Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Le proposte condivisibili - 2. Le proposte non condivisibili - 3. Una precisazione sui nuovi provvedimenti di condanna o di rigetto in via breve - 4. Una seconda precisazione sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda - 5. La riforma e l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi - 6. Segue: il correttivo da porre.
“È chiaro che la nomina di un numero di magistrati corrispondenti, nei singoli gradi gerarchici, al bisogno del pubblico servizio, è una delle condizioni per cui lo Stato adempie il suo obbligo di organizzare l’amministrazione della giustizia”
MORTARA, Istituzioni di ordinamento giudiziario, Firenze, 1919, 85.
1. Le proposte condivisibili.
È stato diffuso in questi giorni l’articolato relativo al maxi-emendamento 1662 di riforma del processo civile.
Si tratta di un emendamento molto ampio, che certamente contiene delle proposte positive.
Senza preamboli, mi accingo a sottolinearle:
a) seppur non sia un amante della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, devo riconoscere che molte delle scelte fatte in punto di mediazione appaiono di buon senso.
Condivisibili gli incentivi fiscali che si prevedono per le parti che riescano a mediare; condivisibile che la legge precisi in modo chiaro chi debba attivare la mediazione in caso di opposizione a DI; condivisibile, ancora, che si preveda in modo espresso che la condizione di procedibilità della domanda è assolta quando le parti non raggiugano l’accordo al primo incontro e non manifestino intenzione di proseguire con l’attività di mediazione; condivisibile la previsione di farsi rappresentare in sede di mediazione, in presenza di giustificasti motivi, da un terzo: ancora, condivisibile la scelta di favorire la mediazione anche con i soggetti pubblici, prevendendo che non vi sia responsabilità contabile in tutte le ipotesi nelle quali il contenuto dell’accordo rientri nei limiti del potere decisionale; condivisibile, di nuovo, che in casi di nomina dell’esperto la relazione possa poi esser prodotta in giudizio e sia rimessa alla libera valutazione del giudice; certamente condivisibile, inoltre, che si proceda ad una verifica statistica circa l’opportunità di mantenere la condizione di procedibilità dell’azione; ed infine, ripeto, seppur con i dubbi che possa avere chi come me non ami l’istituto della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, ragionevole è da ritenere che questa sia stata estesa ai rapporti giuridici contrattuali di durata, ovvero a quei rapporti dove trovare una soluzione dei contrasti è maggiormente necessario.
b) Per quanto concerne il processo di cognizione, trovo corretto voler salvare quelle novità che abbiamo sperimentato a seguito dell’emergenza Covid 19, se queste, effettivamente, possono agevolare il lavoro degli avvocati e dei giudici senza pregiudicare il diritto alla difesa.
E così, mi pare ragionevole che si preveda che, fatta salva la possibilità per le parti di opporsi, il giudice disponga che le udienze civili, che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, si svolgano con collegamenti a distanza, e che addirittura il giudice debba disporre che le udienze siano sostituite con il deposito telematico di note scritte se vi è richiesta congiunta di tutte le parti costituite.
c) Trovo altresì condivisibile l’aver mantenuto l’atto di citazione, che molti avevano già dato per morto, e ciò, se non altro, per rispetto ad una tradizione antichissima, si dice risalente addirittura alle 12 tavole.
d) Trovo poi condivisibile che non si sia fatto del procedimento sommario di cui all’art. 702 bis e ss. c.p.c. il rito principale, se non addirittura unico, del giudizio di cognizione di primo grado, e che lo stesso si chiuda con sentenza e non con ordinanza, al fine di superare quelle problematiche che in questi anni abbiamo avuto con riferimento all’interpretazione dell’art. 702 quater c.p.c.
d) Trovo, ancora, condivisibile che si preveda, seppur in forme che al momento restano generiche, un aumento delle competenze del giudice di pace, in modo da lasciare al Tribunale le controversie più complesse e di maggiore rilevanza, anche economica.
e) Condivido inoltre che non si siano introdotte rilevanti novità con riferimento ai mezzi di impugnazione, martorizzati da mille riforme negli anni passati, ed in particolare condivido che non siano stati introdotti ulteriori, significativi filtri, che avrebbero costituito nuovi discutibili limiti ai diritti processuali garantiti dalla carta costituzionale. Condivisibile, poi, in questo contesto, l’unificazione del procedimento camerale in cassazione con l’eliminazione delle differenze di cui agli artt. 380 bis e 380 bis 1 c.p.c.
f) Ed infine, è condivisibile che non sia provveduto, secondo voci che invece da tempo circolavano, a creare ipotesi di decisioni arbitrali fissate ex lege, perché, tutto al contrario, si deve ricordare che l’intervento degli arbitri, se non richiesto congiuntamente da tutte le parti, è incostituzionale per violazione (almeno) dell’art. 102 Cost.
2. Le proposte non condivisibili.
Altri punti non mi sembrano invece convincenti.
In particolare:
aa) non condivido che una pronuncia di inammissibilità dell’appello possa esser data anche a seguito di trattazione orale, poiché credo che la difesa scritta sia invece coessenziale al diritto al contraddittorio in un processo civile.
bb) Non trovo poi condivisibile il nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito per la decisione di una questione di diritto previsto dall’art. 6 bis del progetto, poiché mi sembra strumento che contrasti con più di un principio giuridico, tra i quali quello che ogni giudice è giudice della sua competenza, e quindi che una decisione che spetta ad un giudice deve essere decisa da quel giudice, secondo scienza e coscienza, e non da altri, e quello del diritto dei cittadini di ricorrere in cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., che potrebbe evidentemente essere limitato da questo strumento preventivo. E ciò, oltre al fatto che questa novità potrebbe essere usata in senso dilatorio dai giudici di merito, e costituire grave ritardo nell’andamento del processo, con pari inutile aggravio del lavoro della Corte di cassazione; né ancora penso possa attribuirsi alla Corte di cassazione un ruolo simile a quello della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell’Unione europea, alle quali, effettivamente, si rimettono le questioni pregiudiziali.
cc) Non condivido, inoltre, la scelta fatta sub art. 3 in base al quale tanto l’atto di citazione quanto la comparsa di risposta debbono, a pena di decadenza, contenere l’indicazione specifica dei mezzi di prova.
Non condivido detto avanzamento delle preclusioni istruttorie perché il processo civile non può essere assimilato a quello del lavoro, e perché, nei limiti del possibile, è sempre preferibile optare per soluzioni di libertà, che meglio consentono agli avvocati di poter recuperare possibili errori, e quindi alla giustizia di poter decidere nel merito piuttosto che su errori o carenze processuali.
dd) Soprattutto, non condivido la nuova disposizione dell’art. 14, secondo la quale il soccombente può esser condannato, anche d’ufficio, a pagare in favore della controparte una somma equitativamente determinata, e in favore della cassa delle ammende una somma non superiore a cinque volte il contributo unificato.
Si tratta di una disposizione a mio parere del tutto incostituzionale, sia perché non può essere rimessa alla mera discrezione del giudice la determinazione di una sanzione (che, nel caso sia in favore della controparte, non conosce infatti limiti indicativi nemmeno di massima), e sia soprattutto perché non può essere sanzionato l’esercizio del diritto di azione e/o di difesa, visto che, indiscutibilmente, l’art. 24 Cost. comprende nel suo seno anche l’esercizio dell’azione infondata, e nessun’altra conseguenza può avere così il soccombente se non il pagamento delle spese processuali.
L’esperienza concreta ci insegna poi che i giudici non separano le domande infondate da quelle promosse con mala fede o colpa grave, e fanno di tutta l’erba un fascio (abbiamo sperimentato ciò sia con riferimento al pagamento del raddoppio del contributo unificato, sia con riferimento all’applicazione del 2° comma dell’art. 283 c.p.c.); dal che non è pensabile che il soccombente debba sopportare simili sanzioni, e che l’esercizio del diritto di azione sia sottoposto al ricatto permanente di minacce economiche.
A questo fine mi solleva ricordare ancora una volta il pensiero di due grandi statisti del passato quali Pasquale Stanislao Mancini e Luigi Einaudi.
Mancini scriveva che “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale” e che, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti” (in Mancini – Pisanelli – Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi, Torino, 1855, II, 9).
Luigi Einaudi sosteneva il principio della gratuita della giustizia quale momento fondamentale delle funzioni dello Stato, al pari della difesa nazionale e della sicurezza, e affermava senza mezzi termini che “Al litigante non è logico far pagare qualcosa (tassa, in qualunque modo congegnata, di bollo o di registro o altra) in aggiunta alle imposte che egli già pagò, come cittadino, per mettere in grado lo Stato di esercitare l’ufficio suo” (così Einaudi, Imposte e tasse giudiziarie, Riv. Dir. fin. 1937, I, 359).
Oggi, affermare un principio, che pure sarebbe evidente e logico, quale quello della gratuità del servizio giurisdizionale, non è possibile, e ragioni di cassa fanno sì che appaia invece legittima la pretesa fiscale dello Stato a fronte dell’iniziativa delle parti di far valere un diritto in giudizio.
Ma usare i tributi e le sanzioni quali mezzi per indurre il cittadino a non chiedere giustizia, fino a terrorizzarlo per le conseguenze economiche che l’aver adito il giudice potrebbe avere (quintuplo del contributo unificato e triplo delle spese liquidate), non è solo del tutto incostituzionale perché in violazione dell’art. 24 Cost., e non è solo qualcosa che, come già diceva Mancini nel secolo XIX, danneggia i ceti più deboli in deroga al nostro odierno art. 3 Cost., ma è il segno, evidente, di un cedimento culturale al quale dobbiamo opporre resistenza.
3. Una precisazione sui nuovi provvedimenti di condanna o di rigetto in via breve.
Ciò premesso, alcune precisazioni.
L’art. 3 e-decies 1 recita: “prevedere che il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate”.
Orbene, di questa riforma non posso lamentarmi, poiché essa assomiglia molto alla condanna con riserva che io propongo fin dalla fine degli anni ’80, e che recentemente ho riformulato con un breve scritto (ID, Sul principio secondo il quale i tempi del processo devono andare a danno della parte che ha bisogno della trattazione della causa, ovvero su una proposta di riforma per l’efficienza del processo civile a costo zero, Judicium, ottobre 2020).
Tuttavia sia consentito rilevare che la cosa andrebbe a mio parere formulata in termini un po’ diversi.
La proposta di riforma, direi in gran parte, è collegata alla novità delle preclusioni istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, cosicché il giudice può pronunciare in questo modo un provvedimento sommario di condanna, o di rigetto della domanda, anche a seguito della prima udienza. Ed in tal contesto, poiché la creazione di questi nuovi provvedimenti da pronunciare in via breve è sembrata al riformatore evidentemente audace, si è previsto, quasi a compensazione, che questi non formino comunque cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c. (così l’art. 3 e-decies).
Orbene, alcune osservazioni.
In primo luogo, se il giudice può pronunciare una condanna in limine litis nelle ipotesi in cui la posizione di un litigante sia completa e soddisfacente e l’altra no, allora lì direi, in verità, noi non abbiamo più bisogno della preclusione agli atti introduttivi del giudizio fissata ex lege, perché la preclusione, anche senza espressa previsione, sorge egualmente quale necessità delle parti di presentarsi al giudice fin dalla prima udienza in modo completo ed esaustivo sotto tutti i punti di vista.
Dunque, l’esistenza di questi provvedimenti già di per sé induce le parti a essere complete fin con gli atti introduttivi; e così, se possiamo ottenere quel risultato senza imposizione, il legislatore non deve allora porre l’obbligo, poiché al contrario è preferibile attenersi ad un principio di libertà, se questo è possibile.
Oltre a questo, sottolineo:
a) che la fattispecie che consente l’emanazione della condanna in via breve in favore dell’attore che ha già fornito al giudice la prova dei fatti costitutivi non può completarsi con l’esistenza di difese del convenuto che “appaiono manifestamente infondate”, poiché non può introdursi una differenza tra “difese infondate” e “difese manifestamente infondate”, ove solo quest’ultime consentirebbero l’emanazione del provvedimento di condanna. Si tratta infatti di una distinzione troppo labile che, come tale, potrebbe generare confusione, oppure attribuire al giudice poteri discrezionali troppo ampi. Dal che, insisto, il provvedimento deve esser concesso non quando, a fronte della prova dei fatti costitutivi, le difese del convenuto sono “manifestamente infondate” ma quando il convenuto non sia riuscito a fornire la prova di almeno un fatto impeditivo, modificativo o estintivo dei fatti costitutivi già provati in giudizio dall’attore.
b) Inoltre, questo provvedimento funge da sé, ed evidentemente, quale deterrente alla prosecuzione del giudizio, ma esso non può darsi come provvedimento che necessariamente lo chiude; e la soluzione di compromesso di chiudere il processo senza al contempo attribuire al provvedimento autorità di cosa giudicata non sembra convincente, poiché l’assenza della forza del giudicato, anche in una ottica di economia processuale, aumenta, e non diminuisce, il contenzioso, visto che il convenuto ha così la possibilità di proporre una nuova lite alla quale seguirebbero almeno due nuovi processi: quello in accertamento negativo rispetto alla condanna pronunciata, e quella in opposizione all’esecuzione avverso la condanna che è stata concessa.
Credo, allora, che la soluzione ideale sia semplicemente quella di consentire al giudice, in limine litis, di valutare tanto la sussistenza della prova dei fatti costitutivi quanto quella dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi fatti valere da chi si difende, e quindi di pronunciare la condanna quando a fronte della prova dei fatti costitutivi nessuna prova sia fornita dei fatti impeditivi, estintivi o modificativi, oppure di rigettarla quando la prova dei fatti costitutivi non si abbia, o, pur essendoci, vi sia per contro la prova di almeno un fatto estintivo, impeditivo o modificativo.
Questi provvedimenti, poi, indirettamente, come detto, a monte sono in grado di creare di fatto un regime rigido di preclusioni (e senza la necessità che questo sia categoricamente fissato dalla legge) e a valle portano alla tendenziale chiusura del processo, che però non va disposta per legge, poiché, al contrario, tanto in ipotesi di provvedimento di accoglimento quanto di rigetto, deve essere consentito al soccombente, se lo vuole, di poter proseguire le attività processuali e completare quelle difese che in limine litis non son sembrate al giudice adeguate.
Dunque, a fronte della parte dell’art. 3 e-decies, io semplicemente proporrei, previa eliminazione delle preclusioni istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, una norma del seguente tenore: “Su domanda di parte, e quando il processo abbia ad oggetto diritti disponibili, il giudice concede ordinanza anticipatoria della sentenza sui diritti dei quali l’attore abbia già fornito prova dei fatti costitutivi, e sempreché al processo non sussista pari prova dei fatti impeditivi, estintivi e modificativi. Il provvedimento vale come titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione ipotecaria, sopravvive all’estinzione del processo e contiene la liquidazione delle spese secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss. c.p.c.”.
4. Una seconda precisazione sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda.
Una seconda precisazione ritengo debba farsi con riferimento alla mediazione quale condizione di proponibilità della domanda.
Ho premesso che le novità che si propongono appaiono ragionevoli una volta data questa condizione; solo dubito che debba continuare a prevedersi che la mediazione possa costituire, in taluni casi, condizione di esercizio dell’azione giudiziale.
La mediazione fonda le sue radici, infatti, in un negozio, e un negozio giuridico non può non basarsi sulla libertà delle parti.
Dal che, immaginare che le parti, per andare dinanzi al giudice, debbano previamente presentarsi ad un mediatore per affermare, assai spesso, che, proprio in forza del loro diritto di libertà negoziale, non intendono mediare, appare meccanismo del tutto inutile, che costituisce solo perdita di tempo e di denaro.
Giuseppe Chiovenda diceva che il processo deve dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, e la mediazione, al contrario, presupponendo la definizione della lite attraverso la concessione di una qualche cosa, non è mai in grado di dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, e quindi non è mai in grado di assolvere pienamente il compito di rendere giustizia; semplicemente opera attraverso un negozio, che come tale deve essere, però, rimesso alla libertà delle parti, senza costituire condizione di accesso al giudice.
Di questo avviso era tutta la dottrina classica, con posizioni che forse giova ricordare:
a) Giuseppe Pisanelli: “La conciliazione delle parti è un’idea che ha molte attrattive, ma conviene di non esagerarla, e molto più ancora di non forzarla. Quando lo sperimento della conciliazione si volle rendere obbligatorio, come preliminare necessario al giudizio, non corrispose alle aspettative e degenerò in una vana formalità” (PISANELLI, Procedura civile, Palermo, 1868, VII, 2);
b) Luigi Mattirolo: “Il sistema che impone lo sperimento della conciliazione, prima di iniziare la causa, sebbene annoveri tuttora qualche partigiano, è respinto dalla maggiore parte degli scrittori. In verità l’idea di conciliazione ripugna al concetto di coazione. La legge non deve farsi indiscreta tutrice dei cittadini; essa deve permettere, agevolare anche in ogni miglior modo lo sperimento della conciliazione; non imporlo. Il tentativo forzato, appunto perché forzato, degenera, siccome l’esperienza ha luminosamente dimostrato, in una vana formalità, spesso inutile, talvolta dannosa” (MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1892, I, 145);
c) Ludovico Mortara: “Questo istituto teoricamente ottenne un certo plauso ma in pratica non diede notevoli vantaggi. È necessario che la sua interposizione sia domandata, giacché non saprebbe rispondere al decoro della giustizia un’intromissione volontaria, per quanto officiosa, nelle questioni private. Il giudice non si ha interporre in discussioni, ufficio questo di mediatore e non di magistrato” (MORTARA, Manuale della procedura civile, Torino, 1921, I, 576);
d) Giuseppe Chiovenda: “Il conciliatore interpone il suo ufficio solo se richiesto” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1934, II, 22).
e) Piero Calamandrei: “In altri paesi la simpatia con la quale si guarda alla conciliazione è fondata su un senso di crescente scetticismo contro la legalità; così può avvenire che il favore con cui si guarda alla funzione conciliativa vada di pari passo col discredito della legalità e sia indice di un ritorno alla concezione della giustizia come mera pacificazione sociale” (CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 87).
E se oggi, poi, correttamente e senza mezzi termini, si afferma che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità, la condizione si considera avverata se le parti si presentano al primo incontro dinanzi al mediatore e detto incontro si conclude senza accordo”, a maggior ragione la necessità della condizione di procedibilità della domanda viene meno e andrebbe soppressa, poiché l’obbligo che ne discende si riduce solo alla recita con la quale le parti, pagato un piccolo obolo, affermano semplicemente al mediatore che non intendono mediare.
5. La riforma e l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi.
Questi, a mio parere, i punti principali della riforma.
Dopo di che, date le note positive e negative sopra evidenziate, non vedo però che pertinenza possa avere questo progetto con l’obiettivo di ridurre i tempi del contenzioso civile (si dice, del 40%), se non addirittura, si sente dire altresì da qualche altra parte, con quello di ridurre la stessa mole del contenzioso che attualmente grava sui nostri uffici giudiziari.
Premesso che una riforma non può darsi l’obiettivo di ridurre la misura del contenzioso, in quanto, sotto questo profilo, lo Stato semplicemente deve rendere giustizia nella misura in cui i cittadini la richiedono e non altro, residua tuttavia il tema della riduzione dei tempi, sul quale aggiungerei la riflessione che segue.
6. Segue: il correttivo da porre.
Ripeto, questa riforma a me non sembra funzionale alla riduzione dei tempi del processo.
Essa ha ad oggetto scelte di rito: alcune possono essere condivisibili, altre a mio parere, no; in ogni caso i tempi del processo dipendono da altro, non dipendono dal rito, dipendono dal rapporto tra domanda e offerta di giustizia.
Per l’esattezza, a fronte di un certo numero di domande di giustizia da parte dei cittadini, lo Stato deve organizzare una offerta di giustizia adeguata se vuole contenere in modo ragionevole i tempi dei processi. Se l’offerta di giustizia non è adeguata, è evidente allora che i processi durano un tempo non ragionevole, e a niente serve modificare in tal contesto le regole processuali.
E se vogliamo ridurre i tempi del processo, forse conviene allora ricordare Lodovico Mortara.
Lodovico Mortara, nel 1919, ristampava le sue Istituzioni di ordinamento giudiziario: in quell’anno, Lodovico Mortara era il Ministro della Giustizia, e seppur sospeso per l’incarico governativo, era anche il Primo Presidente della Corte di cassazione di Roma.
Quindi, immaginate l’autorevolezza di quella voce, primo magistrato del Regno e Ministro Guardasigilli.
Ebbene, Lodovico Mortara scriveva una cosa semplicissima.
Scriveva: “È chiaro che la nomina di un numero di magistrati corrispondenti, nei singoli gradi gerarchici, al bisogno del pubblico servizio, è una delle condizioni per cui lo Stato adempie il suo obbligo di organizzare l’amministrazione della giustizia”.
La funzione giurisdizionale, dunque, diceva Lodovico Mortara, deve muoversi in conformità alle esigenze della funzione, ovvero deve essere organizzata con un numero di magistrati corrispondenti al bisogno del pubblico servizio.
Anche oggi, così, se invece di cercare effimeri miglioramenti del servizio giurisdizionale modificando continuamente i riti, si facesse quello che a inizio ‘900 già diceva di fare Lodovico Mortara, ovvero semplicemente si aumentasse il numero dei magistrati e dei cancellieri fino a portarli ad una misura idonea al bisogno del pubblico servizio, probabilmente molti nostri problemi non ci sarebbero.
Questa, se si vuole ridurre i tempi della giustizia, è l’unica riforma da fare.
E non si dica che ciò avrebbe un costo, poiché, se si vuole, le risorse economiche vi sono; e a questo riguardo ricordo anch’io, come già ha fatto il mio Maestro Andrea Proto Pisani, l’eccellente volume di un altro ex magistrato, Marco Modena, Giustizia civile, Le ragioni di una crisi, ove l’autore sottolinea come la crisi della giustizia civile dipenda infatti dall’insufficienza dei mezzi, soprattutto umani, e che le risorse economiche vi sarebbero, se solo le si volessero utilizzare.
Peraltro, se a fronte di 2 milioni di nuove cause in Tribunale all’anno, abbiamo circa 10.000 magistrati, di cui parte sono addetti all’Ufficio della Procura della Repubblica, parte sono giudici che si occupano del penale, parte sono fuori ruolo o non attivi per ragioni varie, cosicché, si ritiene, che circa solo 3.000 magistrati, e non di più, si occupino, per tutti i gradi di giudizio, del contenzioso civile, non si vede proprio come i processi possano durare un tempo ragionevole, se 3.000 magistrati debbano far fronte ad un contenzioso di 2 milioni di cause ogni anno.
In tutti i settori economici, se aumenta la domanda, aumenta l’offerta; e questo aumento, in tutti i settori economici, è considerato un bene, non un male.
Solo nel campo del diritto processuale si ritiene che l’aumento della domanda sia un male, e si pensa che la soluzione all’aumento della domanda debba esser quello della sua forzata diminuzione.
Né, sia chiaro, può esser considerata una soluzione soddisfacente quella della riforma sull’Ufficio del processo di cui all’art. 12 bis del progetto; che certamente è lodevole, ma altrettanto certamente non è la soluzione.