ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il lavoro agile nelle rinnovate logiche del sistema produttivo
di Gianni Toscano
Sommario: 1. Il lavoro agile quale paradigma del moderno sistema produttivo. - 2. (segue) Le (apparenti) differenze con il c.d. telelavoro. - 3. Il contenuto dell’accordo individuale: il luogo di svolgimento della prestazione e l’esercizio dei poteri datoriali. - 4. Orario di lavoro e diritto alla disconnessione nell’ordinamento interno e nell’esperienza francese e spagnola. - 5. Il trattamento economico e normativo. - 6. Il diritto di recesso dall’accordo di lavoro agile. - 7. La tutela della salute e sicurezza dello smart worker. - 8. Riflessioni conclusive (anche) alla luce dell’attuale contesto pandemico.
1. Il lavoro agile quale paradigma del moderno sistema produttivo.
L’epoca attuale è permeata da un incessante processo di digitalizzazione, il cui raggio d’azione sta progressivamente assumendo latitudini sempre più ampie.
In questa sede, non essendo possibile effettuare una generale disamina del fenomeno - che meriterebbe ulteriori riflessioni anche sul piano sociologico ed economico - si tenterà di metterne in rilievo l’impatto sull’attività d’impresa e, soprattutto, sui rapporti di lavoro[1].
Il modello di “Impresa 4.0” rappresenta l’ultima tappa del processo evolutivo delle attività industriali[2], in cui si registra un’intensa interazione tra uomo e macchina, mediata dall’utilizzo di sistemi informatici sempre più sofisticati ed in grado di gestire un considerevole flusso di dati e informazioni[3].
È in tale contesto che si fanno sempre più strada le c.d. intelligenze artificiali, attraverso la creazione di robot capaci di interagire con gli esseri umani e di sostituirsi ad essi nello svolgimento di talune attività lavorative[4].
A partire dagli anni novanta del secolo scorso, stiamo, infatti, assistendo ad un progressivo sviluppo tecnologico[5] che ha dato vita a quella che in dottrina è stata definita “società telematica”, “destinata a sostituire quella industriale e i suoi metodi di produzione e a ridurre in modo vistoso il lavoro umano”[6].
Una significativa tappa del processo evolutivo in atto, da valutare in termini positivi, è rappresentata dall’approvazione della l. 22 maggio 2017, n. 81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato”, che disciplina, inter alia, il c.d. “lavoro agile”, anche noto come “smart working”[7].
Il lavoro agile, applicabile anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, ben lungi dal rappresentare una nuova tipologia contrattuale, costituisce una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa sganciata dai tradizionali schemi legati a precipui orari e luoghi di lavoro[8].
In chiave ricostruttiva, unitamente al telelavoro e al lavoro tramite piattaforme digitali, può essere considerata una species del più ampio genus del c.d. “lavoro a distanza” (o “da remoto”)[9].
Quanto alla disciplina, preliminarmente, non può farsi a meno di rilevare la singolare la scelta del legislatore di collocarla all’interno della l. n. 81/2017, che, com’è noto, è stata emanata per disciplinare in maniera organica il lavoro autonomo imprenditoriale[10].
Un ulteriore aspetto da mettere sin da subito in rilievo[11] è rappresentato dall’espresso riferimento agli accordi fra le parti individuali del rapporto per la definizione di modalità essenziali di svolgimento dello stesso, quali, a titolo esemplificativo: l'individuazione del luogo di svolgimento della prestazione, l’individuazione e la distribuzione dell’orario di lavoro, le modalità dei relativi controlli.
L’attribuzione di queste decisioni all’autonomia individuale, piuttosto che a quella collettiva, rappresenta una significativa novità per il nostro ordinamento.
Guardando più da vicino alle disposizioni relative al lavoro agile, l’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 81/2017 chiarisce che le finalità della disciplina in esame sono quelle di “incrementare la competitività” e “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Quanto al primo obiettivo, diretta espressione del principio della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., non v’è dubbio che esso risponda ad esigenze imprenditoriali, posto che la modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, per i suoi effetti positivi sulla salute del lavoratore, può certamente consentire un vantaggio per l’azienda in termini di produttività e raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Il secondo obiettivo, da intendersi quale manifestazione dei principi costituzionali posti a tutela del lavoratore (artt. 2, 3, 4 e 35 Cost.), risponde invece all’esigenza di attuare politiche del lavoro c.d. family friendly, volte a favorire modelli organizzativi che, consentendo la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata[12], contribuiscono al benessere psico-fisico del lavoratore[13].
Alla luce delle predette finalità, dunque, il lavoro agile si traduce in un reciproco vantaggio (win-win) per l’impresa e il lavoratore[14].
Il medesimo comma, inoltre, nel prevedere che le disposizioni del Capo II “promuovo il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”, da un lato, circoscrive l’ambito di applicazione ai soli rapporti di lavoro ex art. 2094 c.c.[15] e, dall’altro prevede che le concrete modalità del lavoro agile debbano essere stabilite mediante accordo individuale tra le parti, che deve essere stipulato per iscritto “ai fini della regolarità amministrativa e della prova” e può avere una durata determinata o indeterminata[16].
2. (segue) Le (apparenti) differenze con il c.d. telelavoro.
La disamina del lavoro agile non può però prescindere da alcune (sia pur brevi) preliminari considerazioni in merito al c.d. telelavoro, definito come “una forma di organizzazione e/o svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”[17].
Invero, queste due forme di lavoro, sebbene non risultino perfettamente sovrapponibili, presentano talune analogie[18].
Muovendo dai tratti non comuni, si osserva che, mentre nel lavoro agile (come si vedrà meglio infra) la prestazione lavorativa viene svolta solo parzialmente all’esterno dell’azienda e senza postazione fissa, nel telelavoro viene svolta regolarmente al di fuori dei locali aziendali.
Tuttavia, come sostenuto da parte della dottrina, l’assenza di una postazione fissa non sembra determinante ai fini distintivi tra le due figure, in quanto “non esiste alcun dato normativo, interno o esterno all’ordinamento giuridico italiano, che induca a individuare nella presenza o meno di una postazione fissa il tratto distintivo tra le due fattispecie”[19].
Semmai, sul piano normativo, potrebbe ravvisarsi una differenza in ordine all’utilizzo di strumentazioni informatiche nello svolgimento dell’attività lavorativa, non necessario nell’ambito delle prestazioni di lavoro agile[20].
Invero, le differenze tra il lavoro agile e il telelavoro sembrerebbero più apparenti che reali, ad eccezione di due ipotesi del tutto marginali: a) la prestazione viene svolta all’esterno dell’azienda senza l’utilizzo della strumentazione tecnologica; b) l’alternanza tra lavoro in azienda e in altre sedi risulti occasionale, dal momento che la “regolarità”, da intendersi come “ripetitività” o “continuità”, costituisce un elemento caratterizzante del telelavoro.
Pertanto, è possibile ritenere che il lavoro agile rappresenti “un altro modo di chiamare il telelavoro subordinato”[21], con tutto ciò che ne consegue sul piano della disciplina applicabile.
3. Il contenuto dell’accordo individuale: il luogo di svolgimento della prestazione e l’esercizio dei poteri datoriali.
L’accordo individuale deve contenere la disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali (art. 19, comma 1)[22].
La disposizione deve però essere letta in combinato disposto con il primo comma dell’art. 18, in cui si stabilisce non soltanto che tale modalità di esecuzione può essere realizzata “anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, ma anche (e soprattutto) che “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Con riferimento al luogo di svolgimento del lavoro agile (all’esterno dell’azienda e senza una postazione fissa), parte della dottrina[23] ritiene che l’assenza di precisi vincoli relativi al luogo di lavoro e alla postazione fissa comporti l’impossibilità di prevedere un obbligo, in capo al lavoratore, di svolgere la prestazione in una determinata sede, con la conseguenza che questa debba invece essere rimessa alla libera scelta del lavoratore.
Tuttavia, anche alla luce dell’art. 1182 c.c., risulta maggiormente condivisibile ritenere che il luogo di lavoro debba essere identificato dalle parti, facendo ricorso anche a una elencazione delle possibili sedi, così da consentire al lavoratore di scegliere il luogo tra quelli oggetto di accordo, previa comunicazione al datore di lavoro[24].
L’accordo disciplina l’esecuzione del lavoro agile, “anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore” (art. 19, comma 1), e deve altresì regolamentare “il potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni” (art. 21, comma 1), nonché “le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinare” (art. 21, comma 2).
Al riguardo, la scelta di rimettere ad un’intesa tra le parti anche l’esercizio dei poteri datoriali necessita di talune precisioni, per (tentare di) fornire un possibile inquadramento sul piano ricostruttivo.
Quanto all’esercizio del potere direttivo, è la stessa eterodirezione sottesa al rapporto che esclude una possibile ingerenza del lavoratore nell’esercizio di siffatto potere datoriale, anche laddove attuata mediante apposita pattuizione inserita all’interno dell’accordo individuale.
Pertanto, il riferimento “alle forme di esercizio del potere direttivo” non dovrebbe essere inteso in senso sostanziale, ossia relativo al contenuto degli ordini e delle direttive (che rimangono ad esclusivo appannaggio datoriale), ma sul piano formale, ossia tendenzialmente legato alle modalità estrinsecative dello stesso, soprattutto in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali dell’azienda.
Anche il riferimento all’esercizio del potere di controllo necessita di talune precisazioni in chiave ermeneutica, specie alla luce dell’espresso rinvio alle previsioni di cui all’art. 4 Stat. lav.
Com’è noto, il primo comma dell’art. 4 St. lav. prevede che gli strumenti dai quali possa derivare la possibilità di un controllo a distanza dell’attività lavorativa possono essere installati e utilizzati, previo accordo collettivo, stipulato dalla RSU o dalle RSA, esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale.
Tuttavia, il secondo comma dell’art. 4, stabilisce che la predetta previsione non si applica per gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”.
Tra i limiti imposti dall’art. 4 St. lav., è inoltre previsto che le informazioni raccolte siano utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” e nel rispetto di quanto previsto dalla disciplina in materia di privacy.
Al riguardo, si deve osservare che gli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore, seppur utilizzati per rendere la prestazione di lavoro e finalizzati al raggiungimento dell’obiettivo della conciliazione vita-lavoro, possono al contempo consentire un controllo datoriale sull’attività lavorativa[25].
Si pensi, ad esempio, ai software che permettono il collegamento da remoto ai server dell’azienda.
Pertanto, alla luce della evidente difficoltà di tracciare un sicuro discrimine tra l’area dei controlli a distanza suscettibili di autorizzazione preventiva per giustificate ragioni aziendali e quella esonerata da tali vincoli[26], nonché della giurisprudenza formatasi in argomento[27], desta non poche perplessità la scelta del legislatore di non prevedere che l’utilizzo di taluni strumenti tecnologici nel lavoro agile formi oggetto di specifico accordo collettivo.
Infine, con riferimento all’individuazione delle condotte connesse alla prestazione di lavoro agile e che possono dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, si ritiene che la stessa non possa comunque assumere carattere tassativo, dovendosi pur sempre integrare con le previsioni della contrattazione collettiva di riferimento e con le ulteriori disposizioni di carattere generale in materia (ad es. art. 2119 c.c.).
4. Orario di lavoro e diritto alla disconnessione nell’ordinamento interno e nell’esperienza francese e spagnola.
Per quanto concerne l’orario di lavoro, l’inciso “senza precisi vincoli di orario” non può essere inteso come totale assenza di limiti, in considerazione del fatto che la stessa disposizione prevede che la prestazione debba essere resa “entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Al riguardo, l’art. 17, comma 5, del d.lgs. n. 66/2003, stabilisce che “ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi”, tra i quali rientra il c.d. “telelavoro”, non si applicano le disposizioni dettate in tema di: orario normale di lavoro (art. 3), durata massima dell’orario di lavoro (art. 4), lavoro straordinario (art. 5), riposo giornaliero (art. 7), pause (art. 8), modalità di organizzazione del lavoro notturno e obblighi di comunicazione (art. 12) e durata del lavoro notturno (art 13).
Tuttavia, tale disciplina derogatoria non trova applicazione in relazione alle prestazioni di lavoro agile, ad eccezione di quanto previsto dall’art. 3 sull’orario normale di lavoro[28].
In quest’ottica, pare condivisibile l’opinione di chi ritiene che l’applicazione dei soli limiti di durata massima non deve essere intesa come una verifica sull’effettivo svolgimento della prestazione da parte del lavoratore entro la durata temporale stabilita, ma piuttosto nel senso di assicurare che tali limiti non vengano superati[29].
Aderendo a tale prospettazione, è possibile affermare che l’individuazione ex art. 19, comma 1 dei tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro (c.d. diritto alla disconnessione), sia finalizzata a garantire proprio l’osservanza dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro.
Invero, il diritto alla disconnessione ha lo scopo di evitare che il lavoratore sia esposto a una reperibilità costante[30].
Al riguardo, preme osservare che i moderni strumenti tecnologici, seppur in grado di migliorare l’efficienza della prestazione lavorativa, risultano potenzialmente idonei a incidere negativamente sulla salute del lavoratore (es. sindrome di burn-out, overworking, ecc.), vanificando l’esigenza della conciliazione vita-lavoro.
È proprio in quest’ottica che il diritto alla disconnessione si inserisce tra le tutele da apprestare al lavoratore, in quanto consente a quest’ultimo di “interrompere” la connessione, senza che ciò possa comportare ripercussioni sul piano personale e lavorativo[31].
Come osservato in dottrina, tale diritto non può essere inteso come disconnessione dalla rete, ma piuttosto come il diritto a “rimanere nella rete in modo selettivo, impedendo di essere cercato in determinati momenti della giornata” [32], onde evitare che il lavoratore sia esposto ad una continua reperibilità.
Nel disegno di legge n. 2229 (adattamento negoziale delle modalità di lavoro agile nella quarta rivoluzione industriale), l’art. 3, già nella sua rubrica, attribuiva maggior rilievo al diritto alla disconnessione, nonché al ruolo del medico del lavoro.
Non a caso, il comma 7 stabiliva che “nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.
I commi 2 e 3 della suddetta disposizione, oltre ad assegnare al medico del lavoro il compito di autorizzare e convalidare le misure scelte dal datore di lavoro - che sono necessarie “per tutelare e garantire l’integrità fisica e psichica, la personalità morale e la riservatezza del lavoratore” - prevedevano che il lavoratore fosse tenuto, ogni quattro mesi, a sottoporsi a visite periodiche di prevenzione e controllo, presso i presidi sanitari pubblici o dal medico del lavoro competente.
Tuttavia, il predetto impianto normativo, fortemente incentrato sulla tutela della salute del lavoratore, è stato successivamente assorbito e radicalmente modificato dal disegno di legge n. 2233, che nel suo testo definitivo, accolto dall’art. 19, comma 2, l. n. 81/2017, si limita a prevedere che l’accordo individuale debba individuare i tempi di riposo e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro[33].
Appare evidente che la disciplina dettata in tema di diritto alla disconnessione, nella sua attuale e scarna formulazione, che demanda all’accordo individuale il compito di individuarne i contenuti, non offre una puntuale ed efficace tutela alla salute del lavoratore, con il conseguente rischio, come già accennato, di vanificare gli effetti della conciliazione vita-lavoro[34].
Ad ogni modo, la disconnessione non sembrerebbe costituire un divieto imposto al datore di lavoro, bensì un diritto soggettivo dei lavoratori, analogamente a quanto avviene in altre legislazioni europee[35].
Al riguardo, dall’analisi comparata con altri ordinamenti giuridici, emergono alcuni tratti comuni e significative differenze.
In particolare, nell’ordinamento giuridico francese, attraverso la c.d. Loi Travail, approvata l’8 agosto 2016, il diritto alla disconnessione ha trovato riconoscimento al comma 7 dell’art. 2242-8 del Code du Travail, in base al quale “la négociation annuelle” deve riguardare anche le modalità di esercizio, da parte del lavoratore, del proprio diritto alla disconnessione e la messa a disposizione di dispositivi che regolino l’utilizzo degli strumenti informatici, allo scopo di assicurare il rispetto dei tempi di riposo, del periodo di ferie e della vita personale e familiare[36].
Anche in tal caso, quindi, il diritto alla disconnessione, introdotto in un contesto di riforma del diritto del lavoro, risponde alla duplice esigenza di tutelare la salute del lavoratore e realizzare la conciliazione tra vita privata e vita lavorativa[37].
Una sostanziale differenza tra i due ordinamenti emerge, invece, con riferimento all’ambito di applicazione.
Infatti, diversamente da quanto previsto dalla l. n. 81/2017, nella quale l’ambito applicativo del diritto alla disconnessione risulta circoscritto esclusivamente al lavoro agile, nell’ordinamento giuridico francese tale diritto ha portata generale, prescindendo, dunque, dalle modalità di lavoro prescelte.
Il legislatore spagnolo ha invece introdotto la disconnessione nell’ambito della Ley Orgánica 3/2018 sulla Protección de Datos Personales y garantía de los derechos digitales.
In particolare, l’art. 88, comma 1, riconosce il diritto alla disconnessione al fine di garantire, fuori dall’orario di lavoro legale o convenzionalmente stabilito, il rispetto del tempo di riposo, dei permessi e delle ferie, cosi come della sua privacy personale e familiare.
Il secondo comma, oltre a prevedere l’esigenza fondamentale della conciliazione tra vita lavorativa e vita privata, stabilisce che le modalità di esercizio dovranno essere previste nella negociación colectiva o, in mancanza, nell’accordo tra l’impresa e i rappresentanti dei lavoratori.
Infine, il terzo e ultimo comma dell’art. 88 prevedono che il datore di lavoro, previa audizione dei rappresentanti dei lavoratori, elabori una politica interna riguardante tutti i lavoratori, inclusi quelli che occupano posizioni dirigenziali, finalizzata a definire le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione e le azioni di formazione e sensibilizzazione del personale sull’utilizzo ragionevole degli strumenti tecnologici, allo scopo di evitare il rischio dell’affaticamento informatico.
La medesima legge, inoltre, ha introdotto l’art. 20 bis nella Ley del Estatuto de los Trabajadores, il quale riconosce espressamente il diritto dei lavoratori, non soltanto alla privacy nell’utilizzo dei dispositivi digitali messi a disposizione dal datore di lavoro, ma anche alla disconnessione digitale.
Dalla comparazione con l’ordinamento giuridico francese e spagnolo, dunque, emerge una disciplina più articolata del diritto alla disconnessione rispetto alle previsioni presenti nel nostro ordinamento, rispetto alle quali, dunque, in un’ottica de iure condendo, si auspica un più incisivo intervento del legislatore.
5. Il trattamento economico e normativo.
Il trattamento economico e normativo riconosciuto al lavoratore agile non può essere “inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda” (art. 20, comma 1).
Il richiamo al trattamento “complessivamente applicato” dovrebbe essere interpretato, sotto il profilo retributivo, nel senso che al lavoratore, oltre al c.d. trattamento base, potranno essere applicati soltanto gli istituti retributivi compatibili con la modalità di prestazione lavorativa in esame[38].
Nell’ottica di garantire al lavoratore agile anche la parità di trattamento normativo, il secondo comma dell’art. 20 prevede che a quest’ultimo possa essere riconosciuto, nell’ambito dell’accordo di cui all’art. 19, il diritto all’apprendimento permanente e alla periodica certificazione delle relative competenze.
6. Il diritto di recesso dall’accordo di lavoro agile.
Un ulteriore aspetto su cui soffermarsi è rappresentato dal diritto di recesso[39], disciplinato dall’art. 19, comma 2.
Sul punto, è espressamente previsto che, ove l’accordo abbia durata indeterminata, il recesso potrà essere esercitato con un preavviso non inferiore a trenta giorni.
Tuttavia, nel caso di lavoratori disabili e di recesso datoriale, il termine di preavviso non può essere inferiore a novanta giorni, al fine di “consentire un’adeguata riorganizzazione dei percorsi di lavoro rispetto alle esigenze di vita e di cura del lavoratore.
La medesima disposizione contempla anche l’ipotesi in cui ricorra un giustificato motivo.
In tal caso, qualora l’accordo sia a termine, le parti potranno recedere prima della scadenza dello stesso, mentre nell’ipotesi di accordo a tempo indeterminato, il recesso sarà esercitabile senza preavviso.
Deve osservarsi che il recesso previsto dalla citata disposizione non si riferisce al contratto di lavoro, bensì all’accordo individuale, ossia alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.
Di conseguenza, l’estinzione dell’accordo dovrebbe determinare “l’espansione della modalità lavorativa ordinaria”[40], nel senso che la prestazione lavorativa dovrà essere svolta interamente presso i locali dell’azienda.
Ad ogni modo, occorre interrogarsi se (ed eventualmente in che termini) gli effetti prodotti dal recesso dall’accordo individuale possano incidere anche sul rapporto di lavoro, posto che il primo (lavoro agile) può essere considerato un patto accessorio del secondo (contratto di lavoro).
La problematica si pone con particolare riferimento alla nozione di “giustificato motivo”, che può essere esercitato senza preavviso (accordo con durata interminata) o prima della scadenza del termine (accordo con durata determinata).
A tal proposito, prima facie, in chiave ricostruttiva, il legislatore sembrerebbe evocare la nozione prevista dall’art. 3 della l. n. 604 /1966, in tema di licenziamento, che ricorre in presenza di un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” (giustificato motivo soggettivo) o di “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (giustificato motivo oggettivo).
Invero, la riconduzione alla nozione testé richiamata, sebbene sul piano meramente semantico appaia plausibile, ad una più attenta analisi, conduce a ben altre conclusioni.
Al riguardo, un primo dato da evidenziare è rappresentato dall’insussistenza, in caso di recesso dall’accordo di lavoro agile per giustificato motivo, di un obbligo di dare il preavviso.
Tale circostanza, dunque, più che al giustificato motivo ex art. 3 cit., sembrerebbe rinviare alla diversa nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c.
Tuttavia, il rinvio alla giusta causa non appare una strada percorribile, dal momento che, com’è noto, quest’ultima non consente una prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro.
Di conseguenza, qualora il riferimento al giustificato motivo venisse impropriamente ricondotto alla nozione di giusta causa, il recesso non potrebbe dispiegare effetti esclusivamente in relazione all’accordo di lavoro agile, ma dovrebbe giocoforza caducare l’intero rapporto di lavoro.
È evidente che una tale impostazione però striderebbe con la stessa ratio sottesa al lavoro agile e all’esigenza di flessibilità nella gestione del rapporto.
Pertanto, sul piano ricostruttivo, si ritiene più opportuno emancipare la locuzione “giustificato motivo” da quanto previsto dall’art. 3 della l. n. 604/1966, tanto sul piano del fatto, quanto su quello dell’effetto.
Difatti, in ordine al primo aspetto, il giustificato motivo di recesso dall’accordo di lavoro agile non necessariamente deve essere ancorato a valutazioni di carattere negativo (soggettive o oggettive), ma deve essere inteso in un’accezione più lata, che ricomprenda al suo interno qualsivoglia valido motivo che spinge le parti a ripristinare la precedente modalità di lavoro secondo gli schemi “ordinari” o “tradizionali”.
Non bisogna infatti scordare che la scelta di ricorrere al lavoro agile non assume i caratteri della definitività e può essere rivista in qualunque momento, anche in assenza di un giustificato motivo.
Ciò consente anche di comprendere le differenze, sul piano effettuale, rispetto alla nozione di cui al richiamato art. 3, non essendo in tal caso dovuto alcun preavviso in presenza di un giustificato motivo.
È possibile, dunque, concludere che il recesso per “giustificato motivo” esercitato ai sensi dell’art. 19, comma 2, l. n. 81/2017, produca i suoi effetti esclusivamente nei confronti del lavoro agile e non incida sul relativo contratto di lavoro a monte.
Quanto precede lo si apprezza meglio laddove si consideri, ad esempio, un eventuale grave inadempimento degli obblighi contrattuali, in costanza di smart working, posto in essere dal lavoratore mentre svolge la prestazione lavorativa all’esterno dei locali dell’azienda.
In tal caso, il datore di lavoro, all’esito di apposito procedimento disciplinare, ritenendo integrati gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, potrebbe anche licenziare il dipendente, risolvendo il relativo rapporto di lavoro.
Ciò significa che il recesso dal rapporto di lavoro si pone su un piano differente rispetto a quello dall’accordo individuale e travolge quest’ultimo in presenza dei presupposti ex art. 3, l. n. 604/1966, o 2119 c.c., anche qualora i fatti posti a fondamento del provvedimento sanzionatorio siano riconducibili all’attività posta in essere dal lavoratore in modalità agile all’esterno dell’azienda, secondo il principio “simul stabunt, simul cadent”.
Non opera invece l’ipotesi inversa, ossia che dal recesso dall’accordo di lavoro agile, anche in presenza di un giustificato motivo, discenda la risoluzione del rapporto di lavoro.
Difatti, in tal caso, il recesso e l’eventuale giustificato motivo risultano esclusivamente riconducibili all’accordo di lavoro agile e non già al rapporto di lavoro, rispetto al quale l’atto di recesso avrà l’effetto, a seconda dei casi, di ripristinare o di dar vita ad un normale rapporto di lavoro subordinato secondo gli schemi ordinari o tradizionali.
7. La tutela della salute e sicurezza dello smart worker.
La disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza del lavoratore agile è contenuta negli artt. 18, comma 2, e 22, da leggersi unitamente alle disposizioni previste dal d.lgs. n. 81 del 2008.
In particolare, viene attribuita al datore di lavoro la responsabilità della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a consegnare al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale[41], un’informativa scritta con l’individuazione dei rischi generali e specifici, connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.
Sul punto, si ritiene condivisibile la tesi secondo cui il generale obbligo, posto a carico del datore di lavoro, di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore agile non possa considerarsi assolto attraverso la mera consegna dell’informativa scritta, risultando altresì necessaria l’adozione delle misure previste dal d.lgs. n. 81/2008[42].
Al riguardo, il rinvio è all’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008, che contiene la disciplina prevenzionistica applicabile “ai lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico”, compresi quelli di cui al D.P.R. n. 70/1999 e all’accordo quadro europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002.
Come affermato in dottrina[43], ai fini dell’applicazione della norma in esame, da interpretare in senso estensivo, è necessario che il rapporto di lavoro abbia natura subordinata e la prestazione venga svolta a distanza, mediante collegamento informatico e telematico.
Il carattere “continuativo” della prestazione deve, inoltre, essere inteso come sinonimo di “regolarità”, con la conseguenza, quindi, che tale disciplina può estendersi anche al lavoro agile.
Quanto al contenuto della norma, è previsto che ai suddetti lavoratori si applichino le disposizioni di cui al titolo VII, in tema di attrezzature munite di videoterminali, a prescindere dall’ambito in cui viene svolta la prestazione lavorativa.
Inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, queste dovranno essere conformi alle disposizioni previste dal titolo III sull’uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale[44].
La medesima norma prevede, altresì, un duplice obbligo: da un lato, quello del datore di lavoro di informare i lavoratori a distanza sulle politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali, e, dall’altro, quello del lavoratore di applicare correttamente le direttive aziendali di sicurezza.
Si ritiene, inoltre, applicabile al lavoro agile anche la previsione in base alla quale il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti, al fine di verificare la corretta attuazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza da parte del lavoratore a distanza, hanno accesso al luogo di lavoro, nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, e che tale accesso sia subordinato al preavviso e al consenso del lavoratore, nel caso in cui la prestazione lavorativa venga resa presso il suo domicilio[45].
Infine, nell’ottica di tutelare la salute del lavoratore, la disposizione in esame prevede che il datore di lavoro debba garantire l’adozione di misure finalizzate a prevenire l’isolamento del lavoratore rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, consentendogli di incontrare i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda.
8. Riflessioni conclusive (anche) alla luce dell’attuale contesto pandemico.
In conclusione, è indubbio che il lavoro agile, nelle rinnovate logiche del sistema produttivo, costituisca un proficuo esempio di combinazione tra flessibilità e innovazioni tecnologiche, consentendo alle imprese di aumentare la produttività e ai lavoratori di conciliare i tempi di vita e di lavoro.
Invero, anche lo smart working presta il fianco a possibili condotte elusive poste in essere dalle parti del rapporto di lavoro.
Tuttavia, da un’analisi costi-benefici, i potenziali effetti positivi del lavoro agile (se proficuamente applicato) sono di gran lunga superiori rispetto agli eventuali abusi nel suo utilizzo[46].
Quanto precede ha trovato peraltro conferma, a fortiori, nell’attuale contesto storico di riferimento, martoriato dalla crisi pandemica ancora in atto, in cui potremmo definirlo come un utile strumento di “contrasto indiretto” del Covid-19.
Difatti, il legislatore, sin dall’adozione dei primi provvedimenti emergenziali, ha inteso riconoscere un ruolo preminente allo smart working tanto nel settore privato, quanto nel pubblico impiego[47], definendolo quale “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”[48].
Peraltro, per agevolare il ricorso al lavoro agile, il legislatore dell’emergenza, attraverso provvedimenti derogatori temporanei, ne ha anche modificato i requisiti e le modalità di accesso, rendendolo “molto più snello e semplificato”[49].
Pertanto, come rilevato in dottrina, “la soluzione del lavoro agile, pur nelle espresse criticità connesse alla sua implementazione dal punto di vista della privacy, potrebbe indubbiamente costituire la via più facile non solo come soluzione rimediale alla crisi della prima metà dell’anno 2020, ma potrebbe indubbiamente costituire la base per indubbi benefici da realizzare attraverso tale modalità di lavoro e sull’opportunità di incentivare tali pratiche anche una volta usciti dall’attuale crisi emergenziale”[50].
[1] Peraltro, a scanso di equivoci, come puntualmente rilevato in dottrina, “il lavoro digitale non è solo quello connesso alle piattaforme, agli algoritmi e all’economia dei c.d. “lavoretti”, ma è ampiamente diffuso e pervasivo nel lavoro amministrativo nel settore pubblico e privato, bastando l’utilizzo di computer e di posta elettronica per alterare modalità e tempi delle prestazioni senza necessariamente apportare modifiche al sinallagma contrattuale” (in questi termini, D. Gottardi, Da Frankestein ad Asimov: letteratura “predittiva”, robotica e lavoro, in Labour & Law Issues, 4, 2, 2018, p. 8).
[2] È stato osservato che la c.d. quarta rivoluzione industriale “si presenta con un impatto ancora più disruptive rispetto alla precedente per almeno due motivi: la pervasività della connessione nella vita di persone e organizzazioni, che porta sostanzialmente ad un dilatarsi infinito dello spazio-tempo individuale e collettivo; la velocità inedita con questa rivoluzione sta avvenendo” (in questi termini, S. Gheno-L. Pesenti, Smart working: una trasformazione da accompagnare, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 4).
[3] La prima rivoluzione industriale risale al XIX secolo e si è caratterizzata per l’uso dell’energia a vapore e delle macchine utensili; nella seconda si assiste all’introduzione dell’energia elettrica e delle catene di montaggio; nella terza, invece, ha avvio la diffusione di strumenti tecnologici ed elettronici.
[4] Analizzando il fenomeno globale della digitalizzazione e l’emersione di nuovi modelli economici, P. Tullini, Economia digitale e lavoro non-standard, in Labour & Law Issues, 2, 2, 2016, p. 6, rileva che “sul versante dell’occupazione si prospettano una progressiva contrazione dei livelli complessivi d’impiego, la sostituzione del lavoro umano con quello automatizzato, la rapida obsolescenza professionale amplificata dalla codificazione artificiale delle conoscenze attuata dalle tecnologie intelligenti e capaci di auto-apprendimento, il rischio di emarginazione delle fasce deboli e dei lavoratori vulnerabili”.
[5] Sull’incidenza del progresso tecnologico sui rapporti di lavoro, cfr. P. Ichino, Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro, in Riv. it. dir. lav., I, 2017, p. 525 ss.; M. Weiss, Digitalizzazione: sife e prospettive per il diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., 2016, p. 651 ss.
[6] G. Santoro-Passarelli, Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., 2, 2019, p. 421.
[7] In argomento si registrano numerosi contributi dottrinali, tra i quali si rinvia, a mero titolo indicativo, a: F. Notaro, Il lavoro agile nel quadro della vecchia (o nuova?) subordinazione, in Lav. Dir. Europa, 1, 2019, p. 2 ss.; M. Martone, Lo “smart working” nell’ordinamento italiano, in DML, 2, 2018, p. 293 ss.; M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., 4, 2017, p. 921 ss.; M. Corso, Sfide e prospettive della rivoluzione digitale: lo “smart working”, ivi, p. 978 ss.; M. Lai, Evoluzione tecnologica e tutela del lavoro: a proposito di “smart working” e di “crowd working”, ivi, p. 985 ss.; C. Romeo, Il lavoro agile in ambito privato e pubblico, in Mass. giur. lav., 2017, p. 824 ss.; S. Nappi, Riforma del lavoro autonomo, lavoro agile e altri esercizi stilistici parlamentari in una legislatura incompiuta, in DML, 2, 2017, p. 197 ss.
[8] In particolare, il lavoro agile è definito “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017).
[9] Cfr. M. Lai, Il lavoro a distanza, quale regolamentazione?, in Lav. Dir. Europa, 2, 2020, p. 4. Come evidenziato da M. Brollo, “Smart” o “Emergency Work”? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in Lav. giur., 6, 2020, p. 556, “l’antenato prossimo del lavoro agile è il telelavoro del decennio ’90, a sua volta, parente lontano del lavoro a domicilio degli anni ‘70”.
[10] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, in Nuove leggi civ. comm., 3, 2018, p. 633, il quale afferma che “la sedes materiae non è delle più appropriate”.
[11] Sul quale v. amplius infra.
[12] Sul punto, cfr. in partiolare A. R. Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 419/2020, p. 1 ss.; G. Caporali, La conciliazione fra tempi di vita e di lavoro tra diritto costituzionale e normativa comunitaria, in Dir. Soc., 2, 2009, p. 321 ss.
[13] È stato osservato che la qualità del lavoro è strettamente legata ed è in qualche modo dipendente dalla qualità della vita. Difatti, “la serenità e l’equilibrio della vita personale e degli affetti familiari può consentire di lavorare meglio; così come, viceversa, una crisi familiare può pregiudicare anche il percorso professionale, dando fiato a un circolo vizioso che spinge sempre più i soggetti ai margini della vita economica e sociale” (così, L. Zanfrini, Smart working: il profilo della sociologia del lavoro, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 2).
[14] C. Timellini, In che modo oggi il lavoro è smart? Sulla definizione di lavoro agile, in Lav. giur., 3, 2018, p. 230.
[15] Invero, l’originario d.d.l. n. 2229/2016 prevedeva la possibilità di estendere tale disciplina anche al lavoro autonomo.
[16] L’art. 23, comma 1, stabilisce altresì che l’accordo e le sue modificazioni devono essere oggetto delle comunicazioni di cui all’art. 9-bis del d.l. 510/1996, convertito dalla l. 608/1996.
[17] Art. 1, par. 1, dell’Accordo interconfederale del 9 giugno 2004 per il recepimento dell’Accordo-quadro europeo sul telelavoro. In dottrina, cfr. M. Frediani, Telelavoro ed accordo interconfederale, in Lav. giur., 9, 2004, p. 824 ss. Invero, la disciplina del telelavoro è piuttosto frammentata e si differenzia tra settore pubblico e privato. In particolare, nel pubblico impiego le disposizioni di riferimento sono contenute all’interno del d.p.r. n. 70/99 e dell’Accordo-quadro nazionale del 23 marzo 2000, mentre nel privato oltre all’accordo sindacale europeo del 2002 e al suddetto accordo interconfederale del 2004, vi sono alcune disposizioni che richiamano l’accordo europeo all’interno del d.lgs. n. 81/2008. In dottrina, cfr. F. D’Addio, Considerazioni sulla complessa disciplina del telelavoro nel settore privato alla luce dell’entrata in vigore della legge n. 81/2017 e della possibile sovrapposizione con il lavoro agile, in Dir. rel. ind., 4, 2017, p. 1006 ss.
[18] Sul rapporto tra lavoro agile e telelavoro, si rinvia, in particolare, a G. Santoro-Passarelli, Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, in Riv. it. dir. lav., 3, 2017, p. 369 ss.; M. Frediani, Il lavoro agile tra prestazione a domicilio e telelavoro, in Lav. giur., 7, 2017, p. 630 ss.
[19] Cfr. M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, cit., p. 937.
[20] L’art. 18, comma 1, della l. 81/2017, nel prevedere che il lavoro agile possa essere svolto “con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici”, ammette anche la possibilità del contrario.
[21] In argomento, si rinvia a M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, cit., p. 945; O. Mazzotta, Lo statuto del lavoratore autonomo ed il lavoro agile, in Quotidiano Giur., 1 febbraio 2016.
[22] Pertanto, come osservato da autorevole dottrina, “alla fine, risulta che il lavoratore agile è sottoposto ad un duplice regime, a seconda che la sua prestazione sia svolta fuori o dentro l’azienda, quello di lavoratore subordinato normale e quello di lavoratore agile, con un non facile coordinamento, che potrebbe, anzi [..] dovrebbe essere definito nel patto” (così, F. Carinci, La subordinazione rivista alla luce dell’ultima legislazione: dalla “subordinazione” alle “subordinazioni”?, in ADL, 4-5, 2018, p. 977).
[23] G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in L. Fiorillo e A. Perulli (a cura di), Il Jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Torino, 2017, p. 185.
[24] M. Lai, Evoluzione tecnologica e tutela del lavoro: a proposito di smart working e di crowd working, cit., p. 993.
[25] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 662.
[26] Sul punto, come osserva P. Tullini, La digitalizzazione del lavoro, la produzione intelligente e il controllo tecnologico nell’impresa, in ID. (a cura di), Web e lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Torino, 2017, p. 13, “è del tutto evidente la difficoltà di tracciare un sicuro discrimine - tanto sul piano teorico quanto operativo - tra l’area dei controlli a distanza suscettibili di autorizzazione preventiva per giustificate ragioni aziendali (art. 4, co. 1, St. lav.) e quella del monitoraggio attraverso le tecnologie di lavoro che sono esonerate da vincoli e considerate legittime ex se (art. 4, co. 2, St. lav.). E, com’è ovvio, tali difficoltà aumentano con la diffusione dei sistemi intelligenti che sono già naturalmente predisposti per una pluralità di applicazioni o facilmente “espandibili” sotto il profilo funzionale”.
[27] In tema di apparecchiature per la rilevazione dei dati di entrata e uscita: Cass. 13 maggio 2016, n. 9904, in Giust. civ. Mass., 2016, ove si afferma che “la rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall'azienda mediante un'apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro (nella specie, un "badge" elettronico idoneo a rilevare non solo la presenza ma anche le sospensioni, i permessi e le pause, ed a comparare nell'immediatezza i dati di tutti i dipendenti) ove sia utilizzabile anche in funzione di controllo a distanza del rispetto dell'orario di lavoro e della correttezza dell'esecuzione della prestazione, si risolve in un accertamento sul "quantum" dell'adempimento, sicché è illegittima ai sensi dell'art. 4, comma 2, della l. n. 300 del 1970 se non concordata con le rappresentanze sindacali, ovvero autorizzata dall'ispettorato del lavoro, dovendosi escludere che l'esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore”. In tema di sistemi informatici di rilevamento delle telefonate, v. Cass. 1 ottobre 2012, n. 16622, in Dir. giust. online, 2012, nella parte in cui si afferma che “il divieto di controlli a distanza ex art. 4, della legge n. 300 del 1970, implica che i controlli difensivi posti in essere mediante sistema informatico di rilevamento delle telefonate ricadono nell'ambito dell'art. 4, comma 2, della legge n. 300 del 1970, e, fermo il rispetto delle garanzie procedurali previste, non possono impingere la sfera della prestazione lavorativa dei singoli lavoratori; qualora interferenze con quest'ultima vi siano, e non siano stati adottati dal datore di lavoro sistemi di filtraggio delle telefonate per non consentire, in ragione della previsione dell'art. 4, comma 1, di risalire all'identità del lavoratore, i relativi dati non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale del lavoratore medesimo”.
[28] Sul punto, v. G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 655, secondo cui “il fatto che il legislatore ponga dei limiti riferiti all’orario massimo va inteso nel senso che non trovano applicazione quegli altri relativi all’orario normale (art. 3) e dunque, conseguentemente, al lavoro straordinario (art. 5)”, nonché G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, cit., p. 189.
[29] G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in Il Jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, cit., p. 189.
[30] E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella l. n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, in Dir. rel. ind., 2017, p. 1024 ss. In dottrina, cfr. altresì L. Foglia, La privacy come limite alla subordinazione: diritto alla disconnessione e rifiuto della prestazione, in dirittifondamentali.it, 2, 2020, p. 105 ss.
[31] In argomento, R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale. Possibili profili di tutela, in Labour & Law Issues, 5, 2, 2019, p. 218.
[32] D. Poletti, Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», in Resp. civ. prev., 1, 2017, p. 9.
[33] In argomento, si veda D. Poletti, Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», cit., p. 7 ss.
[34] In tal senso, si consideri quanto affermato dal Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, nella seduta n. 177 del 13 maggio 2020, presso la Commissione 11a del Senato (Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale), nella parte in cui faceva presente l’esigenza di assicurare “in modo più netto di quanto già previsto – anche quel diritto alla disconnessione, senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando cosi alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”.
[35] In tal senso, E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, cit., p. 1028 ss.
[36] Per un maggior approfondimento sull’analisi comparata con l’ordinamento giuridico francese, si veda E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, cit., p. 1026 ss.
[37] Cfr. D. Poletti, Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», cit., p. 14.
[38] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 658. In argomento, cfr. M. G. Deceglie, Il trattamento del lavoratore agile, in Mass. giur. lav., 2017, p. 837 ss. e L. Monterossi, Il lavoro agile: finalità, politiche di welfare e politiche retributive, in M. Verzaro (a cura di), Il lavoro agile nella disciplina legale, collettiva e individuale, Napoli, 2018, p. 35.
[39] In argomento, si rinvia in particolare a G. Franza, Lavoro agile: profili sistematici e disciplina del recesso, in Dir. rel. ind., 3, 2018, p. 773 ss.
[40] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 661.
[41] In dottrina è stato affermato che l’inciso “almeno” indichi la necessità di provvedere a una nuova informativa ogniqualvolta si verifichino variazioni nell’ambito del luogo di lavoro (all’esterno dei locali aziendali), tali da incidere sui fattori di rischio. In tal senso L.M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, in Dir. rel. ind., 4, 2017, p. 1043 s., il quale aggiunge che il datore di lavoro dovrà fornire una nuova informativa anche nel caso in cui il lavoratore svolga la prestazione lavorativa in un nuovo ambiente di lavoro, non contemplato dalla precedente informativa.
[42] Sul punto, si veda L.M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, cit., p. 1045 e ss.
[43] M. Peruzzi, Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker?, in Dir. sic. lav., 1, 2017, p. 8.
[44] In argomento, cfr. la circolare INAIL del 2 novembre 2017, n. 48.
[45] Cfr. L. M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, cit., p. 1041 ss. Di diverso avviso, M. Frediani, Il lavoro agile tra prestazione a domicilio e telelavoro, cit., p. 636.
[46] Cfr. F. Malzani, Il lavoro agile tra opportunità e nuovi rischi per il lavoratore, in DML, 1, 2018, p. 17 ss.
[47] Invero, come rilevato in dottrina, “prima della pandemia questa forma di organizzazione del lavoro dipendente era ancora molto meno diffusa di quel che avrebbe potuto essere, anche perché era conosciuta poco o in modo troppo impreciso: erano poco comprese le enormi sue potenzialità sul terreno del risparmio dei tempi di spostamento delle persone e dei costi logistici aziendali, ma anche sul terreno della riduzione del traffico urbano e dell’inquinamento” (così, P. Ichino, Lo smart working e il tramonto della summa divisio tra lavoro subordinato e autonomo, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 2).
[48]Sui provvedimenti emergenziali in materia di smart working, si rinvia, in particolare, a: S. Cairoli, Lavoro agile alle dipendenze della pubblica amministrazione entro ed oltre i confini dell’emergenza epidemiologica, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 2 ss.; M. Frediani, Il D.M. 19 ottobre 2020 quale compendio del lavoro agile in regime emergenziale, in Lav. giur., 10, 2020, p. 1023 ss.; M. Brollo, “Smart” o “Emergency Work”? Il lavoro agile al tempo della pandemia, cit., p. 553 ss.; B. Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno “smart working”?, in Riv. it. dir. lav., 2, 2020, p. 215 ss.; R. Zucaro, Pubblica Amministrazione e “smart working”, dalla disciplina ordinaria alla deroga emergenziale, in LPA, 2, 2020, p. 81 ss.; V. Giannuzzi Savelli, Flessibilità nel pubblico impiego: perché il lavoro agile è davvero la soluzione per “ridurre le distanze”, in Lav. Dir. Europa, 2, 2020, p. 2 ss. Per uno sguardo alle prime pronunce giurisprudenziali sul lavoro agile durante la fase dell’emergenza Covid-19, si rinvia a L. Valente, Emergenza Covid-19 e diritto soggettivo allo smart working, in Lav. giur., 12, 2020, p. 1193 ss.; M. Tufo, Il lavoro agile (dell’emergenza) esordisce in giurisprudenza: come bilanciare gli interessi in gioco nell’era della pandemia?, in Lav. Dir. Europa, 2, 2020, p. 2 ss.; A. Stefanelli-A. Marinelli, Nota a Tribunale Grosseto sez. lavoro 23 aprile 2020 n. 502, ivi, p. 2 ss.
[49] M. Brollo, “Smart” o “Emergency Work”? Il lavoro agile al tempo della pandemia, cit., p. 563, la quale fa notare che “al di là dell’etichetta legale, di fatto, il lavoro ridisciplinato dalla normativa d’emergenza più che una modalità di lavoro agile o di smart working assomiglia, per un verso, ad una forma classica di (tele)lavoro in blocco, per altro verso, ad una attività lavorativa eseguita a domicilio (o in qualsiasi dimora in cui si trovano, anche non abituale); ma, come noto, il marketing legale funziona e quindi il nome attribuito, specie nella versione anglofona di smart working - evocativa di una modalità lavorativa non solo agile, ma pure intelligente o confortevole - suona più accattivante, con la speranza che la stessa parola ne agevoli la diffusione”.
[50] C. Romeo, L’attuale dimensione del lavoro subordinato e no: la ricerca di nuove tutele, in Lav. giur., 11, 2020, p. 1062.
La nomofilachia informatica re-interpreta gli istituti processuali in chiave evolutiva: la rilevanza del principio di non contestazione ai fini dell’improcedibilità ex art. 369 c.p.c. in ambiente digitale*
di Enzo Vincenti (Consigliere e direttore del C.E.D. della Corte di Cassazione)
Sommario:1. Premessa: il nuovo orizzonte di senso della “nomofilachia informatica” - 2. Il continuum con la giurisprudenza del recente passato - 3. Il principio del raggiungimento dello scopo - 4. Conclusioni.
1. Premessa: il nuovo orizzonte di senso della “nomofilachia informatica”
L’esperienza della Corte di cassazione maturata in ambito di processo civile telematico (PCT) ha mostrato, almeno fino ad oggi, una peculiarità di fondo, che ha influito in modo anche significativo sull’adozione di talune scelte ermeneutiche su questioni processuali. Difatti, nonostante che il PCT non fosse realtà operativa per il processo civile di legittimità, la Cassazione si è trovata investita della soluzione di problematiche giuridiche relative al PCT e, quindi, chiamata ad enunciare principi di diritto interferenti non soltanto con il processo analogico di legittimità, ibridato telematicamente in alcuni limitati aspetti (comunicazioni di cancelleria, notifiche degli atti di parte, modalità di deposito di atti già nativi digitali), ma anche sul PCT dei gradi di merito.
Dal 31 marzo scorso, però, la Cassazione è entrata ufficialmente nel circuito del PCT e questo evento non potrà assumere una valenza neutra su come verrà a modularsi, nel prossimo futuro, anche lo svolgimento dei compiti che l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario affida istituzionalmente al giudice di legittimità, ossia quelli di assicurare “l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge” e “l'unità del diritto oggettivo nazionale”.
Ciò che, in sintesi, chiamiamo nomofilachia.
Occorrerà il giusto tempo di rodaggio perché sotto il profilo dell’efficienza e stabilità del sistema infrastrutturale il PCT di legittimità possa funzionare in modo del tutto soddisfacente; ci auguriamo che questo rodaggio si esaurisca in tempi ragionevoli, così da consentire anche il passaggio dal regime di facoltatività del deposito degli atti di parte a quello della obbligatorietà, che si presta ad essere il più coerente rispetto alla morfologia stessa del giudizio di cassazione, che presenta, rispetto al giudizio di merito, una indubbia semplicità strutturale.
Ma quel periodo di rodaggio servirà anche per metabolizzare, da parte dei giudici di legittimità, il passaggio da un rito a vocazione essenzialmente analogica ad un rito a centralità digitale. Passaggio che segna, anzitutto, una rivoluzione simbolica, la quale non potrà che plasmare in modo nuovo la percezione complessiva del contesto – quello processuale - in cui si realizza quotidianamente l’esercizio della giurisdizione.
Dunque, anche in Cassazione il PCT è divenuto “carne viva”, non più realtà mediata e questo darà all’espressione “nomofilachia informatica” un nuovo orizzonte di senso.
E’, quella “informatica”, una particolare declinazione della nomofilachia, che ha avuto modo di affermarsi, per l’appunto, ancor prima che il PCT di legittimità fosse una realtà e che si è potuta realizzare in ragione di una lettura dell’assetto processuale “dato” – dunque, un assetto calibrato non solo formalmente, ma anche culturalmente sulle norme del codice di rito e non su quelle di settore - in chiave sistematica e secondo una interpretazione evolutiva che si è avvalsa, essenzialmente, dei principi, anche sovranazionali, che governano il processo civile.
Tuttavia, si prospetta – come detto - un nuovo orizzonte di senso per la “nomofilachia informatica”, sebbene questo specifico contesto non possa prescindere dalla linfa vitale alla quale ha attinto la giurisprudenza sinora formatasi, con essa, quindi, dovendosi anche confrontare.
Si può, dunque, prefigurare un continuum tra recente passato e futuro prossimo nella giurisprudenza della Cassazione in materia di PCT e tanto perché il percorso è segnato dalla stessa funzione e dal quomodo (che non è solo “modalità”) di formazione dell’interpretazione nomofilattica.
Questa non vive di astrattismi, ma è sempre relativa al caso oggetto della lite.
Il principio di diritto è la regola del caso concreto, quella alla quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia. Di qui, anche l’attenuarsi della contrapposizione, a volte troppo sopravvalutata, tra ius litigatoris e ius constitutionis.
Il piano dell’interpretazione della legge non è, infatti, scisso dalla vicenda storica che viene portata dinanzi al giudice, ma da essa è alimentato.
Tutto ciò, ovviamente, vale anche per l’interpretazione della legge processuale; anzi, per essa, in ragione proprio della particolare conformazione dei poteri del giudice di legittimità, il contatto con la realtà storica della controversia è apprezzabile con ancor maggiore forza e penetrazione.
Nella verifica dell’error in procedendo la Cassazione è anche giudice del “fatto processuale” e, quindi, entra nel vivo del processo, di come si è svolto, coniugando direttamente l’interpretazione della norma di rito con l’attività processuale in concreto realizzatasi.
Sicché, l’entrata in vigore del PCT di legittimità ha reso possibile (o meglio, renderà possibile da oggi in poi) la diretta cognizione, a tutto tondo, di un particolare fatto processuale – intimamente legato all’informatizzazione del processo - dapprima conosciuto essenzialmente “in vitro”, così da consentire una interpretazione della norma processuale ancora più consapevole rispetto alla realtà normata e ad essa maggiormente aderente.
Dunque, un nuovo orizzonte di senso per la c.d. “nomofilachia informatica”.
Ciò, per le ragioni anzidette, non significherà di per sé svalutazione della giurisprudenza già formatasi in materia; il valore nomofilattico degli orientamenti giurisprudenziali pregressi andrà semmai depurato da incertezze interpretative (o anche da abbagli, come a volte è capitato e non lo si può nascondere) ovvero rimeditato se necessario, proprio in virtù di quella diretta cognizione e consapevolezza che colma la distanza precedente.
2. Il continuum con la giurisprudenza del recente passato
In una sintetica ricognizione della giurisprudenza che ha reso comunque possibile questa prima fase della “nomofilachia informatica”, l’attenzione sarà concentrata sulle decisioni delle Sezioni Unite (n. 22438 del 24 settembre 2018 e n. 8312 del 25 marzo 2019) che hanno reinterpretato l’istituto della procedibilità del ricorso per cassazione, regolato dall’art. 369 c.p.c., ascrivendo peculiare rilievo al principio di non contestazione in ambito processuale, nel contesto però di altri cooperanti principi, che la stessa giurisprudenza della Cassazione aveva già messo a fuoco nell’affrontare talune problematiche giuridiche relative al processo civile telematico.
Anzitutto, il principio del raggiungimento dello scopo, ma non da solo, perché vengono in risalto i presidi costituzionali e sovranazionali del “giusto processo” e, con essi, la stessa problematica delle fonti del processo in modalità telematica, in quel dialogo complesso tra codice di rito e norme, non solo di rango primario, che dettano discipline peculiari tra loro interagenti.
Interazioni che, del resto, hanno trovato rilievo nella stessa giurisprudenza della Cassazione, sebbene non sempre in modo organico.
Una visione d’insieme, tuttavia, si rinviene nella sentenza n. 22871 del 10 novembre 2015 in tema di sottoscrizione della sentenza con firma digitale a norma dell’art. 15 del d.m. n. 44/2011.
In quell’occasione si è ritenuto di poter “salvare” dalla nullità (si evocava, addirittura, la categoria dell’inesistenza), per mancanza di sottoscrizione (ovviamente autografa) necessaria in base al combinato disposto di cui agli artt. 132, secondo comma, n. 5, e 161, secondo comma, c.p.c., le sentenze redatte in formato elettronico dal giudice e recante la sua firma digitale, in quanto equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005 (codice dell’amministrazione digitale: CAD), resi applicabili al processo civile dall'art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla l. n. 24 del 2010.
Equiparazione resa ancor più netta dalla normativa successiva, ossia tramite l’art. 16-bis, commi 9-bis e 9-octies, del d.l. n. 179 del 2012, all’esito delle modifiche recate dal d.l. n. 90 del 2014 e dal d.l. n. 83 del 2015, quali disposizioni che presuppongono l’esistenza di un provvedimento del giudice inserito nel fascicolo informatico e, dunque, sottoscritto con firma digitale.
Tuttavia, proprio l’ulteriore evoluzione normativa sembra aver complicato il problema della ordinazione delle fonti.
In primo luogo, il fatto che la disciplina di rango primario e sub-primario risente necessariamente delle disposizioni dettate dalle fonti di livello eurounitario, con il preciso obiettivo di uniformare determinate materie comuni al mercato interno. Ne accenna la citata sentenza del 2015, ma, in particolar modo, assume un ruolo centrale nell’economia della ratio decidendi del principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 10266 del 27 aprile 2018, sulle firme digitali in formato “Cades” o “Pades”, il Regolamento UE 910/2014 (e-IDAS), che stabilisce le condizioni per il riconoscimento reciproco in ambito di identificazione elettronica, nonché le regole comuni per le firme elettroniche, l’autenticazione su web ed i relativi servizi fiduciari per le transazioni elettroniche.
E’, quindi, una trama di rinvii e di rimandi che davvero rendono il significato di come la “nomofilachia informatica” si sia trovata, in precondizioni non affatto favorevoli, a governare un habitat impegnativo.
E di ciò ne è prova, in guisa di peculiare cartina di tornasole, proprio la questione della procedibilità del ricorso per cassazione, la cui soluzione non rimaneva astratto esercizio di logica giuridica, ma opzione determinante effetti radicali sulla controversia, come quelli che derivano dalla sanzione dell’improcedibilità dell’atto di impugnazione adottata dal giudice di legittimità, quale esito, non di merito, che chiude definitivamente la vicenda del processo.
3. Il principio del raggiungimento dello scopo
In siffatto contesto, il principio del raggiungimento dello scopo ha costituito, dunque, il filo conduttore del percorso giurisprudenziale intrapreso dalla Cassazione sul PCT.
Esso ha avuto modo di affermarsi chiaramente con la sentenza n. 9772 del 12 maggio 2016, secondo cui, anche prima della disciplina introdotta dal d.l. n. 83 del 2015 – che modificando l’art. 16 bis del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) recante la disciplina ordinaria sul deposito degli atti processuali con modalità telematiche nell’ambito dei procedimenti civili, aveva consentito il deposito anche degli introduttivi -, il deposito per via telematica non dava luogo a nullità, bensì a mera irregolarità, là dove detto deposito, tramite generazione della ricevuta di avvenuta consegna, avesse avuto esito positivo e così da raggiungere il proprio scopo.
Il principio è stato enunciato in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ma poi è stato esteso anche ad altri atti introduttivi; ad es. – con l’ordinanza n. 1717 del 23 gennaio 2019 - al reclamo avverso decisione del Tribunale dei minorenni.
Due sono i profili che, della citata sentenza n. 9772/2016, occorre mettere in evidenza.
Il primo, relativo alla lucida individuazione del principio cardine di strumentalità delle forme desumibile dal combinato disposto degli artt. 121 e 156 c.p.c., per cui esse, lungi dal perseguire un valore e fine autoreferenziali, sono dettate per la realizzazione dell'obiettivo che la norma disciplinante la forma dell'atto intende conseguire. Di qui, pertanto, il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato impedisce di dare rilievo al vizio dello stesso, in quanto il processo deve essenzialmente tendere ad una pronuncia di merito.
Il secondo profilo, anch’esso di rilievo peculiare, riguarda l’affermazione secondo cui anche in “ambiente telematico” lo scopo del deposito dell’atto processuale è quello della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione di esso alle altre parti.
In tal modo non solo si è dato risalto alla necessaria triangolarità in cui si risolve il “giusto processo”, ma è stata pure disinnescata quella opzione ermeneutica, fatta propria da una certa giurisprudenza di merito, secondo cui il deposito telematico avrebbe avuto anche lo scopo, essenziale, di veicolare le richieste della parte al giudice mediante un supporto smaterializzato e decentralizzato. Opzione che, peraltro, aveva portato ad affermare (con conseguente declaratoria di inammissibilità rese in numerose decisioni di merito) che tra i requisiti essenziali dell’atto processuale digitale figurano anche gli standard tecnici per il confezionamento e, tra questi, i c.d. formati.
Va precisato che la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 10266/2018, sulle firme digitali in formato “Cades” o “Pades”, non ha affrontato, ex professo, la questione dell’operatività della sanatoria per raggiungimento dello scopo per violazione delle specifiche tecniche, ritenendola assorbita nella affermata utilizzabilità di entrambi detti formati.
Tuttavia, già le stesse Sezioni Unite, con la sentenza n. 7665 del 18 aprile 2016, avevano ritenuto che la notificazione a mezzo PEC di un controricorso in formato “.doc”, anziché “.pdf”, come stabilito dall’art. 19-bis del provvedimento del direttore SIA del 16 aprile 2014, in quanto la controparte non aveva dedotto alcun specifico pregiudizio all’esercizio del diritto di difesa, fosse da reputarsi sanata per raggiungimento dello scopo.
Il principio è stato successivamente ribadito (tra le altre, da due ordinanze del 2018, la n. 14042 e la n. 14818) nel caso di notificazione a mezzo PEC irrispettosa della prescrizione, dettata dall’art. 19-ter del citato provvedimento dell’aprile 2014, sull’indicazione del nome del file contenuto nell’attestazione di conformità di una copia informatica.
L’ordinanza n. 14042 del 1° giugno 2018 ha, peraltro, enunciato il principio, di portata più generale, per cui la violazione di specifiche tecniche dettate in ragione della mera configurazione del sistema informatico, non può mai comportare la invalidità degli atti processuali compiuti, qualora non vengano in rilievo la violazione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, ma al più, una mera irregolarità sanabile in virtù proprio del principio di raggiungimento dello scopo.
3. Le questioni relative alla procedibilità del ricorso per cassazione
Questa direttrice di orientamento ha rappresentato certamente l’humus fertile che ha alimentato la maturazione dapprima della decisione delle Sezioni Unite n. 22438/2018 e poi della decisione, sempre delle Sezioni Unite, n. 8312/2019, rispettivamente sulle questioni, sostanzialmente analoghe, della procedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del deposito di copia analogica del ricorso nativo digitale e della sentenza redatta in formato telematico notificati a mezzo PEC, in assenza tuttavia di attestazione del difensore di conformità all’originale telematico, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa.
Questioni sulle quali si era venuto ad affermare un indirizzo più restrittivo, incline alla soluzione dell’improcedibilità.
Quell’humus si è poi arricchito di ulteriori piani di riflessione che proprio una interpretazione in chiave evolutiva e sistematica ha fatto convergere verso la soluzione poi adottata: si tratta, come ho già accennato, dei piani, intersecantesi, dei principi fondamentali della giurisdizione e delle fonti di regolazione della materia processuale implicata.
La realtà processuale – come detto - registrava la presenza di un giudizio, quello di legittimità, in cui l’impianto della disciplina era (e lo è stato sino al 31 marzo 2021), radicalmente ancorato a modalità analogiche e dove, nel proprio ambito, non si faceva applicazione (salvo minime eccezioni) delle regole del PCT.
Un processo, dunque, dove la formazione digitale del ricorso e della sentenza e il loro deposito in copia analogica autenticata certamente non trovavano ancoraggio nel combinato disposto degli artt. 365 e 369 c.p.c., quali norme mai modificate nella loro originaria e risalente formulazione.
Eppure già la giurisprudenza che aveva adottato un indirizzo meno liberale aveva avvertito l’esigenza di rendere coerente, per quanto possibile, questa distanza tra discipline differenti, così da ritenere ammissibili quei presupposti (ossia il deposito di atti nativi digitali o formati telematicamente) e questo in base già ad una prima interpretazione evolutiva in consonanza con il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, che, proprio in ambito sovranazionale, ha trovato coerente sponda nel principio di “non discriminazione” (quanto ad effetti giuridici) del documento digitale dettato dall’art. 46 del regolamento UE n. 910 del 2014 (eIDAS).
Di qui, l’ulteriore passo compiuto dalle Sezioni Unite secondo una prospettiva convergente con l’esigenza di consentire la più ampia espansione, nel perimetro di tenuta del sistema processuale, del diritto fondamentale di azione (e, quindi, anche di impugnazione) e difesa in giudizio (art. 24 Cost.), in coerenza proprio con il principio “obiettivo” dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla cui realizzazione coopera, in quanto principio “mezzo”, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.), in una dimensione complessiva di garanzie che rappresentano patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU).
Il che, ovviamente, non poteva che dare spazio ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono guidare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale – e quindi le sanzioni processuali radicali come l’improcedibilità –, ascrivendo rinnovata vitalità al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo e, quindi, del raggiungimento dello scopo.
Assumono, quindi, primazia i principi immanenti al “giusto processo”, che non possono comunque essere recessivi rispetto alle forme e alle modalità, contingenti, nei quali il processo stesso viene ad essere configurato in base all’esercizio, ragionevole, della discrezionalità di cui gode il legislatore nel plasmarne gli istituti (tra le molte, Corte cost., sentenze n. 243 del 2014 e n. 216 del 2013).
E ovviamente deroghe non sono consentite nel caso del processo telematico, sebbene esso sia venuto ad acquisire, in misura sempre crescente, il ruolo di strumento duttile e funzionale in un’ottica di semplificazione ed efficienza del c.d. servizio giustizia.
Una breve riflessione a margine.
Giova, infatti, dare ancora maggiore rilievo ai concetti appena espressi prendendo spunto da una delle più recenti decisioni della Corte costituzionale sul processo civile telematico, la sentenza n. 75 del 2019.
Con questa decisione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012 nella parte in cui prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24, si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione dell’anzidetta ricevuta.
Era stato proprio il “diritto vivente” ad imporre quella lettura della norma - in sostanza, il divieto per il notificante di provvedere alla notifica telematica dopo le ore 21 -, che la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole e vulnerante il principio di effettività della tutela giurisdizionale, ritenendo applicabile anche in questo caso la regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione.
Particolarmente significative sono le affermazioni del Giudice delle leggi, perché l’irragionevolezza o meglio l’irrazionalità intrinseca della norma vivente è stata colta proprio nel fatto che essa veniva a sterilizzare le virtualità del presupposto che ne conformava indefettibilmente l’applicazione, ossia quelle del sistema telematico di notificazione degli atti.
In altri termini, il vulnus che l’art. 16-septies, nella portata ad esso ascritta dal “diritto vivente”, recava al pieno esercizio del diritto di difesa – segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare –, era apprezzabile proprio nell’aver fatto venire meno quell’affidamento che il notificante riponeva nelle potenzialità tutte del sistema tecnologico (affidamento ingenerato dallo stesso legislatore immettendo tale sistema nel circuito del processo), il cui pieno dispiegamento avrebbe invece consentito di tutelare e ciò senza pregiudizio del destinatario della notificazione.
Dunque, lo iato irrazionale tra nomos e techne che il “diritto vivente” aveva determinato è stato ricomposto attraverso il riconoscimento delle potenzialità proprie del sistema tecnologico, ma nell’alveo imprescindibile dei valori del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Tornando in medias res, proprio su questi principi/valori si è mossa la “nomofilachia informatica” espressa dalle sentenze del 2018 e del 2019, facendoli interagire con una pluralità di fonti – il codice di rito, la normativa di settore del PCT e la normativa generale del d.lgs. n. 82 del 2005 – attribuendo rilievo eminente a quest’ultima, intesa non solo come piattaforma regolativa di chiusura – secondo quanto previsto dell’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 82/2005, modificato dal d.l. n. 179 del 2016 -, ma anche come criterio finalistico di orientamento.
E’ in questo contesto, quindi, che viene attribuito rilievo centrale al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione del ricorso nativo digitale o della sentenza redatta in formato telematico, della conformità di detta copia all’originale telematico, in applicazione dell’art. 23, comma 2, del CAD stesso.
La saldatura interpretativa è operata anzitutto con la giurisprudenza più risalente (addirittura richiamando una decisione delle Sezioni Unite del 2 febbraio 1976, n. 323) che aveva già avuto modo di sterilizzare la sanzione dell’improcedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del deposito del ricorso in copia informe qualora non vi fossero dubbi sulla sua conformità all’originale.
Ebbene quella saldatura si fa presente nell’interpretazione in senso evolutivo, adottata dalle più recenti Sezioni Unite, del superamento delle ragioni per cui quegli stessi precedenti (e poi la giurisprudenza più restrittiva sul deposito del ricorso nativo digitale e della sentenza redatta in formato telematico), avevano predicato come ostative della possibilità di far valere la non contestazione della controparte ai sensi dell’art. 2719 c.c.
La certezza della conformità della copia all’originale – si diceva - non può essere data dalla mancata contestazione di controparte perché si tratta di verifica ad essa sottratta (indisponibile), per essere riservata (stante la rilevanza pubblicistica degli interessi) alla Corte di cassazione, non essendo del resto la parte stessa comunque in possesso dell’originale del ricorso e, quindi, impossibilitata ad operare la stessa valutazione di conformità.
Questo apparato argomentativo è stato ritenuto non dirimente una volta mutata la forma dell’atto, ossia consolidatosi il passaggio da quella analogica a quella digitale.
Dunque, secondo una linea comune e di continuità tra la decisione del 2018 e quella del 2019, avendo la prima tracciato il sentiero poi ribadito dalla seconda, si viene ad escludere la sanzione dell’improcedibilità ove il controricorrente non abbia disconosciuto, ai sensi del citato art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005, la conformità della copia informale all’originale notificatogli; con il corollario che, in caso di disconoscimento o in caso di parte rimasta soltanto intimata, il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.
Il percorso seguito dalle due sentenze, come detto, è comune e ha dato vita ad una osmosi concettuale tra due piani operanti nello stesso contesto (ricorso e sentenza), che la sentenza n. 8312 del 2019 ha ricondotto ad unità, rilevando che sia per il ricorso, che per la sentenza “contano principalmente due elementi, la conformità all’originale e la tempestività del deposito”, essendo entrambi, anche “in ambiente di ricorso analogico e di norme processuali calibrate su tale forma di atto”, presi in considerazione, ai fini della procedibilità il ricorso, sia come “atti processuali (ovviamente di valenza diversa), sia con riguardo all’attività rappresentata dal relativo deposito, nella necessaria ricerca di un punto di equilibrio, che consenta di bilanciare la esigenza funzionale di porre regole di accesso alle impugnazioni con quella a un equo processo, da celebrare in tempi ragionevoli”.
Il contesto, dunque, è quello, affatto peculiare, del giudizio di cassazione, in cui l’impianto e lo svolgersi della relativa disciplina processuale è – recte: era fino al 31 marzo scorso - ancorato ad una dimensione analogica degli atti (salva l’eccezione delle comunicazioni di cancelleria).
Ed è un contesto che già di fatto, prima ancora che giuridicamente, giustifica l’inserimento nel circuito processuale della collaborazione del depositante dell’atto e del controricorrente, ai fini di verifiche di conformità (involgenti sia il ricorso nativo digitale, che la sentenza estratta dal fascicolo informatico) che erano oggettivamente precluse alla Corte in quel momento storico.
Proprio nel dare rilievo al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione, della conformità di detta copia all’originale telematico è la stessa sentenza del 2019 a riconoscere che la decisione del settembre 2018 aveva già operato decisamente una interpretazione innovativa dell’art. 23, comma 2, del CAD, intendendo tale disposizione come “norma di chiusura” in base al duplice presupposto:
a) della impossibilità per la Corte di effettuare la verifica diretta sull’originale nativo digitale;
b) della possibilità della parte destinataria dell’atto processuale nativo digitale, sottoscritto con firma digitale, di poterne operare, o meno, il disconoscimento rispetto alla copia analogica che non sia stata autenticata dal difensore autore dell’atto notificato, in quanto in possesso proprio del suo originale.
In tal senso, viene superata la configurazione tradizionale del citato art. 23, comma 2, quale norma dalla valenza meramente probatoria e confinata in un rapporto meramente privatistico, che si riteneva, quindi, inapplicabile in sede di verifiche come quelle in esame, che hanno implicazioni pubblicistiche e non sono nella disponibilità delle parti.
Tale approdo ermeneutico si è reso possibile proprio perché operante – come più volte ripetuto - sul terreno già fertile del principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, secondo una lettura particolarmente attenta ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità, di matrice soprattutto sovranazionale, i quali devono orientare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale, senza indulgere ad “inutili formalismi”, ma operando per dare concretezza al principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Ma questa operazione ermeneutica coerenziatrice va anche letta come implementazione dello spazio vitale della funzione nomofilattica, perché viene a rafforzare lo statuto del “precedente” nell’ottica valoriale della certezza giuridica e, dunque, rendendolo affidabile criterio e misura della prevedibilità riguardo alla decisione dei casi futuri.
4. Conclusioni
Il descritto contesto impone di affrontare, tra le altre, una sfida impegnativa per la c.d. “nomofilachia informatica”, che – come già in parte evidenziato – viene posta dalla pluralità delle fonti di produzione del diritto di settore (incluso il livello eurounitario), che interagiscono tra loro, esibendo peraltro un diverso rango: primario, secondario, tecnico, quest’ultimo espressione anche di determinazioni amministrative (ad es., i decreti direttoriali del Ministero della Giustizia), la cui posizione, peraltro, è spesso frutto di interventi settoriali e non coordinati, secondo un disegno non sempre armonico, ma dettato sovente da contingenze e urgenze.
Invero, lo stesso CAD, sebbene venga evocato come corpo omogeneo di disposizioni di fonte legislativa con valenza di disciplina generale e di principio, affida la propria attuazione alle c.d “regole tecniche”, ossia ad una disciplina operativa di dettaglio, che, oggi, dopo la modifica dell’art. 71 del medesimo Codice, introdotta dal d.lgs. n. 217 del 2017, sono dettate sotto forma di “Linee guida”, adottate non più in forma regolamentare (con decreto del Presidente del consiglio o di un Ministro delegato), ma direttamente dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), divenendo efficaci non più dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (dove è solo previsto che si dia notizia della loro adozione), bensì dopo la pubblicazione nell’apposita area del sito Internet istituzionale dell’AgID. Ciò che apre ulteriormente alla discussione di come sussumere le “Linee guida” nell’ambito di una gerarchia delle fonti del diritto.
La giustificazione di fondo di tale assetto la si rinviene nel fatto che la flessibilità regolativa della normativa sub-primaria si presenta congeniale all’evoluzione tecnologica di natura prettamente informatica che il sistema del PCT non può ignorare.
Il che, se da una parte consente davvero la flessibilità, per altro verso, come è facile intuire, risulta un fattore di complicazione nell’ambito della regolazione del processo.
Sono i nostri filosofi contemporanei (Severino, Galimberti) ad ammonirci che la tecnologia non è asettica e neutrale, ma fa politica.
Affermazione questa che acutissimo e insigne giurista, come Natalino Irti, ha tradotto evidenziando che privilegiare, secondo una visione prospettica e di risultato, l’una o l’altra opzione regolativa che si affidi anche alla tecnica diventa una “questione di potere”.
Così nel nostro campo: diventa “questione di potere” rendere una certa scelta tecnica (prendiamo ad es. le tipologie di errore nel deposito telematico dell’atto digitale) impediente o meno dell’intervento del giudice all’interno del circuito della verifica processuale.
Nel contesto del PCT, dove fonti che non sono la legge vengono abilitate a regolare aspetti non certo irrilevanti del processo civile, non sembri ultronea la precisazione (che è dato trarre dalla più volte citata sentenza delle Sezioni Unite del settembre del 2018) per cui è necessario che siano i principi generali della legge processuale ad assumere il ruolo privilegiato di fonte interpretativa condizionante la portata della disciplina settoriale.
In altri termini, occorre davvero che la “nomofilachia informatica”, in dialogo con la dottrina (ma anche con le altre giurisdizioni in un’ottica di semplificazione e di armonizzazione della disciplina del processi telematici: passaggio anche questo necessario e da effettuare in tempi stretti), rifletta seriamente su un’actio finium regondorum che misuri con certezza ambiti competenziali e spazi di intervento attraverso la stella polare del “giusto processo regolato dalla legge”, secondo quanto predicato dal secondo comma dell’art. 111 Cost., che deve orientare in modo forte le “regole del gioco”, per non rendere evanescente il nucleo indefettibile del diritto inviolabile della difesa in giudizio.
*Relazione tenuta il 20 aprile 2021 al corso della SSM “Nomofilachia e informatica”
Decisione nel merito della Corte di Cassazione e risarcimento danni ex lege 117 del 1988: tempus fugit...talvolta inconsapevolmente!
di Gian Andrea Chiesi
Cass., Sez. U, 24.11.2020, n. 26672, Pres. Curzio, Est. Scoditti, P.M. Sgroi (Conf.)
In tema di responsabilità civile dei magistrati, nell'ipotesi di domanda di risarcimento per danno attribuito a provvedimento della Corte di cassazione che abbia deciso la causa nel merito, il termine di decadenza di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 decorre dalla pubblicazione del provvedimento sull'istanza di revocazione ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c., anche se dichiarata inammissibile per estraneità al parametro legale dell'errore di fatto, ovvero, se il rimedio della revocazione non sia stato esperito, dal provvedimento asseritamente fonte del danno, salvo, in quest'ultimo caso, la valutazione da parte del giudice dell'azione di responsabilità civile della ricorrenza dei presupposti per proporre la revocazione e, in caso positivo, la dichiarazione di inammissibilità della domanda per mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 391-bis c.p.c.
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla natura “elastica” dell’art. 4 l. n. 117 del 1988 - 3. La naturale (in)stabilità della pronunzia di legittimità che decide sul merito - 3.1. (Segue) La “vera” natura della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c. - 4. Un revirement delle Sezioni Unite?
1. Premessa
Con sentenza 24.11.2020, n. 26672 le Sezioni Unite, confrontandosi con una domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento con cui la Corte di cassazione aveva deciso la causa nel merito, hanno chiarito che il termine di decadenza fissato dall’art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 (nella specie, nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. a, della l. n. 18 del 2015) per promuovere l’azione di responsabilità decorre (a) dalla pubblicazione del provvedimento reso sull'istanza di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. (anche se dichiarata inammissibile, per estraneità al parametro legale dell'errore di fatto) proposta nei confronti del provvedimento asseritamente dannoso ovvero (b) dalla data di pubblicazione di questo, ove il rimedio della revocazione non sia stato esperito, salva, in tal caso, (b1) la valutazione, da parte del giudice dell'azione di responsabilità civile, dell’astratta ricorrenza dei presupposti per proporre la revocazione (con conseguente declaratoria di inammissibilità della domanda, in caso di positivo riscontro, per mancato esperimento del rimedio volto a conseguire “la modifica o la revoca del provvedimento” oggetto di doglianza).
A tali conclusioni la Corte è pervenuta valorizzando, da un lato, (1) l’“elasticità” dell’art. 4 cit. (quale previsione, cioè, “aperta alla variabilità degli strumenti processuali che nel tempo il legislatore modifica o introduce ex novo”), rispetto all’individuazione del dies a quo da considerare, per ritenere “...comunque...non...più possibili la modifica o la revoca del provvedimento” ingenerante il lamentato danno e, dall’altro, nel peculiare contesto delle pronunzie cd. sostitutive della Corte di Cassazione, (2) la natura latamente “endoprocessuale” della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c.
2. Sulla natura “elastica” dell’art. 4 l. n. 117 del 1988
Procedendo per gradi e muovendo dal primo profilo, l’art. 4, comma 2, chiarisce che l'azione di risarcimento – proponibile, a pena di decadenza entro due anni (poi divenuti tre, a seguito della novella ex lege n. 18 del 2005) dal momento in cui l'azione è esperibile - può essere esercitata “soltanto quando siano stati esauriti i mezzi ordinari di impugnazione” o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e “comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento” ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.
Invero, nel perimetrarne l’esatto ambito applicativo, già Cass. civ., sez. I, 23.12.1997, n. 13003, evidenziò che la norma, per come è formulata, appare diretta a privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all'azione risarcitoria (cfr. anche, sul punto, Boccagna, Legge 13 aprile 1988, n. 117, sub art. 4, Competenza e termini, in La responsabilità civile dei magistrati. Commentario alle leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, a cura di Auletta, Boccagna e Rascio, Bologna, 2017, 212 ss.), subordinando quest'ultima alla circostanza che il danneggiato abbia attivato i meccanismi predisposti dall'ordinamento per eliminare o, almeno, ridurre il danno: in altri termini l’errore - secondo l’idea di fondo sottesa anche all’originario impianto del codice di rito (cfr. gli artt. 55 e 56) - va corretto “nel” processo (attraverso la rimozione, la più immediata possibile, del provvedimento dannoso e, con esso, in nuce della fonte del danno, mediante gli strumenti processuali che l'ordinamento appresta all’uopo. Cfr. anche Cass. civ., sez. I, 13.12.1996, n. 2186), mentre l’azione risarcitoria “esterna”, attivata con il giudizio di responsabilità rappresenta una extrema ratio.
Ben si comprende, allora, come la Corte, in tale prospettiva “finalistica”osservi che “proprio perché retto da un principio di resilienza dell'ordinamento, che vieta di accedere al rimedio risarcitorio se prima non si è fatto il possibile per eliminare il danno che l'ordinamento stesso ha cagionato mediante il provvedimento giudiziario, l'art. 4 costituisce, alla stregua di una norma c.d. elastica, una valvola di apertura rispetto al mutamento nel corso del tempo dei rimedi esperibili nei confronti dei provvedimenti del giudice": con l’unico limite – derivante dall’interferenza con la disciplina dei termini per l’esperimento di un’azione giudiziaria - della sottoposizione di tali rimedi, inclusi quelli di “nuovo conio,” ad un termine di proponibilità ovvero, comunque, al dato certo dell'impossibilità di modifica o revoca del provvedimento.
3. La naturale (in)stabilità della pronunzia di legittimità che decide sul merito
Risolta tale preliminare questione, la Corte affronta, a valle, il tema del rapporto esistente tra azione risarcitoria ex lege n. 117 e danno ingiusto derivante da un provvedimento della Corte di Cassazione che, cassando la decisione impugnata, abbia poi deciso la causa nel merito, ex art. 384, comma 2, secondo inciso, c.p.c..
Il carattere “paradossale” della vicenda riposa sul rilievo che il danno asseritamente cagionato dal provvedimento del giudice di merito, emendabile “nel” processo attraverso la (auspicata) fisiologica impugnazione (sub specie, per l’appunto, di ricorso per cassazione), è cancellato da un “altro” danno, stavolta provocato da un provvedimento (la decisione della Corte di legittimità, per l’appunto) che, decidendo la causa con effetto sostitutivo della decisione gravata è, al contrario di quello impugnato, dotato del carattere di “tendenziale” definitività e stabilità, divenendo esso stesso - eccezionalmente - regola del caso concreto (cd. cassazione sostitutiva): come a dire...due torti non fanno una ragione!
Definitività e la stabilità, però, solo tendenziali, si diceva, giacché la decisione sul merito è idonea al giudicato ed è irretrattabile, salva (a) l’esperibilità nei confronti della stessa (contrariamente, peraltro, a quanto previsto per le altre decisioni assunte dalla Corte: cfr. Cass. civ., sez. II, 31.5.2016, n. 11236) dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., nonché (b) la sua impugnabilità per revocazione, ex artt. 391-bis e ter c.p.c. (si rinvia, per un approfondimento sul punto, a Sorrentino, La revocazione delle pronunce della Corte di cassazione, in www.cortdicassazione.it).
Orbene, esclusa la rilevanza, ai fini che in questa sede interessano, tanto del primo rimedio suddetto (idoneo a tutelare le ragioni dei terzi e non delle parti coinvolte nel giudizio definito con la sentenza opposta. Arg. da Cass. civ., sez. II, 15.12.2010, n. 25344), quanto della revocazione ex art. 391-ter c.p.c. (siccome non vincolata ad un termine fisso di proposizione e, dunque, inidonea a soddisfare quell’esigenza di certezza richiesta dall’art. 4, comma 2 e di cui si è appena detto), le Sezioni Unite concentrano la propria attenzione sul se e come la revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c. possa interferire con la duplice prescrizione contenuta nell’art. 4, comma 2, cit. ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria e, cioè, con (a) il previo esaurimento di tutti gli strumenti per ottenere la revoca o la modifica del provvedimento “danneggiante” e (b) il rispetto del termine di decadenza biennale (ora triennale).
3.1. (Segue) La “vera” natura della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c.
Non interessando, per quanto già detto in precedenza, che l’istituto non fosse previsto al momento in cui fu promulgata la l. n. 117, la Corte constata che l'impugnazione di un provvedimento reso da un giudice che ha lo status di Suprema Corte “non appartiene alla logica della formazione del giudicato formale, ma a quella più limitata del conseguimento della stabilità della decisione in funzione di tutela di esigenze costituzionali. La presenza del termine fisso di decorrenza per la proposizione dell'impugnazione non vale dunque a riprodurre nell'ambito dei provvedimenti della Corte di Cassazione la distinzione fra il mezzo ordinario ed il mezzo straordinario, ma serve solo a conciliare, in presenza di errore di fatto, l'esigenza di stabilità della decisione (e di rispetto del giudicato formale nel caso di ricorso per cassazione respinto) con i diritti di difesa e di eguaglianza, lasciando aperta la possibilità di denunciare i vizi occulti nei diversi limiti temporali previsti per la c.d. revocazione straordinaria nel caso della decisione della causa nel merito in quanto atto costitutivo della cosa giudicata in senso sostanziale di cui all'art. 2909 cod. civ.”.
Con la conseguenza che ne discende per cui il rimedio in esame, a dispetto della terminologia usata dal legislatore, si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 324 c.p.c., essendo piuttosto espressione di una regola diversa e, in specie, di un’impugnazione non preclusiva del giudicato (e, in tale prospettiva, per ciò stesso “straordinaria”, come osservato anche da Cass. civ., sez. VI-5, 17.9.2015, n. 18300, la quale chiarisce ulteriormente che "la sentenza della Corte di cassazione, dunque, non "passa in giudicato" ma, per mutuare una felice formula dottrinaria, "nasce già formalmente come passata in giudicato"), ma comunque idonea ad incidere sulla stabilità del provvedimento verso cui è rivolta.
Rispetto alle condizioni poste dall’art. 4 della l. n. 117, dunque, la revocazione ex art. 391-bis c.p.c. gioca la propria parte non già sul piano del giudicato quanto, piuttosto, su quello dell’effetto che essa produce e, cioè, della possibilità di “revoca del provvedimento” nei cui confronti è proposta, di rimozione, cioè, entro un determinato termine, del provvedimento asseritamente fonte di danno:“l’'istituto della revocazione per errore di fatto dei provvedimenti della Corte di Cassazione – si legge ancora in motivazione - entra pertanto nell'art. 4 proprio dalla porta della disposizione di chiusura rappresentata dall'inciso «comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento»...Trattandosi della disciplina del termine per proporre l'azione di responsabilità, la «revoca del provvedimento» viene in rilievo, limitatamente all'ipotesi dell'art. 391-bis, come ritiro dal mondo del diritto entro un termine di decadenza...”.
4. Un revirement delle Sezioni Unite?
È, dunque, attraverso l’osservazione e la valorizzazione del fenomeno da un diverso angolo prospettico (cfr. anche Metafora, Responsabilità civile magistrati: ricorso per revocazione e decorrenza del termine per l'azione di responsabilità, in www.ilprocessocivile.it, 5 marzo 2021) che risulta superato l’arresto di Cass., sez. un., 3.5.2019, n. 11747 la quale, al § 6.3 della motivazione (richiamandosi a Cass., sez. VI-3, 14.5.2015, n. 9916), aveva al contrario escluso che la proposizione dell'azione di revocazione fosse idonea ad impedire la decadenza ex art. 4 cit., ritenendo, al contrario, che la proponibilità dell'azione risarcitoria decorresse dal consumarsi del pregiudizio, momento coincidente, in ogni caso, con il passaggio in giudicato della sentenza di rigetto della domanda o del ricorso avanzati dall’asserito danneggiato.
In ipotesi di cassazione cd. sostitutiva, dunque, la domanda risarcitoria ex lege n. 117 del 1988 va proposta, a pena di decadenza, entro tre anni (due anni, secondo la norma applicabile ratione temporis) decorrenti dal momento in cui il procedimento di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. promosso avverso il provvedimento asseritamente dannoso è esaurito: tanto, si badi, indipendentemente, precisa la Corte, dalla correttezza dell’attivazione del rimedio, giacché la decisione sull'ammissibilità dello strumento è valutazione che spetta ex post al giudice dell'impugnazione, mentre "il diritto di promuovere l'azione di responsabilità civile, da esercitare entro un termine previsto a pena di decadenza, deve restare ancorato ad un termine certo e prevedibile e non può dipendere dall'evento rappresentato dal tipo di qualificazione che, all'esito del giudizio, opererà il giudice della revocazione". Diversamente, ove la revocazione ex art. 391-bis c.p.c. non sia stata esperita, il termine per la proposizione dell'azione di responsabilità decorre dalla pubblicazione del provvedimento asseritamente fonte del danno, purché, però, in relazione all'illecito denunciato non fosse in astratto proponibile il rimedio revocatorio (e, dunque, non avendo egli da dolersi del vizio alla cui ricorrenza è condizionato quel gravame), non potendo "imputarsi" al danneggiato (nell'ottica dell'esaurimento degli strumenti endoprocessuali) il mancato esperimento dell'impugnazione "naturale" allorché, trattandosi di gravame - come nella specie - a critica vincolata, questa fosse preclusa per difetto dei presupposti e, quindi, "non prevista" o "non più possibile" secondo il disposto dell'art. 4 (arg. da Cass. civ., sez. I, 4.5.2005, n. 9288).
Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale. A proposito delle recenti Sezioni Unite Civili n. 9390/2021.
di Giorgio Spangher
Le Sezioni Unite civili sono chiamate ad affrontare alcune questioni connesse all’uso dei risultati di intercettazioni telefoniche poste a fondamento di un provvedimento di sospensione cautelare dalla funzione e dallo stipendio.
In particolare, con i motivi del ricorso avviato nei confronti dell’ordinanza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, la difesa eccepiva: a) la violazione dell’art. 270 c.p.p., in relazione all’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli in cui le stesse sono state disposte; b) la preclusione per la difesa nel processo ad quem di eccepire la mancanza o l’illegalità dell’autorizzazione disposta nel giudizio a quo; c) l’impossibilità per l’incolpato in sede disciplinare di verificare il reale contenuto delle intercettazioni acquisite in sede penale; d) il difetto in relazione ad alcune specifiche intercettazioni (quelle successive al 22 marzo 2019) del vincolo della connessione di cui all’art. 12 c.p.p., alla luce di quanto precisato dalle Sezioni Unite Cavallo, sempre in tema di utilizzabilità dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse sono state autorizzate.
Se in relazione alle censure sub b) e c) la sentenza agevolmente supera le eccezioni richiamando consolidati orientamenti giurisprudenziali che sono in grado di assicurare ampia tutela alla difesa dell’incolpato al profilo critico coinvolgente le questioni a) e d) meritano una attenzione particolare ancorché la decisione richiami un orientamento consolidato delle Sezioni Unite civili sul punto.
La Corte dopo aver riconosciuto e ribadito che “il procedimento disciplinare a carico dei magistrati ha piena natura giurisdizionale e quindi durante l’intero procedimento devono essere rispettati il diritto di difesa e il principio del contraddittorio”, rigetta le riferite eccezioni (a e d), sulla scorta della ritenuta specialità della procedura de qua orientata all’accertamento penetrante sulla correttezza del comportamento dei magistrati, al fine di alimentare la fiducia dei consociati nell’ordine giudiziario tenuto conto che l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari trova fondamento nell’art. 105 Cost. in relazione alle funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nel ricercare un fondamento normativo di natura fattuale e processuale, la Corte richiama gli artt. 16 e 18 del d. lgs. n. 109 del 2006.
Con la prima disposizione si stabilisce che “per le attività di indagine si osservano, in quanto compatibili le norme del codice di procedura penale”; con la seconda si dispone che “si osservano in quanto compatibili le norme del codice di procedura penale sul dibattimento”.
In altri termini, il riferimento alla “compatibilità” servirebbe a modulare l’operatività delle norme processuali in relazione alla ricordata specialità dell’oggetto della procedura disciplinare nei confronti dei magistrati. Alle Sezioni Unite non sfuggono che argomentazioni che il tema della segretezza ha assunto nella giurisprudenza costituzionale che seppur risalente resta fondamentale in materia.
Non mancano del resto altre previsioni espresse derogatorie come in tema di prescrizioni varie nella procedura de qua, ma – appunto – sono definite ex lege, ancorché sottendono una tutela specifica della funzione.
In particolare, con la sentenza n. 63 del 1994 si afferma che l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni disposte nell’ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, limitatamente all’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza risponde all’esigenza di ammettere una deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione.
In altri procedimenti, giustificata dall’interesse dell’accertamento di reati di maggiore gravità...la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente indicati dalla legge,...limitatamente all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare allarme sociale.
Si impongono due riflessioni che si integrano tra loro.
In primo luogo, lascia perplessi che una clausola di compatibilità possa incidere su diritti fondamentali a copertura costituzionale, anche perché la stessa previsione non manca di specificare limiti precisi all’azione disciplinare, ed il riferimento agli atti coperti dal segreto (investigativo) non appare suscettibili di allargare il novero degli atti acquisiti, ma solo di quelli legittimi coperti dal segreto.
In secondo luogo, il riferimento al bilanciamento che comunque richiederebbe una specificazione dei reati e dell’autore (magistrato) di cui alla motivazione di C. cost. n. 63 del 1994 andava a fondamento di una espressa “estensione” ritenuta in quel caso legittima e giustificata, ma non prospettava la legittimità di ulteriori bilanciamenti, tutti da verificare nel loro fondamento costituzionale, alla luce di una espressa previsione normativa che la prevedesse.
Infatti, proprio quel passo della decisione prevede che sia il legislatore a fare quell’opera di bilanciamento. Con tutto il rispetto per la Corte di Cassazione, di operazioni di bilanciamento la giurisprudenza costituzionale è rigogliosa, per cui richiamare la sentenza relativa alla questione Ilva-Taranto, non può non suscitare perplessità, in quanto estranea alla materia de qua.
Invero, trattandosi di estensione in malam partem rispetto al dato codicistico la copertura di un diritto costituzionalmente garantito sembra attribuibile al solo legislatore e del resto resta dubbio se la stessa Corte costituzionale possa dare copertura ad un diritto “vivente” così costruito.
Va altresì considerato che per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la materia disciplinare è considerata Materia penale con tutte le ricadute che ciò determina in materia di riserva di legge oltre agli effetti propri di sistema sanzionatorio.
La transazione fiscale fra giurisdizione e “merito”. Commento a SS. UU. n. 8504/2021
di Matteo Golisano*
Sommario: 1. Premessa: l’arduo temperamento fra i principi fiscali e quelli concorsuali - 2. Il giudice (futuro) munito di giurisdizione in materia di transazione fiscale - 3. Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: un tema mai risolto.
1.Premessa: l’arduo temperamento fra i principi fiscali e quelli concorsuali
La sentenza che si segnala è degna di rilievo per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché rappresenta un punto di rottura rispetto al convincimento cui erano pervenute dottrina e giurisprudenza di merito su un tema, quello dell’impugnabilità del diniego alla transazione fiscale, a fronte del quale neanche la recenti novità di cui al D.L. n. 125/2020[1] sono riuscite a sopire il dibattito ma anzi, come anche testimoniato dai recenti contrasti presenti nella giurisprudenza delle corti territoriali a poco più di tre mesi dall’introduzione, lo hanno viepiù acuito.
Contrasto, questo, dovuto in ultima analisi alla formulazione utilizzata dal legislatore in riferimento all’individuazione delle condizioni fattuali al ricorrere delle quali il tribunale può procedere con l’omologa, esercitando quello che è stato definito il cram down fiscale, pur a fronte della “mancata adesione” determinante dell’Amministrazione[2].
Sotto questo punto di vista, il reale valore dell’Ordinanza non può che essere apprezzato nella sua chiara ambivalenza nella misura in cui, seppur si riferisce evidentemente (e come è ovvio) alla disciplina previgente (ossia prima delle modifiche di cui al D.L. citato) ed oggetto del decisum, al tempo stesso e come traspare dal tessuto motivazionale, ha un occhio proiettato alla disciplina attuale.
Ed è proprio in siffatta prospettiva che allora meglio si possono comprendere sia la scelta di discontinuità rispetto alla propria pregressa giurisprudenza, sia l’apparato motivazionale, certamente non comune, anche solo quanto ad estensione, rispetto alle tradizionali Ordinanze rese in materia di riparto giurisdizionale.
In quest’ottica l’Ordinanza si fa apprezzare e ciò, si badi bene, a prescindere che si intenda condividere l’intero iter argomentativo adottato, per il coraggio nella scelta delle modalità con cui la questione è impostata, prediligendo il campo, quello del dialogo fra principi tributari e principi concorsuali o, se si preferisce, fra la disciplina fiscale e quella fallimentare, un tempo definito, neanche troppo provocatoriamente, come “l’incubo fiscale”[3].
In particolare, la Suprema Corte ribalta il canonico inquadramento della transazione fiscale, da istituto tributario prestato al diritto fallimentare, a istituto fallimentare prestato al diritto tributario, ivi offrendo una pragmatica visione del tema dei rapporti fra le rationes sottese alle rispettive branche del diritto, dove la ratio concorsuale lato sensu intesa viene in qualche misura sovraordinata rispetto alla ratio tributaria, in quanto intesa come frutto di un complessivo bilanciamento costituzionalmente operato dal legislatore[4].
Venendo ora al secondo ordine di ragioni per le quali l’ordinanza si fa apprezzare, anche solo ad un esame superficiale questa si mostra sin da subito gravida di implicazioni sistematiche.
Si collocano in questo solco, per quel che qui più interessa:
a) le affermazioni in punto di estensione (implicita) del giudizio di omologazione, in generale, e del giudizio di omologazione negli accordi di ristrutturazione, in particolare;
b) le affermazioni in punto di (in)disponibilità della pretesa tributaria.
2. Il giudice (futuro) munito di giurisdizione in materia di transazione fiscale
Prima di approfondire brevemente i temi sopra evidenziati, risulta particolarmente utile l’inquadramento del contesto entro il quale l’ordinanza va a collocarsi.
Il caso di specie è dei più semplici e numericamente più ricorrenti nella prassi applicativa: una proposta di transazione fiscale veniva presentata nell’ambito delle trattative che precedono la stipula degli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l.f. e veniva rigettata dall’Amministrazione Finanziaria.
Il contribuente impugnava tale diniego dinanzi al giudice tributario riconducendolo, in via interpretativa, al diniego di definizione agevolata ex art. 19, lettera h), D. Lgs. n. 546/1992.
L’Agenzia delle entrate proponeva quindi un regolamento preventivo di giurisdizione ivi sostenendo la giurisdizione del giudice fallimentare.
L’esito, piuttosto scontato, sarebbe stato quindi nel senso dell’affermazione della giurisdizione del giudice tributario, in quanto non solo perché in linea con la propria pregressa giurisprudenza e con le conclusioni della Procura ma, altresì, perché conforme all’orientamento maggioritario della dottrina e della giurisprudenza tributaria ed amministrativa[5].
Maggiormente nel dettaglio, dopo una prima stagione in cui sia parte della dottrina sia parte della giurisprudenza amministrativa hanno tentato di affermare la giurisdizione del giudice amministrativo[6], queste si sono successivamente orientate, pure a fronte del passaggio frattanto intervenuto dalla transazione sui ruoli alla transazione fiscale ex art. 182 ter l.f., verso la giurisdizione del giudice tributario[7].
Tale modifica di approccio, in particolare e sintetizzando, è stata dovuta a tre concomitanti ordini di ragioni:
1) per un verso, alla valorizzazione della giurisdizione tributaria, successivamente alle modifiche apportata dalla L. n. 448/2001, quale giurisdizione esclusiva per materia ma limitata per funzione, tale per cui è irrilevante la posizione giuridica vantata dal privato;
2) per altro verso, al riscontrato e perdurante vuoto di tutela della posizione del contribuente a fronte del diniego illegittimo dell’Amministrazione;
3) per altro verso ancora ed in via preponderante, alla riscontrata incapacità della giurisdizione ordinaria, in specie nella sua declinazione fallimentare, ad apprestare adeguata tutela.
Tralasciando il primo profilo in quanto, allo stato, dato pacifico ed iniziando l’analisi dal secondo, pur se appariva condivisibile la posizione di chi[8], anzitempo, aveva ritenuto che l’illegittimità del diniego dell’amministrazione non fosse apprezzabile singolarmente in quanto la determinazione della stessa (almeno per il concordato) non sarebbe stata diretta in via immediata al contribuente, ma al contrario si sarebbe inserita quale componente della più ampia determinazione del ceto creditorio, poi condensatesi nell’approvazione o nel rigetto della proposta, allo stesso tempo era innegabile che, nell’ipotesi in cui il voto dell’erario fosse determinante per l’approvazione della proposta, il contribuente vantasse una posizione giuridica degna di tutela affinché il creditore pubblico assumesse la propria determinazione in conformità ai criteri normativi.
Tanto era imposto dall’impossibilità di predicare una totale parificazione tra creditore pubblico e creditore privato, ciò in quanto le determinazioni del primo, a prescindere dalla peculiare funzione amministrativa che si intendesse individuare, vincolata o discrezionale, non poteva in nessun caso dirsi libera nel fine, ma al contrario pur sempre vincolata alla tutela di uno specifico interesse pubblico e, nella specie, dell’interesse fiscale.
Conseguentemente, la determinazione dell’amministrazione, pur se solo partecipando alla formazione della più ampia volontà del ceto creditorio nell’ambito dell’approvazione o del rigetto della proposta, per ciò solo non poteva dirsi perdere la propria individualità.
Conclusione, detta ultima, a maggior ragione valevole per gli accordi di ristrutturazione dei debiti laddove la genetica dell’effetto era da rapportarsi, almeno sino alle recenti modifiche, le quali parrebbero aver anche inciso su tale profilo[9], all’accordo raggiunto con i singoli creditori più che al giudizio di omologa.
L’intensità con cui tale posizione poteva dipoi essere tutelata, variava evidentemente in ragione della differente opzione concettuale assunta, a monte, in ordine alla funzione esercitata dall’Amministrazione finanziaria: confinata entro i limiti dell’eccesso di potere, ove la funzione fosse ricondotta ad un’attività di tipo discrezionale, estesa all’accertamento del fatto ed alla sua sussunzione e, quindi ed in ultimo, alla produzione dell’effetto, ove la funzione fosse ricondotta ad un’attività di tipo vincolato.
Ciò posto e spostandoci sul terzo profilo, i tentativi di ricondurre la giurisdizione nell’alveo del giudice ordinario (fallimentare) pure proposte, in particolare dall’Amministrazione[10], si sono dimostrate del tutto inadeguate in quanto non di vera tutela si sarebbe trattato, nemmeno nella sua configurazione rimediale, giusta la specifica sede in cui il contribuente avrebbe potuto manifestare le proprie lagnanze, nella specie individuato nel solo giudizio relativo al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento[11].
Detto altrimenti, l’affermazione del giudice tributario, se sicuramente è stata dovuta anche alla valorizzazione della transazione fiscale quale strumento, seppur sui generis, pur sempre innestantesi nella fase di riscossione (e, per i tributi non ancora iscritti a ruolo, anche in quella di accertamento) del tributo, deve la propria fortuna principalmente all’incapacità dell’ordinamento fallimentare di apprestare una vera forma di tutela, neanche indiretta.
È in un siffatto contesto che si colloca la Suprema Corte con la sua terza via, la cui novità sta dunque non già e non tanto per il plesso giudiziario cui viene riconosciuta la giurisdizione, in quanto quella del giudice fallimentare è stata, come visto, una via interpretativa già prospettata dalla prassi amministrativa, quanto e piuttosto per la sede propria in cui siffatto giudice dovrebbe conoscere della relativa domanda (rectius questione), nella specie rappresentato dal giudizio di omologa.
Ed infatti, la menzionata inadeguatezza dell’ordinamento fallimentare era per lo più dovuta ai limiti propri del giudizio di omologa all’interno del quale i poteri del tribunale, per unanime convincimento e sia pure a fronte delle diversità strutturali esistenti fra il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, si sarebbero al più potuti tradurre, sia pure nella loro massima estensione prospettata dalla dottrina[12], nel c.d. “controllo di merito”, ossia in una verifica non solo astratta bensì concreta circa la fattibilità del piano e degli altri requisiti richiesti dalla legge[13], ma giammai si sarebbero potuti estendere nel senso di modificare e/o sostituire la determinazione assunta dal creditore pubblico (o da qualunque altro creditore)[14], stante la base consensuale caratterizzante, sebbene con intensità differenti, sia il concordato preventivo che gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Ragioni, queste, che in tempi meno recenti avevano infatti portato parte della dottrina[15] ad auspicare un intervento di riforma, in ultimo operato dal legislatore attraverso il D.L. n. 125/2020, oggi prevedendosi espressamente che il Tribunale possa procedere con l’omologa, al ricorrere di determinate condizioni, pur a fronte della “mancata adesione” determinante dell’Amministrazione, così di fatto anticipando il contenuto dell’art. 48, co. 5, del nuovo codice della crisi e dell’insolvenza.
Ed allora i profili di immediata rilevanza della ordinanza in commento sono almeno due:
a) per un verso, la Suprema Corte parrebbe interpretare siffatto intervento di riforma alla stregua della mera specificazione, in quanto tale facoltà sarebbe già rientrata nell’ambito delle competenze « “omologatone” generali»[16] del tribunale;
b) per altro verso ed a prescindere dall’affermazione di cui sopra che, siamo sicuri, alimenterà i futuri dibattiti, la rilevanza della pronuncia si manifesta, come detto, non già e non tanto per il passato (rectius per tutti quei casi ancora regolati dal testo previgente alla modifica ed ormai destinati ad esaurirsi), quanto e piuttosto per il futuro.
Ed infatti, la circostanza che la Suprema Corte affronti espressamente il caso del rigetto espresso, e che il potere di intervento del tribunale sia ricondotto nei poteri di omologazione generali (e ciò a prescindere che lo si voglia collocare quale forma di controllo di esercizio del potere – come suggerito dall’ordinanza[17] – ovvero di intervento sostitutivo o concorrente, come anche recentemente prospettato in dottrina[18]), sembra decisamente militare nel senso dell’interpretazione estensiva proposta da talune corti territoriali in ordine all’attuale testo degli artt. 180 e 182bis l.f., così da ricomprendere nel concetto di “mancata adesione” non solo i casi di inerzia dell’Amministrazione, ma anche, e soprattutto, quelli di diniego espresso.
In questo senso, parrebbe quindi che la Suprema Corte più che risolvere il problema del riparto giurisdizionale a fronte del dato normativo ante riforma, abbia comprensibilmente inteso limitare, in una chiara ottica nomofilattica, le possibilità di un contrasto giurisprudenziale fra le diverse corti di merito in riferimento alla normativa attualmente vigente, rendendo sin da subito palese la propria posizione sul punto, ed evitando al contempo il rischio che potesse assegnarsi alla presenza del rigetto espresso la funzione di “selettore” fra la giurisdizione ordinaria (fallimentare) e quella tributaria.
3. Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: un tema mai risolto
Così brevemente analizzato l’impatto diretto che l’ordinanza parrebbe produrre sul profilo dell’impugnabilità del diniego a fronte di un’istanza di transazione fiscale ed il substrato teorico entro il quale lo stesso si colloca, il tessuto motivazionale si presta, lo si è anticipato, ad una valorizzazione anche di più ampio respiro che in qualche misura travalichi i confini propri dell’istituto interessato.
Ci si riferisce, in particolare, agli obiter contenuti nel testo della decisione, i quali ripropongono al centro del dibattito un tema, quello dell’indisponibilità della pretesa tributaria, che affatica dottrina e giurisprudenza da oltre un secolo.
Pur senza poter essere questa la sede per esaminare funditus un profilo tanto complesso, sul quale si sono peraltro confrontate le menti più brillanti della materia, appare comunque utile tentare di fornire delle coordinate minime di sistema le quali, se debitamente storicizzate, consentono di meglio inquadrare le affermazioni dell’Ordinanza commentata.
È noto come tracce del dibattito dottrinale attorno al tema dell’indisponibilità della pretesa siano rinvenibili già in epoca pre-costituzionale laddove il riferimento normativo di siffatto principio veniva ricondotto ora agli artt. 25 e 35 dello Statuto Albertino, ora agli artt. 13, del R.D. n. 3269/1923 e 49 del R.D. n. 827/1924.
Ben presto tali riferimenti vennero però ritenuti insufficienti in quanto rappresentanti, al più, una testimonianza esteriore del principio, piuttosto che il fondamento normativo dello stesso[19].
Conseguentemente, l’indisponibilità veniva ricollegata alle caratteristiche intrinseche dell’obbligazione tributaria, configurandosi come un attributo consustanziale della stessa o, se si preferisce, quale conseguenza indefettibile della origine pubblicistica del fenomeno.
Per tale via, prefigurando una scissione fra il concetto di potestà impositiva (rectius il “diritto di supremazia tributaria”[20]) e singola obbligazione, l’indisponibilità sarebbe stata un predicato ora solo della prima[21], ora anche della seconda[22].
Ma anche per tale ultima impostazione, l’affermata indisponibilità della pretesa avrebbe avuto un valore solo relativo, ciò in quanto tale predicato altro non avrebbe rappresentato che la conseguenza dell’essere l’obbligazione d’imposta un’obbligazione ex lege, sicché la stessa legge tributaria sarebbe stata in condizione di disporre liberamente della medesima, nel senso che questa ben avrebbe potuto stabilire esenzioni, totali o parziali, a favore di coloro che si fossero trovati in una determinata condizione.
In epoca più recente, complici la distinzione frattanto maturata fra Stato-sovrano e Stato-amministrazione ed il nuovo modo di intendere il fenomeno tributario, con la conseguente transizione da un modello di carattere schiettamente autoritativo ad uno più marcatamente improntato ad una logica collaborativa di attuazione del tributo[23], ed in disparte le difficoltà, comunque presenti, di individuare i confini propri del concetto di indisponibilità[24], la dottrina si è riorientata in due diversi correnti principali:
a) una prima che, sebbene attraverso ricostruzioni molto differenti tra loro, ritiene tale principio cogente e di diretta derivazione costituzionale;
b) una seconda la quale, sulla base di constatazioni di fatto[25] sul moderno ordinamento tributario[26], nega l’esistenza del principio di indisponibilità o, comunque, la sua copertura costituzionale.
Approfondendo brevemente le singole prospettazioni, e scusandoci sin d’ora per il grado di approssimazione che qualunque categorizzazione comporta, la prima impostazione può essere a sua volta utilmente suddivisa secondo tre diversi ordini di argomentazioni principali in funzione del diverso fondamento, pur sempre costituzionale, assunto quale riferimento.
Più nel dettaglio secondo la prima impostazione[27], maggiormente sostenuta in dottrina[28], dovrebbe essere debitamente valorizzata la funzione di riparto[29] svolta dall’imposta la quale comporterebbe l’impossibilità di ricondurre il fenomeno impositivo ad una semplice rapporto dare-avere tra ente pubblico creditore e contribuente debitore.
Ed infatti, in tale ricostruzione si svaluterebbe l’altro aspetto del fenomeno impositivo, rappresentato dal rapporto intercorrente tra singoli contribuenti, pacificamente non riconducibile al modello dare-avere, condensantesi al contrario nella pretesa di ciascun contribuente a un equo riparto del carico pubblico.
Cosicché, rievocando la categoria smithiana[30], la fiscalità statale viene concettualmente accostata a quella del condominio: “Se uno dei condomini paga meno del dovuto o non paga affatto, rimanendo inalterato l’ammontare delle spese condominiali, l’inadempienza si ripercuote a danno degli altri condomini”[31], talché ogni forma di esenzione concessa a taluno si riverserebbe in senso negativo su talaltro[32].
Proprio in tale ultima ottica, si riuscirebbe a comprendere il fenomeno dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.
A differenza che nel diritto privato, in questo caso il titolare del diritto non avrebbe la relativa disponibilità per via della circostanza che l’intera vicenda non riguarderebbe lui soltanto, dovendosi intendere il credito vantato non già nella sua singolarità, ma come quota, il cui mancato incasso andrebbe a gravare in senso negativo sugli altri consociati[33].
Così correttamente inteso il fenomeno tributario e, soprattutto, la funzione impositiva, i referenti costituzionali cui si dovrebbe guardare sarebbero gli artt. 2, 3 e 53 Cost., definiti congiuntamente come principi di “giusta imposta”[34].
In ragione dei richiamati principi il legislatore sarebbe in primo luogo obbligato ad assumere, quale fatto generatore la contribuzione, soltanto fatti espressivi di capacità economica[35].
In secondo luogo, sarebbe obbligato ad imputare la capacità economica così manifestata soltanto al soggetto che ne sia l’effettivo possessore “andando a tramutare l’indice di ricchezza, che nella sua realtà materiale è fatto neutrale, in indice di idoneità alla contribuzione del singolo soggetto”[36].
In terzo ed ultimo luogo, il legislatore dovrebbe rispettare il principio di universalità del dovere di partecipare al concorso, dovere che viene così ricondotto al precetto contenuto nell’art. 53 Cost. e comportante la nascita in capo a tutti i consociati di altrettanti diritti pubblici soggettivi a che l’imposta venga ripartita in ottemperanza delle regole di riparto non modificabili ex post dal legislatore.
A tale impostazione, sempre muovendo dal ruolo di centralità che l’art. 53 Cost. assume in seno all’ordinamento tributario, se ne è dipoi accompagnata un’altra[37] dal carattere per così dire maggiormente flessibile o, se si preferisce, relativo.
Più nel dettaglio, attraverso una differente enfatizzazione del principio egalitario presente all’interno nell’art. 53 Cost., in uno con una rimodulazione dell’importanza della funzione di riparto svolta dall’imposta, si è sostenuto come questo in realtà tuteli solo l’uniformità del trattamento senza incidere direttamente sugli indici di riparto.
Detto altrimenti, verrebbe impedito un trattamento tributario difforme rispetto a situazioni uguali, ma non vi sarebbe una correlazione diretta rispetto ai procedimenti di determinazione dell’obbligazione tributaria[38].
Quale immediata conseguenza del mutamento di prospettiva, vi sarebbe la possibilità per il legislatore di attribuire all’Amministrazione poteri lato sensu dispositivi in ordine al credito tributario.
Ed infatti, il principio di capacità contributiva, ed il relativo principio di indisponibilità che del primo altro non sarebbe che il riflesso, impedirebbe solo di riconoscere all’Amministrazione poteri discrezionali da esercitare nei singoli casi, andando così a differenziare in concreto le imposizioni.
Tale principio, quindi, sarebbe non già assoluto ma relativo, dovendosi conciliare con le altre istanze legittimamente presenti quali, in ipotesi, le esigenze di certezza e sollecitudine della riscossione in quanto anch’esse costituzionalmente tutelate[39].
Sempre all’interno di tale filone di pensiero, una notazione a sé merita poi quella parte della dottrina[40] che, pur muovendo dalla centrale funzione di riparto che assolve l’imposta, ha ritenuto imprescindibile adottare un approccio meno dogmatico e più sostanzialista che tenga conto dei differenti ambiti, quello dell’accertamento e quello della riscossione, in cui si concretizza la realizzazione del credito d’imposta.
Detto altrimenti, sarebbe necessario adottare un’impostazione che “valorizzi il collegamento tra questo (il principio di indisponibilità ndr.) ed il suo rilievo nel contesto dell’esercizio della funzione impositiva” così valorizzandone le differenti reciproche interferenze.
Per questa via, attraverso una marcata valorizzazione delle diversità sussistenti fra i due momenti in cui la funzione impositiva trova estrinsecazione, quella di accertamento e quella di riscossione, la funzione di riparto viene ricondotta alla prima e non anche alla seconda.
Così opinando, risulterebbero quindi valorizzabili esigenze di celerità e speditezza nell’acquisizione del prelievo, a loro volta espressioni del più generale concetto di interesse fiscale[41], rendendosi possibile incidere, almeno secondo talune elaborazioni[42], anche sui profili relativi all’an e al quantum del tributo.
Argomentazione, questa, in parte condivisa dalle diverse ricostruzioni tendenti ad individuare il referente costituzionale dell’indisponibilità della pretesa fiscale nell’art. 23 Cost.[43], per le quali il referente dell’art. 53 Cost. sarebbe inadeguato giacché, sostanzialmente e semplificando, non limiterebbe affatto le facoltà dispositive, quanto e piuttosto imporrebbe che l’eventuale potere dispositivo sia esercitato nell’interesse della comunità e nel rispetto del criterio progressivo in esso consacrato, limitando così le scelte operabili dal legislatore entro limiti di razionalità e coerenza.
In un simile contesto, l’unico referente sicuro potrebbe allora essere individuato nella riserva di legge, la quale assolverebbe in subiecta materia una fondamentale funzione di garanzia sotto un duplice profilo: di salvaguardia della sfera di libertà personale e patrimoniale del privato da interventi autoritativi dell’Amministrazione, per un verso, e di tutela degli interessi pubblici sottesi alle prestazioni patrimoniali imposte, per altro verso.
Stante la natura della riserva di legge in discorso, il principio di indisponibilità viene per tale via “relativizzato”, non escludendosi a priori la possibilità di poteri dispositivi del credito, a tal fine richiedendosi semplicemente una sufficiente base legislativa ogniqualvolta si voglia incidere su doverosità ed entità della prestazione tributaria.
Detto altrimenti, il potere di disporre dell’obbligazione tributaria sussisterebbe tutte le volte in cui il titolare di detta potestà abbia il potere, perché conferitogli dalla legge, di decidere se e come esercitarla, ossia abbia il potere di effettuare una ponderazione tra i distinti interessi in gioco.
Secondo una terza e differente impostazione[44] l’indisponibilità della pretesa troverebbe la propria fonte genetica nel principio di imparzialità racchiuso nell’art. 97 Cost. o, più precisamente, nella proiezione egalitaria dell’art. 3 Cost. contenuta nell’art. 97 Cost. e, quindi, nella necessità (rectius dovere) di trattare in maniera simile posizioni simili.
In un simile contesto, le difficoltà che si riscontrano nel configurare un concreto potere dispositivo, sarebbero allora da ricollegarsi a mere circostanze fattuali e, più nel dettaglio, alle difficoltà di delineare i presupposti ai quali l’Amministrazione si dovrebbe attenere nell’esercizio di siffatto potere e, ancor di più, a causa delle difficoltà di contemperare eventuali profili dispositivi con il necessario rispetto del principio di imparzialità e trasparenza, che in ambito tributario non tollererebbero compressione alcuna[45].
Sul versante diametralmente opposto si collocano invece quelle teorie[46] le quali, pur muovendo dalla medesima distinzione tra potere impositivo e singola obbligazione tributaria, e quindi dalla assoluta impossibilità di aversi il trasferimento ovvero rinuncia relativamente al primo, negano la sussistenza del principio di indisponibilità allorquando, al contrario, si passi ad analizzare il singolo rapporto obbligatorio d’imposta.
Maggiormente nel dettaglio, secondo tali prospettazioni si dovrebbe partire da due considerazioni di fondo: la prima, legata a constatazioni di fatto e relative all’analisi, qualitativa e quantitativa, delle ipotesi in cui tale principio non verrebbe rispettato e/o derogato, la seconda relativa all’insufficienza di tutte le disposizioni normative di volta in volta richiamate onde fondarne il referente positivo.
In tale prospettiva, quindi, l’indice dell’assenza nell’ordinamento del principio di indisponibilità sarebbe da rinvenirsi proprio in tutte quelle previsioni normative (accertamento con adesione; conciliazione giudiziale; transazione fiscale; fattispecie condonistiche) che a vario titolo ne costituirebbero una deroga[47].
A tale rilevazione seguirebbe quindi l’impossibilità di rintracciare una norma, ora costituzionale, ora ordinaria, che ne funga da riferimento.
Ed infatti, escluso a priori che si possa volgere lo sguardo a norme di rango ordinario, tutti i referenti costituzionali individuati sarebbero comunque inadeguati allo scopo.
Approfondendo l’analisi, anzitutto il richiamato all’art. 23 Cost., sarebbe inappropriato sotto un duplice profilo.
Il primo, derivante dall’aver erroneamente ricondotto l’inammissibilità di atti dispositivi alla più generale inaccessibilità per l’Amministrazione ad una sfera riservata al legislatore (rectius, la determinazione della fattispecie d’imposta), in quanto l’ambito garantistico dell’art. 23 Cost. si risolverebbe nella sola declinazione della coattività, non potendo al contrario afferire al tema dell’ammissibilità degli atti di disposizione del credito tributario.
Il secondo, dato dall’estraneità del richiamo ad eventuali poteri discrezionali in capo all’Amministrazione, in quanto l’ipotetico atto dispositivo compiuto pur a fronte di un’attività in ipotesi interamente vincolata, si dovrebbe risolvere nella responsabilità dei funzionari pubblici per gli atti di disposizione effettuati e non già nell’invalidità dell’atto stesso.
Tale ultima obiezione, peraltro, varrebbe anche nei confronti delle impostazione che vuole quale copertura costituzionale del principio di indisponibilità l’art. 97 Cost.
In particolar modo, riconducendo l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria al principio di imparzialità s’incorrerebbe in “un evidente slittamento dei piani da quello dell’essere a quello del dover essere, postulandosi un rapporto di derivazione nient’affatto necessitato”[48].
In parte più complessa, appare invece la critica che viene mossa alle ricostruzioni fondate sull’art. 53 Cost.[49]
Come visto, il tratto accomunante tutte le ricostruzioni facenti perno su tale referente normativo è, in ultima analisi, la funzione di riparto propria della fattispecie d’imposta, venendo questa ad implicare, a seguito della verificazione del presupposto e quindi della manifestazione di capacità contributiva cui la tassazione è ricollegata, non solo la nascita di rapporti c.d. interni tra Stato e contribuente ma, altresì, di rapporti c.d. esterni tra il singolo contribuente e tutti gli altri consociati.
Ebbene, secondo la tesi qui riportata, l’art. 53 Cost. non si riferirebbe affatto alle vicende attinenti ai singoli rapporti d’imposta e ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, perché l’idea della sussistenza di un diritto inviolabile ed indisponibile alla tassazione a fronte della manifestazione di capacità contributiva, sarebbe oggi smentita dall’istituto dell’accollo previsto dall’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente.
In secondo luogo, l’idea della sussistenza di una “quotità”, ovvero l’idea di individuare nel singolo rapporto d’imposta non un fenomeno ex se ma parte di un più ampio rapporto, non terrebbe conto del fatto che per l’Amministrazione l’eventuale rinuncia a singole frazioni ben potrebbe essere più vantaggiosa rispetto ad un ipotetico contenzioso giudiziale risolvibile sfavorevolmente per l’Erario.
In definitiva, bisognerebbe quindi ribaltare la premessa logica da cui è consueto muovere.
In questo senso, tutte le varie norme che in qualche misura sembrano presupporre un potere dispositivo non andrebbero lette come deroghe al principio, bensì come manifestazione esplicita del principio diametralmente opposto[50], ossia della assoluta disponibilità dell’obbligazione tributaria o, al più, quali mere ipotesi latu sensu autorizzatorie[51].
4.Conclusioni: l’intima coerenza dell’ordinanza n.8504/2021
Ciò posto a livello di analisi dottrinale, l’ordinanza in commento si inserisce in siffatto complesso dibattitto propendendo marcatamente per la ricostruzione intermedia, così declinando il principio di indisponibilità, per un verso, quale principio effettivamente esistente nel nostro ordinamento ma, per altro verso, in termini per l’appunto relativi, giusta la possibilità di una sua deroga legislativa.
Dal tessuto motivazionale non risulta chiaro – perché in realtà profilo inconferente rispetto al decisum – quale sia l’intensità con cui siffatta relatività venga intesa.
Se, cioè, la norma derogatoria debba necessariamente predeterminare limiti e contenuti del potere dispositivo in termini precisi, ovvero se tale determinazione possa essere rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione.
Cionondimeno tale funzione derogatoria viene esplicitamente attribuita alla transazione fiscale, ivi individuando un effettivo momento dispositivo del rapporto tributario.
A prescindere dalla condivisibilità di tale affermazione, potendosi al contrario anche argomentare che nell’istituto sia assente qualsivoglia profilo dispositivo giusta le condizioni normative cui è subordinata la falcidia del credito tributario[52], il ragionamento della Corte si presenta intimamente coerente rispetto alle premesse di partenza.
Ed infatti, al menzionato profilo dispositivo la Suprema Corte, correttamente, ricollega l’emersione di una funzione amministrativa discrezionale, riconoscendo in tal modo il rapporto biunivoco[53] che lega il profilo della indisponibilità con quello della funzione amministrativa, essendo impossibile predicare una funzione vincolata non associandola ad una indisponibilità della pretesa (indipendentemente che poi tale indisponibilità sia derivata dalla legge, dalla Costituzione o dal sistema), così come è impossibile predicare una funzione discrezionale non associandola al contempo ad un potere di disposizione del relativo diritto.
*Assegnista di Ricerca presso la Luiss Guido Carli
[1] Le quali, sostanzialmente, hanno anticipato le modifiche apportate all’istituto della transazione fiscale (rectius al giudizio di omologa) previste dal Nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza di cui al D. Lgs. n. 14/2019.
[2] Nella specie si discute se, nel concetto di “mancata adesione” previsto nell’attuale testo degli artt. 180 e 182bis l.f. debba essere ricompreso solo l’ipotesi del silenzio o anche il diniego espresso.
[3] La citazione è chiaramente riferita al Provinciali, il quale utilizzava l’espressione per indicare le criticità originantesi dalle difficoltà di coordinamento fra le due branche del diritto. R. Provinciali, Il processo di fallimento sotto l’incubo fiscale, in Dir. Fall., 1958, I, 58 e ss.. In generale, sul tema dei rapporti fra procedure concorsuali e diritto tributario, per tutti si v.: A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali e sul rapporto tra par condicio creditorum, interesse fiscale ed altri interessi diffusi, in Piccini – Panzani – Severini (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, VI, Torino, 2012, 417 e ss.; M. Esposito, Riflessioni critiche sui rapporti tra diritto tributario e diritto civile alla stregua dei principi costituzionali (muovendo da alcune incongruenze nella disciplina fiscale delle procedure concorsuali), in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 3 e ss.; nonché da ultimo F. Paparella, Il rapporto tra diritto tributario e diritto fallimentare nel pensiero di Augusto Fantozzi, in Saggi in ricordo di Augusto Fantozzi, Pisa, 2020, 397 e ss..
[4] Conclusione, detta ultima, collocantesi in termini sintonici rispetto a quanto prospettato da acuta dottrina in riferimento al nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. Sul punto di v. G. Fransoni, Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?, in Rass. Trib., 2019, 247 e ss..
[5] In aggiunta alla giurisprudenza richiamata in seno all’Ordinanza si v., altresì: Consiglio di Stato, n. 4021/2016.
[6] Tale conclusioni venivano peraltro sostenute mediante due percorsi argomentativi non coincidenti. Secondo una prima prospettiva, la giurisdizione del giudice amministrativo sarebbe stata la conseguenza della peculiare posizione vantata dal privato, nella specie declinata nei termini dell’interesse legittimo. Per ciò che, essendo al tempo diffuso il convincimento per il quale anche la giurisdizione tributaria dovesse essere individuata non già e non solo in funzione della materia oggetto della lite, quanto e piuttosto, dal tipo di posizione giuridica soggettiva vantata dal contribuente, ove questa fosse stata di interesse legittimo la giurisdizione doveva essere necessariamente riconosciuta al giudice amministrativo. Secondo un diverso percorso argomentativo, si individuava la giurisdizione del giudice amministrativo non già e non tanto in virtù della posizione giuridica presente in capo al contribuente, anzi espressamente ritenuta inidonea a fondare un riparto giurisdizionale, quanto e piuttosto per i limiti intrinseci della giurisdizione tributaria e, più nel dettaglio, per il limite c.d. esterno rappresentato – almeno secondo l’interpretazione “piana” dell’art. 2, d.lgs. n. 546/1992 al tempo prevalente – dalla notifica (intesa come fatto materiale) della cartella di pagamento. Per tali orientamenti si v.: L. Magnani, La transazione fiscale, in G. Schiano Di Pepe (a cura di), Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, 773 e ss.; E. Grassi, Transazione fiscale e indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Il Fisco, 52 e ss.; M. Basilavecchia, La transazione sui ruoli, in Corr. Trib., 2005, 1217 e ss.; Parere del Consiglio di Stato n. 526 del 2004.
[7] Sotto il vigore della transazione fiscale hanno aderito a tale orientamento, tra gli altri: G. Marini, La transazione fiscale: profili procedimentali e processuali, in F. Paparella, (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 678 e ss.; Id., La transazione fiscale, in Rass. Trib., 2010, 1193 e ss.; G. Verna, I nuovi accordi di ristrutturazione, in S. Ambrosini (a cura di), Le nuove procedure concorsuali dalla riforma “organica” al decreto “correttivo”, Bologna, 2008, 593 e ss.; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 251; L. Del Federico, La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. Dir. Trib., 2008, 234 e ss.; V. Ficari, Riflessioni su “transazione” fiscale e “ristrutturazione” dei debiti tributari, in Rass. Trib., 2009, 75 e ss.; S. Lo Conte, La tutela giurisdizionale del debitore nell’ambito della transazione fiscale, in A. Caifa (a cura di), Le procedure concorsuali nel muovo diritto fallimentare, Torino, 2009, 700 e ss.; E. Stasi, Impugnabilità del diniego alla transazione fiscale – Transazione fiscale – La transazione fiscale dal punto di vista del giudice tributario, in Il Fall., 2014, 1222 e ss.; C. Attardi, Transazione fiscale: questioni procedurali, effetti sui crediti e sulla tutela giurisdizionale, in Il Fisco, 2017, 4448. Sebbene si mostri dubbioso, aderisce a questo orientamento anche: M. Basilavecchia, L’azione impositiva nelle procedure concorsuali: il caso della transazione fiscale, in Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, 72 e ss..
[8] La posizione è stata sostenuta, sebbene con sfaccettature differenti da: L. Tosi, La transazione fiscale, in Rass. Trib., 2006, 1083 e ss.; F. Randazzo, Il “consolidamento” del debito tributario nella transazione fiscale, in Riv. Dir. Trib., 2008, 825 e ss.; G. Gaffuri, Aspetti problematici della transazione fiscale, in Rass. Trib., 2011, 1124 e ss..
[9] Per un approfondimento della questione sia consentito rinviare a: M. Golisano, La nuova “transazione fiscale” dell’art. 63 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: fra nuove difficoltà interpretative, inediti poteri sostitutivi e definitive conferme circa la vincolatezza della funzione esercitata, in Riv. Trib. Dir. Trib., 2019, 499 e ss..
[10] Cfr. Circ. n. 15/E del 2018, par. 2.2 per la quale: «In definitiva, deve ritenersi che, nel caso di mancata raggiungimento della maggioranza per l’approvazione del concordato e di successiva dichiarazione di fallimento, il debitore e gli altri creditori potranno tutelare la propria posizione mediante la proposizione del reclamo di cui all’art. 18 L.F.”.
[11] Ed infatti, l’idea di tutela proposta si poneva sempre e comunque a valle dell’intera procedura concorsuale, presupponendosi l’intervenuto fallimento.
In un simile contesto, l’eventuale doglianza in ordine alla legittimità del voto, sarebbe valsa al più ad evitare il fallimento e quindi si sarebbe collocata in maniera del tutto incidentale rispetto all’illegittimità del voto, essendo il petitum immediato rappresentato dall’accertamento dell’astratta ammissibilità del concordato preventivo e non già dalla legittimità della determinazione assunta dall’Amministrazione finanziaria.
[12] Sul tipo di controllo demandato al Tribunale in sede di giudizio di omologa nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti si v., anche i per i dovuti richiami dottrinali: G. Carmellino, I giudizi di omologazione tra degiurisdizionalizzazione e contratto, Napoli, 2018, 120 e ss..
[13] Interpretazione, questa, poi rigettata dalla Suprema Corte la quale ha al contrario aderito alla tesi più restrittiva del c.d. “controllo di legittimità” enunciando il seguente principio di diritto: «Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti…» SS. UU. n. 1521/2013.
[14] Ed infatti, giova sottolineare che anche nel concordato, dove era già contemplato un potere generale di cram down previsto dall’originaria formulazione dell’art. 180, comma 4, l.f. e dove, del pari, era già contemplata un’ipotesi di estensione automatica degli effetti ai sensi dell’art. 184 l.f., trattavasi comunque di ipotesi che presupponevano, tutte, l’intervenuta apertura del giudizio di omologa la quale, a sua volta, presupponeva indefettibilmente l’intervenuta approvazione della proposta concordataria in sede di adunanza dei creditori. Ipotesi, questa, non ipotizzabile in caso di voto contrario determinante da parte di uno dei creditori in quanto, in tale ultimo caso, ai sensi dell’art. 179 l.f. non si sarebbe aperto il giudizio di omologa, bensì il tribunale avrebbe dovuto procedere alla declaratoria di inammissibilità del concordato ex art. 162, comma 2, l.f..
[15] Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, documento di prassi di Dicembre 2015.
[16] Per la Corte infatti: «nella sostanziale invarianza dei presupposti e delle modalità del “trattamento dei crediti tributari” dettata da quest’ultima e da quella previgente – e qui ratione temporis applicabile, deve ritenersi che anche dalla seconda tale sindacato fosse comunque affidato allo stesso tribunale fallimentare, nell’ambito delle sue competenze “omologatone” generali (art. 162, 163, 179 ss. e 182 bis e ter, L. Fall., rispettivamente per il concordato e l’accordo di ristrutturazione dei debiti)».
[17] Laddove parla di: «sindacato giudiziale sul diniego di accettazione della proposta transattiva».
[18] Cfr. G. Fransoni, Trattamento dei debiti tributari e concordato preventivo: dal procedimento al processo, in corso di pubblicazione su Rass. Trib., 2021.
[19] Sul punto si v.: G. Tesoro, Il principio “dell’inderogabilità” nelle obbligazioni tributarie della finanza locale, in Riv. It. Dir. Fin., I, 1937, 56 e ss.; R. Pomini, L’inderogabilità dell’obbligazione tributaria tra privato e comune, in Riv. Dir. Fin., II, 1950, 52 e ss.. Sull’inadeguatezza dei riferimenti normativi si v., più di recente: F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Fondazione Luca Pacioli, studio n. 3, 2002, 20 e ss., nonché M. Poggioli, Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in M. Poggioli (a cura di), Adesione, conciliazione, autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Milano, 2007, 5 e ss..
[20] La distinzione è stata introdotta per la prima volta da A. Berliri, Principi di diritto tributario, volume I, Milano, 1957, 110 e ss, per il quale, salvo un cambio di terminologia successivo, la potestà tributaria sarebbe stata “quella speciale esplicazione della capacità giuridica del soggetto attivo che riguarda l’istituzione e la regolamentazione dei tributi”.
[21] A. Berliri, Principi di diritto tributario, volume I, Milano, 1967, 177 e ss..
[22] A. D. Giannini, Circa l’inderogabilità delle norme regolatrici dell’obbligazione tributaria, in Riv. Dir. Fin., 1953, 291 e ss; Id., Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1968, 79 e ss. L’Autore, pur partendo dalla medesima constatazione circa il modo di essere del rapporto giuridico d’imposta, ossia il suo essere un rapporto complesso, già presente nel Berliri, giunge a conclusioni diametralmente opposte. Nel senso che sarebbero stati gli altri elementi di tale rapporto e non già l’obbligazione tributaria ad essere disponibili, ciò in quanto quest’ultima avrebbe rappresentato “la parte essenziale e fondamentale, nonché il fine ultimo cui tende l’istituto dell’imposta”. L’importanza di tale passaggio è tutt’altro che secondaria perché per la prima volta l’accento viene messo, sebbene in maniera non decisiva (tanto è vero che l’indisponibilità in tale impostazione assume ancora un carattere relativo e non già assoluto) sul fine (e quindi sulla ratio) dell’imposizione. Tale riferimento è stato ripreso successivamente in particolare dal Falsitta con un’incisività ben più decisiva tramutandosi esso stesso (fine) nella vera ragione ultima dell’indisponibilità dell’imposta. In maniera analoga al Giannini si esprime anche G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1964, 3 e ss.; Id., Corso di diritto tributario, Torino, 1981, 86 e ss. il quale, pur riprendendo la fondamentale distinzione tra potestà tributaria e singola obbligazione tipica del Berliri, contrappone alla “potestà normativa tributaria” la “potestà amministrativa tributaria” (o anche definita successivamente “potestà di imposizione”), indicante “l’aspetto finale del concretarsi della norma giuridica tributaria”, ossia il suo divenire, da potere impositivo astratto, singola obbligazione tributaria.
[23] Cfr. F. Gallo, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, 435 e ss.
[24] Sulle criticità relative all’individuazione positiva del concetto di “indisponibilità” si v. la lucida analisi di A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi nella fase di riscossione, Milano, 2010, 68 e ss.; nonché M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, 312 e ss..
[25] Sottolinea un trend legislativo non certamente improntato al principio di indisponibilità: L. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, in Giust. Trib., 2008, 13.
[26] Essendo diffusa in dottrina l’affermazione per la quale sarebbero tali e tante le deroghe al principio presenti nell’ordinamento da porne in dubbio l’effettiva sussistenza.
[27] Invero corre l’obbligo di rilevare come, sebbene la maggioranza deli Autori prenda le mosse dall’art. 53 Cost., poi sia opinione diffusa il dover ricondurre il fenomeno dell’indisponibilità agli artt. 2, 3 e 53 Cost. congiuntamente.
[28] Senza pretese di esaustività, aderiscono a tale impostazione, sebbene con sfaccettature differenti: A. Fantozzi, La teoria dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, in Fondazione Luca Pacioli,, studio n. 3, 2002, 6 e ss.; S. La Rosa, Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. Trib., 2008, 13 e ss.; F. Gallo, Ancora sul neoconcordato e sulla conciliazione giudiziale tributaria, cit., 1994, 1491 e ss.; M. Beghin, Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione concordataria e l’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2010, 679 e ss.; M. Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, Dir. e Prat. Trib., 2012, 1143 e ss.; M. T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 126 e ss.; F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, cit., 2 e ss.; F. Paparella, Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende, in A. Fantozzi (a cura di), Diritto tributario, Milano, 2012, 482 e ss.; M. Poggioli, Il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, tra incertezze definitorie e prospettive di evoluzione, cit., 5 e ss.; G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, Milano, 2008, 210 e ss.; Id., Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. Dir. Trib., 889 e ss.; M. Allena, Profili costituzionali della transazione fiscale, in Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, 3 e ss.
[29] La formulazione originaria come obbligazione di riparto risale a L.V. Berliri, La Giusta imposta, 1945, 336 e ss.. Successivamente la teoria viene ripresa da G. Abbamonte, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975, 269 e ss., per il quale: “la spesa pubblica è in sostanza il dato dal quale si parte per ripartire il carico tra i vari soggetti obbligati al concorso, secondo la capacità contributiva di ciascuno. In tempi recenti, come noto, l’impostazione è stata ripresa dalla quasi generalità degli Autori e, in particolare, da G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., passim. In generale sul tema si v., tra gli altri, G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, 45 e ss.; A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva”, in Perrone – Belriri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 1 e ss.; Id. Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, 31 e ss.; Id., Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella costituzione italiana, in Riv. Dir. Trib., 1999, 872 e ss.. Contra D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, Bologna, 2014, 97 e ss. L’A., nello sforzo concettuale di individuare un limite massimo all’imposizione, critica apertamente la scuola di pensiero che affida all’imposta una funzione di riparto ciò in quanto, assumendo tale prospettiva, verrebbe del tutto ribaltato il piano dei rapporti nel diritto tributario, finendosi per focalizzare inutilmente l’attenzione solo sui rapporti interni (ossia i rapporti fra contribuenti) e lasciando simmetricamente sullo sfondo quello che sarebbe il vero rapporto principale, di natura esterna (ossia il rapporto fra contribuenti e Stato). Nel pensiero dell’Autore e lungo questa direttrice, il principio di capacità contributiva andrebbe al contrario valorizzato in chiave protezionistica, ossia alla stregua di una norma limitatrice dei poteri sovrani di imposizione. Il fenomeno impositivo andrebbe quindi ricondotto alla misurazione e apprezzamento ai fini sociali dei redditi e patrimoni: posto che le entrate tributarie servono a finanziarie le spese pubbliche, tra tasse e diritti si verrebbe a creare un rapporto circolare, un’interdipendenza, nel senso che una collettività può garantire a sé stessa soltanto i diritti sociali e le libertà che è in grado di sostenere da un punto di vista economico. Per tale via, è evidente come l’Autore sposi la teoria del beneficio, sebbene questa appaia formulata non già nella sua declinazione più radicale (la quale interpreta il dovere alla contribuzione solo quale contraltare dei servizi resi dallo Stato), bensì in una variante maggiormente articolata. In termini parzialmente conformi, si v. anche: G. Gaffuri, La nozione della capacità contributiva e un essenziale confronto di idee, Milano, 2016, 308 e ss., per il quale all’art. 53 Cost. “non è assegnato e non è assegnabile un compito propulsivo per lo Stato impositore, nel senso di una sollecitazione o di un invito a perseguire obiettivi genericamente perequativi”.
[30] A. Smith, Wealth of Nations, London, 1776, Book V, Chapter 2, Part. 2. per il quale: “the expense of government to the individuals of a great nation is like the expense of management to the joint tenants of a great estate, who are obliged to contribute in proportion to their respective interests in the estate”.
[31] G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., 58. In termini assai simili si v., anche: L. V. Berliri, La giusta imposta, Milano, 1945, 42 e ss., per il quale: “il parallelo della imposta […] è da ricercarsi nella gestione di affari esercitata nell’interesse di una collettività di interessati e in particolare nei contributi posti a carico dei singoli partecipanti a un consorzio (cfr. art. 2604 c.c.) che, si noti, possono anche essere obbligatori e come tali costituiti per legge”.
[32] Contra D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, cit., 135 e ss., il quale rifiuta tanto le premesse quanto le conclusioni di un simile ragionamento. Ed infatti – sostiene l’Autore – l’idea che la finanza statale possa essere accostata a quella di un grande condominio in realtà sarebbe figlia delle teorie sulla “protezione sociale”, tipiche degli Stati ottocenteschi ed il cui perno dogmatico era in realtà rappresentato dal principio del beneficio e, quindi, dall’idea di imposizione fiscale quale proporzionale alle ricchezze oggetto di protezione, ossia al valore connaturato ai servizi pubblici resi dallo Stato. Nel mutato contesto attuale, al contrario, la citata similitudine andrebbe respinta, sintetizzando, per almeno un triplice ordine di argomentazioni. In primo luogo, l’assenza di una “unicità” dell’imposta la quale, sola, consentirebbe di suddividere la spesa pubblica sui consociati, in uno con l’assenza di un vincolo di destinazione dei tributi che consentirebbe, in qualche misura, di rapportare le voci o capitolo di spesa al riparto uti singuli delle stesse. In secondo luogo, la rilevazione circa la non coincidenza tra l’ammontare dei carichi pubblici ed il gettito dei tributi, posto che la spesa potrebbe essere finanziata in parte mediante l’indebitamento. In terzo ed ultimo luogo, si ritiene che l’indice di riparto, per funzionare come tale, “dovrebbe rappresentare una frazione di una certa grandezza già conosciuta (i millesimi del condominio, l’estensione totale dei fondi dei consorziati, il valore complessivo delle merci caricate sulla nave), e fungere da coefficiente da applicare alla spesa […] per determinare la quota individuale di contribuzione […] occorre non soltanto conoscere la spesa da ripartire, ma altresì che gli indici di ripartono consentano una integrale copertura della stessa, il che può avvenire soltanto laddove tali indici rappresentino […]una frazione di un ammontare globale noto, in modo che la somma di tali frazioni restituisca appunto il totale; occorre inoltre che tali indici vengano utilizzati alla stregua di coefficienti per stabilire le quote individuali […] il che non si verifica affatto con i presupposti delle imposte, i quali vengono determinati in relazione alle concrete manifestazioni di ricchezza verificatesi in capo ai contribuenti […] senza che sia possibile stabilire alcuna relazione qualitativa […] con le spese di funzionamento dell’ente pubblico. In senso del tutto analogo si v., anche: D. Stevanato – R. Lupi, Determinazione della ricchezza, “obbligazione di riparto”, e ricchezza non registrata, in Dialoghi tributari, 2013, 7 e ss..
[33] In questa prospettiva, data l’identificazione della singola obbligazione come quota di un insieme, l’attenzione si sposta sull’individuazione dell’indice attraverso cui, dall’insieme, calcolare la singola quota. Questo, si sostiene, è generalmente rappresentato dagli indici di riparto, ossia da quei fatti o situazioni dai quali si fa dipendere la quota di contribuzione in capo al singolo, fissati dalla legge d’imposta. Cfr. G. Falsitta, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 44 e ss..
[34] G. Falsitta, ult. op. cit., spec. 87.
[35] Su tali profili si v. F. Gallo, Nuove espressioni di capacità contributiva, in Rass. Trib., 2014, 771 e ss.; A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 15 e ss..
[36] G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., 22 e ss..
[37] Cfr. F. Battistoni Ferrara, voce Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Agg. II, Milano, 1998, 28 e ss.; Id., L’evoluzione del quadro normativo, in M. Poggioli (a cura di), Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Padova, 2007, 21 e ss.; G. Petrillo, La conciliazione giudiziale tributaria e la teoria germanica della “intesa effettiva”, in Giust. Trib., 2008, 8 e ss.; L. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, cit., 12 e ss..
[38] Cfr. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 103 e ss., il quale si esprime in questi termini: “personalmente – lo dico subito – non condivido la teoria pur autorevolmente sostenuta con argomentazioni rigorose che nega alla nostra obbligazione il carattere della disponibilità o, per meglio dire, non condivido se assunta tralaticiamente e senza tenere in debita considerazione il mutato quadro normativi di riferimento. Non dico che questa teoria sia un dogma ingiallito e men che meno che si traduca in un concetto ambiguo, ma non mi sembra ugualmente convincente, a petto del sistema giuridico attuale, continuare ad affermare che l’obbligazione tributaria, siccome obbligazione ex lege, radicata nell’art. 53 e ordinata dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, non possa mai formare oggetto di rideterminazione, neppure parziale, in via negoziale”.
[39] Perché si ritiene, espressioni dei più generali principi di efficienza e buona andamento di cui all’art. 97 Cost..
[40] Cfr. la dottrina richiamata alla nota n. 42.
[41] Su tale concetto sia qui consentito rinviare a: P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 200 e ss.; E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente. Le garanzie costituzionali, Milano, 2006, 101 e ss.; A. Fedele, Concorso alle spese pubbliche e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, 31 e ss.; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 157 e ss..
[42] Cfr. S. La Rosa, Accordi e transazioni nella fase di riscossione dei tributi, in Irv. Dir. Trib., 2008, da 324 a 331; Id., Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. Trib. 2008, 18 e ss.; V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario: dalla tradizione alle nuove “occasioni” di riduzione “pattizia” del debito tributario, in Riv. Dir. Trib., 2016, 481 e ss.. Secondo una prospettiva parzialmente diversa, pur valorizzando le differenze intercorrenti fra la fese di accertamento e quella di riscossione, non vi sarebbero comunque spazi per predicare profili dispositivi su an e quantum del tributo. In questo senso, per tutti, si v.: M.T. Moscatelli, Moduli negoziali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, cit., 100 e ss..
[43] Su tali profili si v., per tutti, A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, cit., 120 e ss..
[44] In particolare sostenuta da M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 3 e ss.. Si veda altresì A. Cuva, Conciliazione giudiziale ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria, Milano, 2007, 27 il quale riconduce il principio di indisponibilità agli artt. 23, 53 e 97 Cost. nel loro insieme.
[45] M. Miccinesi, ult. Op. cit., 15.
[46] In particolare, tra gli altri sostenute da: P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 595 e ss; P. Biondo, L’istituto della compensazione in ambito tributario e la presunta indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Rass. Trib., 2007, 948 e ss.; C. Crovato – R. Lupi, Conferma sull’indisponibilità del credito tributario come regola di contabilità pubblica, in Dialoghi Trib., 2008, 7 e ss., in cui in particolare gli Autori sostengono come la regola dell’indisponibilità sia certamente un principio generale, ma che in realtà questo vada relegato a mera regola di contabilità pubblica, non essendo afferente al rischio di intromissioni degli Uffici amministrativi tese a ridurre il carico tributario in nome di interessi extrafiscali di ordine generale. Ancora la tesi è sostenuta da: R. Lupi, Insolvenza e disposizione del credito tributario, in Dial. Dir. Trib., 2006, 457, dove viene sottolineato come “molti autori evocano il fantomatico principio della indisponibilità del credito tributario, espressione immeritatamente fortunata proprio grazie alla sua ambiguità”; M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 482 e ss., in cui il principio di indisponibilità è definito “assioma inconsistente”.
[47] Contra M. Poggioli, Il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Adesione, conciliazione ed autotutela, disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione?, (a cura di) M. Poggioli, cit., 9 e ss., in cui l’Autore, partendo dall’assoluto ruolo di centralità svolto all’interno dell’ordinamento tributario dal principio di indisponibilità, e riconducendo lo stesso all’art 53 Cost., declina i nuovi istituti solo come l’effetto del nuovo modo d’intendere il rapporto tributario, “sempre maggiormente improntato ad una logica collaborativa e ad un ampliamento delle opportunità di attuazione concordata del tributo”.
[48] P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 595 e ss.. Detto altrimenti, la teoria porterebbe ad assimilare l’aspetto fisiologico a quello patologico dell’azione amministrativa. Per ciò che, se sul piano fisiologico non vi sarebbero ragioni ostative al riconoscimento di un potere dispositivo in capo all’Amministrazione nell’ottica della miglior cura dell’interesse pubblico, questo non potrebbe dipoi essere disconosciuto avendo lo sguardo rivolto solo all’aspetto patologico e, quindi, per meri fini cautelativi.
[49] Cfr. P. Russo, ult. op. cit., 607.
[50] Contra F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela, disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria? (a cura di) M. Poggioli, cit., 27.
[51] Nel senso di norma che autorizzi espressamente il funzionario a disporre si somme di esclusiva spettanza dello Stato, così evitando profili di responsabilità per gli eventuali danni patrimoniali a questo cagionati (su tale profilo si veda più specificatamente M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 395 e ss.).
In quest’ottica, pertanto, la ratio del dettare la disciplina in maniera espressa di atti che in realtà si sarebbero già potuti compiere anche in assenza della stessa, andrebbe rintracciata proprio nella limitazione della responsabilità del funzionario e, quindi, nell’intenzione da parte del legislatore di rimuovere anche quell’ultimo ostacolo che in via fattuale avrebbe impedito la concreta realizzazione degli stessi. Riprova di tale argomentazione dovrebbe essere così rintracciata nella precisa disciplina sulla motivazione dell’atto.
Quest’ultima, difatti, andrebbe intesa a favore dell’Amministrazione e non già del contribuente, rivestendo in definitiva una funzione di tipo valutativo del comportamento del singolo funzionario ai fini di una sua responsabilità. Cfr. P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 112 e ss. il quale conclude il proprio percorso argomentativo affermando la sussistenza di “ontologiche ragioni di principio per escludere la disponibilità del credito tributario”.
[52] Cfr. G Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in Riv. Dir. Trib., 2007 1066, per il quale: «Rinunciare a ciò che mai si incasserà è una pseudorinuncia», ed ancora «rinunciare o disporre significa ridurre l’entità dell’incassabile».
[53] Su tale rapporto sia consentito rinviare nuovamente, anche per i dovuti richiami dottrinali, a M. Golisano, ult. Op. cit., 499 e ss.
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