gruppo criminale, consegue più che all’osservanza di regola formali o sacramentali, alla realizzazione di stabili contributi causalmente e finalisticamente volti alla realizzazione delle finalità perseguite dall’associazione.
5. Conclusioni
A distanza ormai di oltre quarant’anni dall’introduzione del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., nonostante le oscillazioni giurisprudenziali registratesi con riguardo alla corretta definizione degli ambiti applicativi, deve riconoscersi come la fattispecie abbia svolto efficacemente un ruolo di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso.
Del resto, gli adattamenti interpretativi a cui si è assistito, forieri anche della comparsa di nuove organizzazioni criminali e del nuovo atteggiarsi della criminalità organizzata di stampo mafioso, sono stati condotti, grazie anche al contributo di attenta dottrina, sul piano della verifica del rispetto dei requisiti di tipicità, evitandosi ricadute sociologiche o lontane dalle connotazioni di pericolo e di danno del reato in esame.
Certo è che oggi si assiste, in conseguenza della globalizzazione e della necessità delle organizzazioni criminali di espandere il proprio dominio al fine di reinvestire i proventi derivanti dai delitti fine, ad un cambiamento delle strategie delle mafie, tanto che da alcuni autorevoli esperti del settore si è parlato del volto nuovo delle mafie, sottolineandosi anche, in modo condivisibile, come ormai si sia al cospetto di una gestione unica degli affari illeciti[34].
Ai tradizionali reati, evocativi della forza di intimidazione del sodalizio nel territorio, si affiancano, infatti, con maggiore frequenza, delitti lucro-genetici e di intestazione fittizia mediante i quali le mafie si impadroniscono di settori vitali dell’economia di mercato, falsandola, con ricadute anche sul versante dei delitti contro la p.a., quali strumento per accaparrarsi commesse pubbliche mediante imprese non solo compiacenti ma che costituiscono la longa manus dell’organizzazione.
E tale inquinamento del tessuto economico-sociale avviene volutamente “sotto traccia”, al fine di scongiurare l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura.
Alle forme tipiche di esteriorizzazione della “fama criminale” si sostituiscono modalità differenti, ma non per questo meno pericolose e invasive.
Al radicamento territoriale di cui la nuova mafia resta portatore si affianca o si sostituisce quello del tessuto economico, mediante il quale l’associazione, anche attraverso sinergie con altri gruppi criminali ivi presenti, manifesta la sua presenza (e insistenza) in altre zone del Paese o financo al di fuori dei confini nazionali, avvalendosi dei nuovi strumenti di comunicazione e movimentazione del denaro[35].
Ci si trova al cospetto, per come ha acutamente osservato lo storico Enzo Ciconte, di “una mafia immersa nella tradizione, ma perfettamente in grado di proiettarsi nella modernità”.
Si pone, pertanto, il problema se la fattispecie in esame, certamente idonea a reprimere quella che è stata definita la “mafia militare”, lo sia efficacemente con riguardo a quella dei “colletti bianchi”.
Un problema di assimilazione che riguarda, sul piano della fattispecie, le articolazioni, anche estere, delle mafie tradizionali costituite con il primario obiettivo di inquinare il tessuto economico e destinate ad operare sul mercato quali “holding”, mediante sinergie con altri gruppi criminali ivi insistenti, pure espressone delle altre associazioni storiche, unite dal comune intento di realizzare profitti; sul piano della condotta di partecipazione, il rilievo dei contributi sistematicamente resi dai terzi, causalmente necessari alla realizzazione degli obiettivi di profitto, essendo un dato di fatto che le mafie, soprattutto quelle a denominazione di origine controllata, possono contare stabilmente su una rete non solo di compiacenze ma soprattutto di soggetti, non necessariamente “punciuti”, che in modo persistente ne assicurano l’operatività al di fuori dei territori di originaria “vocazione”.
Una tematica complessa che investe i rapporti tra sodalizio madre e le nuove strutture periferiche che operano quale longa manus di essa, nonché le modalità di estrinsecazione del metodo mafioso rispetto al fenomeno del radicamento del tessuto economico; le interferenze e la delimitazione tra le condotte di partecipazione e di concorso esterno, con particolare riguardo ai contributi volti alla realizzazione degli obiettivi di profitto delle organizzazione criminali; la distinzione tra partecipazione e delitti fine comunque aggravati dalla finalità di agevolare il sodalizio mafioso.
Un mosaico molteplice e complesso di problemi che si pongono all’interprete, la cui soluzione se, da un lato, non potrà essere disgiunta da un’attenta verifica da condursi alla stregua degli elementi di tipicità di fattispecie, dall’altro non dovrà in alcun modo determinare un arretramento del pensiero giuridico che, proprio in relazione a tale fenomeno, costituisce la spinta per sollecitare, se del caso, i necessari adattamenti normativi.
È stato, infatti, in modo condivisibile osservato che uno dei pericoli maggiori da evitare, sia nella istruzione dei processi che nella costruzione dei percorsi di conoscenza, è quello di una visione settoriale, parcellizzata, limitata al singolo aspetto del fenomeno, che finisce per farne perdere di vista l’insieme[36].
Un approccio settoriale e localistico che fa ignorare le dimensioni reali dell’associazione mafiosa come organizzazione unitaria, impedisce al contempo di apprezzarne la reale forza complessiva in termini di legami e connessioni con il mondo “altro”, con quei pezzi delle istituzioni, della politica, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione che costituiscono altrettanti punti di emersione di quel sistema di relazioni esterne delle mafie, che ne rappresentano un vero e proprio punto di forza.
Relazione tenuta al Convegno “L’art. 416-bis c.p. tra storia ed ermeneutica”, organizzato dal Centro Studi di legislazione antimafia – Virginio Rognoni, Pavia, Collegio Universitario S. Caterina da Siena, 4 ottobre 2024.
[1] Sul delitto di cui all’art.416-bis c.p., con particolare riguardo ai riferimenti bibliografici e di dottrina, v. Del Gaudio, Sub art. 416-bis c.p., in CP, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Lattanzi-Lupo (a cura di), vol. IV, Milano, 2022, p. 390 e ss. Tra i contributi più recenti, v. Turone-Basile, Delitto di associazione mafiosa, IV^ ed., Milano, 2024; Zuffada, Il metodo mafioso alla prova delle mafie “diverse” dalle mafie tradizionali. Una sinossi della giurisprudenza, in Arch. pen., 2024; Melillo, Prolusione del P.N.A. per il trentennale della istituzione del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, in sistema penale, 13.09.2024; Aa.Vv., Quarant'anni di 416-bis c.p. Bilanci e prospettive del delitto di associazione di tipo mafioso. Atti del Convegno (Napoli, 14 novembre 2022), Amarelli (a cura di) – Torino, 2023; Brunelli, Contrasto alla criminalità organizzata e tipicità penale: il punto sull’associazione mafiosa, in Arch. pen., 2023; Cisterna, Quella svolta nella lotta alla mafia rappresentata dall'art. 416-bis c.p., in Guida dir., 36, 2022, 16 ss.; Spezia, La lotta alla criminalità organizzata fuori dai confini nazionali, in Sistema penale, 20.07.2022; Merenda - Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti - Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 55 ss.; Balsamo-Mattarella, Criminalità organizzata: le nuove prospettive della normativa europea, in Sistema pen., 15.03.2021; Romanelli, Criminalità organizzata e terrorismo: la circolazione dei modelli criminali e degli strumenti di contrasto, in Sistema pen., 20.12.2019; AaVv., Virginio Rognoni. Passione civile e impegno politico, Ed. Santa Caterina, 2024. Sul tema v. anche: Fiandaca-Visconti, Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, 2010; Seminara, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., in Aa.Vv., I delitti di criminalità organizzata, in Quaderno CSM, 1998, p. 299; Id, Gli aspetti giuridici della lotta contro la mafia: il convegno di Palermo del 27-28 maggio 1983, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, pp. 1062-1069; Ciconte, La resistibile ascesa di mafia, 'ndrangheta e camorra dall'Ottocento ai giorni nostri, Rubbettino, 2008; Id, ‘Ndrangheta, Rubettino, 2011; Aa.Vv., La legge Rognoni-La Torre tra storia ed attualità, Ciconte (a cura di), Rubbettino, 2022; Aa.Vv., Atlante delle mafie. Storia, economia, società e cultura, Ciconte, Forgione, Salis (a cura di), Vol. I°, Rubettino, 2012; Bellavia-De Lucia, Il cappio, Bur, 2012; Prestipino-Pignatone, Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia, Laterza, 2012; Palazzolo-Prestipino, Il codice Provenzano, Laterza, 2008; Canzio, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine: l'evoluzione giurisprudenziale degli anni 1970-1995, in Cass. pen., 1996, p. 3163- 3183; Id, Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità dei partecipi nei reati - fine: la responsabilità dei capi di "cosa nostra" per gli omicidi "eccellenti" ascrivibili dall'associazione mafiosa, in Foro it., 1996, 10, p. 586 ss.; Pardo, L’art. 238 e 238 bis c.p.p. e la prova dell’associazione mafiosa, (Documento didattico), SSM, P24015, 21.03.2024; Marandola, Condanna in abbreviato ex art. 416 bis c.p. e misura cautelare, in Giur. it., 2018, p. 2757 ss.; Id, Sull'(in)adeguatezza della custodia inframuraria applicata ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero il punto di "non ritorno" degli automatismi in sede cautelare, in Giur. cost., 2013, p. 863 ss.
[2] Fiandaca-Musco, Diritto penale, P.S., Vol, I, Torino, 2021, 518.
[3] Turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano, 2015, 112.
[4] Sul tema, v. Barletta-Carretta-Piersimonini-Prestipino, Patrimoni illeciti e strumenti di contrasto, II^ ed., Laurus Robuffo, 2023; Teresi, Mafia, corruzione, impresa, in Giust. insieme, 2.11.2023; Balsamo, Il contrasto internazionale alla dimensione della criminalità organizzata: dall’impegno di Gaetano Costa alla “Risoluzione Falcone” delle Nazioni Unite, in Sistema pen., 2020.
[5] Per un utile excursus del fenomeno mafioso sino ai giorni d’oggi, v. Pignatone, La Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria (Corso di studio: “I 30 anni della DNA, delle DDA e della DIA. 30 anni di legislazione contro il crimine organizzato e le evoluzioni del sistema antimafia”), SSM, P22005, 28.07.2022.
[6] Geneticamente, quindi, la forza di intimidazione deve essere riferita all’associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, in motivazione a pag. 16).
[7] Tra le più recenti: Sez. 2, n. 47538 del 18/11/2022, A., Rv. 284182 - 01; Sez. 6, n. 6933 del 4/07/2018, dep. 2019, A., Rv. 275037 - 01; Sez. 2, n. 31920 del 4/06/2021, A., Rv. 281811 - 01; Sez. 2, n. 38831 del 17/09/2021, C., Rv. 282199 – 04. Non massimate, da ultimo, Sez. 2, n. 27053 del 20/04/2023, B., in motivazione, pag. 17. Sulle mafie cd. delocalizzate, v. Giorgio, Delocalizzazione delle mafie storiche, in Dizionario enciclopedico delle mafie, del terrorismo internazionale e della storia dell’eversione, Parte I, Vol. II, Città del Vaticano, 2023; Merenda, Mafie straniere e mafie delocalizzate nell'applicazione dell'art. 416-bis c.p., in Diritto di difesa, 4, 2022, p. 813; Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1197 ss.; Id, Mafie delocalizzate: le Sezioni unite risolvono (?) il contrasto sulla configurabilità dell’art. 416 bis c.p. ‘non decidendo’, in Sistema pen., 18.11.2019; Visconti, La mafia “muta” non integra gli estremi del comma 3 dell’art. 416 bis c.p.: la Sezioni unite non intervengono, la I^ sezione della Cassazione fa da sé, in Sistema pen., 22.01.2020; Id, I giudici di legittimità ancora alle prese con la «mafia silente» al Nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. pen. cont., 2015, p. 2 ss.
[8] Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, F., Rv. 278745 – 02; Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120; Sez. 5, n. 26427 del 20/5/2019, F., Rv. 276894; Sez. 5, n. 21530 dell'8/2/2018, S., Rv. 273025; Sez. 2, n. 7847 del 30/1/2020 non mass.; Sez. 5, n. 6764 del 13/11/2019, dep. 2020, non mass.; Sez. 2, n. 46731 del 20/10/2023, non mass. Sul tema, a commento della decisione di Sez. 2 n. 10255 del 2020 relativa al clan Fasciani di Ostia, v. Visconti, “Non basta la parola mafia": la Cassazione scolpisce il "fatto" da provare per un'applicazione ragionevole dell'art. 416-bis alle associazioni criminali autoctone, in Sistema pen., 24 marzo 2020; Amarelli, Mafie autoctone: senza metodo mafioso non si applica l'art. 416-bis c.p. (Associazione di tipo mafioso e mafie non tradizionali), in Giur. it., 2020, p. 2249 e ss.; Salviani, La configurabilità del reato previsto dall'art. 416-bis c.p. anche per le organizzazioni criminali diverse dalle mafie "tradizionali", in Cass. pen., 2020, p. 2721 ss.; Manna-De Lia, “Nuove mafie” e vecchie perplessità. Brevi note a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Arch. pen., 2020; Amato, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall’interazione tra “diritto penale giurisprudenziale” e legalità, in Dir. pen. cont., 2015, p. 266 ss.; Balsamo-Recchioni, Mafie al nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont., 2013, p. 19 ss.
[9] Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, J., Rv. 281126 – 01, a proposito dell’articolazione locale "Pesha Nest" dell’associazione nigeriana "Eiye".
[10] Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, C., Rv. 270290.
[11] Fattispecie in tema di costituzione di nuova struttura criminale: Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, F., Rv. 276894; Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, F., Rv. 271724. A commento di quest’ultima decisione v., Cisterna, Attenzione focalizzata sui sodalizi storici e fenomeni emergenti, in Guida dir., 2018, 9, p. 65 e Salviani, Configurabilità del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. anche per le mafie "non tradizionali" operanti in un ristretto ambito territoriale, in Cass. pen., 2018, p. 2000 ss.
[12] Sez. 6, n. 41772 del 13/6/2017, V., Rv. 271102 e le sentenze in precedenza indicate sulle cd. “mafie locali”.
[13] Vedi anche Sez. 6, n. 43898 del 08/06/2018, R., Rv. 274231; Sez. 6, n. 35914 del 30/05/2001, H., Rv. 221245. In termini, Sez. 6, n. 24536 del 10/4/2015, non mass.; Sez. 6, n. 24535 del 10/4/2015, M., Rv. 264126; Sez. F, n. 44315 del 12/9/2013, C., Rv. 258637. Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, J., Rv. 281126.
[14] Così, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, B., Rv. 279555 – 17. La S.C. ha escluso, seppur all’esito di una travagliata vicenda giudiziaria che aveva registrato orientamenti differenti sia in sede di merito che di legittimità (espressi medio tempore in sede cautelare) che ricorresse l’ipotesi dell’associazione di stampo mafioso nella vicenda nota come “mafia Capitale”, sul rilievo dell’assenza di radicamento conseguente all’accertato diffuso inquinamento dei settori della pubblica amministrazione operato dal consesso delinquenziale. In particolare, la S.C. ha evidenziato come nelle sentenze di merito mancasse la prova che l’associazione avesse manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale ed avesse conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel "territorio" in cui l'associazione è attiva. A commento della decisione, v. tra i diversi autori, Amarelli-Visconti, Da ‘mafia capitale’ a ‘capitale corrotta’. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, in Sistema pen., 18.06.2020; Id, "Mafia capitale": per la Cassazione non si tratta di vera mafia, in Cass. pen., 2020, p. 3644 ss.; Fiandaca, Mafia capitale: metodo mafioso e metodo corruttivo non vanno sovrapposti, in Foro It., 2020; Ubiali, Sul confine tra corruzione propria e corruzione funzionale: note a margine della sentenza della Corte di cassazione sul caso "mafia capitale", in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 662 ss.; Cisterna, Quelle "scorciatoie" probatorie sintomo della anomalia italiana. (Mafia), in Guida dir., 2020, 30, p. 76 ss.; Della Ragione, “Mafia Capitale” e “Mafia corrotta”; la parola definitiva della S.C. nel processo di stabilizzazione giurisprudenziale dell’associazione d tipo mafioso, in Leg. pen., 21.10.2020.
[15] Ex multis: Sez. 6, n. 44667 del 12/5/2016, C., Rv. 268676 (con note di commento di Salviani, La delocalizzazione dell'associazione di tipo mafioso, in Cass. pen., 2017, p. 2776 ss.); Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, C., Rv. 270290; Sez. 5, n. 47535 dell'11/7/2018, N., Rv. 274138.
[16] D'altra parte, nel ribadire i principi anzidetti a proposito delle "locali" di "ndrangheta", la Corte di legittimità, in una ipotesi di creazione in Svizzera di una "locale" rappresentante l'articolazione di un clan calabrese, non ha mancato di focalizzare come i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della "ndrangheta" anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà in quanto l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria. (Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, D., Rv. 273093).
[17] Sez. 6, n. 42369 del 17/07/2019, D., Rv. 277206 (Fattispecie in cui dalle intercettazioni telefoniche risultava che esponenti del gruppo "storico", nonostante il consolidato predominio sul territorio, manifestavano preoccupazione per la contrapposizione con il gruppo emergente, attese la capacità di quest'ultimo di subentrare nel controllo delle attività illecite e la comprovata forza intimidatrice della nuova formazione).
[18] In senso conforme, Sez. 2, n. 24901 del 17/05/2024, A., in motivazione pagg. 29-30.
[19] Sez. 2, n. 20926 del 13/05/2020, P., Rv. 279477 – 01, ove si è sottolineato come dalle decisioni di merito emergesse che il sodalizio criminoso disponesse di una consistente quantità di armi, anche di allarmante potenzialità, opportunamente occultate; avesse già realizzato episodi di natura estorsiva; controllasse anche l'attività di spaccio in una parte del territorio; avesse compiuto due attentati dinamitardi - di carattere eclatante - ai danni di esercizi commerciali; dato luogo ad una specifica struttura con ripartizione di ruoli e responsabilità, con una cassa comune per finanziare le attività illecite, ovvero volta a supportare le necessità dei sodali, anche garantendo l'assistenza legale in caso di arresto; adottato specifiche sanzioni nei confronti di chi aveva mancato di rispetto al capo ovvero minacciato chi aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia; predisposto azioni di rappresaglia volte all'eliminazione dei rivali. A commento della decisione, v. Merenda, Niente scorciatoie probatorie: anche per l'associazione "derivata" che opera nello stesso territorio va accertato il metodo mafioso, in Dir. pen. e proc., 2021, p. 336-341.
[20] Sez. 2, n. 24901 del 24/05/2024, D., Rv. 286689 – 01 e 02.
[21] L’argomento assume particolare rilievo allorché il soggetto accusato di far parte di un’associazione di stampo mafioso non sia correlativamente imputato dei delitti fine commessi nell’interesse dell’associazione, tenuto conto che le condotte di tipo partecipativo possono consistere anche in atti che di per sé non costituiscono reato.
[22] Sui contributi recenti in materia di concorso esterno, v. Visconti, Il concorso esterno tra menage a trois e quarto incomodo, in AA.VV., Quarant’anni di 416-bis c.p., cit., 49-59; Pacifico, La mancata tipizzazione del concorso esterno nell’ associazione mafiosa: limite o opportunità? SSM, 4 aprile 2024; Maiello, Il cantiere sempre aperto del concorso esterno, in Sistema penale, 22.02.2021; Alberico, Partecipazione, concorso esterno e voto di scambio: la perenne esigenza di ricostruzione dei tipi, in Sistema pen., 20.03.2024 (nota a Sez. 1, n. 46336 del 5/06/2023).
[23] A tali orientamenti se ne è anche aggiunto un terzo, definito “misto”, in cui il profilo dello stabile inserimento dell'individuo nell'associazione è stato coniugato imprescindibilmente con un apporto causale anche minimo, ma attivo ed effettivo. La più risalente teorizzazione del modello misto si legge in Sez. 4, n. 2040 del 27/08/1996, B., Rv. 206319. Sulla problematica, v. Ariolli-Cappai, La rilevanza penale della c.d. "messa a disposizione" nel delitto di associazione di stampo mafioso: orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in Giust. pen., 2018, p. 178 ss.
[24] La questione è stata rimessa alle S.U. con ordinanza della 1^ Sezione penale del 28 gennaio 2021. A commento del provvedimento si veda: Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni unite, in Sistema pen. (online), 5/2021.
[25] A commento della decisione: Lazzeri, Affiliazione rituale e prova della condotta di partecipazione ad associazione mafiosa: la sentenza delle Sezioni unite, in Arch. pen. (online), 2022; Cisterna, Associazione mafiosa, l'affiliazione rituale può essere grave indizio della condotta partecipativa. (Reati contro l'ordine pubblico), in Guida dir., 2021, 46, p. 64 ss.; Amarelli, La tipicità debole della partecipazione mafiosa e l'affiliazione rituale: l'incerta soluzione delle Sezioni Unite tra limiti strutturali dell'art. 416-bis c.p. e alternative possibili. (Mafia), in Dir. pen. proc., 2022, p. 786 ss.; Maiello, La partecipazione associativa tra (fuga della) tipicità e (assorbimento nella) prova. (Associazione di stampo mafioso), in Giur. it., 2022, p. 732 ss.; Apollonio, Le Sezioni Unite tra "vecchie" e "nuove" mafie nella valutazione del requisito della partecipazione associativa, in Cass. pen., 2022, p. 62 ss., Id, La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite, in Giust. insieme, 18.10.2021.
[26] “Si definisce "partecipe" colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima. Di talché, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione”.
[27] Il reato di cui all’art. 416-bis c.p. assume contemporaneamente natura di pericolo, in relazione alla preordinazione di una serie indeterminata di delitti e, per altro verso, di danno, in relazione allo sfruttamento della capacità intimidatoria in ragione dell'ormai compiuta immanenza lesiva della libertà di quanti si relazionano con l'associazione. Per l'integrazione del tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso.
[28] Sul tema, le S.U. richiamano anche quei contesti ambientali permeati da compagini primariamente composte da soggetti legati da vincoli di affinità e di parentela, laddove il conferimento formale della qualifica di affiliato conseguente al giuramento di mafia potrebbe assumere un significato equivoco, più coerente ad automatismi sociali e familiari che indice, immediato ed autosufficiente, della effettiva intraneità. (In termini, Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, C., non mass.). Resta, parimenti, esclusa la contiguità compiacente, intesa come mera vicinanza personale o fascinazione verso un determinato apparato mafioso oppure come ammirazione nei confronti di suoi partecipi o capi, ancorché tali atteggiamenti comportamentali rimandino a rapporti effettivamente intrattenuti con uno o più esponenti mafiosi, dai quali non possa desumersi una concreta messa a disposizione del sodalizio (Vedi: Sez. 6, n. 34199 del 18/07/2024, non mass.).
[29] V. pag. 34 della sentenza S.U. “Modaffari”.
[30] A tale proposito, tra i vari indici dimostrativi, si è fatto riferimento; all’attività di collaborazione con i capi cosca e nel coinvolgimento in tematiche e/ strategie associative; all’essere interpellato prima che venissero adottate le decisioni circa le estorsioni da realizzare nell'ambito dei programmi dell’associazione; agli interventi nella soluzione di questioni che riguardavano i rapporti anche conflittuali con altri consessi mafiosi o con altri soggetti criminali con cui il sodalizio veniva in contatto; alla riscossione di un credito derivante dalla vendita di droga; alla partecipazione ad incontri con altri coimputati; al riconoscimento ad opera di terzi quale soggetto a cui potere fare riferimento per ottenere un'interlocuzione con il reggente del sodalizio, ricevendone le confidenze; all'interessamento per la soluzione di questione riguardante controversie tra privati; all'assunzione del ruolo di incaricato a riscuotere "estorsioni natalizie" e recuperare i crediti del clan; al "pizzo" preteso per la vendita di un immobile; alla definizione di rapporti con altri clan, autorizzazioni ad accordi commerciali tra imprese, risoluzione di questioni tra privati, rampogne di soggetti non rispettosi degli impegni assunti verso altre famiglie mafiose; alla trasmissione all’esterno del carcere dei messaggi ricevuti da detenuti appartenenti al sodalizio; all’essere in possesso della carta delle estorsioni realizzate dall’associazione nel territorio di riferimento; allo svolgimento dell’attività di guardiania nell’ambito di impresa mafiosa; all’assunzione della qualità di imprenditore in nome o per conto della cosca.
[31] Sez. 5, n. 35870 del 23/05/2024; Sez. 6, n. 35695 del 10/07/2024; Sez. 2, n. 30007 e n. 30008 del 19/07/2024; Sez. 6, n. 35379 del 18/06/2024; Sez. 6, n. 34202 del 18/07/2024; Sez. 6, n. 34197 del 18/07/2024; Sez. 6, n. 34188 del 10/09/2024; Sez. 6, n. 32046 del 25/07/2024; Sez. 6, n. 31612 del 15/05/2024; Sez. 4, n. 26304 del 29/05/2024; Sez. 2, n. 30554 del 25/07/2024, nel senso che la marginalità del contributo non esclude la partecipazione, che si rinviene anche nel caso in cui l'adesione al sodalizio non si risolva in attività organizzative o nella consumazione di reati-fine, ma si esprima in attività esecutive, che offrono, comunque, un valido contributo alla vita del sodalizio.
[32] Degna di nota, seppur nell’ambito di una ricostruzione critica degli arresti della sentenza Modaffari, ritenuta ispirata ad un modello misto di partecipazione, ma in realtà sostanzialmente organizzatorio, è l’osservazione secondo cui, al fine di scongiurare derive meramente formalistiche della condotta prive della necessaria offensività, alla stregua della natura “duale” della fattispecie, la mera affiliazione andrebbe più correttamente ricondotta al tentativo, salvo interventi legislativi che ne riconoscano la valenza circostanziale; Amarelli, cit., 795; Maiello, cit., 16 ss.
[33] Così, Sez. 2, n. 30006 del 19/07/2024 ha assegnato rilievo alla condotta dell’indagato che, pur non raggiunto da indizi circa la sottoposizione a rituale affiliazione e la commissione di specifici reati-fine, godeva della possibilità di confrontarsi direttamente con soggetti di comprovata "mafiosità", frequentava il "luogo di appuntamenti" dei sodali ed intratteneva con i medesimi, movimentazioni di denaro. V. anche Sez. 2, n. 30010 del 19/07/2024 che ha valorizzato tanto l'incarico di raccogliere denaro per le spese dei sodali detenuti, quanto l’aver curato gli aspetti commerciali di una impresa di catering che consentiva di assumere i familiari degli associati, così offrendo un prezioso contributo all'associazione criminosa che, attraverso la suddetta azienda, riusciva a mantenere anche uno stabile legame con la famiglia mafiosa intrattenendo con questa accordi spartitori per la distribuzione del pane all'interno delle mense scolastiche.
[34] In termini, il contributo reso dal Procuratore della Repubblica di Palermo De Lucia nel presente convegno e Ciconte, Le proiezioni mafiose al Nord, in Corriere di Como, 25.11.2013.
[35] Sui rapporti tra mafia ed impresa pregevole è il contributo di Visconti, II Convegno dell'Associazione Italiana dei Professori di diritto penale. "Economia e diritto penale nel tempo della crisi" - Palermo, 15/16 novembre 2013. Terza sessione. Criminalità economica e criminalità organizzata. Strategie di contrasto dell'inquinamento criminale dell'economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 705 ss. Sul tema, tra i numerosi contributi, v.: Gratteri-Nicaso, Il Grifone, Mondadori, 2023; Milita, Gli strumenti di contrasto alle Eco mafie. L'esperienza giudiziaria campana, SSM, Corso P21085, 29 ottobre 2021; Scarcella, Criminalità organizzata e responsabilità degli enti, SSM, P20070 del 14-15 settembre 2020.
[36] Pignatone, cit., p. 12.
Foto via Wikimedia Commons.
L’intelligenza artificiale per i giuristi: una sfida ormai inevitabile
Recensione di “Intelligenza Artificiale – Essere Avvocati nell’era di Chat GPT” di Claudia Morelli, Maggioli Editore, 2024.
di Claudio Castelli
L’intelligenza artificiale è il futuro e condizionerà inevitabilmente la nostra società e le nostre attività. Il punto è se ignorarla, subirla o governarla. Ciò riguarda e riguarderà tutte le professioni e, probabilmente, larga parte degli aspetti delle nostre vite, anche nelle professioni giuridiche e per i giuristi. Per questo il contributo di Claudia Morelli con il suo volume “Intelligenza Artificiale – Essere Avvocati nell’era di Chat GPT” è particolarmente prezioso e dovrebbe essere letto non solo dagli avvocati, ma da tutti i giuristi, in primis dai magistrati, e da tutti coloro che sono interessati al nostro mondo e ai suoi cambiamenti. Prezioso per la mole di informazioni, notizie e stimoli che contiene. Essenziale per l’inevitabile approccio multidisciplinare e per la capacità di navigare su terreni molto diversi, dalla storia del diritto alla normativa esistente, dall’impatto delle nuove tecnologie, ai nuovi problemi etici per arrivare alle esperienze concrete già avutesi.
È sicuramente un terreno difficile: basti pensare alla stessa difficoltà di definire cosa sia l’Intelligenza Artificiale, tanto che alcuni parlano al plurale di Intelligenze Artificiali, ma nel contempo un terreno ormai necessario e segnato. L’Intelligenza Artificiale e le sue applicazioni non sono più una scelta, ma una necessità per rimanere competitivi e, forse, per esistere come professione. E ciò riguarda anche la giustizia se per alcuni fonti (il paper How will Language Modelers like ChatGPT Affect Occupatons and Industries?) il mercato dei servizi legali sarà la prima industry ad essere investita dai sistemi di Gen AI. E sempre secondo questa fonte le professioni più esposte a rischi sono i professori di diritto (al 5° posto), i magistrati (al 17°), i giudici amministrativi e cancellieri (al 28°), gli assistenti giudiziari (al 35°) e gli avvocati (al 50°). Ipotesi inquietanti anche se riguardano un sistema profondamente diverso come quello americano e si basano su proiezioni di dubbia scientificità. Ipotesi che comunque dobbiamo prendere in considerazione per riaffermare la profonda umanità delle nostre professioni, ma nel contempo per poter riuscire ad utilizzare al meglio le enormi potenzialità che le applicazioni di intelligenza artificiale possono darci per lavorare meglio, più rapidamente e con crescente qualità. Non dobbiamo mai dimenticare che ci confrontiamo con sistemi, addestrati su milioni di testi scritti, che sono “stupidi” in quanto non sono in grado di comprenderne il significato, ma che sono in grado di riordinare le parole secondo pattern ricorrenti, basandosi su calcoli di probabilità sulla stessa sequenza del linguaggio e delle parole. La memoria e il giacimento di dati immagazzinati è davvero sovrumana, ma inevitabilmente priva di ragionamento. Sistemi definiti generativi, perché l’output è assemblato in maniera generativa, ovvero nuova. Sistemi che possono comunque soffrire di “allucinazioni”, dando soluzioni sbagliate o inventandole perché sono compiacenti e del tutto dipendenti dalla correttezza, completezza e bontà dei dati immagazzinati e messi a loro disposizione.
Sposare le enormi potenzialità dell’intelligenza artificiale generativa con la fantasia, la creatività e il sapere umano può darci risultati eccezionali che oggi neppure immaginiamo e può consentirci di risparmiare tempo e di migliorare il nostro lavoro e la nostra vita.
Si tratta comunque di un passaggio difficile in cui la prima necessità è cercare di conoscere e comprendere cos’è e cosa può darci l’intelligenza artificiale con le necessarie cautele, ma senza paura.
Un percorso in cui questo libro di Claudia Morelli ci può aiutare.
La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?
di Donatella Palumbo
Sommario: 1. Premessa – 2. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa – 3. La ricostruzione dei fatti nel giudizio a quo – 4. Le argomentazioni offerte dall’ordinanza n. 228 del 16 novembre 2023 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania – 5. La posizione della Corte costituzionale in ordine alle questioni sollevate – 5.1. L’amministrazione di risultato – 5.2. La fatica dell’amministrare – 5.3. Overdeterrence o underdeterrence? – 6. La prospettiva futura – 7. Riflessioni conclusive.
1. Premessa
L’art. 21, comma 2 - rubricato “Responsabilità erariale” - del decreto-legge n. 76/2020 (recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), convertito con modificazioni dalla legge n 120/2020, dispone che “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”.
Con tale disposizione il legislatore ha modificato, in via temporanea[1], la disciplina dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa individuato, a regime, nel dolo e nella colpa grave dall’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, in tal modo introducendo per un periodo limitato il c.d. “scudo erariale”.
Con la sentenza n. 132/2024, depositata il 16 luglio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 21, comma 2, sollevate dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con ordinanza n. 228 del 16 novembre 2023 (depositata il 18 dicembre 2023)[2], in riferimento agli artt. 28, 81 e 103 della Costituzione, mentre ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
2. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa
Preliminarmente appare utile offrire un quadro sintetico dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa[3].
L’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, recante “Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti”, nella sua formulazione originaria prevedeva soltanto il carattere personale della responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica e la trasmissibilità agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi. Pertanto, secondo la disciplina allora vigente (art. 82, comma 1, del regio decreto n. 2440/1923[4], art. 52, comma 1, del regio decreto n. 1214/1934[5] e art. 18 del D.P.R. n. 3/1957[6]) era sufficiente la sola colpa lieve per fondare l’azione di responsabilità innanzi alla Corte dei conti[7].
Tuttavia, l’art. 3, comma 1, lett a), del decreto-legge n. 543/1996, recante “Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti”, convertito con modificazioni dalla legge n. 639/1996, ha innovato l’art. 1, comma 1, della legge 20/1994 circoscrivendo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave.
Nei lavoratori preparatori della legge di conversione, infatti, pur nella diversità delle posizioni che hanno animato il dibattito parlamentare[8], è possibile rintracciare la voluntas legislatoris di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponesse all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa, avendo rilevato che l'estensione alle ipotesi di colpa lieve della responsabilità per danno erariale aveva comportato effetti di paralisi dell'amministrazione, ostacolando di fatto l'assunzione di responsabilità[9].
In sede di conversione, peraltro, è stato aggiunto il seguente inciso “ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali” [10].
Pertanto, l’attuale testo dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, così come innovato, dispone quanto segue: “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
Orbene, sul punto, erano state sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett a), del decreto-legge n. 543/1996, in riferimento agli artt. 3, 97, 103, comma 2, della Costituzione e (in un caso) anche degli artt. 11, 24 e 81 della Costituzione, sia dalla Corte dei conti, Sezione prima centrale d’appello (ordinanze del 29 novembre 1996, del 27 novembre 1996, del 25 febbraio 1997 e del 26 settembre 1997), sia dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Liguria (ordinanza del 15 maggio 1997), dichiarate non fondate dalla Corte costituzionale (riuniti i giudizi) con sentenza n. 371/1998. La pronuncia assume un’importanza particolare in quanto, proprio riprendendo il tenore dei lavori preparatori della legge di conversione, sottolinea come la disposizione, nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, risponde alla “finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”.
Va aggiunto che il legislatore del periodo pandemico, oltre alla introduzione del c.d. “scudo erariale”, con l’art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120/2020 ha modificato a regime l’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 stabilendo che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Tale norma rappresenta una “rottura” con il modello di elemento soggettivo delineato in chiave civilistica-contrattuale, perché è il legislatore stesso che nella relazione illustrativa esclude espressamente la lettura civilistica del dolo, optando per una lettura dell’elemento soggettivo in chiave penalistica, rendendo peraltro più complessa la prova del dolo sul piano istruttorio, in quanto la prova del dolo contrattuale si arresta alla coscienza e volontà della sola condotta antigiuridica, escludendo la rilevanza della volontà dell’evento, mentre la prova del dolo in chiave penal-erariale deve avere ad oggetto anche la rappresentazione e la volontà dell’evento dannoso (danno all’erario)[11].
3. La ricostruzione dei fatti nel giudizio a quo
Prima di addentrarci nell’esame delle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 132/2024, appare utile riportare la ricostruzione dei fatti nel giudizio oggetto dell’ordinanza di rimessione n. 228 del 16 novembre 2023 (depositata il 18 dicembre 2023), della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania.
La vicenda processuale trae la propria scaturigine da un’attività istruttoria svolta dalla Procura contabile regionale campana, a seguito della quale sono stati citati in giudizio sei militari per sentirli condannare in favore dell’amministrazione danneggiata al risarcimento di un danno erariale, cagionato in conseguenza di un ammanco di cassa dovuto a plurime riscossioni di settantotto assegni non autorizzati (avvenute in un periodo compreso tra il 7 maggio 2010 e il 20 gennaio 2021). Il danno erariale è stato quantificato in complessivi euro 2.413.150,00 per il cassiere, convenuto in via principale a titolo di dolo, e in euro 2.013.350,00 per gli altri, convenuti in via sussidiaria a titolo di colpa grave, i quali, nel periodo in contestazione, avevano svolto i ruoli di capi del servizio amministrativo e della gestione finanziaria. In particolare, in ordine a questi ultimi, le contestazioni a titolo di colpa grave si atteggiano con differenti condotte: la forma commissiva, contestata a tre convenuti, ravvisabile nell’aver apposto la seconda firma di traenza sugli assegni determinativi delle ingiustificate e dannose fuoriuscite, senza operare le verifiche sulla regolarità e correttezza del procedimento di spesa (ex artt. 450 e 503, comma 4, del D.P.R. n. 90/2010); la forma omissiva, contestata a cinque convenuti, per la violazione di peculiari obblighi di controllo sulla documentazione contabile e sui conti, disattesi dai responsabili alternatisi nelle due distinte posizioni di garanzia, così non impedendo l’illecita sottrazione.
4. Le argomentazioni offerte dall’ordinanza n. 228 del 16 novembre 2023 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania
Il ragionamento sotteso all’ordinanza di rimessione della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania, àncora l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, alla violazione degli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 della Costituzione, in quanto norma di presumibile applicabilità nella vicenda ma “irragionevolmente limitatrice della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di condotte attive dolose”[12].
Dopo aver fornito un quadro ordinamentale della responsabilità erariale e aver motivato in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale, la Sezione giurisdizionale campana si sofferma sugli articoli della Costituzione di cui assume la violazione, ponendo in sequenza le seguenti considerazioni:
- art. 103: sottrazione alla giurisdizione della Corte dei conti della assoggettabilità a responsabilità delle condotte attive gravemente colpose a far data dall’entrata in vigore della norma, atteso che in relazione alla responsabilità amministrativa, sulla base dei principi individuati dalla giurisprudenza costituzionale, la misura della colpa grave si configura come il punto di equilibrio del sistema tra la colpa e il dolo[13], esprimendo il quantum di rischio che deve ricadere sulla P.A. per i danni causati dai dipendenti, nell’ottica, da un lato, di non disincentivare l’attività eliminando l’inerzia nell’attività amministrativa e, dall’altro, di non incentivare condotte foriere di danno;
- art. 97, commi 1 e 2: violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione, in quanto la norma “rende legittime e lecite condotte gravemente colpose, con la convinzione in colui che agisce che, in assenza del dolo, non ha alcun rilievo se agisca legittimamente o lecitamente, tanto non sarà tenuto a risarcire i danni”, e del principio dell’efficienza dell’amministrazione, in quanto l’errore grave e inescusabile del dipendente pubblico “resta a carico dell’amministrazione, se non determinato da un’omissione e rimane frustrato l’interesse pubblico all’azione efficiente ed economica della P.A.”[14];
- art. 28: violazione del principio di responsabilità diretta dei pubblici dipendenti, in quanto l’eliminazione dell’imputazione a titolo di colpa grave per condotte attive svuota il contenuto della responsabilità amministrativa;
- art. 81: violazione dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito, in quanto condotte foriere di danno non vengono risarcite e restano a carico della collettività;
- art. 3, sotto plurimi profili: violazione del principio di eguaglianza in punto di discriminazione, risultando la norma irragionevolmente ampia in primo luogo nel comprendere qualunque condotta commissiva gravemente colposa che esula dalle finalità ad essa sottese, operando peraltro una discriminazione irragionevole anche fra coloro che nell’ambito dell’amministrazione hanno obblighi di controllo e vigilanza (per la quale la scriminante non vale) e coloro che hanno la gestione attiva e i compiti di predisporre i provvedimenti amministrativi (per i quali la scriminante vale); in secondo luogo, in punto di discriminazione tra lavoratori del settore pubblico e lavoratori del settore privato atteso che i primi, già avvantaggiati rispetto ai secondi in quanto godono di un’esenzione per colpa lieve, sono allo stato responsabili per le condotte attive solo a titolo di dolo.
5. La posizione della Corte costituzionale in ordine alle questioni sollevate
5.1. L’amministrazione di risultato
La breve analisi svolta in questa sede si concentra sul profilo esaminato dalla Corte costituzionale con priorità logica: il contrasto della norma limitatrice della responsabilità amministrativa di cui all’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, laddove si considera l’imputabilità a titolo di dolo e colpa grave il giusto “punto di equilibrio del sistema”, che individua il “quantum di rischio che deve ricadere sul datore di lavoro amministrazione pubblica per i danni causati dai dipendenti”, nell’ottica da un lato di incentivare l’operato attivo degli amministratori e, dall’altro, di non incentivare condotte negligenti e foriere di danno.
Invero, a fronte di una consolidata giurisprudenza formatasi successivamente alla menzionata sentenza n. 371/1998, l’aspetto innovativo della sentenza n. 132/2024 appare il seguente: “il punto di equilibrio può non essere fissato una volta per tutte, ma modulato in funzione del contesto istituzionale, giuridico e storico in cui opera l’agente pubblico, e del bilanciamento che il legislatore medesimo – nel rispetto del limite della ragionevolezza – intende effettuare, in tale contesto, tra le due menzionate esigenze”. Al fine di individuare tale punto di equilibrio occorre tenere in conto, dunque, le seguenti due esigenze:
- la funzione della responsabilità amministrativa, la quale non è solo una funzione di tipo risarcitorio ma assume anche i caratteri della deterrenza (quindi anche con riferimento a comportamenti gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione e gli interessi degli stessi amministrati, la cui contribuzione al funzionamento della macchina pubblica potrebbe essere dissipata senza alcun beneficio per la collettività);
- impedire che in relazione alle modalità dell’agire amministrativo il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento.
Ne consegue che, nel rispetto del limite della ragionevolezza, la Corte costituzionale ribadisce la centralità della discrezionalità legislativa.
Orbene, nel dichiarare non fondata la questione, la Corte costituzionale offre una disamina del nuovo modello di pubblica amministrazione - l’amministrazione di risultato[15] - delineato attraverso un processo riformatore di più ampio respiro che ha avuto luogo negli anni Novanta del secolo scorso e che ha coinvolto anche il riassetto della responsabilità amministrativa divisato nella legge n. 20/1994. Tale modello è sussumibile in un’amministrazione che deve raggiungere determinati obiettivi di policy e che risponde dei risultati economici e sociali conseguiti attraverso la sua complessiva attività, ove l’ampia discrezionalità, esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, è una componente essenziale e caratterizzante.
La scelta di un’amministrazione di risultato si è andata via via consolidando, dapprima con il d.lgs. n. 165/2001, recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” e, successivamente, con il d.lgs. n. 150/2009, recante “Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni” e, infine, più di recente con il d.lgs. n. 36/2023, recante il “Codice dei contratti pubblici in attuazione dell'articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici”, laddove enuncia agli artt. 1[16] e 2[17] i principi generali dell’azione amministrativa in materia di contratti pubblici, menzionando rispettivamente i principi del risultato e della fiducia.
In particolare, l’articolo 1 del Codice dei contratti pubblici fornisce una nozione per certi versi inedita del principio di risultato – non strettamente correlato, dunque, con il significato relativo alle attività di esercizio della funzione amministrativa – atteso che il risultato che l’amministrazione è chiamata a perseguire nell’affidamento e nell’esecuzione del contratto coincide “con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza”. La proposizione enuncia, al contempo, i valori in cui il concetto di risultato si concretizza e gli “argini” all’interno dei quali i predetti valori devono essere perseguiti[18].
Il principio del risultato segna, dunque, un punto di svolta rispetto al paradigma finora seguito nella contrattualistica pubblica, orientata alla promozione della concorrenza come unica modalità di scelta della soluzione idonea a garantire il soddisfacimento dell’interesse pubblico con il minor aggravio di spesa: la nuova disciplina pone, infatti, al centro dell’azione contrattuale dell’amministrazione l’acquisizione di beni e servizi e la realizzazione di lavori alle migliori condizioni possibili. Come si legge nella relazione illustrativa al Codice, del resto, il principio di concorrenza, così come il principio di legalità e di trasparenza sono dunque strumenti a servizio del miglior risultato, realizzando in tal modo un equo bilanciamento tra le esigenze di garanzia e l’efficienza e l’economicità delle procedure nelle commesse pubbliche[19].
Quanto al principio della fiducia, si legge nella relazione agli articoli e agli allegati dello schema definitivo di Codice dei contratti pubblici, in attuazione dell’articolo 1 della legge n. 78/2022, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, redatta dal Consiglio di Stato, che con l’inserimento del principio della fiducia si perviene a “un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni (…) e che si è caratterizzata da un lato per una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità, dall’altro per il crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali che potevano alla fine rivelarsi prive di effettivo fondamento”, le quali hanno generato “paura della firma” e “burocrazia difensiva”, a loro volta “fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente”. La relazione prosegue nell’indicare che sin dalle sue disposizioni di principio, si avverte “il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici, introducendo una “rete di protezione” rispetto all’alto rischio che accompagna il loro operato”. Si tratta, quindi, di un vero e proprio cambio di paradigma culturale, ancor prima che giuridico-normativo[20].
Ne consegue che, nell’ambito del Codice dei contratti pubblici, improntato appunto alla valorizzazione del principio del risultato e di quello della fiducia[21], trova spazio un diversificato regime della responsabilità amministrativa: da un lato la valorizzazione del risultato come parametro di valutazione della responsabilità introduce anche nell’ambito dei contratti pubblici il concetto dell’accountability che, ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’amministrazione, impone la verifica della correttezza dell’agire amministrativo in senso sostanziale e non come mera osservanza di regole formali; dall’altro si introduce la riduzione della quota di rischio a carico del dipendente pubblico attraverso una tipizzazione della colpa grave (cfr. art. 2, comma 3, del Codice del contratti pubblici) e una serie di obblighi a carico dell’amministrazione, tra cui quello di adottare azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale (art. 2, comma 4, e art. 15, comma 7, del Codice dei contratti pubblici).
5.2. La fatica dell’amministrare
Particolarmente interessante il punto 6.5. della motivazione della sentenza in commento, laddove la Corte costituzionale richiama le seguenti tendenze da cui evincere la sempre maggiore difficoltà delle scelte amministrative in cui si estrinseca la discrezionalità con conseguente occasione di errore, anche grave:
- individuazione delle norme da applicare nel caso concreto, a causa di un sistema giuridico multilivello e di una caotica produzione legislativa[22];
- contrazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali delle amministrazioni, inevitabili attese le esigenze di bilancio sempre più pressanti;
- tendenze strutturali delle moderne società e dei loro sistemi amministrativi: pluralismo sociale e istituzionale, moltiplicarsi dei rischi[23] e connessa scelta di bilanciamento tra precauzione e libertà di iniziativa economica.
Ad avviso della Corte costituzionale la complessità dell’ambiente in cui operano gli agenti pubblici sul piano istituzionale, giuridico e fattuale, caratterizzato dalle tendenze poc’anzi illustrate, accentua “la “fatica dell’amministrare”[24], rendendo difficile l’esercizio della discrezionalità amministrativa e stimolando, come reazione al rischio percepito di incorrere in responsabilità, la burocrazia difensiva”. Quest’ultima, in particolare, viene alimentata anche dall’incertezza provocata da una disciplina che si affida a un concetto giuridico indeterminato, quale quello della colpa grave, anziché procedere a una sua tipizzazione.
5.3. Overdeterrence o underdeterrence?
Ad avviso della Corte costituzionale, il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i profondi mutamenti del contesto in cui essa opera giustificano la ricerca legislativa di nuovi punti di equilibrio - tra i pericoli di overdeterrence e underdeterrence - che riducano la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.
Orbene, all’interrogativo se sia possibile far derivare un regime ordinario che limiti la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo, la Corte costituzionale offre una risposta negativa atteso che, in questo caso, “la ripartizione del rischio sarebbe addossata in modo assolutamente prevalente alla collettività, la quale dovrebbe sopportare integralmente il danno arrecato dall’agente pubblico”, con la conseguenza che i comportamenti gravemente negligenti non sarebbero scoraggiati e “la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, strumentale al buon andamento della P.A., ne sarebbe irrimediabilmente indebolita”.
Tuttavia, la regola generale registra due ipotesi eccezionali che, pur superando lo scrutinio di ragionevolezza, sono caratterizzate da un indebolimento della funzione deterrente: in primo luogo, si fa riferimento ai casi in cui la limitazione dell’imputazione soggettiva della responsabilità amministrativa al solo dolo riguardi un numero limitato di agenti pubblici o determinate attività amministrative, contraddistinte da un grado di rischio talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione dando così luogo all’amministrazione difensiva[25]; in secondo luogo, ai casi di disciplina provvisoria che limiti al dolo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, avuto riguardo a un contesto particolare che richieda tale limitazione al fine di assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale.
Risulta evidente come la disposizione oggetto di censura di costituzionalità si colloca in questo secondo tipo di ipotesi eccezionali, in quanto origina in un contesto del tutto peculiare[26] con una efficacia che - allo stato - cesserà, seppur a seguito di proroghe, il 31 dicembre 2024.
Del resto, l’art. 23, comma 1, del medesimo decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, ha agito anche sul reato di abuso d’ufficio, modificandone in senso restrittivo il perimetro applicativo della prima condotta tipica descritta nell’art. 323 c.p., mediante la sostituzione della locuzione “violazione di norme di legge o di regolamento” con l’espressione “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuano margini di discrezionalità”.
Su tale profilo, peraltro, la Corte costituzionale aveva già avuto modo di pronunciarsi con la sentenza n. 8/2022[27] - richiamata dalla stessa Corte nella pronuncia in commento – secondo la quale il capo IV del titolo II del decreto-legge n. 76/2020 si occupa delle due “principali fonti di timore per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale[28]”.
Invero, benchè tale esigenza di contrasto alla c.d. burocrazia difensiva[29] fosse avvertita da tempo, solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19 il legislatore si è adoperato lungo le due direttrici (penale ed erariale) nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza[30] volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza.
Al riguardo la Corte costituzionale ha sottolineato come l’esigenza di contrastare nel modo più efficace possibile la tendenza alla “burocrazia difensiva” – in disparte ogni disquisizione circa le modifiche apportate all’abuso d’ufficio – ha indotto il legislatore del periodo pandemico allo spostamento temporaneo della configurazione dell’elemento soggettivo verso il polo dell’underdeterrence, al fine di tutelare, attraverso uno stimolo all’attività degli agenti pubblici, interessi vitali della società italiana dotati di rilevanza costituzionale, tutelati dai seguenti articoli della Costituzione: 3, 4, 32, 33, 34, 35, 38 e 41. Appare, quindi, coerente la limitazione correlata alle sole condotte gravemente colpose commissive - e non anche a quelle omissive, per le quali è rimasta invariata l’imputazione soggettiva a titolo di dolo e colpa grave – in modo che, come si legge nella relazione illustrativa del decreto-legge n. 76/2020, “i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo”.
Invero l’inerzia amministrativa avrebbe potuto pregiudicare, successivamente all’attenuarsi del periodo pandemico, anche altri interessi di grande rilevanza tutelati dai seguenti articoli della Costituzione emersi nel particolare contesto del P.N.R.R.:
- artt. 11 e 117, comma 1: obblighi assunti in sede U.E. (attuazione P.N.R.R.)[31];
- art. 9: tutela dell’ambiente (transizione verde)
- art. 3: uguaglianza (parità di genere);
- art. 4: realizzazione di un’economia sostenibile;
- art. 9: obiettivo di protezione e valorizzazione dei giovani;
- art. 81: rispetto dell’equilibrio di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico;
- artt. 5 e 119: superamento dei divari territoriali.
Ne consegue che, ad avviso della Corte costituzionale, anche per la fase successiva alla crisi economica provocata dalla pandemia da COVID-19, caratterizzata da proroghe dell’efficacia dell’art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 76/2020, correlate all’attuazione del P.N.R.R., appare ragionevole “il punto di equilibrio che, limitatamente alle condotte attive, provvisoriamente limita l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa al solo dolo”.
6. La prospettiva futura
L’art. 1, comma 12-quinquies, lettera a), del decreto-legge n. 44/2023, come convertito con modificazioni dalla legge n. 74/2023, nel consentire la proroga al 30 giugno 2024 della disposizione contenuta nell’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, segnalava già in quell’occasione la necessità di una complessiva revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativo-contabile.
Sulla stessa scia si colloca la sentenza della Corte costituzionale allorquando, nella motivazione finale della sentenza, sostiene che, al di là del regime provvisorio oggetto della disposizione censurata, occorre considerare il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i mutamenti strutturali del contesto istituzionale, giuridico e sociale in cui essa opera che giustificano la ricerca, a regime (e, dunque, non solo in via transitoria) di “nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione”. Dunque, in assenza di interventi il fenomeno della “burocrazia difensiva” sarebbe destinato a riespandersi e la percezione da parte dell’agente pubblico di un eccesso di deterrenza (la c.d. overdeterrence) tornerebbe a rallentare l’azione amministrativa[32], di talché appare necessaria una complessiva riforma della responsabilità amministrativa, per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le trasformazioni dell’amministrazione e del contesto in cui essa deve operare.
La Corte costituzionale, peraltro, traccia anche il perimetro di una eventuale riforma[33], evidenziando che seppur il legislatore non potrà in ogni caso riproporre una limitazione dell’imputabilità al solo dolo[34] per le condotte attive, potrà, tuttavia, nell’esercizio della discrezionalità che gli compete, attingere al complesso di proposte illustrate nelle numerose analisi scientifiche della materia[35], “alleviando la fatica dell’amministrare, senza sminuire la funzione deterrente della responsabilità amministrativa”:
- adeguata tipizzazione della colpa grave[36];
- introduzione di un limite massimo oltre il quale il danno non viene addossato al dipendente pubblico ma resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse agisce (il c.d. “tetto”, accompagnato eventualmente dalla rateizzazione del debito risarcitorio)[37];
- introduzione di ipotesi di potere riduttivo normativamente tipizzate nei presupposti oltre alla generale ipotesi affidata alla discrezionalità del giudice;
- rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni;
- incentivazione delle polizze assicurative (a cui ha già fatto ricorso il Codice dei contratti pubblici);
- valutazione dell’esclusione della responsabilità colposa per determinate tipologie di atti;
- tentativo di evitare i casi di duplicazione di responsabilità per i medesimi fatti.
7. Riflessioni conclusive
Conclusivamente si può affermare, in linea con quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 132/2024, che il legislatore gode di una discrezionalità sua propria nel definire il perimetro di una futura riforma della responsabilità amministrativa che tenga conto, a regime, di un eventuale nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, ma si ribadisce che tale discrezionalità legislativa si estrinseca nel rispetto del limite della ragionevolezza, di talché non si potrebbe mai addivenire, in un regime ordinario, ad una limitazione della responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo.
Il recente percorso intrapreso dal legislatore sembrerebbe orientato all’underdeterrence: l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. b), della legge n. 114/2024, ne è un chiaro segnale[38].
Quanto alla responsabilità amministrativa è all’esame del Parlamento il progetto di legge C. 1621[39] recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale”, che ha assorbito, quale testo base nell’iter parlamentare in corso, il progetto di legge C. 340 recante “Modifiche all'articolo 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e altre disposizioni riguardanti le funzioni di controllo e consultive e l'organizzazione della Corte dei conti”[40].
Come argutamente già evidenziato, agire solo sul fronte della riduzione della responsabilità amministrativa potrebbe generare una “tolleranza per la fuga da responsabilità[41]” di coloro che gestiscono le risorse pubbliche.
In un tale contesto si staglia il Piano strutturale di bilancio di medio termine che, come noto, il 27 settembre 2024 è stato deliberato dal Consiglio dei ministri italiano nell’ambito delle coordinate della nuova governance economica europea.
In particolare, sul fronte della Pubblica amministrazione, l’Italia, dopo aver premesso che negli ultimi anni ha intrapreso un percorso di miglioramento dell’efficacia della P.A., affrontando le criticità relative all’effettiva capacità amministrativa, all’invecchiamento della forza lavoro e al livello di digitalizzazione, entro il 2026 si è impegnata a migliorare il livello delle competenze e di riqualificazione da parte del personale delle P.A. nonché ad identificare gli indicatori chiave di prestazione, da utilizzare, una volta raccolti su una piattaforma digitale della performance, come strumento anche ai fini del budget e della pianificazione, mentre a partire dal 2027, a consolidamento e rafforzamento dei risultati raggiunti, intende proseguire nella gestione strategica delle risorse umane (attraverso la valorizzazione del merito e di percorsi di carriera allineati alla performance) e nel potenziamento della capacità tecnica e delle competenze (anche attraverso l’imponente digitalizzazione della P.A.).
L’impianto generale mira, dunque, a promuovere un modus operandi orientato al raggiungimento del risultato che potrà garantire, attraverso una maggiore flessibilità, adattabilità nella gestione del lavoro e senso di responsabilità, prestazioni realmente migliori, a vantaggio di cittadini e imprese[42].
Orbene, se queste sono le linee generali dell’azione dell’Italia nel medio periodo sul versante della P.A. - ancora non tradottesi in un articolato normativo - sarebbe auspicabile che il legislatore valutasse una revisione della disciplina della responsabilità amministrativa in parallelo con la prospettata riforma della P.A., al fine di individuare in modo calibrato e maggiormente meditato un giusto punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra apparato e agente pubblico, ragionando sul quantum da destinare a carico dell’apparato - e quindi a carico della collettività - soprattutto nel rinnovato contesto dei vincoli previsti con il Regolamento (UE) n. 1263 del 2024.
[1] Il termine originario previsto dall’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020 e fissato al 31 luglio 2021 è stato oggetto di prima proroga al 31 dicembre 2021 già in sede di conversione con la legge n. 120/2020. Una successiva proroga al 30 giugno 2023 è stata disposta dall’art. 51, comma 1, lett. h), del decreto-legge n. 77/2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 108/2021, ed un ulteriore rinvio al 30 giugno 2024 è stato previsto dall’art. 1, comma 12-quinquies, lett. a), del decreto-legge n. 44/2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 74/2023. Infine, l’ultima proroga è stata accordata al 31 dicembre 2024 dall’art. 8, comma 5-bis, del decreto-legge n. 215/2023, così come convertito con modificazioni dalla legge n. 18/2024.
[2] Per un commento a tale ordinanza si rinvia a A. INDELICATO, Responsabilità e “scudo” erariale: retrospettive e prospettive dopo la rimessione alla Consulta, in Rivista della Corte dei conti, 2023, 6, pag. 217.
[3] Per un approfondimento, A. CANALE, L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, in A. CANALE – D. CENTRONE – F. FRENI – M. SMIROLDO (a cura di), La Corte dei conti. Responsabilità, contabilità, controllo, Milano, 2022, pag. 133 e ss..
[4] Ai sensi dell’art. 82, comma 1, del regio decreto n. 2440/1923, “l'impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo”.
[5] Ai sensi dell’art. 52, comma 1, del regio decreto n. 1214/1934, “i funzionari, impiegati ed agenti, civili e militari, compresi quelli dell'ordine giudiziario e quelli retribuiti da Amministrazioni, Aziende e Gestioni statali ad ordinamento autonomo, che nell'esercizio delle loro funzioni, per azione od omissione imputabili anche a sola colpa o negligenza, cagionino danno allo Stato o od altra Amministrazione dalla quale dipendono, sono sottoposti alla giurisdizione della Corte nei casi e modi previsti dalla legge sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato e da leggi speciali”.
[6] Ai sensi dell’art. 18 del D.P.R. n. 3/1957, “l'impiegato delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, è tenuto a risarcire alle amministrazioni stesse i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio”.
[7] Salvo in taluni limitati casi in cui veniva richiesto il più elevato grado della colpa grave, come nell’ipotesi descritta dall’art. 83, comma 3, del regio decreto n. 2440/1923, ai sensi del quale “quando nel giudizio di responsabilità la Corte dei conti accerti che fu omessa denunzia, a carico di personale dipendente, per dolo o colpa grave, può condannare al risarcimento, oltre che gli autori del danno, anche coloro che omisero la denunzia”, e nell’ipotesi di cui all’art. 53, comma 3, del regio decreto n. 1214/1934, secondo cui “quando nel giudizio di responsabilità la Corte accerti che, per dolo o colpa grave fu omessa la denunzia, a carico di personale dipendente, può condannare al risarcimento, oltre gli autori del danno, anche coloro che omisero la denunzia”.
[8] Come segnalato, nella dialettica parlamentare si erano registrate posizioni contrarie. A titolo esemplificativo si riporta il contenuto di quanto dichiarato dai seguenti deputati nel corso dell’esame in commissione e nella discussione in sede assembleare (dichiarazioni reperibili sul sito www.camera.it):
- Franco Frattini, secondo cui “per quanto concerne l'ambito della procedibilità e della sottoponibilità a giudizio per fatti configuranti la violazione del principio della buona amministrazione, sotto il profilo soggettivo della responsabilità evidenzia come nel provvedimento sia stata innalzata la relativa soglia, limitandola alle ipotesi di dolo o colpa grave. La gravità della disposizione va esaminata anche alla luce della previsione dell'abrogazione del comma 4 dell'articolo 1 della legge n. 20 del 1994 prevista dal comma 2 dell'articolo 11 del disegno di legge n. 2564, recante «Misure in materia di immediato snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo», approvato dal Senato; quest'ultima disposizione della legge n. 20 del 1994 fu infatti introdotta allo scopo dì colpire gravissimi fatti registratisi nella gestione di talune strutture amministrative, come dimostrano, per esempio, le recenti vicende di «malasanità» e la relativa abrogazione potrebbe anche leggersi come una indiscriminata sanatoria di comportamenti illeciti. Ricorda come peraltro la stessa Corte si sia resa conto della difficoltà di evidenziare profili di responsabilità in circostanze in cui l'elemento oggettivo dell'attività interferisca con la funzione amministrativa in concreto esercitata, elaborando, per esempio, alcune ipotesi di esimente quali quella dell'errore professionale scusabile e della carenza organizzativa dell'amministrazione. Alla luce, pertanto, di tali indicazioni giurisprudenziali non ritiene necessario limitare alle sole ipotesi di dolo e colpa grave l'insorgere della responsabilità, soprattutto ove si considerino le ipotesi di atti amministrativi dovuti: infatti è immaginabile che, innalzando la soglia di responsabilità, in tali ultime ipotesi si possa incoraggiare l'inefficienza degli amministratori nel compimento persino degli atti necessari. Nel preannunciare la presentazione di emendamenti volti a rimediare alle disfunzioni appena evidenziate, ritiene che l'innalzamento della soglia di responsabilità possa quanto meno essere limitato allo svolgimento di attività discrezionali, nell'ambito delle quali, essendo necessario ponderare gli interessi pubblici coinvolti, la colpa lieve può essere riconducibile nell'ambito della responsabilità di funzione” (esame in sede referente, I commissione, 27 novembre 1996); inoltre, il medesimo deputato, nel prosieguo delle sedute della I Commissione della Camera dei deputati, nel prendere in considerazione l'emendamento 3.2., “si rende conto che esiste un reale problema per numerosi amministratori e funzionari pubblici che agiscono in un contesto di norme spesso contraddittorie. Non ritiene però condivisibile la proposta di elevare la soglia di responsabilità fino alla sola ipotesi della condotta dolosa: rileva come si tratti di un punto sul quale si registrano contrasti non solo dal punto di vista giuridico e politico ma anche sotto il profilo della stessa visione dell'ordinamento. Ritiene infatti che l'esclusione della responsabilità per colpa lieve non solo per le ipotesi di attività discrezionale ma anche per quelle di attività vincolata, registrabile per esempio in occasione dell'emissione di mandati di pagamento a persona diversa dal soggetto giuridicamente legittimato o di emissione di titoli di spesa privi di giustificativo, non consentono l'affermazione della responsabilità dell'agente. Invece la previsione della responsabilità anche per colpa lieve è volta ad evitare una surrettizia sanatoria di comportamenti indebiti ai danni della pubblica amministrazione, con i toni propri di un «colpo di spugna», in quanto, trattandosi di norme processuali, quelle in via di approvazione si applicherebbero anche ai procedimenti in corso”; quanto all'emendamento 3.4, sottoscritto da lui e dal deputato Giovanardi, “ha lo scopo di prevedere che l'innalzamento della soglia di responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave valga solo nelle ipotesi di attività amministrativa discrezionale”, preannunciando che “in tutte le sedi contrasterà quella che considera una scelta che contraddice la lotta in atto contro la corruzione e l'immoralità” (esame in sede referente, I commissione, 11 dicembre 1996);
- Rolando Fontan, secondo cui “occorre innanzitutto spiegare ai cittadini che si è definitivamente eliminato il concetto di colpa lieve. Si può essere favorevoli o contrari, ed una parte della giurisprudenza non sempre la considerava, ma di fatto il provvedimento in discussione sancisce definitivamente l'eliminazione dell'istituto giuridico, se così vogliamo chiamarlo, della colpa lieve. Il gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania ritiene che ciò non sia certo un segnale preciso e chiaro verso quell'efficienza e quella trasparenza che dovrebbe esistere nell'ambito della pubblica amministrazione anche in relazione alla responsabilità che ciascuno dovrebbe avere, soprattutto alla luce di quanto finora è accaduto” (discussione in Assemblea, seduta n. 118 del 18 dicembre 1996);
- Alfredo Mantovano, secondo cui “la limitazione ai casi di dolo o colpa grave per un verso è inutile, per altro verso è pericolosa. È inutile perché risponde ad una esigenza che è già stata tenuta presente da tempo dalla giurisprudenza della Corte dei conti, la quale, con l'applicazione degli istituti dell'errore professionale scusabile e del rilievo esimente per carenze di organizzazione amministrativa, ha già delimitato l'ambito delle responsabilità ai casi di arbitrio o di cattiva amministrazione. Per altro verso, è pericolosa perché a questo punto ci si attenderà (spero che ciò non si verifichi) fumose distinzioni tra culpa lata, levis, levissima, in parallelo ad altrettanto oscure ipotesi di negligenza magna, exacta, exactissima”, aggiungendo che “Se ci si lamenta, e concludo, che la giustizia penale ha assunto un ruolo abnorme, assolutamente non decoroso per un paese civile, se ci si lamenta che non funzionano altri strumenti di controllo diversi da quello penale, se si auspica che la giustizia penale sia solo una extrema ratio mentre oggi occupa tutta la scena, si deve poi essere coerenti sino in fondo e non accettare questa limitazione di responsabilità contabile. In qualunque paese civile l'amministrazione funziona perché incorpora il deterrente rappresentato dalla possibilità reale e non puramente teorica di serie sanzioni sia amministrative sia economiche. Mi chiedo perché tali sanzioni non debbano operare e perché, conseguentemente, tanti pubblici impiegati e funzionari non debbano smettere di comportarsi in modo scorretto ed inefficiente” (discussione in Assemblea, seduta n. 118 del 18 dicembre 1996).
[9] Sul punto si riporta quanto dichiarato dal ministro Franco Bassanini, nella I Commissione della Camera dei deputati, in data 28 novembre 1996 (come reperito dal sito www.camera.it): “L'unico aspetto innovativo introdotto dal Governo in carica nella disciplina recata dal provvedimento in esame è costituito dalla limitazione della responsabilità contabile alle sole ipotesi di dolo o colpa grave. Il Governo ha ritenuto di introdurre tale innovazione allo scopo di definire in modo più convincente il rapporto tra il principio di legalità - in connessione con la definizione delle singole linee di responsabilità - e l'esercizio legittimo e doveroso della discrezionalità amministrativa, che comporta sempre una responsabilità, che tuttavia non sempre si configura come responsabilità contabile. Precisa, infatti, che ci si trova di fronte ad una serie di casi in cui, anche a causa della complessità della legislazione e di vistosi esempi di «iperlegificazione», una responsabilità di natura contabile è stata configurata anche quando la discrezionalità amministrativa risultava esercitata nell'ambito della legge e tuttavia in presenza di contraddizioni e incertezze derivanti dalla normativa relativa ai procedimenti di decisione e di controllo. Mantenendo ferma la soglia di responsabilità anche alle ipotesi di colpa lieve vi era pertanto il rischio di una paralisi della pubblica amministrazione o comunque di un assetto immobilistico dannoso per l'efficienza e l'efficacia della relativa azione in rapporto agli obiettivi. Per queste ragioni, tenuto conto della necessità di garantire il soddisfacimento dei diritti e degli interessi dei cittadini e degli amministratori, il Governo ha deciso di limitare le ipotesi di responsabilità contabile ai casi di dolo e colpa grave”.
[10] Al riguardo si riporta quanto dichiarato in Assemblea dal deputato Vincenzo Cerulli Irelli, relatore di maggioranza, nella seduta n. 118 del 18 dicembre 1996 (reperibile sul sito www.camera.it), avente ad oggetto la discussione della conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543: “per quanto concerne gli elementi soggettivi della responsabilità in capo agli agenti autori del danno, il testo, nel ribadire quanto già contenuto nel decreto-legge (e cioè che occorre che l'agente abbia agito con dolo o colpa grave), aggiunge la specificazione, che riteniamo significativa ed importante, che resta in ogni caso preclusa la sindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Questa è l'aggiunta proposta dalla Commissione. Un'aggiunta che riteniamo necessaria non tanto perché non fosse già contenuta in via di interpretazione nel precedente ordinamento, quanto perché una giurisprudenza abbastanza diffusa della Corte in molti casi tende a travalicare questi limiti e ad entrare nel merito delle scelte discrezionali. È per questo che la Commissione ha inteso ribadire tale importante concetto”.
[11] Così D. BOLOGNINO, Ancora un tassello per la definizione di un nuovo equilibrio della responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Rivista di Diritto ed Economia dei Comuni, 2024, 2, pag. 151.
[12] Peraltro, come sottolineato dal giudice a quo, escludendo qualsiasi condotta attiva gravemente colposa, ivi comprese quelle che non si risolvono nell’adozione di provvedimenti amministrativi ma si configurano a mezzo di condotte fattuali.
[13] Riprendendo testualmente quanto indicato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 371/1998 (e segnalando, nello stesso senso, anche le sentenze n. 203/2022 e n. 123/2023).
[14] Secondo C. PAGELLA, La Corte dei conti solleva una questione di legittimità costituzionale relativa al c.d. “scudo erariale”: la Consulta chiamata di nuovo a pronunciarsi sul “Decreto semplificazioni” in Sistema penale, 2024, 3, pag. 59, “il legislatore pandemico ha inteso il “buon andamento” in termini di decisionismo, ritenendo che agire – magari, in alcuni casi, anche incautamente – fosse in ogni caso meglio che astenersi rispetto a qualsiasi scelta (anche minimamente) rischiosa. Il legislatore non poteva non sapere che un allentamento delle responsabilità avrebbe incoraggiato alcuni funzionari all’incuria, ma ha accettato il rischio, ritenendo che la paralisi dell’attività amministrativa produca danni maggiori. Affermare che l’allentamento della responsabilità erariale non tutela bensì danneggia il buon andamento, perché incoraggia l’incuria, significa aderire a una lettura opposta, in base alla quale è meglio astenersi dall’agire ogniqualvolta si rischi di sbagliare, perché una decisione errata può danneggiare la P.A. più di tante decisioni buone che avrebbero potuto, ma non sono state assunte”. In particolare l’Autrice sostiene, riprendendo il pensiero di C. PAGLIARINI, espresso in Colpa grave ed equità nel giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti, Padova, 2002, pag. 273, che “Quali contenuti attribuire al “buon andamento” (legalità o, al contrario, velocizzazione) e, dunque, quali strumenti scegliere per perseguirlo, è decisione che rientra, ci sembra, nell’ambito delle scelte di opportunità riservate al legislatore: la Consulta non può allora far altro che aderire alla lettura che del concetto di buon andamento fornisce il legislatore”.
[15] Si citano, a titolo esemplificativo, A. ROMANO TASSONE, Sulla formula “Amministrazione per risultati”, in Scritti in onore di Elio Casetta, Napoli, 2011, pag. 813 e ss.; G. CORSO, Amministrazione di risultati, in Annuario dell'Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2002, pag. 127 e ss.; M. CAMMELLI, Amministrazione di risultato, in Annuario dell'Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2002, pag. 107 e ss.; M. IMMORDINO – A. POLICE (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati. Atti del convegno di Palermo 27 - 28 Febbraio 2003, Torino, 2004.
[16] Si riporta il testo integrale dell’articolo 1, rubricato “Principio del risultato”: 1. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell'affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza. 2. La concorrenza tra gli operatori economici è funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell'affidare ed eseguire i contratti. La trasparenza è funzionale alla massima semplicità e celerità nella corretta applicazione delle regole del presente decreto, di seguito denominato «codice» e ne assicura la piena verificabilità. 3. Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Esso è perseguito nell'interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell'Unione europea. 4. Il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l'esercizio del potere discrezionale e per l'individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva.
[17] Si riporta il testo integrale dell’articolo 2, rubricato “Principio della fiducia”: 1. L'attribuzione e l'esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell'azione legittima, trasparente e corretta dell'amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici. 2. Il principio della fiducia favorisce e valorizza l'iniziativa e l'autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l'acquisizione e l'esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato. 3. Nell'ambito delle attività svolte nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti, ai fini della responsabilità amministrativa costituisce colpa grave la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l'omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell'attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell'agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto. Non costituisce colpa grave la violazione o l'omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti. 4. Per promuovere la fiducia nell'azione legittima, trasparente e corretta dell'amministrazione, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale, nonché per riqualificare le stazioni appaltanti e per rafforzare e dare valore alle capacità professionali dei dipendenti, compresi i piani di formazione di cui all'articolo 15, comma 7.
[18] Così M. RENNA, I principi, in S. FANTINI – H. SIMONETTI (a cura di), Il nuovo corso dei contratti pubblici, Milano, 2023, pag. 11. L’Autore, inoltre, precisa che “con il richiamo ai tre principi in questione il legislatore ci ricorda che la logica del risultato non può essere perseguita a ogni costo, e che, in particolare, il prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo di un sistema di affidamenti rapido ed economicamente efficiente non può consistere in un passo indietro sul fronte della legalità, della trasparenza e della concorrenza”.
[19] Tuttavia, secondo M. RENNA, I principi, in S. FANTINI – H. SIMONETTI (a cura di), Il nuovo corso dei contratti pubblici, Milano, 2023, pag. 15, “la positivizzazione di principi come quello del risultato non determina, quale unico effetto, la spinta propulsiva verso l’efficienza e l’emancipazione della p.a. da inutili “pastoie formalistiche”, ma può anche rappresentare uno strumento per mettere in discussione i confini tra merito e discrezionalità”, con eventuale riflesso negativo sull’esigenza di velocizzazione in caso di esplosione del contenzioso.
[20] Così A. RIPEPI, La Corte costituzionale, con una sentenza “storica”, invita il legislatore a riconsiderare il sistema della responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici: verso un (auspicabile) cambio di paradigma, in Rivista Labor, 24 luglio 2024.
[21] Secondo F. CINTIOLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 2024, 19, pag. 125, “l’importanza di questa menzione è dovuta ad una triplice ragione. In primo luogo, la riforma dei contratti pubblici testimonia che l’ordinamento insiste ancor oggi, come sottolinea la sentenza, nel richiedere all’amministrazione efficienza e risultati concreti e non semplicemente l’asettica applicazione di leggi e regolamenti. In secondo luogo, si segnala una convergenza tra il recente atteggiamento del legislatore e quello espresso dalla Corte in questa medesima sentenza, ché l’accostamento tra risultato e fiducia nella p.a. serve proprio a delimitare il rischio della responsabilità e ad incentivarne l’azione in un momento storico molto particolare. In terzo luogo, traspare una considerazione positiva su questi propositi riformatori espressi dalla nostra Corte costituzionale”.
[22] Ad avviso di F. CINTIOLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 2024, 19, pag. 132, vi è il riconoscimento di quella nuova “discrezionalità dell’interprete incerto che sicuramente non è vero e proprio merito amministrativo, ma che esemplifica un’attività che non è fatta solo di fredda esegesi di norme di diritto positivo, perché implica invece mediazione di interessi e ragionevole proiezione verso il risultato”, di talchè secondo l’Autore occorre “apprestare una forma di protezione a beneficio del funzionario”, cercando “un punto di equilibrio storicamente aggiornato”.
[23] Per un approfondimento, A. BARONE, Il diritto del rischio, Milano, 2004.
[24] Secondo V. TENORE, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, pag. 199, si tratta di un “suggestivo neologismo, ma assai lontano dalla realtà fenomenica della pubblica amministrazione e dei suoi uomini”.
[25] A titolo esemplificativo, la stessa Corte costituzionale cita due ipotesi. La prima concerne il trattamento differenziato riservato agli agenti contabili e agli ordinatori di spesa delle sovrintendenze nel quinquennio antecedente all’entrata in vigore della legge n. 340/1965, recante “Norme concernenti taluni servizi di competenza dell’Amministrazione statale delle antichità e delle arti”. In particolare, la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 11 - con cui erano stati, appunto, limitati al quinquennio antecedente all’entrata in vigore della predetta legge da un lato l’obbligo degli agenti contabili di dare giustificazione delle loro gestioni mediante la presentazione dei conti giudiziali, dall’altro la loro responsabilità, unitamente a quella degli ordinatori di spesa, per i soli danni arrecati all’Erario imputabili a dolo - è stata dichiarata non fondata con sentenza della Corte costituzionale n. 108/1967, esplicitando i motivi di tale trattamento differenziato, emergenti già dai lavori preparatori della legge n. 340/1965, sia per circostanze di carattere oggettivo, quali le particolari ed effettive esigenze di servizio che dettero vita alle gestioni fuori bilancio e gli indubbi notevoli vantaggi che esse hanno procurato allo Stato, sia di carattere soggettivo, perché “sarebbe non solo disumano ma controproducente nell’interesse della collettività se si continuasse a mantenere nello stato di disagio e apprensione moltissimi ottimi funzionari che hanno solo la colpa di avere anteposto al regolamento di contabilità generale la necessità di salvare tesori di immenso valore culturale ed economico”, sia infine per la transitorietà della disciplina. Per un approfondimento, M. CANTUCCI, In tema di gestioni fuori bilancio relative all’amministrazione delle antichità e delle belle arti, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 1968, parte II, pag. 219. La seconda ipotesi attiene alla limitazione della responsabilità del dipendente regionale per danni causati all'Amministrazione ai soli casi di dolo e colpa grave, prevista dall’art. 52, primo comma, della legge regionale siciliana n. 7/1971 (recante "Ordinamento degli uffici e del personale dell'Amministrazione regionale"). La questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata non fondata con sentenza della Corte costituzionale n. 1032/1988, in quanto viene lasciata “al discrezionale apprezzamento del legislatore la determinazione e la graduazione dei tipi e dei limiti di responsabilità che, in relazione alle varie categorie di dipendenti pubblici o alle particolari situazioni regolate, appaiano come le forme più idonee a garantire l'attuazione dei predetti principi costituzionali”, di talché “gli artt. 97 e 103, secondo comma, Cost. non possono condurre all'affermazione di un principio di inderogabilità per i dipendenti pubblici delle comuni regole della responsabilità, ma portano, piuttosto, all'affermazione di un principio di responsabilità di quei dipendenti in conformità delle regole a essi proprie”; in tal modo “in sede di giudizio di legittimità costituzionale, le leggi disciplinanti la responsabilità dei pubblici dipendenti sono sindacabili, in riferimento ai parametri invocati, solo sotto il profilo della ragionevolezza della disciplina adottata e delle differenziazioni introdotte”. Sul tema, v. F. GARRI, Grado della colpa nella responsabilità dei pubblici dipendenti, regolarità della gestione finanziaria e discrezionalità del legislatore, in Giurisprudenza costituzionale, 1988, 10, parte I, sez. I, pag. 5038.
[26] Si leggono nel preambolo del decreto-legge n. 76/2020 le ragioni della sia adozione nei seguenti termini: “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di realizzare un'accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità; ritenuta altresì la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e diffusione dell'amministrazione digitale, nonché interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di adottare misure di semplificazione in materia di attività imprenditoriale, di ambiente e di green economy, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all'emergenza epidemiologica da Covid-19”.
[27] Per un approfondimento: E. APRILE, Questioni di legittimità costituzionale in tema di abuso di ufficio, in Cassazione penale, 2022, 3; S. BATTINI, Abuso d'ufficio e burocrazia difensiva nel groviglio dei rapporti fra poteri dello Stato, in Giornale di diritto amministrativo, 2022, 4; F. MERUSI, La Corte fra residuati risorgimentali e limiti all'efficienza della Pubblica Amministrazione causati dal giudice penale, in Giurisprudenza costituzionale, 2022, 1, pag. 106; M.C. UBIALI, Emergenza Covid e riforma del delitto di abuso d'ufficio per agevolare la ripresa del Paese: brevi note alla sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, 2022, 1, pag. 120; G.L. GATTA, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in www.sistemapenale.it, 2023, 5; A. LUBERTI, La sinergia delle responsabilità dei pubblici dipendenti tra semplificazione, sanzioni penali e risarcimento del danno erariale, in www.dirittoeconti.it, 2022.
Si rammenta che il Tribunale di Firenze, con la recente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del 24.9.2024, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 1, comma 1, lettera b) della legge n. 114/2024 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 10 agosto 2024 ed entrata in vigore il 25 agosto 2024), nella parte in cui abroga l’art. 323 c.p. rubricato “Abuso d’ufficio”, per violazione degli artt. 97, 11 e 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione - c.d. Convenzione di Merida – adottata dall’assemblea generale dell’O.N.U. il 31 ottobre 2003 con la risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con la legge n 116/2009. Nel richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 8/2022, il Tribunale di Firenze ha, dunque, ritenuto che l’affermazione per cui in astratto le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni, non vale nel caso di specie in quanto il vuoto di tutela determinato dall’abrogazione tout court dell’art. 323 c.p. e dalla sostanziale inapplicabilità del novellato art. 346-bis c.p. si pone in contrasto con l’art. 97 della Costituzione. Secondo il Tribunale di Firenze, pertanto, è affetta da irragionevolezza la norma abrogativa dell’art. 323 c.p. “atteso che: da un lato, non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. “paura della firma” o “burocrazia difensiva”) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (ed ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale; dall’altro lato, non appare adeguatamente ponderato (e men che meno contenuto o neutralizzato) l’effetto dirompente che può avere la riforma, per il venir meno dell’effetto general-preventivo spiegato dalla presenza nell’ordinamento di una norma di chiusura che - seppur ormai relegata ad operare in casi eccezionali di particolare ed obiettiva gravità - evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura”.
[28] Secondo la sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale “per opinione ampiamente diffusa, deve individuarsi, infatti, proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè, dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”). A questi fini, poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante. Tutto ciò, peraltro, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”.
[29] Al riguardo, R. VISCOMI, Burocrazia difensiva, danno erariale e costi del non fare, in www.contabilitàpubblica.it, 2023.
[30] Per un approfondimento, M. FRANCAVIGLIA, Sulle traiettorie divergenti della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica sulla decretazione d'urgenza. Un tentativo di analisi sinottica a margine di Corte cost., sent. n. 8 del 2022, in www.giurcost.org, 2022, 3; C. ANTONUCCI, Abuso della decretazione d'urgenza e "monocameralismo alternato" nell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in www.federalismi.it, 2024, 12.
[31] Peraltro proprio l’attuazione del P.N.R.R., che deve avvenire secondo un cronoprogramma, con milestones definite e trasferimento delle risorse periodiche per tranches a seguito di un procedimento di verifica del conseguimento da parte dello Stato dei traguardi intermedi, aveva indotto il legislatore a considerare che ogni ritardo o ogni incertezza della P.A. potesse compromettere il rispetto del cronoprogramma stabilito, bloccando alla scadenza prevista l’erogazione da parte dell’U.E. della tranche di risorse stanziate, di cui l’Italia figura come il maggior beneficiario a livello europeo. Quanto alla governance del P.N.R.R. e al modello verticistico e centralizzato adottato, si rinvia alle considerazioni di M. MACCHIA, Il Governo in bikini. Fisionomia del potere governativo tra norma e prassi, Milano, 2024, pag. 154 e ss..
[32] Sul punto, M. CLARICH, Varie le misure da mettere in campo contro il rischio dell’”overdeterrence”, in Guida al diritto, 2024, 39, pag. 109, nel constatare che le misure per scongiurare il rischio dell’“overdeterrence” sono di vario tipo, auspica che il Parlamento dia corso in tempi rapidi a una riforma equilibrata.
[33] Al riguardo V. TENORE, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, pag. 204, adotta la definizione di “sentenza pungolatoria”. Per una riflessione sulla portata innovativa della tecnica decisoria utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 132/2024 si rinvia a F.S. MARINI, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, pag. 1 e ss.. Inoltre, secondo L. BALESTRA, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giurisprudenza italiana, 2024, 10, pag. 2169, “verrebbe in conclusione da affermare che l’intervento della Corte costituzionale, di fatto, si sia risolto in un ‘‘giudizio di legittimità preventivo’’ rispetto alla proposta normativa attualmente in discussione”.
[34] Limitazione, si ribadisce, che ha trovato giustificazione esclusivamente in una disciplina provvisoria radicata nelle caratteristiche peculiari del contesto precedentemente esposto.
[35] Si cita, a mero titolo esemplificativo, S. BATTINI e F. DECAROLIS, Indagine sull’amministrazione difensiva, in Rivista italiana di Public Management, 2020, vol. 3, n. 2, pag. 342. Tuttavia, A. GIORDANO, Modelli di burocrazia e sistema della responsabilità. Appunti nella prospettiva “Law and economics”, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 3, pag. 39, segnala che “nella prospettiva Law and Economics, non sembra che la novella abbia migliorato la valutazione di efficienza dell’impianto normativo. L’eclissi della colpa grave depotenzia la forza preventiva, dissuasiva e repressiva del sistema, producendo l’effetto di deresponsabilizzare il pubblico funzionario. Al rischio di ineffettività si aggiunge la dubbia incidenza della riforma sullo spettro della “paura della firma”. Ammesso, infatti, che a determinarla siano gli orientamenti contabili (cosa che invero non trova riscontri obiettivi), la valorizzazione dei segmenti omissivi delle condotte e la possibile attivazione di azioni di responsabilità in sede civile inducono a dubitare della stessa idoneità del novellato regime a combattere l’inerzia nel comparto pubblico. Se le regole di responsabilità devono ridimensionare le ipotesi di maladministration, incrementando l’efficienza del comparto pubblico, regimi scarsamente dissuasivi non sembrano idonei allo scopo”.
[36] Secondo V. TENORE (a cura di), La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, V ed., Milano, Giuffré, 2022, pag. 435 e ss., una tipizzazione di fatto delle macroipotesi di colpa grave è stata già operata da anni, dalla Corte dei conti sia in via giurisprudenziale, sia attraverso un importante indirizzo di coordinamento (n. 6 del 1996).
[37] Sulla compatibilità tra il tetto e il potere riduttivo del giudice contabile, previsto dall’art. 83, comma 1, del regio decreto n. 2440/1923, la Corte costituzionale precisa che il primo è fissato ex ante dal legislatore e vale obbligatoriamente per tutti, mentre il secondo è rimesso ad un apprezzamento discrezionale ex post del giudice contabile.
[38] Tuttavia, osserva M. DONINI, Abuso di ufficio ultimo atto. Una abolitio criminis per evitare i processi, non gli illeciti, in www.diariodidirittopubblico.it, 3 novembre 2024, come “Il dato più sorprendente di tutta questa vicenda abrogativa è la sottovalutazione dei più elementari criteri di politica legislativa del diritto penale moderno. Un sistema giuridico laico e garantista non ha lo scopo di punire attraverso il diritto penale, ma persegue l’obiettivo di prevenire i reati. L’effetto preventivo delle leggi penali costituisce l’essenza politica del loro esistere, dall’illuminismo in poi: tale essenza non è il castigo. Se abolisco un reato devo o ritenere che i fatti che perseguiva non meritano nessuna sanzione, essendo da reputarsi del tutto leciti, oppure (ed è questo il caso dell’abuso di ufficio, restando tutti illeciti i fatti non più sanzionati penalmente), devo sapere come l’ordinamento potrà gestire la prevenzione. Ma non è stato previsto neppure un illecito amministrativo sostitutivo di quelli penali. C’è quindi un profilo di irragionevolezza nella specifica carenza concreta di prevenzione per come risulta dall’abolitio criminis che si innesta nel nostro ordinamento”.
[39] Per un’analisi de iure condendo G. TERRACCIANO, La riforma della responsabilità amministrativa, tra esigenze di efficienza delle PP.AA. e di protezione degli interessi erariali per consentire un’autonomia decisionale dei funzionari pubblici più consapevole e meno timorosa, in Rivista scientifica trimestrale di diritto amministrativo, 2024, 3, pag. 881 e ss..
[40] Sul progetto di legge C. 1621 (cui è unito il progetto di legge C. 340) si è espressa la Corte dei conti a Sezioni riunite in sede consultiva nell’adunanza del 28 ottobre 2024 rendendo il parere n. 3/2024/CONS. Si legge nel parere che l’esame dell’articolato, riflettendosi in modo significativo sulle funzioni della Corte dei conti, costituisce “l’occasione per una riflessione approfondita sul ruolo e sulle funzioni della Magistratura contabile che, nel quadro delle norme costituzionali e di diritto dell’Unione europea contenute nei trattati e nelle fonti di diritto derivato, costituisce un presidio fondamentale di garanzia e di tutela delle risorse pubbliche nel cointestato e coordinato esercizio delle funzioni di controllo e giurisdizionali”. In particolare, nel parere si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024, ove si sostiene proprio “la necessità di una complessiva riforma della responsabilità amministrativa tesa a incentivare il buon andamento dell’azione amministrativa, fornendo alcune rilevanti indicazioni che muovono tutte da un chiaro, inequivocabile e indiscutibile principio: il mantenimento “a regime” della responsabilità per colpa grave, correlato a un necessario rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti”.
[41] L. CASO, Controllo al posto dello scudo erariale, Il sole 24 ore, 22 agosto 2024.
[42] Così il Piano strutturale di bilancio di medio termine a pag. 128.
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