ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Disorientamenti sul controllo preliminare della competenza nell’esecuzione forzata (in difesa dei giudici dell’esecuzione)
di Bruno Capponi
Sommario: 1. Principi generali sul controllo preliminare della competenza tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata - 2. Perché la Cassazione giudica il g.e. non legittimato a richiedere il regolamento d’ufficio in caso di conflitto (art. 45 c.p.c.) e come tale “regola” possa risultare compatibile con l’art. 50 c.p.c. - 3. Problemi particolari posti dall’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. nelle espropriazioni presso terzi a carico della p.a. (l’arte di fare confusione) - 4. L’auspicio è che la Cassazione restituisca al giudice dell’esecuzione il potere di essere anzitutto il giudice della propria competenza.
1. Principi generali sul controllo preliminare della competenza tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata
Chiunque ricorderà che, nel sistema originario del codice, l’incompetenza nell’esecuzione forzata dava luogo a una nullità, accertata la quale (a seguito del vittorioso esperimento di un’opposizione agli atti o anche di rilievo ex officio[1]) il processo si arrestava e l’azione esecutiva avrebbe dovuto essere di nuovo esercitata senza nessuna salvezza degli atti compiuti[2].
Dopo la modifica dell’art. 38 c.p.c. realizzata dalla legge 353/1990, il principio del controllo preliminare della competenza è stato esteso anche al processo esecutivo, con riferimento alla prima udienza dinanzi al g.e.[3]
La legge 69/2009 – pur non modificando il regime delle decisioni sulla competenza – ha stabilito che esse siano date sempre con ordinanza e non con sentenza, salvo che non sia contestualmente deciso anche il merito o parte di esso. Il g.e. non pronuncia mai sentenza ma sempre ordinanza e tale regola, che preesiste ed è indipendente dalla novella del 2009, ha finito – prescindendo da qualsiasi disegno e verosimilmente dalla volontà stessa del legislatore – per omologare nel processo dichiarativo e in quello esecutivo la forma delle decisioni sulla sola competenza.
La stessa legge 69 cit. ha introdotto l’art. 186 bis disp. att. c.p.c., secondo il quale i giudizi di merito di cui all’art. 618, comma 2, c.p.c. debbono essere trattati e decisi da un magistrato, addetto al medesimo ufficio, diverso dal g.e. (inteso quale persona fisica).
Nell’espropriazione presso terzi, la Cassazione[4] ha da tempo iniziato ad affermare l’applicabilità non soltanto dell’art. 38 ma anche dell’art. 50 c.p.c., e pertanto la declinatoria del g.e., che deve indicare il giudice o i giudici ritenuti (alternativamente) competenti, prelude alla riassunzione del processo esecutivo con salvezza degli atti di parte (in primo luogo del pignoramento) sebbene compiuti dinanzi a un ufficio incompetente.
Sempre nell’espropriazione presso terzi, il legislatore recente (legge 162/2014, che ha introdotto l’art. 26 bis c.p.c.) ha stabilito che il foro competente è quello della residenza, domicilio, dimora o sede del debitore (non più del terzo); salvo che nelle espropriazioni contro la p.a., ove il criterio è quello della residenza, domicilio, dimora o sede del terzo debitore. Va detto che tale regola (comma 1 dell’art. 26 bis) non è un esempio di chiarezza[5], vuoi perché non identifica con esattezza quali siano le «pubbliche amministrazioni»[6], vuoi perché contiene una formula di salvezza delle «leggi speciali», senza ovviamente identificarle[7]. In concreto, in base a questa versione iniziale della norma (v. infra § 3 per qualche cenno alla sua nuova lezione), la competenza dell’ufficio esecutivo può derivare dal luogo in cui viene esercitato il servizio di tesoreria (art. 1 bis legge 720/1984) ma anche essere individuata sulla base del criterio di collegamento dato da residenza, domicilio, dimora o sede del creditore procedente grazie al combinato disposto degli artt. 54 r.d. n. 2440 del 1923, 278, comma 1, lett. d), 287 e 407 r.d. n. 827 del 1924.
Da tempo, la Cassazione afferma che i giudizi che sorgono, incidentalmente all’esecuzione forzata, in forma di opposizione (ex artt. 615, 617 e 619 c.p.c.) hanno sempre una struttura bifasica: alla fase sommaria trattata dinanzi al g.e. si contrappone una fase di merito introdotta dalla parte interessata per il tramite di un termine perentorio di riassunzione (o prosecuzione) che sempre il g.e. deve assegnare al termine della fase sommaria che invariabilmente gli compete.
Il principio Kompetenz-Kompetenz vuole che ogni giudice sia in primo luogo giudice della propria competenza: il che dovrebbe comportare la necessità, per ogni giudice e così anche per il g.e., di adottare un provvedimento (quale che sia la sua forma) definitivo sulla propria competenza[8], salva la possibilità di controlli successivi.
Senonché, la Cassazione afferma senza ripensamenti – per tutte, v. Sez. VI – 3, Ord. 13 settembre 2017, n. 21185 – che «la specialità della disciplina del procedimento esecutivo non consente, neppure in via analogica, una assimilazione dei vizi e delle irregolarità concernenti la procedura espropriativa a quelli propri del giudizio ordinario di cognizione, ivi compresi i vizi di competenza relativi alla individuazione del g.e., con la conseguenza che sono inapplicabili alla ordinanza di diniego o di affermazione della competenza, emessa dal Giudice della esecuzione, i diversi rimedi impugnatori previsti per i provvedimenti emessi nel giudizio di cognizione, tra i quali deve ricomprendersi anche il regolamento necessario di competenza ex artt. 42 e 323 c.p.c., dovendo eventuali vizi che riguardano detto provvedimento del g.e. essere fatti valere, oltre che attraverso l’istanza di revoca, solo attraverso il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi, atteso che l’errore sulla competenza può essere considerato come rientrante nel concetto di “irregolarità” di cui all’art. 617 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. 3, Ord. n. 17444 del 30/08/2004; Sez. 6 – 3, Ord. n. 17462 del 23/07/2010; Sez. 6 – 3, Ord. n. 16292 del 26/07/2011; Sez. 6 – 3, Ord. n. 16292 del 26/07/2011), con conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso per regolamento necessario ex art. 42 c.p.c., dovendo ulteriormente precisarsi che, ove, tuttavia, il regolamento di competenza sia stato (inammissibilmente) comunque proposto, si determina la sospensione del decorso del termine per proporre opposizione agli atti esecutivi, fino alla data di comunicazione del deposito dell’ordinanza di decisione del regolamento di competenza».
2. Perché la Cassazione giudica il g.e. non legittimato a richiedere il regolamento d’ufficio in caso di conflitto (art. 45 c.p.c.) e come tale “regola” possa risultare compatibile con l’art. 50 c.p.c.
L’orientamento, da ultimo ricordato, è alla base anche della decisione che si commenta: la quale ha escluso, in capo al g.e. ad quem con ciò conformandosi a una consolidata giurisprudenza di legittimità mai ridiscussa[9], la possibilità di richiedere il regolamento d’ufficio per risolvere un conflitto insorto tra giudici dell’esecuzione, cioè tra giudici che rilevano d’ufficio, con ordinanza, la propria incompetenza.
Il fondamento dell’orientamento è nel fatto che la declinatoria del g.e. (così come il provvedimento positivo) non viene considerata una decisione sulla competenza bensì atto “meramente ordinatorio” interno al processo esecutivo, mentre la “questione di competenza” vera e propria sarà introdotta soltanto ove siano le parti a impugnare quell’atto con lo strumento di controllo ordinario delle attività esecutive: l’opposizione ex art. 617 c.p.c. Una norma ad hoc – l’art. 187 disp. att. c.p.c. – avverte che le sentenze che definiscono le opposizioni agli atti «sono sempre soggette a regolamento di competenza», sebbene non sia affatto chiara la ragione fondante di questa regola[10].
Sulla propria competenza non decide il g.e. ma il giudice dell’opposizione agli atti, soltanto se sia una parte del processo esecutivo a sollecitare il controllo.
Si tratta di una costruzione ragionevole?
Vediamo se vi sia conflitto con i principi, di varia origine, indicati nel paragrafo che precede.
La prima regola a saltare è senz’altro quella della Kompetenz-Kompetenz: l’art. 186 bis disp. att. c.p.c. è chiarissimo nell’indicare che il giudice-persona fisica che conosce il merito dell’opposizione agli atti deve essere diverso dal g.e., come diverso è il contesto, impugnatorio, dell’opposizione agli atti in rapporto all’esecuzione forzata in cui è stato compiuto l’atto attaccato[11]; a nulla varrebbe osservare che esecuzione e opposizione sono trattate all’interno del medesimo tribunale (con evaporazione della questione di competenza) essendo evidente che la sentenza di opposizione agli atti viene emessa in sede di controllo di un (a dire il vero fantasmatico, secondo la S.C.) provvedimento del g.e. sulla propria competenza. Inoltre, al g.e. ad quem è precluso il controllo della propria competenza nell’unica forma possibile, il regolamento d’ufficio, con la conseguenza che soltanto un’iniziativa di parte potrebbe introdurre quel controllo in una sede di regolamento (diversa, ovviamente, da quella dell’art. 45 c.p.c.). E del resto lo stesso g.e. che per primo di pronuncia, declinando la propria competenza, non adotterebbe un provvedimento sulla competenza ma si limiterebbe ad avviare un sub-procedimento (o fase “preparatoria”) che potrebbe condurre a una pronuncia sulla competenza soltanto ove la parte interessata proponga l’opposizione agli atti avverso quel provvedimento “interno” e “non decisorio”. Sotto più punti di vista, quindi, si può affermare che il g.e. non è il giudice della propria competenza, ma anzi la relativa questione degrada, proprio perché e in quanto da lui conosciuta, a livello dei rilievi “meramente ordinatori” del procedimento, che per definizione non sono decisori. Continuando il parallelo col trattamento riconosciuto al provvedimento del g.e. a quo, non sarà il g.e. ad quem ma, casomai, il giudice che definisce l’opposizione agli atti a poter sollevare il conflitto d’ufficio: sempre che tale conclusione si giudichi compatibile col testo dell’art. 187 disp. att., che letteralmente richiama «gli articoli 42 e seguenti del codice» e non anche l’art. 45, che è istituto diverso.
Altra regola destinata a trovare la sua eccezione è quella della forma del provvedimento sulla sola competenza: quella della ordinanza, in generale introdotta dalla legge 69/2009, è destinata a non essere osservata nel nostro caso, perché l’opposizione agli atti è definita invariabilmente con sentenza anche laddove decida soltanto questioni di competenza. Il legislatore del 2009 non ha pensato ad adeguare il testo dell’art. 187 disp. att., né quello dell’art. 618 c.p.c., alla nuova regola generale (affermata, non c’è dubbio, soprattutto per il processo dichiarativo).
Il sistema, nel quale si iscrive la decisione in commento, è comunque destinato a entrare in conflitto con la regola della bifasicità applicata all’opposizione agli atti. Infatti, in prima udienza (ma va considerato che spesso la prima udienza dell’esecuzione coincide con quella dell’opposizione da proporsi in un termine perentorio) il g.e., d’ufficio o su sollecitazione della parte interessata, può dichiarare con ordinanza la propria incompetenza, indicando il giudice o i giudici competenti qualora una riassunzione sia possibile (sempre, direi, nel presso terzi). Non vogliamo sembrare amanti delle complicazioni inutili, ma certamente la declinatoria potrebbe conoscere un destino diverso a seconda che il rilievo avvenga d’ufficio ovvero accogliendo un’opposizione di parte (qualificabile agli atti, sebbene spesso l’incompetenza venga eccepita con l’opposizione all’esecuzione). Nel primo caso, il rilievo d’ufficio dà luogo a un provvedimento opponibile ex art. 617 c.p.c.[12]; nel secondo, l’art. 618, comma 2, c.p.c. prevede che il g.e. «in ogni caso» debba «fissa(re) un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito», che certamente sarà trattato dal medesimo tribunale (ma da giudice-persona fisica diverso). La prassi dei tribunali, tuttavia, tende a omologare i due casi: in esito tanto al rilievo d’ufficio, quanto all’opposizione agli atti la declinatoria chiude il processo esecutivo e il g.e., anche se richiesto, non si preoccuperà di fissare quel termine di prosecuzione nel merito che «in ogni caso» l’art. 618, comma 2, gli imporrebbe di assegnare[13]. La ragione è, tutto sommato, evidente: checché ne dica la Cassazione parlando di provvedimento “meramente ordinatorio” e “non decisorio”, con la declinatoria il giudice si spoglia della procedura e dal suo provvedimento inizia a decorrere il termine perentorio per la riassunzione dinanzi a un altro giudice. Ciò, detto diversamente, significa che la declinatoria non è considerata alla stregua di un provvedimento sommario coordinabile con la successiva fare di merito, come avviene per la sospensione ex art. 624 c.p.c.: il g.e. che dichiara la propria incompetenza lo fa con un provvedimento che suona sempre definitivo, e che del resto gli compete – torniamo alla prima regola – in applicazione del generalissimo principio Kompetenz-Kompetenz. E però proprio così in effetti non è, e se ne accorge la parte che intenda impugnare la declinatoria pronunciata dal g.e. a definizione della fase sommaria dell’opposizione agli atti: il regolamento necessario non è proponibile, e se il g.e. si rifiuti di fissare il termine di prosecuzione nel merito (perché per lui la questione è definitivamente regolata) la sua pronuncia resta per aria, e l’unico modo per coltivare l’esecuzione è quello di riassumere dinanzi al giudice indicato come competente. In questo modo, una decisione “meramente ordinatoria” e “non decisoria” che non riguarda la competenza finisce per avere una “forza” ben maggiore della decisione sulla competenza, avverso la quale è esperibile il regolamento. Dunque, se il g.e. intendesse rispettare davvero l’orientamento della Cassazione non dovrebbe mai pronunciare con ordinanza la propria incompetenza nella fase sommaria di una opposizione (comunque qualificata), ma dovrebbe rimettere la questione al giudice della fase di merito di quell’opposizione.
D’altra parte un altro decisivo rilievo, connesso ma autonomo, non può sfuggire: se la declinatoria del g.e. non fosse un provvedimento sulla competenza, cosa mai potrebbe legittimare la chiusura in rito del processo esecutivo e la riassunzione dinanzi al g.e. indicato come competente? Quel g.e. potrebbe fondatamente eccepire che il meccanismo della riassunzione presuppone una decisione sulla competenza, difettando la quale difetta anche il potere di riassumere il processo esecutivo: una simile decisione è data soltanto dalla sentenza che definisce l’opposizione agli atti. Il rilievo impedirebbe la riassunzione e si tornerebbe al fenomeno quale conosciuto all’origine: la declinatoria fotografa una nullità insanabile che si estende agli atti di parte; l’azione esecutiva non può proseguire e va esercitata ex novo.
3. Problemi particolari posti dall’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. nelle espropriazioni presso terzi a carico della p.a. (l’arte di fare confusione)
Si è detto che il fenomeno incompetenza-riassunzione si osserva particolarmente nell’espropriazione presso terzi; esso di frequente riguarda la p.a., che non è il miglior pagatore presente sul mercato. Con l’art. 26 bis c.p.c. (versione 2014), il legislatore si è preoccupato da un lato di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutte le esecuzioni a carico della p.a. (tesoriere la Banca d’Italia), dall’altro lato di contenere i fenomeni di forum shopping: la regola è che «la competenza territoriale non può che radicarsi presso la tesoreria del luogo in cui si colloca il rapporto che rappresenta la radice del credito»[14]. Si tratta di una relazione bilatera, perché da un lato c’è la sezione di tesoreria che ha in carico il rapporto, dall’altro lato il titolare del credito il quale deve essere residente o domiciliato nella provincia corrispondente alla sede della sezione di tesoreria (si richiamano gli artt. 1182, comma 3, c.c.; 54 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440; 278, comma 1, lett. d), 287 e 407, r.d. 23 maggio 1924, n. 827)[15] ma ciò vale sul presupposto che agisca in executivis il titolare del rapporto che deve coincidere col soggetto contemplato nel titolo come creditore; invece, in caso di cessione del credito – frequentissima così come sono frequentissime le cartolarizzazioni dei crediti della p.a., di realizzazione difficile ma certa – la relazione è destinata a saltare, perché il criterio della residenza o domicilio del creditore procedente non individua più la sezione che ha in carico il rapporto. A quel punto il rischio è che il criterio di competenza territoriale finisca per introdurre surrettiziamente una limitazione di responsabilità della p.a., posto che una sezione di tesoreria che non ha in carico il rapporto non potrà che rendere una dichiarazione negativa.
Insomma, chi ha scritto l’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. nell’anno di grazia 2014 (un arruffone che non merita la nostra gratitudine) non sembra aver avuto per obiettivo quello di fare definitiva chiarezza sull’aspetto delicato della competenza per territorio, peraltro inderogabile, nelle esecuzioni presso terzi a carico della p.a.: il riferimento all’art. 413, comma 5, c.p.c. ha sollevato addirittura il dubbio circa l’identificazione della natura del credito e non delle p.a.[16], identificazione che peraltro risulta non dallo stesso art. 413 bensì dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; il riferimento generico alle «leggi speciali» apre un piccolo vaso di Pandora che finisce per rendere piuttosto difficoltosa l’individuazione del tribunale territorialmente competente, specie nel caso, frequente, di circolazione del credito.
Ultima puntata, per il momento: la legge 206/2021 (che contiene norme di delega e due sole norme dirette: una di esse novella l’art. 26 bis, comma 1, l’altra modifica l’art. 543 c.p.c. e non interessa direttamente il nostro tema) prevede – art. 1, comma 29 – che «all’art. 26-bis, comma 1, c.p.c., le parole: “il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede” sono sostituite dalle seguenti: “il giudice del luogo dove ha sede l’Ufficio dell’avvocatura distrettuale dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”». Fermo che il vero problema applicativo della norma deriva dall’immutato inciso «salvo quanto disposto dalle leggi speciali», il meno che possa dirsi è che l’interprete potrebbe essere autorizzato a pensare che il nuovo criterio di competenza trova applicazione nelle sole procedure in cui la p.a. è difesa dall’Avvocatura e che, in ogni caso, il legislatore del 2021 ha perso l’occasione di chiarire, con una norma non di rimbalzo, cosa debba intendersi per «una delle pubbliche amministrazioni». Evidentemente, in materia la confusione viene apprezzata più della chiarezza, forse per dar modo alla p.a. di ritardare ulteriormente i pagamenti dovuti con l’appoggio di quella giurisprudenza secondo cui l’art. 1284, comma 4, c.c., non trova applicazione all’interno dell’esecuzione[17].
4. L’auspicio è che la Cassazione restituisca al giudice dell’esecuzione il potere di essere anzitutto il giudice della propria competenza
Come di recente già notato[18], è stato il meccanismo della riassunzione a evidenziare i problemi che nell’esecuzione derivano dal controllo della competenza (soprattutto per territorio e soprattutto nell’espropriazione presso terzi). Quel meccanismo presuppone decisioni sulla competenza, ma la Cassazione insiste nell’affermare che il g.e. non può adottare decisioni sulla competenza. È un diverso giudice (quello dell’opposizione agli atti) l’unico titolare del controllo, ma tale diverso giudice non può che essere investito dalla parte: non potrà certo il g.e. proporre l’opposizione agli atti avverso un proprio provvedimento o avverso il provvedimento di un altro g.e., e in questo contesto appare perfettamente logico che il giudice ad quem non possa sollevare d’ufficio il conflitto di competenza: vuoi per la ragione che il giudice a quo non ha il potere di decidere sulla propria competenza, vuoi per la ragione che lui stesso, a sua volta, è istituzionalmente privo di quel potere. L’art. 45 c.p.c. è implicitamente abrogato: alla cassazione non sembra interessare che il g.e. ad quem non possa in alcun modo contestare la propria competenza.
A ben vedere, l’unico controllo indiretto che il giudice ad quem potrebbe compiere della propria competenza sarebbe quello di disconoscere il vincolo che gli deriva dalla pronuncia del g.e. a quo: se il destinatario non ha un potere di controllo, non si vede perché il mittente dovrebbe avere il potere di declinare la propria competenza con effetti vincolanti. A questo punto, come nel gioco dell’oca si torna nella casella di partenza: l’esecuzione è improseguibile, e l’azione esecutiva va nuovamente esercitata con perdita degli effetti del pignoramento compiuto.
La cosa più bizzarra è che la Cassazione non nega che anche nell’esecuzione forzata vi sia il controllo preliminare sulla competenza, ma – si legge nella decisione in commento, che replica una frase d’uso – «tale controllo, sulla base delle argomentazioni desumibili dall’art. 187 disp. att. c.p.c., si estrinseca in prima battuta non già direttamente sul provvedimento del giudice dell’esecuzione negativo della propria competenza o affermativo di essa, bensì, essendo impugnabile tale provvedimento con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c., attraverso l’impugnazione con il regolamento di competenza necessario della pronuncia del giudice dell’opposizione agli atti esecutivi di accoglimento o di rigetto della stessa opposizione agli atti e, quindi, rispettivamente, di dissenso dalla valutazione del giudice dell’esecuzione negativa o affermativa della propria competenza sull’esecuzione forzata oppure di condivisione di quella valutazione, dovendosi tanto la sentenza di accoglimento che di rigetto intendersi impugnabili ai sensi dell’art. 187 disp. att. c.p.c., in quanto sentenze che decidono riguardo alla competenza sull’esecuzione forzata». Argomento dal quale sembrerebbe ricavarsi che l’abrogazione in via interpretativa dell’art. 45 c.p.c. nei rapporti tra g.e. è conseguenza dell’applicazione dell’art. 187 disp. att.: quanto dire che l’unico provvedimento sulla competenza è quello avverso il quale è prevista l’esperibilità del regolamento (artt. 42 e seguenti). Senza apparentemente avvedersi che le vere vittime di questa singolare costruzione sono proprio i giudici dell’esecuzione, cioè coloro che per definizione non sono legittimati a proporre l’opposizione agli atti e che proprio per questa ragione (sic!) perdono il potere di effettuare il controllo preliminare della propria competenza.
[1] A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, VII ed., Milano, 2019, 305 ss.
[2] V., per tutti, G. Verde – B. Capponi, Profili del processo civile. 3. Processo di esecuzione e procedimenti speciali, Napoli, 2006, 23 ss.
[3] Mi permetto di rinviare a Note in tema di rapporti tra competenza e merito. Contributo allo studio dell’art. 38 c.p.c., Torino, 1997, 193 ss. In giur. V., per tutte, Cass. Sez. III, 24 ottobre 2018, n. 26935.
[4] V., ad es., Cass. Sez. III, 24 ottobre 2018, n. 26935. In dottrina v. G. Tota, In tema di translatio judicii e connessione nel processo di espropriazione presso terzi, in Riv. dir. proc., 2008, 1567 ss.
[5] Con l’Ord. 4 aprile 2018, n. 8172, la Cassazione ha deciso che l’art. 26 bis, comma 1 «quando allude alla disciplina di leggi speciali come idonea a stabilire il foro dell’esecuzione forzata per espropriazione di crediti in danno delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 413, comma 5°, dello stesso codice, attribuisce alla regola desumibile dalla legge speciale il valore di regola esclusiva rispetto a quella fissata dallo stesso comma 1 con riferimento al luogo in cui il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Ne discende che, dovendo fra le disposizioni di leggi speciali cui allude il suddetto comma 1 comprendersi quella della legge n. 720 del 1984, art. 1 bis, il significato del rinvio a tale norma si deve intendere nel senso che con esso si sia voluto fare riferimento a detta previsione, sia in quanto individuatrice nel cassiere o tesoriere del soggetto (debitor debitoris) che deve pagare per conto delle amministrazioni pubbliche, cui detta norma si applica, sia in quanto individuatrice del luogo del pagamento in quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra la p.a. ed il cassiere o tesoriere, con la conseguenza che tale luogo si deve considerare in via esclusiva come il foro dell’espropriazione presso terzi di crediti a carico di tali pubbliche amministrazioni, restando esclusa, per il caso che cassiere o tesoriere sia una persona giuridica, la possibilità di procedere all’esecuzione alternativamente anche nel luogo della sua sede, ove tale luogo sia diverso da quello in cui opera l’articolazione della persona giuridica che ha in carico in concreto il rapporto avente ad oggetto le funzioni di cassa o di tesoreria ed in cui, dunque, la concreta funzione di cassiere o tesoriere sia svolta per la pubblica amministrazione secondo gli accordi con essa presi».
[6] L’art. 413, comma 5, c.p.c., richiamato dall’art. 26 bis, comma 1, non contiene alcuna specifica elencazione delle pubbliche amministrazioni, categoria che può evidentemente enuclearsi dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001: la stessa Ord. n. 8172/2018, cit., ha statuito che «per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300».
[7] Sulle difficoltà introdotte da tale riferimento v., ad es., A. Auletta, L’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, collana Teoria e pratica del diritto, Milano, 2020, passim.
[8] V., da ultimo, B. Sassani, Giudice dell’esecuzione e declaratoria di incompetenza, in www.judicium.it dal 19 ottobre 2021.
[9] V. anche per riferimenti A.M. Soldi, op. cit., 308.
[10] Sulle non chiare ragioni che indussero il legislatore del 1940 a stendere tale norma v. R. Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, 466 ss., il quale prende in esame, per escluderla, l’ipotesi di sottoporre a regolamento la sentenza che decide sulla competenza non del giudice dell’opposizione, bensì del g.e. In altro luogo della stessa monografia (pag. 399 ss.), Oriani osserva che il regolamento di competenza può svolgere un’utile funzione in tema di qualificazione dell’opposizione (ad es., se si tratti di opposizione all’esecuzione o agli atti), con conseguente diversità del giudice dinanzi al quale riassumere il giudizio dopo la pronuncia della Cassazione.
[11] B. Sassani, op. loc. cit.
[12] V., ad es., Trib. Roma, sez. III civ., 18 marzo 2021, giudice Guariniello, B.A. c. Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in Plurisonline.
[13] V. infatti il caso che ha originato il commento di B. Sassani, op.loc.cit., caso nel quale il g.e., dopo aver dichiarato la propria incompetenza nella fase sommaria dell’opposizione agli atti, si è rifiutato di assegnare il termine per la prosecuzione dell’opposizione nel merito.
[14] Così S. Leuzzi, Espropriazione forzata dei crediti nei confronti degli enti pubblici e competenza per territorio, in www.inexecutivis.it dal 18 giugno 2020.
[15] V. Cass. 10 maggio 2011, n. 10198.
[16] Ciò è stato escluso dalla giurisprudenza: v., per tutte, la già citata ord. 4 aprile 2018, n. 8172.
[17] I Tar, in sede di giudizio di ottemperanza (l’esecuzione amministrativa), non hanno invece dubbi: gli interessi commerciali si possono richiedere col ricorso di ottemperanza (che equivale all’atto di precetto), ritenuto “domanda giudiziale”, per l’intera durata del giudizio esecutivo e sino alla liquidazione del dovuto da parte dell’amministrazione (T.A.R., Puglia, Lecce, 5 settembre 2016, n. 1361; Tar Puglia-Lecce, sent. n. 1167/2018).
[18] B. Sassani, op. loc. cit.
“...Una giustizia che ricuce e ripara; che non si nutre di odio, che non cede alla reazione vendicativa, ma che vive innanzitutto di ricerca di verità...”.
La relazione annuale al Parlamento della Ministra Cartabia
Pubblichiamo la Relazione annuale della Ministra della Giustizia presentata nell’aula del Senato il 19 gennaio scorso. Da essa emerge il contesto nel quale, fra forze politiche portatrici di diverse sensibilità eppure accomunate da un forte senso di responsabilità hanno via via preso corpo, incuneandosi tra la persistente crisi pandemica e l’esigenza di approntare con celerità le misure di attuazione del PNRR per una giustizia più rapida ed efficiente, imponenti riforme di sistema in ambito penale - legge di riforma del processo - e civile - legge delega n. 206/2021, insolvenza, Tribunale per le persone - alcune delle quali ancora in fase di definizione, altre in itinere - direttiva UE sul whistleblowing, giustizia tributaria - ed altre ancora che sembrano dalla Relazione porsi come obiettivi primari ed immediati nel futuro delle scelte di indirizzo ministeriale. Fra queste, oltre alla indilazionabile riforma dell'ordinamento giudiziario e del CSM, quelle di una giustizia sempre più riparativa, attenta alle vittime come alle condizioni carcerarie. Una giustizia con una forte vocazione europea che non per questo non perde l'impronta domestica quando essa si pone al servizio dei diritti fondamentali. Tutto questo in un processo osmotico che arricchisce il piano interno di nuovi strumenti di tutela di matrice sovranazionale - lotta al riciclaggio, presunzione di innocenza, acquisizione di tabulati telefonici - ed al contempo guarda con attenzione agli interessi europei attraverso la nuova lente della Procura europea - EPPO - "frutto della profetica intuizione" di Giovanni Falcone.
1. Introduzione
Illustre Presidente,
Onorevoli deputate e deputati – senatrici e senatori
Permettetemi di introdurre questa relazione sull’amministrazione della giustizia, richiamando una lettera tra le numerosissime indirizzate al Ministro della giustizia. Era l’8 marzo scorso ed ero da poco insediata.
«Illustre Signora Ministro,
Le scrivo questa lettera pubblica per chiedere il Suo conforto, affranta dalla morte sul lavoro di mio figlio Roberto [avvenuta quattro anni prima] e dall’impossibilità di vedere celebrato il processo in tempi ragionevoli.
Ho settantacinque anni e sono vedova. Roberto, il più piccolo dei miei figli, era il mio sostegno in tutto, aveva trentadue anni e viveva con me. […]
Il nostro processo […] non si riesce a celebrare, nonostante rientri in quelli cosiddetti a trattazione prioritaria […]. Il Tribunale […] non è in grado […] di poter far svolgere in sicurezza i processi con più parti a causa della carenza di aule attrezzate, risorse e personale e per questa ragione in un anno e mezzo, da quando è iniziato il dibattimento, a causa di continui rinvii è stato sentito solo uno dei circa venti testimoni. Con questa cadenza il processo di primo grado durerà numerosi anni […].
Sono sicura che morirò prima di vedere la fine di questo processo […] senza poter sapere come e da chi è stato ucciso mio figlio […]
Le scrivo come madre, vedova e umile cittadina, per chiedere il Suo conforto e, nei limiti delle Sue possibilità e competenze, di approfondire la disastrosa realtà di quel tribunale.
Prima di morire, vorrei poter andare sulla tomba di mio figlio Roberto per dirgli che la giustizia terrena ha fatto il Suo corso».
La storia di questa anziana madre è una storia paradigmatica e dà voce a tanti altri cittadini, vittime e imputati. E anche a tanti imprenditori e lavoratori.
È per ciascuno di loro che l’azione del Ministero della giustizia è stata orientata con determinazione verso un obiettivo che ho ritenuto cruciale: riportare i tempi della giustizia entro limiti di ragionevolezza. Come chiede la Costituzione; come chiedono i principi europei: il principio della ragionevole durata del processo e gli altri principi costituzionali ed europei che presidiano la corretta amministrazione della giustizia sono scritti per questo – per rispondere all’esigenza di chi, come questa anziana madre, attende dai nostri uffici giudiziari “una parola di giustizia” (P. Ricoeur).
Processi irragionevolmente lunghi rappresentano un vulnus per tutti. Per gli indagati e per gli imputati, che subiscono oltre il necessario la «pena del processo» e il connesso effetto di stigmatizzazione sociale. Per i condannati, che si trovano a dover eseguire una pena a distanza di tempo, quando ben possono essere – e per lo più sono – persone diverse da quelle che hanno commesso il reato. Per gli innocenti, che hanno ingiustamente subito oltre misura il peso di un processo che può aver distrutto relazioni personali e professionali. E soprattutto per le vittime e per la società, che non ottengono in tempi ragionevoli un accertamento di fatti ed eventuali responsabilità, come è doveroso in un sistema di giustizia che aspiri ad assicurare la necessaria coesione sociale.
La lettera di quella anziana madre ci indica dove in molti casi si annidano i problemi che ostacolano il lavoro di magistrati e avvocati. Quel processo per incidente sul lavoro – drammaticamente numerosi nel nostro Paese – stentava a partire essenzialmente per una carenza di spazi adeguati, risorse umane e strumentali.
I grandi e nobili principi costituzionali ed europei hanno bisogno di solido realismo e di pragmatica concretezza per non ridursi a vuota retorica. Come sarebbe stato il maxiprocesso di Palermo, senza quell’aula bunker la cui costruzione fu favorita dall’allora Guardasigilli, Mino Martinazzoli? I grandi principi hanno bisogno di organizzazione e di risorse; hanno bisogno di magistrati, hanno bisogno di uomini e donne nelle cancellerie, oltre che nelle aule d’udienza; hanno bisogno di strumenti informatici funzionanti; hanno bisogno di edifici agibili.
E questo è esattamente e principalmente lo sforzo che il Ministero della giustizia sta compiendo - in linea di continuità con l’azione del precedente governo, che aveva predisposto un piano straordinario di assunzioni - per assicurare le necessarie risorse umane, materiali, strumentali, per permettere alle procure e ai giudici lo svolgimento della loro altissima funzione.
«Spettano al Ministero della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia», recita l’articolo 110 della Costituzione. Il compito del Ministro è quindi di servizio alla funzione del giudicare, servizio a tutti i suoi attori: procuratori, giudici, avvocati. E soprattutto è servizio ai cittadini.
2. Il contesto
L’anno della giustizia 2021 è stato guidato in larga misura dai due fattori di contesto che hanno dominato in tutto il “sistema paese”:
a. la pandemia
b. la pianificazione PNRR e la sua prima attuazione.
Due elementi che da un lato hanno posto continui imprevisti, sfide e problemi, ma dall’altro hanno anche offerto una serie di opportunità e di spinte al cambiamento.
Le emergenze si sono susseguite senza interruzione: e quest’ultima ondata di contagi ha acuito ulteriormente le criticità. Ma ogni giorno abbiamo cercato nuovi rimedi ai sempre nuovi problemi, abbiamo ricominciato, abbiamo incessantemente re-inventato il nostro modo di lavorare.
Mi sia consentito di cogliere questa occasione per ringraziare sentitamente magistrati, avvocati, personale amministrativo, la polizia penitenziaria e tutto il personale degli istituti penitenziari, i volontari che hanno continuato a far funzionare la macchina della giustizia e dell’esecuzione penale, con spirito di adattamento e senza sottrarsi a rischi non trascurabili.
Anche per la continuità di altre fondamentali attività “ordinarie” sono serviti impegno e creatività e capacità di riorganizzazione. Era indispensabile rimettere in moto le prove di esame per l’avvocatura, i concorsi per l’accesso in magistratura – uno per 310 posti è avvenuto la scorsa estate e il bando per altri 500 nuovi magistrati è stato aperto nelle scorse settimane; e poi i concorsi per l’ingresso di altro personale: sono ripartiti la scorsa settimana gli orali per il concorso a 2242 posti di funzionari, sospeso per Covid; occorreva reinventare le modalità dei colloqui, delle visite e delle varie attività lavorative, culturali ed educative in carcere, per citare solo alcune delle emergenze recenti.
Emergenze di oggi e piani per il futuro, due distinti e congiunti livelli d’azione di questi mesi.
Mentre l’emergenza sanitaria premeva, con tutte le sue imperiose criticità, abbiamo messo a punto progetti e riforme strutturali a lungo termine, connessi agli obiettivi e alle opportunità offerte dal piano nazionale di ripresa e resilienza, in modo da avviare il nostro sistema giustizia verso le grandi linee di modernizzazione concordate con le istituzioni europee.
Come sappiamo, abbiamo l’impegno di ridurre del 40% il tempo medio di durata dei procedimenti del civile; e del 25% per il penale entro un arco temporale di cinque anni. Questo è stato il punto di accordo dopo settimane di trattative con Bruxelles.
Ad oggi, possiamo senza dubbio dire di aver conseguito – e invero superato – gli obiettivi previsti per il 31 dicembre 2021, che annoveravano l’approvazione delle leggi di delega in materia di processo civile e di processo penale; gli interventi in tema di insolvenza e l’avvio del reclutamento per l’Ufficio per il Processo.
3. Uno sguardo d’insieme
Uno sguardo d’insieme a quest’anno di intenso lavoro, ricco di impegni e traguardi lascia emergere tre chiavi di lettura.
La prima potrebbe essere definita così: dalla crisi una opportunità. Ovvero: dalle misure emergenziali, riforme strutturali. Un indirizzo di questa amministrazione, infatti, è stato quello di cogliere le opportunità nella situazione di crisi in cui la pandemia ci ha posti, valutando quali misure, anche tra quelle imposte dalla contingenza, potranno tradursi in modifiche strutturali.
Si pensi alle modalità di accesso alla professione di avvocato, ma anche alle nuove modalità di svolgimento delle udienze (sia civili che penali) e, più in generale, alla accelerazione della transizione digitale nei palazzi di giustizia e negli istituti penitenziari.
È in questa prospettiva, del resto, che deve essere colto il significato delle riforme prospettate con il PNRR anche per la giustizia. All’Italia non si chiedono interventi “tampone” destinati a esaurirsi nell’orizzonte temporale del Piano, ma uno sforzo preordinato ad un miglioramento definitivo.
Del resto, sappiamo bene che la modernizzazione e l’efficienza del sistema giudiziario incidono direttamente sulla solidità economica del Paese: tra gli studi, uno recente di Banca d’Italia stima che la riduzione della durata dei processi di circa il 15% porti all’aumento di almeno mezzo punto percentuale del PIL. E inoltre la maggiore efficienza del sistema giudiziario stimola gli investimenti interni ed esterni e indirettamente migliora le condizioni di finanziamento per famiglie e imprese. Anche questa la posta in gioco, dunque.
Il fattore “Europa” è la seconda chiave di lettura. L’anno della giustizia è stato dominato da un orizzonte europeo. Non solo per le attività connesse al PNRR, ma anche per il rilievo di numerose altre iniziative che l’Unione europea sta promuovendo nel settore della giustizia.
Sotto questo profilo non si può non rimarcare come l’istituzione della Procura europea – EPPO – e il suo effettivo avvio offrano un nuovo strumento fondamentale per il contrasto ai reati finanziari, alle frodi fiscali, alla corruzione e ad ogni uso illecito di finanziamenti europei, molto spesso veicolo di interessi delle mafie e della criminalità organizzata di varia natura.
Come ho già avuto occasione di osservare, la Procura europea rappresenta una innovazione lungimirante e necessaria nel momento in cui ingenti quantità di fondi europei stanno per essere messi in circolazione. “Follow the money”: l’ha insegnato a tutti Giovanni Falcone, il primo a comprendere già nel lontano 1991 la necessità di proteggere gli interessi finanziari dell’Europa. E l’istituzione della procura europea, con i suoi 22 procuratori delegati in Italia, è frutto della profetica intuizione del grande magistrato italiano, il cui sacrificio continua a dare frutti a trent’anni dalla strage di Capaci, che ricorderemo a maggio, seguita a luglio da quella di via D’Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino.
Sempre di matrice europea sono altri importanti interventi normativi, approvati per dare attuazione ad impegni assunti nell’ambito dell’Unione europea come:
- la normativa in materia di lotta al riciclaggio;
- quella sulla presunzione di innocenza;
- quella relativa all’ uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario (regolamentando così la costituzione on line delle società a responsabilità limitata e delle società a responsabilità limitata semplificate).
Dobbiamo, invece, ancora perfezionare il recepimento – ed è necessario farlo il prima possibile – della direttiva sul whistleblowing, prezioso strumento di contrasto alla corruzione, in parte già presente nel nostro sistema grazie agli interventi normativi varati nel 2012 e nel 2017.
Siamo inoltre intervenuti sulla disciplina dell’acquisizione dei tabulati telefonici a fini di indagine, in ossequio ai principi fissati dalla Corte di Giustizia dell’Unione.
Tra le altre importanti iniziative prese sulla scia degli stimoli provenienti dall’Europa, ricordo anche quello sulla magistratura onoraria, che attendeva una risposta da troppo tempo: con un intervento reso possibile grazie alla disponibilità e alla sensibilità del Governo che ha messo a disposizione le necessarie risorse e di tutte le forze politiche in Parlamento, con la legge di bilancio siamo riusciti ad avviare una stabilizzazione per migliaia di magistrati onorari, che per anni hanno prestato il loro servizio – essenziale per il buon funzionamento degli uffici giudiziari – in una condizione di totale assenza di tutele lavorative (malattia, maternità, ferie), più volte stigmatizzata dalle istituzioni europee.
Accanto alla trasformazione dello ‘straordinario’ in ‘strutturale’ e al fattore ‘Europa’, c’è poi una terza chiave di lettura che viene dall’esperienza di questi mesi: la centralità del fattore organizzativo.
Come ben sapete, la giustizia è stata interessata da alcune importanti riforme normative, che questo Parlamento ha approvato superando le non irrilevanti divergenze di vedute e di sensibilità e lasciando prevalere il senso di responsabilità verso il bene comune e il primario interesse del paese.
Ma ciò che mi preme sottolineare è che le riforme del processo civile e del processo penale che abbiamo approvato necessitano di poggiare saldamente su una imponente ristrutturazione dell’organizzazione del servizio giustizia, accompagnata dalla immissione di ingenti risorse umane e materiali. Organizzazione e
capitale umano sono la condizione di fattibilità delle riforme. Per questo prima di ripercorrere brevemente i principali capitoli delle riforme normative approvate nel corso di quest’anno, vorrei attirare la vostra attenzione sulla riorganizzazione del settore giustizia attualmente in corso.
4 Parte prima: risorse e organizzazione
4.1 L’ufficio per il processo
L’innovazione più rilevante, il «pivot» della nuova organizzazione della giustizia, è l’Ufficio per il processo, che porterà nei nostri uffici giudiziari migliaia di giovani giuristi in ausilio al lavoro dei magistrati.
Non serve che richiami in questa sede, quanto questo modello di organizzazione – anzi: questa diversa concezione del lavoro giudiziario – sia diffusa nel contesto internazionale; non soltanto nell’accezione più tradizionale, consolidata soprattutto nell’esperienza nordamericana e nelle giurisdizioni supreme, dell’assistente legato al giudice da uno stretto vincolo fiduciario; ma anche in quella che, sul modello francese, guarda proprio ad una diversa struttura organizzativa diffusa su tutti i livelli della giurisdizione.
Per il sistema italiano, la diffusione generalizzata dell’ufficio del processo, dopo anni di proficua sperimentazione in molti distretti di Corte d’Appello, comporta un vero e proprio cambio di paradigma, perché segna il passaggio dal lavoro individuale a quello di squadra.
Più volte in questi mesi nel dibattito pubblico si è stigmatizzata una visione “efficientistica” della giustizia. Mi preme rimarcare che il lavoro di squadra, se ben organizzato e ben condotto, non solo incrementa l’efficienza della giustizia, migliorandone i tempi, ma ne favorisce la qualità. Non c’è competizione, né tanto meno
contraddizione, tra efficienza e qualità della giustizia, ma reciproco sostegno nel quadro dell’Ufficio per il processo.
Il primo contingente di 8171 giuristi è già stato selezionato con i concorsi che hanno visto la partecipazione di circa 67.000 candidati e che si sono svolti lo scorso autunno – con il prezioso supporto del Dipartimento della Funzione Pubblica che ringrazio sentitamente. Così il 14 febbraio, 200 giovani giuristi entreranno in servizio in Cassazione ed il 21 febbraio altri 8000 circa prenderanno servizio in tutti gli uffici giudiziari d’Italia. È bene notare che si tratta di un importante potenziamento delle risorse umane: accanto a circa 9000 magistrati in servizio si troveranno ben 8.171 giuristi-assistenti. Un aiuto potenzialmente molto rilevante.
Nelle prossime settimane seguirà un altrettanto cospicuo contingente di tecnici (5.410), che dovrà supportare l’Ufficio per il processo nei suoi compiti di data entry, di rilevazione statistica e di analisi organizzativa, e altri compiti di supporto dell’azione gestionale dei vertici giudiziari e amministrativi degli uffici.
Stiamo lavorando con la Scuola superiore della magistratura e con la Scuola nazionale dell’amministrazione – che ringrazio per la collaborazione – per offrire un’adeguata formazione non solo al personale selezionato, ma anche ai vertici degli uffici giudiziari che sono chiamati a un enorme sforzo di riprogettazione delle proprie strutture, per poter destinare proficuamente le nuove risorse umane ai bisogni specifici di ogni tribunale, corte o sezione.
La stabilizzazione dell’Ufficio per il processo prevista dalle leggi di riforma del processo penale e di quello civile, con contingenti già muniti di copertura finanziaria, garantirà nel tempo la presenza di questa nuova struttura in tutte le articolazioni degli uffici giudiziari – dalle procure ai tribunali di sorveglianza, dai tribunali per i minorenni fino alla Corte di cassazione.
Dunque, questa grande innovazione andrà oltre l’orizzonte del PNRR ed è destinata a cambiare il volto organizzativo dei nostri uffici giudiziari.
4.2 Il Dipartimento per la transizione digitale e la statistica
All’Ufficio per il processo si affianca l’istituzione, quale misura generale di rafforzamento dell’organizzazione per la giustizia, di un nuovo Dipartimento del Ministero della Giustizia che si occuperà della transizione digitale e della statistica. Al Dipartimento saranno affidati, tra l’altro, la gestione dei processi e delle risorse connessi alle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della innovazione; la gestione della raccolta, organizzazione e analisi dei dati relativi a tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia; l’implementazione delle procedure di raccolta dei dati e della relativa elaborazione statistica e il monitoraggio dell’efficienza del servizio giustizia con particolare riferimento alle nuove iscrizioni, alle pendenze e ai tempi di definizione dei procedimenti negli uffici giudiziari.
Permettetemi qui di soffermarmi un istante sulla centralità di una corretta «cultura del dato» e della sua trasparenza, anche per il buon andamento dei servizi relativi alla giustizia.
Gli obiettivi della riduzione dei tempi dei processi non si conseguiranno d’un tratto. Ne siamo tutti consapevoli. Abbiamo posto le basi e avviato un processo virtuoso, ma il suo completamento richiederà tempo. Sarà un processo graduale, che dovrà essere accompagnato da una costante rilevazione dell’andamento dei tempi di ciascun ufficio giudiziario in modo da poter intervenire tempestivamente per rispondere con risorse più adeguate a esigenze emergenti, per rimuovere ostacoli imprevisti e per affrontare tanti problemi che, realisticamente, non mancheranno.
Per questo è indispensabile, anche nel settore della giustizia, sviluppare politiche pubbliche fondate sul dato e sulla sua trasparenza e costantemente verificate sulla base dell’esperienza statisticamente elaborata.
Partire dai dati è essenziale per scongiurare il rischio di interventi ad impronta emozionale, improvvisati e inadeguati ai bisogni e alla loro dimensione effettiva. Inoltre, misurare con regolarità e accuratezza i risultati dell’azione trasformatrice è necessario per predisporre tempestivi interventi correttivi e integrativi. In questa direzione vanno le continue sollecitazioni che arrivano dalla Commissione europea.
A questo scopo occorre assicurare una formazione specifica dei dirigenti degli uffici e predisporre misure di incentivazione delle scelte organizzative più efficaci.
Come abbiamo imparato in questi mesi, garantire una misurazione accurata degli impatti è il presupposto imprescindibile della fiducia delle istituzioni europee nella nostra capacità di uscire dalla crisi congiunturale e colmare quei vuoti strutturali della valutazione dell’andamento della giustizia che tanto scoraggiavano gli investitori.
Inoltre, è un dovere di trasparenza verso i cittadini comunicare in maniera chiara i dati che alimentano le decisioni pubbliche e il loro impatto qualitativo e quantitativo; è un dovere verso i cittadini e un impegno di democrazia, che nel tempo rinsalda la fiducia reciproca tra istituzioni e cittadinanza: la fiducia, un bene di cui c’è immenso bisogno.
Permettetemi di condividere una piccola esperienza degli scorsi mesi: in una riunione internazionale di investitori e operatori economici interessati alle riforme della giustizia in corso in Italia, mi è stata posta la seguente domanda:
«Quando potremo tornare ad investire in Italia, certi che i tempi della giustizia saranno davvero comparabili a quelli degli altri Paesi?». Queste domande sono
ineludibili e sono il sintomo di quanto gli osservatori internazionali siano attenti alle riforme nel nostro paese e a quella della giustizia in particolare, tanto che – tra gli altri – la tedesca Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung) – ha invitato gli investitori “a volgere lo sguardo verso l’Italia”. A domande come queste non possiamo offrire risposte evasive, generiche o, peggio, ingannevoli. L’unica risposta credibile, che in quella occasione mi sono sentita di dare, è questa: «Il tempo lo deciderete voi. Noi vi assicureremo di poter avere a disposizione tutti i dati e tutti gli elementi per fare le vostre valutazioni in piena trasparenza e accessibilità».
L’istituzione del nuovo Dipartimento presso il Ministero contribuirà a sviluppare questa «cultura del dato» con la possibilità di accedere direttamente alle stime di tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia, anche a quelli raccolti dagli uffici giudiziari, con il dovere di renderli accessibili, nel pieno rispetto, ovviamente, delle esigenze della riservatezza delle indagini e della tutela dei dati personali.
Il monitoraggio dei tempi dei processi è particolarmente sentito nel settore penale. Per questo la legge delega di riforma prevede la costituzione, già avvenuta a dicembre, di un Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, con il compito di effettuare una verifica periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione, nel rispetto dei canoni del giusto processo.
Questo comitato di monitoraggio ha al suo interno un’unità dedicata ai reati contro la pubblica amministrazione: da parte nostra, come delle istituzioni europee c’è una costante preoccupazione sulla piaga della corruzione, che richiede continua attenzione. Questo comitato di monitoraggio ha al suo interno un’unità dedicata ai reati contro la pubblica amministrazione: da parte nostra, come delle istituzioni europee c’è una costante preoccupazione sulla piaga della corruzione, che richiede continua attenzione, per la sua
capacità di «divorare le risorse pubbliche» e «minare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini», come ebbe a sottolineare il presidente della Repubblica.
4.3 La digitalizzazione
L’istituzione del nuovo Dipartimento rispecchia anche l’attenzione alla digitalizzazione, che non implica soltanto la semplice dematerializzazione degli atti cartacei in tutti i procedimenti civili e penali, ma consente un nuovo sistema di organizzazione delle forme processuali e potenzia gli strumenti di conoscenza a disposizione delle procure e dei giudici. La qualità della digitalizzazione, eventualmente coadiuvata da un equilibrato supporto di strumenti di intelligenza artificiale nel rispetto dei principi della Carta etica adottata dalla CEPEJ nel 2018, condiziona già oggi e condizionerà sempre di più la qualità della risposta dei servizi della giustizia, e la sua tempestività.
Menziono, tra i tanti interventi in corso, due esempi: il recentissimo avvio del nuovo applicativo “SIAMM Pinto digitale”: una piattaforma per le procedure di pagamento degli indennizzi dovuti per la violazione della ragionevole durata del processo.
E poi, nel quadro della spinta alla digitalizzazione del processo penale, voglio citare un progetto per risolvere il nodo dei cosiddetti «tempi del carrello», i tempi – a volte davvero troppo lunghi – di transito del procedimento da un grado all’altro del giudizio. Un tempo che in talune realtà si misura in termini di mesi, se non di anni. Un tempo solo sprecato, a danno di tutti. Ebbene, questo progetto, selezionato dalla Dg Reform della Commissione europea, punta a risolvere il problema dei «tempi di attraversamento del fascicolo» e potrà portare un grande beneficio proprio alla durata dei giudizi di appello, uno degli snodi più critici del sistema.
Per questo, il Ministero della Giustizia – avvalendosi anche della preziosa collaborazione del Ministro per l’innovazione tecnologica e la
transizione digitale e di tutto il suo staff – svolge una costante attività di ricerca e sviluppo finalizzata all’individuazione di sempre aggiornate tecnologie e infrastrutture applicate alla giustizia. Il compito è immane, anche perché l’accelerazione verso una necessaria modernizzazione degli strumenti convive con gli interventi indifferibili per la risoluzione dei problemi informatici quotidiani, dovuti anche alla obsolescenza e alla frammentazione di quelli già in essere.
Tutto questo per iniziare a scrivere una nuova pagina per la modernizzazione della giustizia, grazie all’interazione tra riforme normative, investimenti, e nuove forme di organizzazione. Una congiuntura senza precedenti, un’occasione che vogliamo cogliere in tutte le sue potenzialità.
4.4 Il metodo
Prima di passare a illustrare, brevemente, le riforme normative approvate nel corso dello scorso anno, permettetemi di concludere questa parte della mia esposizione dedicata agli interventi organizzativi con una notazione di metodo.
Sin dall’inizio del mio mandato ho cercato di assicurare che il Ministero della giustizia operasse in sinergia con tutti gli attori del sistema giustizia: CSM, Scuola superiore della magistratura, singoli uffici giudiziari, avvocatura, università.
La collaborazione istituzionale è un principio costituzionale e una buona regola da seguire per il regolare funzionamento di ogni ramo dell’amministrazione. Ma nell’ambito dell’amministrazione della giustizia è una esigenza imperativa, in considerazione del fatto che i principi di indipendenza e di autonomia del potere giudiziario e dei singoli magistrati accentuano la necessità di coltivare il coinvolgimento e il coordinamento fra tutti i protagonisti.
Più volte ho avuto modo di sottolineare come il raggiungimento dei target concordati con la Commissione europea per l’abbattimento dell’arretrato e la riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti non può prescindere da un’azione responsabile e coordinata di tutti i soggetti coinvolti. Per questo negli scorsi mesi ho iniziato a visitare personalmente gli uffici giudiziari, per conoscere, discutere e raccogliere dal territorio le indicazioni dei principali problemi e approntare soluzioni condivise, per garantire al meglio l’impostazione e l’avvio dell’Ufficio per il processo e l’orientamento delle strutture rispetto agli obiettivi del PNRR.
Nella stessa prospettiva, un ruolo fondamentale è stato svolto dal Comitato paritetico nel quale si sono incontrati e s’incontrano con cadenza settimanale rappresentanti del Ministero della giustizia e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nella stessa ottica, merita una segnalazione il Protocollo tra Ministero-CSM-Scuola Superiore della Magistratura sulla formazione dei dirigenti degli uffici giudiziari.
Una relazione virtuosa si sta sviluppando con l’università: a titolo esemplificativo ricordo, nell’ambito del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020, il finanziamento per oltre 51 milioni di euro di
6 macro-progetti proposti da 57 atenei statali, dislocati in tutto il territorio nazionale, per la diffusione dell’Ufficio per il processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato.
5 Parte seconda: Le riforme
Mi soffermo ora, per sommi capi, sui tratti salienti delle importanti riforme normative approvate dal Parlamento negli scorsi mesi. Queste riforme si innestano, come abbiamo visto, sulle solide e concrete fondamenta della ristrutturazione straordinaria della macchina amministrativa della giustizia, in vista del primario obiettivo della riduzione dei tempi dei processi e dell’arretrato. Conosco bene quanta fatica e quanta disponibilità è stata chiesta a tutte le forze politiche per trovare un terreno su cui convergere. Queste riforme sono figlie del contesto straordinario in cui sono nate: di un Governo sostenuto da una maggioranza amplissima, di “unità nazionale”, con sensibilità al suo interno molto distanti sulla giustizia. Ma è sempre stata sorretta dalla comune responsabilità per l’interesse del Paese. E questo ha sostenuto il cammino – a tratti complesso – delle riforme, nella ricerca si un’equilibrata sintesi. E di questo ringrazio davvero tutte le forze politiche.
5.1 Penale
Un momento di centrale importanza nel percorso di riforma della giustizia è stato indubbiamente rappresentato dall’approvazione della legge di riforma del processo penale (l. 27 settembre 2021, n. 134). La legge approvata dal Parlamento intende coniugare obiettivi di maggiore efficienza del sistema con il rispetto delle fondamentali garanzie e principi costituzionali in materia penale.
L’impianto della riforma poggia su due pilastri.
Da un lato incide sulle norme del processo penale, operando sulle varie fasi – dalle indagini fino al giudizio in Cassazione – allo scopo di creare meccanismi capaci di sbloccare possibili momenti di stasi, di incentivare i riti alternativi, di far arrivare a processo solo i casi meritevoli dell’attenzione del giudice.
D’altro lato, la riforma prevede interventi sul sistema penale – dalla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione
del procedimento con messa alla prova dell’imputato, all’estinzione delle contravvenzioni per condotte riparatorie, alla procedibilità a querela, alla pena pecuniaria e alle pene sostitutive delle pene detentive brevi – capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale.
Questa parte della riforma è il prodotto di una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale, che si orienta verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato, per radicare, invece, l’idea diversa e costituzionalmente orientata che la “certezza della pena” non è la “certezza del carcere”. È in questa prospettiva che va quindi colta la valorizzazione laddove possibile – delle pene alternative alla reclusione, che – come ormai ampiamente dimostrato – portano ad una drastica riduzione della recidiva. Ne beneficiano i singoli, ne beneficia la società.
Peraltro, la riforma della giustizia penale non si preoccupa solo dell’efficienza del sistema, ma anche della sua effettività, altrettanto importante nell’azione di prevenzione e contrasto di ogni forma di criminalità. Uno dei fattori di ineffettività del sistema è da sempre rappresentato dalla prescrizione del reato, specie quando interviene a processo in corso ed è determinata dalla lentezza del processo stesso. Come ben sapete, è stata confermata dal Parlamento la regola che, con la riforma del 2019, ha previsto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Con la riforma del 2021, sono stati apportati alcuni correttivi a garanzia dell’imputato, introducendo, nei giudizi di impugnazione, il nuovo istituto della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi. Un ponderato meccanismo che prevede proroghe dei termini, sospensione degli stessi, esclusione di alcuni reati e un regime transitorio che assicura una graduale entrata in vigore, in modo da consentire agli uffici giudiziari di organizzarsi adeguatamente e di avere a disposizione tutte le risorse umane, materiali e tecnologiche di cui abbiamo parlato sopra, per
arrivare all’obiettivo di portare tutti i processi a sentenza definitiva, con l’accertamento delle responsabilità e il ristoro delle vittime, ma nel rispetto di tempi ragionevoli.
Sono i dati e le statistiche che fotografano la situazione attuale – con 22 Corti d’Appello che sono già nei tempi della legge Pinto o leggermente al di sopra – insieme ai forti investimenti e alla ristrutturazione organizzativa in corso a permetterci di dire che questo obiettivo è realistico.
In ogni caso, il monitoraggio statistico dell’andamento dei tempi nei singoli uffici giudiziari consentirà di intervenire tempestivamente, per assicurare le risorse e l’assistenza necessarie nei luoghi dove si ravvisassero motivi di criticità lungo il percorso. Il Ministero è al servizio degli uffici giudiziari: lo è sempre e lo è ancor di più per un rinnovamento così importante, reso possibile dall’eccezionalità di questo momento storico.
In materia di giustizia penale, tra le riforme ancora da attuare non possiamo dimenticare quella sul 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, che so essere di prossima discussione in Commissione giustizia alla Camera: a maggio scadranno infatti i 12 mesi di tempo dati dalla Corte costituzionale al Parlamento per intervenire sulla materia, nel rispetto dei principi costituzionali e salvaguardando le specificità e le esigenze del contrasto soprattutto alla mafia e alla criminalità organizzata in generale.
Non posso concludere questa parte sulla giustizia penale senza un cenno al fatto che uno dei fili rossi che legano le trame della riforma è quello della riparazione dell’offesa e dell’attenzione alle vittime. Si spiega così il grande – e il più innovativo – capitolo della riforma, dedicato alla giustizia riparativa. La giustizia riparativa è già una realtà nel nostro paese, e si è sviluppata in via sperimentale almeno da quando – nel 2015 – è stato istituito il Dipartimento per la giustizia
minorile e di comunità. Si è ispirata ai principi internazionali e alle buone prassi già disponibili in altri paesi.
La legge delega n. 134/2021 prevede l’ingresso della giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento, oltre che nella fase della esecuzione penale, e consentirà di implementare una disciplina organica, individuando modelli uniformi sul territorio nazionale, e una formazione adeguata di tutti gli operatori.
Ma sull’importanza strategica di questo capitolo tornerò in conclusione.
5.2 Civile
Anche la riforma del processo civile – ora legge delega n. 206 del 2021 – punta a fornire risposte più celeri alle esigenze quotidiane dei cittadini e delle imprese, intervenendo su un doppio binario: da un lato, valorizzando e perfezionando gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie – i cosiddetti ADR – al fine di deflazionare il carico dei tribunali favorendo soluzioni consensuali dei conflitti; dall’altro, agisce sulle procedure, con interventi mirati e circoscritti, nell’ottica della semplificazione e della riduzione dei tempi “morti”.
Riduzione della domanda, razionalizzazione della risposta.
Il primo pilastro della riforma è, dunque la valorizzazione delle forme alternative di giustizia già sperimentate.
In primo luogo, la riforma mira a potenziare la formazione dei mediatori, in modo da valorizzare la loro professionalità e, dunque, la loro autorevolezza.
Inoltre, viene incentivata la mediazione demandata dal giudice che, nella pratica, è quella che ha avuto maggiori possibilità di successo.
Infine, insieme ad adeguati incentivi fiscali per il ricorso alle ADR, si prevede – con una norma che non esiterei a definire “di civiltà” – il beneficio del patrocinio a spese dello Stato anche per la mediazione e la negoziazione assistita, sì da consentire un più agevole ricorso a tali strumenti extragiudiziari anche a soggetti in precarie condizioni economiche.
Il secondo pilastro della riforma è una puntuale serie di modifiche al giudizio ordinario di cognizione, senza scalfire alcuna garanzia.
La riforma mira a realizzare una maggiore concentrazione delle attività processuali nell’ambito della prima udienza di comparizione delle parti e di trattazione della causa. Questo è stato un aspetto a lungo discusso e più volte ridisegnato, per giungere a un equilibrato contemperamento delle esigenze di efficienza del processo ed effettività dei diritti di difesa delle parti.
Il sistema attuale andava corretto in quanto svilisce la funzione della prima udienza e disincentiva l’attenta preparazione dei fascicoli sia per le parti sia per il giudice.
Sotto altro profilo, sono stati introdotti dei meccanismi di filtro, sia per il giudizio di primo grado sia per quello di appello, che consentiranno di definire immediatamente le cause che risultino fondate ovvero manifestamente infondate.
Tra le innovazioni introdotte dalla riforma sottolineo, per importanza, un istituto del tutto nuovo per l’ordinamento italiano, denominato «rinvio pregiudiziale in Cassazione» e ispirato ad esperienze di successo come quella francese o quella della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Attraverso questo meccanismo, si offre al giudice del merito la possibilità di sospendere il giudizio per richiedere alla Corte di cassazione un chiarimento interpretativo su un punto controverso di diritto. Oggi la Cassazione interviene solo alla fine e i suoi interventi interpretativi – nomofilattici, come diciamo in gergo giuridico – possono provocare la necessità di ripetere i processi basati su un diverso orientamento, con grande dispendio di tempo e di energie. L’istituto del rinvio pregiudiziale valorizza invece il ruolo “nomofilattico” della Corte di cassazione, facilita l’uniformità dell’interpretazione giuridica e quindi la certezza del diritto, con un importante effetto deflattivo. Attivando precocemente il rinvio pregiudiziale, si previene infatti la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali.
5.3 Riforma insolvenza
All’attuale emergenza provocata dalla pandemia è legato un altro intervento normativo che si è reso indispensabile: la riforma delle norme sull’«insolvenza» delle imprese.
L’obiettivo è quello di offrire nuovi e più efficaci strumenti agli imprenditori per sanare quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l’esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili.
La conservazione dell’impresa – intesa come valore produttivo e, dunque, come centro che crea non solo utili, ma anche posti di lavoro e ricchezza per il Paese – è stata l’elemento ispiratore del decreto legge 24 agosto 2021, n. 118 che ha operato su due direttrici: l’introduzione di un nuovo strumento di ausilio alle imprese in difficoltà, di tipo negoziale e stragiudiziale, e la modifica della legge fallimentare con l’anticipazione di alcune disposizioni del codice della crisi ritenute utili ad affrontare la crisi economica in atto.
Il cuore della nuova normativa dell’insolvency è la «composizione negoziata della crisi». Si tratta di un percorso volontario, attraverso il quale l’imprenditore, lontano dalle aule giudiziarie, in assoluta riservatezza, si rivolge a un esperto, terzo e imparziale.
L’esperto è una nuova figura professionale, in grado, di favorire le trattative, di aiutare l’imprenditore di ogni dimensione a superare la crisi e di assicurare la continuità dell’impresa, a beneficio di tutti: dello stesso imprenditore, dei suoi creditori, come dei lavoratori.
Sotto altro profilo, sono stati introdotti sistemi di allerta, sia interni sia esterni all’azienda, demandati a creditori pubblici qualificati, affinché l’imprenditore in crisi possa per tempo avvalersi di questo strumento.
Questo processo riformatore troverà conclusione nel corso del 2022, con l’entrata in vigore del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza,
opportunamente modificato attraverso il completo recepimento della direttiva UE 1023/2019 sulle ristrutturazioni.
In prospettiva. occorrerà modificare il sistema dei reati fallimentari, a cui sta già lavorando una Commissione di esperti insediata presso il Ministero.
5.4 Minorile-famiglia
Troppi i casi di violenza sulle donne, troppi i femminicidi, troppe le violenze sui bambini, troppi i drammi che originano in ambito domestico di cui abbiamo notizia quotidianamente. “Una vera barbarie”, ha giustamente detto qualcuno di voi.
Il contenzioso nell’ambito delle relazioni familiari sta crescendo e si fa sempre più complesso: cause di separazione si intrecciano a denunce di violenza domestica, specie nei confronti delle donne, o ad azioni del giudice a protezione dei minori. Troppo spesso un insufficiente coordinamento tra le autorità procedenti – tribunale per i minorenni, tribunale ordinario civile, giudice penale, giudice tutelare – rende inefficace l’intervento di tutti. E riduce la possibilità di intuire e prevenire conseguenze anche fatali. Di qui l’esigenza di intervenire con una profonda riforma delle procedure e dell’organizzazione giudiziaria, innanzitutto per incrementare le garanzie processuali dei soggetti fragili e allo stesso per tutelare l’operato dei giudici minorili, su cui troppo spesso sono ricadute le carenze complessive del sistema.
Senza entrare nei vari aspetti di questo importante capitolo della riforma, sia sufficiente qui ricordare che nella legge delega 206 del 2021 è stato disegnato un rito unificato, al posto di una molteplicità di procedimenti tra loro eterogenei, spesso causa di incertezze, e sono state meglio precisate le necessarie forme di coordinamento tra autorità giudiziarie, con un’attenzione speciale per i casi sospetti di violenza domestica. L’impegno collettivo contro la violenza di genere va sviluppato in tutte le strade possibili ed è sempre e soprattutto impegno a prevenire i reati: in questo senso deve essere ricordato il disegno di legge
recentemente approvato dal Consiglio dei ministri volto a rafforzare gli strumenti di prevenzione, a completamento di quelli già previsti nel Codice Rosso.
Tornando al diritto di famiglia e dei minori, si aggiunga che con una delega di più ampio respiro – da attuarsi entro il 31 dicembre del 2024 – si è prevista la fondamentale innovazione dell’istituzione di un unico organo giudiziario, il «Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie», articolato in Sezioni circondariali e in Sezioni distrettuali, che andrà ad accorpare tutte le competenze oggi ripartite tra Tribunali ordinari (ivi compresi i Giudici tutelari) e Tribunali per i minorenni, facendo tesoro della grande esperienza dei giudici minorili e valorizzandone ancor di più la specializzazione in un nuovo e più razionale contesto ordinamentale. In sintesi, si tratta di una riforma che, eliminando ripetizioni, sovrapposizioni, discrasie nell’azione delle varie autorità giudiziarie oggi competenti, riduce il contenzioso e incrementa le tutele per minorenni e famiglie, nelle sue varie accezioni.
5.5 Le riforme in fase di elaborazione
Delega penale, delega civile, minori e diritto di famiglia, insolvenza: sul piano delle riforme tanto lavoro è stato fatto; molto altro lavoro ci attende.
Le più importanti riforme normative sono state approvate in forma di legge delega e dunque richiedono di essere attuate attraverso l’adozione dei decreti legislativi delegati, entro la fine del 2022. Questo stabiliscono gli impegni del PNRR. Tuttavia, conto di poter sottoporre alle Camere gli schemi dei decreti legislativi di attuazione, per i pareri necessari, molto prima della scadenza. Cinque gruppi per il penale e sette per il civile sono già alacremente al lavoro per la loro elaborazione e redazione.
Sappiamo bene che all’appello manca ancora un altro fondamentale e atteso capitolo: la riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM, che il Presidente della Repubblica e alcune forze politiche hanno ancora di recente sollecitato. Il disegno di legge delega è già
incardinato alla Camera su iniziativa del precedente Governo, e – come abbiamo fatto per tutte le altre riforme – intendiamo presentare emendamenti governativi. Nel corso dell’autunno, dopo l’approvazione della delega penale e quella della delega civile, abbiamo avuto più occasioni di confronto con i responsabili giustizia delle varie forze politiche – e abbiamo avuto più interlocuzioni con ANM, CSM e avvocatura – per addivenire a proposte di emendamenti da presentare alla Camera, che sono oggi all’attenzione del Governo.
Gli emendamenti intervengono su vari aspetti del disegno di legge all’esame della Camera e riguardano, tra l’altro: il sistema elettorale, la composizione e il funzionamento del CSM; il conferimento degli incarichi direttivi, le valutazioni di professionalità, il collocamento fuori ruolo, il concorso per l’accesso in magistratura e il rapporto tra magistrato e cariche elettive.
Sono certa che nelle prossime settimane potremo progredire nella scrittura anche di questo atteso capitolo di riforma, che il PNRR ci impegna ad approvare entro il 2022. La Camera ha già calendarizzato la discussione in aula e quella scadenza dovrà essere rispettata. Per parte mia continuerò, come ho fatto nei mesi scorsi e come ben sanno tutti coloro con cui ho avuto interlocuzioni sul tema, a dare la mia massima disponibilità per accelerare il corso di questa riforma e per sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi del Governo.
Entro il 2022 dovremo portare a termine anche la riforma della giustizia tributaria, a cui stiamo lavorando insieme al Mef.
6 Parte terza: ordinamento penitenziario e attività internazionale
6.1 Penitenziario
Quanto al carcere, come ho avuto già modo di osservare, la pandemia ha fatto da detonatore di questioni irrisolte da lungo tempo. Questi anni sono stati durissimi. Le tensioni, le paure, le incertezze, l’isolamento che tutti abbiamo sperimentato erano e sono amplificati dentro le mura del carcere. Per tutti: per chi lavora in carcere e per chi in carcere sconta la sua pena.
Se vogliamo farci carico fino in fondo dei mali del carcere – in primo luogo perché non si ripetano mai più episodi di violenza, ma più ampiamente perché la pena possa davvero conseguire la sua finalità, come prevista dalla Costituzione – occorre concepire e realizzare una strategia che operi su più livelli: gli improcrastinabili investimenti sulle strutture penitenziarie, un’accelerazione delle assunzioni del personale, una più ricca offerta formativa per il personale in servizio e la diffusione dell’uso delle tecnologie, tanto per le esigenze della sicurezza, quanto per quelle del “trattamento” dei detenuti.
7 Osservazioni conclusive
Permettetemi di concludere con qualche osservazione proprio su questo capitolo della giustizia riparativa che di certo è il più innovativo per il nostro sistema.
La giustizia riparativa non è uno “strumento di clemenza”.
Né tanto meno esprime un “pensiero debole” in materia penale.
Al contrario: è uno strumento molto esigente che chiede al trasgressore di assumersi tutta la sua responsabilità di fronte alla vittima e di fronte alla comunità, attraverso incontri liberamente concordati, con l’aiuto di un terzo che favorisce il riconoscimento della verità dell’accaduto.
Permettetemi di rubarvi ancora un minuto per un piccolo esempio che ha riguardato la comunità di Sarno, cittadina del salernitano, che ha vissuto un importante percorso di giustizia riparativa, che voglio citare tra i tanti già esistenti. L’incendio del bosco vicino alla cittadina aveva messo in grave pericolo gli abitanti. Rabbia e paura hanno attraversato la comunità alla scoperta che all’origine del rogo c’era un gesto sconsiderato di un loro concittadino. Uno dei gravi e numerosi incendi dolosi che ogni estate depauperano il nostro territorio
e mettono in pericolo la popolazione. Il colpevole ha scontato la sua pena, ma all’uscita dal carcere come tornare in quella comunità? Un percorso di mediazione ha portato l’autore del reato e la sua famiglia prima ad incontrare l’amministrazione comunale, poi l’intera collettività. Incontri in cui gli abitanti hanno raccontato il loro vissuto, ma hanno anche ascoltato le scuse, cariche di vergogna, di chi aveva provocato quel drammatico evento. Quell’uomo ha contribuito a ricostruire il bosco distrutto e con questo gesto ha impresso un nuovo corso alla sua vita, riaccolto nella sua comunità.
Con la giustizia riparativa l’ordinamento si apre alla possibilità di un sistema giudiziario in grado di domare la rabbia della violenza e di ricostruire legami civici tra i cittadini. E più in generale, la giustizia riparativa contribuisce a coltivare una cultura della ricomposizione dei conflitti, della ricostruzione dei legami feriti, della ricerca dei punti di possibile reciproca comprensione, sulla scorta di esperienze straordinarie che la storia ci ha consegnato – come quella della Commissione verità e riconciliazione di Nelson Mandela e Desmond Tutu che ha posto fine all’era dell’Apartheid in sud-Africa – e sulla scorta delle numerose feconde sperimentazioni che il nostro Paese già conosce.
Questa è la concezione della giustizia che mi sta a cuore e che ritroverete in filigrana in tutti gli interventi di riforma che qui ho in sintesi ripercorso. Una giustizia che ricuce e ripara; che non si nutre di odio, che non cede alla reazione vendicativa, ma che vive innanzitutto di ricerca di verità.
Questa è la giustizia su cui sono stata chiamata a riflettere proprio nel luogo della massima ingiustizia che la nostra storia abbia conosciuto, quel binario 21 della stazione centrale di Milano da cui partivano i treni per Auschwitz.
In una delle giornate più intense vissute da Ministro, sono stata invitata dalla senatrice a vita, Liliana Segre, e da lei accompagnata fino a quei vagoni da cui bambina partì, insieme al padre e a migliaia di altri ebrei, verso “l’ignota destinazione” del campo di concentramento. Quelle atrocità di cui oggi tutto il mondo si vergogna – e che tra qualche giorno ricorderemo nel giorno internazionale della memoria – sono state alimentate dall’indifferenza, dalle piccole e grandi discriminazioni, dai discorsi d’odio, dall’idea dell’altro come nemico.
Coltivare una idea della giustizia che sappia ricomporre i conflitti e preservare i legami personali e sociali, che sappia unire più che dividere; che tuteli i più fragili e tenda sempre all’interesse comune è quello che ho inteso perseguire in quest’anno (quasi) di servizio al Ministero della Giustizia. Nella convinzione che questa è la più grande urgenza del nostro tempo e che questo è lo spirito che ci trasmette la nostra Costituzione.
Il primo e più grave tra tutti i problemi continua ad essere il sovraffollamento: ad oggi su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114%. È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assi più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero.
Con l’attuazione della legge delega in materia penale si svilupperanno le forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi. E questo darà sollievo anche alle troppo congestionate strutture penitenziarie. Può essere interessante sottolineare che già oggi sono più numerosi coloro che scontano la pena – in vario modo – fuori da un carcere: oltre 69mila a fronte di circa 54mila detenuti. Queste 69.140 persone per l’esattezza al 31 dicembre 2021 sono in carico agli uffici della esecuzione penale esterna, UEPE; aggiungendo i procedimenti tuttora pendenti, diventano oltre 93mila i fascicoli in corso presso questi uffici, con una media di procedimenti per funzionario pari a 105 Si compone infatti di solo 1.211 unità il personale per l’esecuzione penale esterna per adulti
È evidente la necessità di potenziare questo settore e le forze politiche hanno avuto la sensibilità di sottolinearlo in un ordine del giorno, approvato a margine della legge di bilancio, impegnando il Governo ad incrementare il personale dedicato all’esecuzione penale esterna.
Naturalmente occorre fare molto anche per le strutture edilizie.
Alcune non sono degne del nostro Paese e della nostra storia. Venerdì scorso, sono stata al carcere di Sollicciano a Firenze e ho potuto vedere di persona le condizioni indecorose di questo, come di altri istituti, nonostante la manutenzione straordinaria in atto. Indecoroso e avvilente per tutti. E non a caso, sono tantissimi gli episodi di autolesionismo, mentre questo 2022 registra già drammaticamente cinque suicidi. Vivere in un ambiente degradato di sicuro non aiuta i detenuti nel delicato percorso di risocializzazione e di certo rende più gravoso il già impegnativo lavoro di chi ogni mattina varca i cancelli del carcere per svolgere il suo lavoro.
Il tema degli spazi richiede anzitutto interventi finalizzati a garantire le essenziali condizioni di decoro e igiene, ma implica anche un ripensamento dei luoghi, in modo che essi non siano solo “contenitori stipati di uomini”, ma ambienti densi di proposte. Attività, cultura, e soprattutto lavoro. Solo così si assolve appieno al valore costituzionale della pena, che non può essere un tempo solo di attesa (del fine pena), ma di ricostruzione. E in questa prospettiva – mi piace ricordare – si sono mossi i lavori della Commissione sull’architettura
penitenziaria che al mio arrivo al Ministero stava terminando il suo compito, con fecondi suggerimenti.
In quest’ottica, nell’ambito dei fondi complementari al PNRR, è stata prevista la realizzazione di otto nuovi padiglioni. Si tratta di ampliamenti di istituti già esistenti, che riguardano tanto i posti disponibili – le camere – quanto gli spazi trattamentali: questo è un aspetto su cui abbiamo corretto precedenti progetti. Nuove carceri, nuovi spazi, non può significare solo nuovi posti letto.
Oltre alle risorse del PNRR, per il triennio 2021-2023, abbiamo anche previsto circa 381 milioni per le indispensabili ristrutturazioni e l’ampliamento degli spazi.
Da mesi, mi sto adoperando molto – insieme al Ministro della Salute e al Ministro per gli affari regionali e agli altri attori istituzionali – anche sull’urgente tema della salute mentale in carcere. È un dramma enorme, ma mi fa piacere segnalare che è in costante calo il numero dei detenuti in attesa di entrare nelle REMS: erano 98 nell’ottobre 2020, divenuti 35 nella stessa data del 2021.
Carenze di spazi, carenze di personale. Insieme al DAP, stiamo da tempo lavorando anche per invertire la tendenza alla grave diminuzione del personale che si è verificata nel corso degli anni. Siamo riusciti a far ripartire i concorsi, che si erano arrestati per le limitazioni dovute all’emergenza pandemica e che, proprio in queste settimane, si stanno perfezionando.
A breve prenderanno servizio complessivamente 1.650 allievi agenti; altri 1.479 arriveranno dal concorso bandito lo scorso ottobre e si prevede di bandirne un altro per circa 2.000 posti quest’anno. E rimando alla relazione depositata, per un quadro completo delle cifre che riguardano tutte le figure professionali.
Occorre anche investire di più nella formazione, per tutto il personale e, in particolare, per quello della Polizia penitenziaria. Sono gli stessi agenti a chiederlo, come giustamente mi ripetono in continuazione i sindacati.
La Polizia penitenziaria svolge un compito complesso e delicatissimo, ancora troppo poco conosciuto. Oltre all’esercizio della tradizionale funzione della vigilanza e della custodia, la Polizia penitenziaria è quotidianamente accanto al detenuto nel percorso rieducativo, come vuole la nostra Costituzione. Vigilare e accompagnare. Occorrono fermezza e sensibilità umana e, soprattutto, altissima professionalità per svolgere un compito tanto affascinante quanto difficile. Il lavoro in carcere non può essere lasciato all’improvvisazione o alle doti personali.
In questi mesi, ho raccolto molte testimonianze che raccontano quanto sia stata decisiva la presenza di un agente per segnare una svolta nella vita di un detenuto: basterebbe leggere la storia di un ragazzo della periferia milanese raccontata nel libro Ero un bullo, un giovane che, a partire da un passato criminale, tra carcere minorile e rieducazione in comunità, è arrivato a laurearsi e a diventare educatore in quella stessa comunità che lo aveva ospitato e accompagnato. Una pagina importante di quella storia è stata scritta dall’agente di polizia penitenziaria che lo faceva lavorare. Una storia di speranza – e, credetemi, non è l’unica! Una storia che ci dice che i nostri costituenti non erano dei sognatori.
Lo scorso 17 dicembre, la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, da me istituita per proporre soluzioni che possano contribuire a migliorare la qualità della vita nell’esecuzione penale, ha concluso i suoi lavori e rassegnato molte proposte per il miglioramento concreto della “quotidianità penitenziaria”, con un focus particolare sulla gestione della sicurezza, sull’impiego delle tecnologie, sulla tutela della salute, sul lavoro e sulla formazione professionale dei detenuti, e sulla formazione del personale.
Grandi potenzialità ci sono offerte dalle nuove tecnologie: video sorveglianza, bodycam, sistemi anti-droni, già esistenti in alcuni istituti, colloqui a distanza, lezioni e conferenze online, ma anche totem per segnalare esigenze dei detenuti, archiviando la famosa “domandina”, simbolo di una vetusta concezione del carcere. E così anche nuove forme per le prenotazioni dei colloqui dei familiari e soprattutto telemedicina e fascicolo sanitario elettronico: grazie alla disponibilità del Ministro per la transizione tecnologica si stanno progettando molti interventi che possono anche diventare altrettante occasioni di lavoro per i detenuti.
6.2 L’attività internazionale
In questi mesi, molto abbiamo lavorato anche sulla, invero poco conosciuta, dimensione internazionale e sovranazionale dell’attività del Ministero della giustizia, fondamentale per far crescere e consolidare gli standard di tutela dei diritti fondamentali e nel contempo coltivare una cooperazione giudiziaria internazionale rafforzata, indispensabile strumento contro gravi fenomeni criminali di dimensione transnazionale.
In questa cornice internazionale, vorrei richiamare la collaborazione con l’UNODC per i lavori di pubblica utilità dei detenuti in Messico e altri Paesi del centro America.
Vorrei ricordare anche gli accordi bilaterali sottoscritti con alcuni Stati – come l’Albania – per permettere ai detenuti, laddove ci siano le condizioni, di scontare la pena nel loro Paese di origine.
Mi preme qui ricordare la decisione del governo francese di dare il via libera – dopo anni di attesa – all’iter di estradizione per sette persone condannate in via definitiva per gravissimi reati commessi negli anni di
piombo, che avevano trovato rifugio Oltralpe. La Francia ha così per la prima volta accolto le richieste dell’Italia e rimosso ogni ostacolo al giusto corso della giustizia su fatti che rappresentano una ferita profonda nella storia della Repubblica. In quell’occasione, ebbi modo di rivolgere un pensiero, che oggi voglio rinnovare, a tutte le vittime degli anni di piombo e ai loro familiari “rimasti per così tanti anni in attesa di risposte”.
Nel quadro degli intensi rapporti con gli Stati Uniti, si inseriscono poi i più recenti sforzi per trovare una soluzione adeguata al caso del nostro connazionale Enrico Forti, culminati con una missione a Washington nel corso della quale ho fornito all’Attorney General i chiarimenti richiesti sul rispetto da parte italiana della Convenzione di Strasburgo del 1983. Ho potuto così reiterare di persona, nella scia di quanto già fatto dal precedente governo, la richiesta di poter trasferire il nostro concittadino in Italia per l’esecuzione della pena vicino all’anziana madre a cui ho raccontato personalmente gli sviluppi della missione.
Naturalmente ci stiamo adoperando per assicurare alle nostre autorità giudiziarie ogni supporto perché possa svolgersi il processo sul caso Regeni.
Un legame ventennale – in particolar modo con la provincia di Herat – ha portato poi anche il Ministero della Giustizia ad intervenire, accanto agli altri Dicasteri competenti, nell’ambito della crisi afghana. Non potevamo e non volevamo dimenticarci soprattutto di quei magistrati e avvocati che così tanto avevano collaborato con le autorità italiane, durante la nostra presenza in Afghanistan. E ci siamo adoperati per far avere protezione internazionale a figure particolarmente a rischio, con l’avvento del nuovo regime.
Tra queste, l’ex Procuratore generale della Provincia di Herat, Mareya Bashir: una figura di primo piano nella difesa dei diritti delle donne e nella costruzione di uno stato di diritto nella sua terra, in collaborazione con il nostro paese. A lei il Presidente della Repubblica ha conferito la cittadinanza italiana per meriti speciali.
L’impegno del Ministero della Giustizia a favore del popolo afghano continuerà con iniziative di monitoraggio del rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto e con azioni intese a rafforzare la lotta al traffico di stupefacenti, congiuntamente ai partner europei, in seno al Consiglio d’Europa e in ambito ONU.
Nel quadro delle iniziative assunte a livello sovranazionale vorrei ricordare la Conferenza del Ministri della giustizia dei Paesi membri del Consiglio d’Europa su Criminalità e giustizia penale. Il ruolo della giustizia riparativa in Europa, che si è tenuta il 13 e 14 dicembre scorsi a Venezia, nella splendida cornice della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista.
La Conferenza è stata il primo evento di livello ministeriale della presidenza italiana del Consiglio d’Europa e vi hanno preso parte, insieme al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, 40 delegazioni.
Questa importante iniziativa ha portato alla approvazione di una Dichiarazione comune – la Dichiarazione di Venezia sulla giustizia riparativa – che nei giorni scorsi è stata adottata dai massimi organi del Consiglio d’Europa.
Con la Dichiarazione di Venezia, tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa si sono impegnati a sviluppare un nuovo paradigma della giustizia penale, complementare a quella tradizionale, che muove dall’esigenza di coinvolgere attivamente, in percorsi guidati da mediatori professionisti, il reo e la vittima, ma anche la comunità di riferimento, con l’obiettivo fondamentale di riparare e restaurare i legami sociali lacerati dal reato, di responsabilizzare l’autore dell’offesa, ma anche quello di porre le basi per una futura e più consapevole ripresa delle relazioni nei contesti di appartenenza.
Le ricadute sono tangibili, ben chiare e ben documentate dagli studi internazionali svolti sul campo: riduzione della recidiva, alleggerimento dei procedimenti penali, nuova centralità per la vittima lasciata troppo spesso solo sullo sfondo dei procedimenti giudiziari. E troppo spesso sola con il suo dolore.
Pensare la fiducia nel diritto. Intorno a “Le legge della fiducia. Alle radici del diritto” di Tommaso Greco (Laterza, 2021)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. «Là dove abbonda la sfiducia, sovrabbonda il diritto». O no? – 2. Goodbye, Kelsen! – 3. Non sanzione, ma fiducia. Il diritto come creatore di aspettative. – 3.1. (Segue). Doveri senza sanzioni? – 4. L’esperienza della fiducia: filosofia, economia. – 5. Fratelli tutti. - 6. Conclusioni.
1. «Là dove abbonda la sfiducia, sovrabbonda il diritto». O no?
Apparentemente (l’avverbio – lo si vedrà subito – è importante), e secondo il senso comune, diritto e fiducia sono termini antitetici. O l’uno, o l’altra. Apparentemente, c’è bisogno di diritto laddove fiducia non c’è, e viceversa. Esistono le complesse regole del diritto contrattuale, le forme scritte, le firme autenticate, le date certe, i notai, perché non ci basta con-fidare nell’altrui spontaneo adempimento: non ci si fida della semplice promessa. Esiste il diritto penale, con il suo apparato sanzionatorio, perché non ci basta sperare nell’altrui buona condotta: non ci si fida che l’altro terrà il comportamento sperato spontaneamente. Di converso, le relazioni più autentiche e genuine sono quelle meno giurisdizionalizzate o quelle che si situano direttamente fuori dalle mura del diritto. Non abbiamo bisogno di regole giuridiche quando c’è in gioco l’amicizia o l’amore. Una ben nota espressione definiva tradizionalmente la famiglia «un’isola che il mare del diritto può solo lambire»[1]. Non chiediamo, normalmente, firme, garanzie, caparre, testimoni, etc. quando interagiamo con i nostri cari, con i nostri affetti; semplicemente con-fidiamo in loro. Là dove abbonda la sfiducia, sovrabbonda il diritto – potremmo dire, ricalcando la struttura del celebre verso neotestamentario[2].
Il senso comune esprime pertanto l’idea di un diritto corruttore. Il diritto sarebbe un male (necessario, ma comunque male) che corrode ciò che tocca, che s-personalizza e allontana. Il diritto servirebbe tra sconosciuti, dove ci sono buone, anzi ottime, ragioni per dif-fidare, guardare con sospetto, procedere con circospezione (la cautela è il sintomo più evidente della mancanza di fiducia) o quando gli antichi buoni rapporti sono oramai irrimediabilmente guastati (“ci parliamo più solo tramite i nostri avvocati”): ecco il posto del diritto. Male necessario – dicevo - perché sembrerebbe radicato nella natura umana, la quale, se non proprio irrimediabilmente cattiva e malvagia, sarebbe egoisticamente orientata al perseguimento del proprio interesse a scapito di quello altrui, sarebbe per natura portata ad approfittarsi delle situazioni e delle debolezze dei nostri simili. «If men were angels, no government would be necessary», scrisse James Madison[3]; la necessità di un governo, dell’autorità (e quindi del diritto) deriverebbe esattamente dal nostro essere moralmente imperfetti, nemici e ostili gli uni con gli altri. Molti filosofi del diritto, a questo proposito, in un famoso esperimento mentale, si sono chiesti che ruolo avrebbe il diritto, e soprattutto la coercizione che lo accompagna, in una società formata da sole creature angeliche o da santi[4]. Sono le storture umane che impediscono che i rapporti siano basati solo sul fidarsi l’uno dell’altro, come in un Eden, e richiedono diritto, e quindi forza, violenza. Nelle società rette dal diritto, la coercizione e la minaccia avrebbero per intero sostituito la fiducia.
Ma le cose stanno realmente così? Davvero diritto e fiducia sono termini mutualmente esclusivi, e il primo non ha nulla a che vedere con la seconda? È a questa capitale domanda che Tommaso Greco si propone di rispondere nel suo recente libro “La legge della fiducia. Alle radici del diritto” (Laterza, 2021)[5]. La risposta avanzata è vigorosamente negativa, e non potremmo essere più d’accordo. Le argomentazioni contenute nel volume sono frecce che colpiscono al cuore inveterate ricostruzioni del fenomeno giuridico – spesso, come accennato, fatte proprie anche dal senso comune - che si basano sul “paradigma sfiduciario” (o “machiavellismo giuridico”, come viene chiamato nel libro), che rappresenta una vera e propria teoria antropologica negativa e cinicamente pessimistica sull’uomo, ritenuto un essere fondamentalmente, e forse suo malgrado, amorale, egoista, incapace di altruismo se non quando questo si allinea al suo proprio vantaggio, e pertanto bisognoso di esser guidato solo dal bastone. O così, almeno, andrebbero considerati gli uomini per cautela. Tale paradigma – che l’Autore esamina approfonditamente e critica - nel corso del tempo ha convinto pensatori eterogenei quali Machiavelli, ne Il principe, Hobbes, nel Leviatano, con il suo homo lupus, Herman Melville, nel romanzo Billy Budd, il von Jhering de Lo scopo del diritto, Oliver Wendell Holmes Jr. (il padre del Realismo Giuridico Americano), con il suo sguardo sul diritto del bad man, dell’uomo cattivo, e molti altri nomi illustri [6]. Parafrasando Ricoeur, possiamo chiamare questi i “Maestri della sfiducia”[7]. Ebbene, tutto ciò ha finito per fornire una potente giustificazione, anche politica, alla sfiducia.
Tommaso Greco, invece, dimostra che lungi dal rappresentare l’ovvio contrario del diritto, la fiducia è anzi necessaria e presupposta al suo corretto operare. Se c’è fiducia – forse - può anche non esserci diritto, ma non è vero l’opposto: se c’è diritto, c’è anche necessariamente fiducia. Il diritto esige fiducia – fiducia innanzitutto che quest’ultimo sia rispettato. «Il diritto - leggiamo nell’Introduzione – ci chiede di fidarci l’uno dell’altro, e lo fa nel momento in cui stabilisce quali sono i diritti e i doveri reciproci all’interno di una qualsiasi relazione da esso regolata»[8]. Senza fiducia, tutto il diritto è impotente: per quanto ve ne sia, per quanto forte e minaccioso sia, non raggiungerà mai il suo fine.
L’A. non si abbandona, in questo, a un ingenuo ottimismo. La tesi del libro non è affatto quella per la quale il diritto potrebbe reggersi soltanto sulla fiducia o che l’ordine sociale sia interamente pensabile soltanto con le categorie di un modello solamente fiduciario, e pertanto che dobbiamo lasciarci del tutto alle spalle, dimenticarci la dimensione coercitiva e violenta del diritto. Vi è, infatti, la piena consapevolezza che qualsiasi sistema, già solo minimamente complesso, necessita di meccanismi sanzionatori per far fronte al sopruso, alla prevaricazione, alla prepotenza del forte contro il debole. Ma questo aspetto, così tanto, anzi troppo, rimarcato, è ben lungi dall’esaurire tutta la complessità del fenomeno giuridico. Non bisogna dimenticare che la vita del diritto si svolge in grandissima parte fuori dalla minaccia, fuori dall’uso della forza. Essa si svolge in quella immensa rete – più solida di quanto siamo portati a pensare - di aspettative (autenticamente giuridiche) reciprocamente soddisfatte che chiamiamo società.
La fiducia così intesa opera e agisce, quindi, dal di dentro. Non è un’area esterna che ne delimita i confini, che de-finisce l’àmbito propriamente giuridico da quello etico, amicale, personale. La fiducia è, invece, per così dire, il carburante stesso della giuridicità[9]. In questo, metodologicamente parlando, l’analisi proposta non è (per forza, o solo) normativa; non ci dice tanto che il diritto deve essere fiducia, ma che il diritto è, e non può non essere, fiducia. Senza fiducia il diritto è destinato a dissolversi internamente in quanto diritto.
2. Goodbye, Kelsen!
Vale la pena soffermarsi su questo punto assai profondo relativo all’esser dentro della fiducia, al suo situarsi all’interno del diritto stesso, formandone parte costitutiva necessaria. In che senso preciso questo può dirsi? Il libro affronta questo snodo nei Cap. III e IV, che costituiscono passaggi centrali nell’architettura delle argomentazioni.
Partiamo da un interrogativo fondante. Che struttura ha il diritto? La risposta più semplice e immediata che corre alla mente è che il diritto opera essenzialmente comandando dall’alto e dando a questi comandi la cogenza derivante dalla sanzione. Il comportamento A è dovuto (solo) perché esiste la sanzione B, e se A non verrà tenuto, vi sarà applicazione di B, da parte dei funzionari statali preposti, proprio così come il diritto, la legge, vuole e prevede.
Con la nostra copia de “La dottrina pura del diritto” di Kelsen tra le mani, leggiamo:
“[L]a dottrina pura del diritto (…) sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello stato, cioè la pena e l’esecuzione forzata civile e amministrativa e che, solo per questo, il fatto condizionante viene qualificato come illecito e quello condizionato come conseguenza dell’illecito. Ciò che fa sì che un determinato comportamento umano valga come illecito, come delitto nel più ampio senso della parola, non è affatto una qualità immanente (…), ma è solo ed esclusivamente il fatto che nella proposizione giuridica tale comportamento sia posto come condizione di una conseguenza specifica e che l’ordinamento giuridico positivo reagisca a questo comportamento con un atto coattivo»[10]. (Enfasi nostra).
Nessun obbligo senza sanzione (come si nota: non necessariamente penale), quindi, per Kelsen. Al più, senza minaccia, ci troviamo dinnanzi a esortazioni, raccomandazioni, desideri; ma, privi di qualsivoglia mordente come sono, si potrebbero anche quasi lasciar da parte, ignorare. Non c’è posto nell’universo kelseniano di un diritto soft; questo è sempre hard.
Ora, questa costruzione basata interamente sull’intimidazione – fatta propria non solo da Kelsen, ma anche, ad es., precedentemente, in Inghilterra da John Austin, nella sua command theory of law o, per certi aspetti, da Rudolf von Jhering - è, nella migliore delle ipotesi, incompleta. A parte il fatto che le norme giuridiche, nel loro complesso, fanno anche molte altre cose, oltre a comandare o vietare: permettono e autorizzano, costituiscono, istituiscono, definiscono, orientano (si pensi ai princìpi), e via dicendo. A parte tutto ciò, la definizione puramente imperativistica e coercitiva del diritto, quella che illumina il solo aspetto “verticale”, che dall’autorità va al cittadino – quella che ci porta a domandare “e se non lo faccio, cosa mi capita?”, per intenderci - a tacer d’altro, lascia in ombra il fatto concreto che nessun sistema giuridico che miri ad essere effettivo può reggersi solo sulle spalle della sanzione, e quindi del timore e della paura[11].
3. Non sanzione, ma fiducia. Il diritto come creatore di aspettative
Per comprendere questo punto occorre domandarsi allora non solo quale sia la struttura del diritto (come agisce) ma anche la funzione (cioè in vista di quale fine operi), che è quella di creare aspettative di conformità, cioè “fiduciose attese” nel comportamento altrui. Questa è quella che viene detta dimensione orizzontale della giuridicità – spesso tralasciata nelle più classiche speculazioni giusfilosofiche, e sulla quale il libro insiste, invece, giustamente molto, così come altri lavori precedenti dello stesso A.[12] – e che si esprime non nei confronti non dell’autorità, ma del prossimo.
Il diritto dice che chi non adempie un contratto subirà le conseguenze giuridiche che la legge fa dipendere dall’inadempimento. Mi aspetto, pertanto, che la controparte adempierà. Mi fido. (E viceversa: è bene che io tenga fede al contratto, innanzitutto, perché l’altro contraente si aspetta così; si fida). Il diritto ci dice che chi attraversa un incrocio con l’auto nonostante il semaforo sia rosso, subirà la sanzione prevista. Mi aspetto, pertanto, che il guidatore si fermerà. Mi fido. (E viceversa: io mi fermerò all’incrocio perché, innanzitutto, il pedone si aspetta così; si fida). «Per quanto lo si voglia negare, non possiamo non attenderci dagli altri, almeno in un primo momento, che si comportino secondo quanto è loro prescritto. Nella normalità della vita sociale (…) abbiamo delle aspettative, e le aspettative implicano una qualche fiducia nel fatto che verranno soddisfatte»[13]. E ancora: «Quando si sia varcata la soglia che separa una relazione sociale da una relazione giuridica (…) non si entra affatto immediatamente nella minacciosa dimensione del diritto verticale e coattivo. Il nostro primo pensiero è che si debba adempiere – e ci aspettiamo che si adempia – alle reciproche obbligazioni».[14]
Possiamo dire che un ordine giuridico nel quale tutte le norme sono sistematicamente violate e le sanzioni altrettanto sistematicamente applicate è sì un ordine dove il diritto viene formalmente rispettato (la sanzione-conseguenza segue sempre correttamente all’illecito-causa: tutto avviene secondo quanto previsto), ma non è un ordine funzionale al vivere comune. È solo nelle maglie delle aspettative reciprocamente soddisfatte che si danno le condizioni per la prosperità umana, il “fiorire dell’uomo” (lo human flourishing, come dicono i teorici anglosassoni), inteso come il fine ultimo di ogni diritto.
Si tratta allora di de-enfatizzare il momento della conseguenza e di spostare l’accento sul precetto, e di porsi quindi il problema dei destinatari delle norme: non solo, o comunque non prioritariamente, i funzionari chiamati ad applicare la sanzione (i poliziotti, i giudici, gli ufficiali giudiziari) - come Kelsen riteneva - ma innanzitutto noi stessi, il prossimo. La disposizione che punisce l’omicidio è violata sia nel caso in cui la polizia o i giudici non applichino la sanzione quando questa è dovuta sia quando – e anzi, prioritariamente! - l’omicidio viene commesso.
Il diritto, quindi, agisce sì (anche) tramite sanzioni, ma possiamo tranquillamente affermare che l’applicazione del castigo non è ciò che il diritto innanzitutto vuole. È anzi vero il contrario. Dal punto di vista dell’effettività, ciò che il diritto vuole è piuttosto che la sanzione non sia applicata, e che il comportamento primario venga, innanzitutto, tenuto, spontaneamente. La sanzione risulta essere quindi un dopo, il comportamento prescritto un prima. È quest’ultimo che ha la precedenza. In buona sostanza: non il comportamento A è dovuto perché esiste una sanzione B, ma la sanzione B esiste perché il fatto A è già dovuto. La sanzione presuppone la normatività, non la stabilisce.
Nelle parole dell’A.:
«se assumiamo il punto di vista del diritto – di un ordinamento che ha come obiettivo quello di essere concretamente seguito dai consociati – i rapporti tra obbligo e sanzione funzionano meglio se li pensiamo invertiti rispetto a quanto facciamo comunemente: se cioè pensiamo alla sanzione come ad una conseguenza della violazione di un obbligo preesistente. È proprio perché si è venuti meno ad un obbligo che si può (anzi, si deve) essere sanzionati: se non manteniamo questo ordine finiamo per “scambiare l’effetto per la causa”»[15].
L’obbligo pre-esiste quindi alla sanzione. È il capovolgimento totale del messaggio kelseniano.
Ora, se non è in virtù della sanzione che dobbiamo obbedienza al diritto, in nome di cosa, allora, la dobbiamo? Ma in nome della norma, della legge stessa! Questa la tanto semplice quanto convincente risposta. «Molto semplicemente – condensa Tommaso Greco - “un obbligo esist[e] quando esiste una norma che lo pone”»[16].
Una importantissima chiarificazione va però a questo punto fatta. Per l’A., in nessun modo la considerazione appena espressa comporta un dovere morale di ubbidire al diritto sempre e comunque, solo in virtù del suo esser diritto, purchessia. «Dal fatto che l’obbligo esista in virtù della norma (…) non discende necessariamente la conclusione che sia sempre giusto ubbidire a quella norma, mettendo in atto il comportamento che la norma richiede»[17]. E ancora: «un conto è riconoscere (…), altro conto è accettare»[18].
Anzi, sarà proprio l’insistenza sulla dimensione intrinsecamente e necessariamente relazionale del diritto - quella che guarda all’Altro nella sua prossimità - che permette a Tommaso Greco di recuperare una visuale apertamente assiologica del fenomeno giuridico, e quindi di argomentare quando è giusto disobbedire al diritto ingiusto (v. il cenno in queste Conclusioni).
3.1. (Segue). Doveri senza sanzioni?
Da quanto detto, nascono due interrogativi. Possono esistere autentici doveri giuridici sforniti di conseguenze in caso di violazione? E sarebbe immaginabile, pertanto, un intero sistema giuridico senza sanzioni?
Alla prima domanda, sulla scia delle argomentazioni del libro, possiamo dare risposta positiva; e la tecnica, sebbene eccezionale, non è sconosciuta al diritto italiano[19]. Solo un esempio tratto dal diritto processuale civile: l’art. 374 c.p.c. (rubricato “Pronuncia a sezioni unite”) al comma 3, c.p.c. stabilisce che «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Rimette, cioè deve rimettere (obbligo, dovere). La previsione, evidentemente, vuole evitare che una sezione della Corte decida un ricorso in senso contrario a quanto già stabilito, precedentemente e sulla medesima questione, dalle Sezioni Unite; il legislatore ha quindi voluto che, qualora la sezione semplice ritenga di non conformarsi al principio di diritto adottato dal più ampio collegio, si astenga dal decidere, ma investa le Sezioni Unite per una nuova pronuncia. E se ciò non accade? E se i giudici decidono ugualmente? Di sanzioni (in questo caso, processuali) non c’è ombra (cosicché la sentenza va ritenuta perfettamente valida), ma ciò non implicherebbe negare l’esistenza di un autentico dovere giuridico di rimessione.
Più difficile invece immaginare una risposta positiva alla seconda domanda, se sia cioè immaginabile un intero ordine giuridico privo di sanzioni. Come già detto al principio, esisterà infatti sempre la prevaricazione, alla quale l’ordinamento deve porre rimedio. Come l’A. stesso, d’altronde, ammette, «in mancanza di qualsiasi sanzione istituzionalizzata si rischierebbe che i forti prevalgano sui deboli e ogni possibilità di un ordinamento giuridico sarebbe seriamente compromessa (…). In questo senso (…) non si può non accogliere l’idea dell’uso della forza come momento fisiologico e non patologico né eventuale dell’esperienza giuridica”»[20].
Non si tratta perciò tanto di illustrare come tutte le acquisizioni dei “Maestri della sfiducia” siano da archiviare, se non proprio da gettare, quanto di evidenziare come le loro ricostruzioni fossero parziali e incomplete.
4. L’esperienza della fiducia: filosofia, economia
S’è detto che il diritto crea aspettative, cioè fiduciose attese, e che queste aspettative reciproche sono orizzontali: abbiamo - e contemporaneamente diamo - aspettative nei confronti del nostro prossimo (“aspettativa” è parola bellissima; spesso se ne ha paura, perché comporta inesorabilmente un’etica della responsabilità e della cura: ma il discorso qui già rischia di condurci troppo lontano). Allargando lo sguardo oltre il diritto, notiamo che l’aspettativa è costitutiva della relazione interpersonale, e quindi poi, via via, sociale e comunitaria. Non si può dire che vi è relazione dove non si sono create aspettative, e quindi fiducia.
Ora, la filosofia da sempre ci dice che l’uomo è costitutivamente relazione (è animale sociale, se vogliamo); e dato che la relazione è fiducia, ne consegue che l’esistenza quotidiana dell’uomo è essa stessa fiducia. La fiducia, per quanto frustrata, delusa, ingannata, messa alla prova, è infatti esperienza immemore dell’essere umano. Il filosofo Salvatore Natoli, che si è occupato a fondo delle implicazioni filosofiche della fiducia, ci ricorda come questa è sperimentata fin dalla nostra originaria venuta al mondo, dalla nascita, e struttura e marca il nostro divenire. Nasciamo, e non ci resta altra opzione che af-fidarci. La fiducia si situa pertanto all’origine del nostro essere-al-mondo, del nostro esser-ci, e va quindi pensata, in primo luogo, come “stato originario della condizione umana” [21]. Siamo in grado di accordarla, nel corso della nostra vita, perché, in primo luogo, ne abbiamo già fatto esperienza. Ancora: la filosofa Michela Marzano, Autrice anche lei di lavori sulla necessità individuale e sociale della fiducia, argomenta non solo che «se nessuno si fidasse di nessuno (…) non sarebbe nemmeno possibile prendere in considerazione l’idea stessa di una comunità», ma anche che, senza fiducia, «è la sopravvivenza stessa dell’individuo a essere in pericolo. Come potrei accettare di nutrirmi – si chiede - senza fidarmi del fatto che ciò che acquisto e mangio non è tossico? Come potrei uscire di casa la mattina se non fossi sicuro di ritornarci la sera?»[22].
Senza retorica alcuna, la fiducia, allora, va pensata come l’acqua nella quale siamo immersi e nuotiamo, già esistenzialmente; la sua diminuzione, o perdita, equivale a una pericolosa auto-menomazione di ciò che rende possibile il flusso della vita.
Fin qui sul piano strettamente filosofico.
C’è poi un’altra grande area dell’esperienza umana che dimostra l’assoluta centralità e il bisogno della fiducia, nel senso costitutivo del termine, ed è quella dell’economia. L’economia è, costitutivamente, fiducia; non è pensabile al di fuori di un paradigma fiduciario. Non si tratta, anche qui, come nel libro di Tommaso Greco, di argomentare un vago desiderio normativo, una speranza, un ideale (l’economia dovrebbe basarsi sulla fiducia; è bene che nell’economia ci sia più fiducia, ecc.), ma di prender atto che la natura stessa dell’economia è strutturalmente fiduciaria. Pensiamo al denaro, inteso nella sua duplice natura di mezzo di scambio e di risparmio: in quanto creazione sociale, e non naturale, si regge interamente sulla fiducia dei partecipanti. Non c’è altro sostegno all’infuori di questa. Una banconota vale ciò che vale perché è creduta valere dagli appartenenti al contesto economico di riferimento: ognuno di noi, nell’utilizzarla, confida (si fida) che tutti gli altri, a loro volta, confideranno (si fideranno) nel valore dell’oggetto-banconota, e così via. In termini più rigorosi, ontologicamente, si dice che il denaro – così come tante altre cose che formano il nostro mondo sociale - si fonda sull’intenzionalità collettiva: esiste in quanto è creduto esistere[23]. Superfluo evidenziare che con l’espressione “intenzionalità collettiva” non si intende altro che la fiducia. Senza questo carburante che alimenta il meccanismo degli scambi, privati del loro sostegno fiduciario, il crollo sarebbe velocissimo, come certi contesti di mercato, purtroppo, ben conoscono, con le conseguenze socialmente devastanti che ciò comporta.
Tutto questo è di immediata rilevanza anche per il discorso nel diritto: nell’economia come nella giuridicità, la relazione orizzontale, tra pares, conta molto di più di quella verticale.
5. Fratelli tutti
Dietro tutto ciò - dietro il riconoscimento cioè dell’essenzialità costitutiva della fiducia per il nostro stare al mondo, dell’essenzialità del piano orizzontale in qualsiasi ordine sociale - ci sta un’etica ben precisa ed esigente, questa sì normativa, agli antipodi del tanto cinico quanto fallace supposto realismo del modello sfiduciario. È un’etica che chiama al riconoscimento della fratellanza del prossimo. In questo, non è difficile scorgere, pur nella diversità di ispirazioni e fini, un orizzonte comune tra il modello fiduciario fatto proprio nel libro da Tommaso Greco e l’Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco[24]. A questo importante lavoro, peraltro, Tommaso Greco stesso si richiama brevemente in un passo del libro, dove insiste sulla fraternità (che è qualcosa di più della fratellanza), definita «misconosciuto valore rivoluzionario» (è la Cenerentola tra le sorelle Liberté, Égalité, Fraternité, o, nelle parole di Eligio Resta, la “parente povera” del progetto nascente dalla Rivoluzione illuminista[25]), ma implicitamente contenuto nello spirito della Costituzione italiana[26]. La fraternità viene in quel passaggio accostata alla solidarietà, questo sì principio autenticamente giuridico ed espressamente costituzionale (art. 2 Cost.), declinato nella sua triplice dimensione di politica, economica e sociale.
Il tema, ovviamente, non può essere svolto qui adeguatamente, ma solo accennato. Valga soltanto la considerazione che è nell’Enciclica “Fratelli tutti” che troviamo una delle più attuali dimostrazioni che l’uomo è – fenomenologicamente - persona (qualcuno, non qualcosa) tra persone; individuo, ma non atomo. L’uomo non una pura singolarità. È in quel documento che troviamo l’esplicitazione dell’antropologia per la quale l’Altro, in quanto anch’egli persona, pur nella sua irriducibile e insuperabile differenza, è non una minaccia, non un antagonista in una gara, ma un potenziale; non un concorrente, ma una occasione di continuo approfondimento e comprensione (di me stesso, soprattutto). L’etica che sta alla base dell’Enciclica non sopprime, ma anzi esalta le differenze, le quali chiedono riconoscimento in quanto tali. “Io sono l’Altro”[27]. Ora, questo riconoscimento fraterno dell’Altro implica anche la nostra corresponsabilità nei suoi confronti (come la parabola del Buon Samaritano insegna, collocata al centro delle riflessioni dell’Enciclica). E la responsabilità è l’altra faccia della fiducia: da un lato, siamo responsabili della fiducia che gli altri ci hanno accordato, dall’altro è possibile affidarci solo ove viga un senso di responsabilità.
Sono connessioni e legami concettuali complessi, che non possono se non essere qui abbozzati, ma che vale la pena pensare a fondo, nella loro unità, fino alla radice.
6. Conclusioni
Il libro di Tommaso Greco si caratterizza per ricchezza tematica (in questa nostra incompleta riflessione ne sono stati tralasciati vari aspetti, che meriterebbero approfondimento e discussione: uno su tutti, il ruolo di un “diritto per princìpi”, e non solo “di regole”, e il nesso con un modello fiduciario[28]), rigore argomentativo, e la “complessa semplicità” del linguaggio in cui è scritto (il volume si rivolge tanto al giurista esperto come al cittadino curioso). Il messaggio è chiarissimo, e torniamo ancora una volta a sottolinearlo: «dis-occultare» - questa l’efficace parola che l’A. stesso usa[29] – la dimensione orizzontale, relazionale, fraterna, solidale, collaborativa, responsabile, del diritto, e contemporaneamente distogliere lo sguardo dal suo aspetto verticale, egoista, interessato e opportunista, coercitivo, declinato in termini di obbedienza e castigo. Il messaggio è quello di pensare a una giuridicità diversa rispetto a quella dove l’unica domanda che conta è “… e se non ubbidisco, cosa mi succede?”. L’ardua gestione giuridica dell’emergenza pandemica (nella quale al diritto, meccanismo pur sempre imperfetto, si è chiesto molto, forse troppo) ha reso palese che tralasciare il carattere orizzontale delle regole, ciò che in primis ci dobbiamo gli uni agli altri in quanto comunità, non funziona[30].
Ora, non c’è dubbio che la fiducia sia anche un habitus culturale, non sempre – ahimè - adeguatamente sviluppato nel contesto italiano. Nelle pagine finali, l’A. ricorda due esempi concreti “esteri” (ma non solo), episodi tratti dal suo personale vissuto, in cui il senso di responsabilità è venuto prima della paura della sanzione, in cui cioè i soggetti hanno rispettato la tal regola giuridica a prescindere da un calcolo tra costi e benefici[31]. Lascio al lettore leggerli. A questi voglio solo aggiungere - per affinità - che quando mi trovavo in Svizzera, a Losanna, per un periodo di ricerca durante il mio dottorato, mi è capitato di stupirmi di come, nei pressi delle fermate degli autobus, vi fossero distributori aperti e incustoditi di giornali e quotidiani, dai quali i frettolosi passanti potevano attingere liberamente, salvo immettere la moneta dovuta in un apposito contenitore. Mi stupivo di come le persone, pur potendo facilmente impadronirsi del giornale gratuitamente, non lo facessero, non perché rischiassero concretamente qualcosa (non c’era l’ombra di controllori nei paraggi) ma perché non sarebbe stato giusto. L’autorità si fidava, e così i cittadini.
C’è poi ancora un ultimo punto che voglio accentuare a conclusione.
Abituarci a pensare questa dimensione orizzontale – dice infine Tommaso Greco – rammentare cioè che il nostro interlocutore è l’Altro, e che non è tanto nei confronti dello Stato che dobbiamo responsabilità, ma nei confronti del prossimo, è un buon antidoto anche contro le degenerazioni del diritto. Quando è la regola stessa del diritto a misconoscere fondamentalmente questa relazionalità costitutiva, quando è la norma stessa, non i suoi destinatari, a dimenticare la necessaria fratellanza - quando in una parola, è il diritto a essere ingiusto - allora saranno già presenti, nel corpo sociale, gli anticorpi per rilevare (sentire) dal basso l’ingiustizia e rendere la norma lettera morta. La disobbedienza civile è, in questi casi, la risposta: «[s]e un regolamento di una mensa scolastica comunale stabilisce che non si deve dar da mangiare al bambino la cui famiglia non abbia pagato la retta, chi sarà a dover applicare quella regola?»[32]
Non so dire se in queste affermazioni ritroviamo, in sottofondo, una eco giusnaturalista, o se l’Autore la definirebbe tale. Sicuramente ritroviamo un criterio, importante e prezioso, per separare il diritto giusto da quello ingiusto: il che merita tutta la nostra attenzione.
[1] A. C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali della facoltà giur. di Catania, 1948, III, 57.
[2] Il riferimento è Romani 5, 20 («dove abbondò il peccato, sovrabbondò anche la Grazia»).
[3] The Federalist, n. 51 (1788), in C. Rossiter (a cura di), The Federalist Papers, New York, 1961, 322.
[4] Sulla questione sono innumerevoli le fini ricostruzioni da parte dei filosofi analitici del diritto. Celebri gli esempi di John Finnis, in Natural Law and Natural Rights, Oxford, 1995, 269 e di Joseph Raz, in Practical Reason and Norms, Oxford, 1999, 159 (entrambi gli Autori, peraltro, riservano un importante ruolo al diritto anche in siffatte società). Più di recente, v. K. E. Himma, Can There Be Law in a Society of Angels?, in Id., Coercion and the Nature of Law, Oxford, 2020, Cap. 10. Ripercorre il problema, ora, L. Miotto, From Angels to Humans: Law, Coercion, and the Society of Angels Thought Experiment, in 40, Law & Philosophy, 2021, 277 e seg.
[5] Il libro ha avuto, giustamente, una risonanza assai ampia. Tra i molti commenti e recensioni, v., recentissimamente, e per tutti, F. Corigliano, La fiducia: tra politica e diritto, in Diritto & Questioni Pubbliche, 2021, 211 e seg.
[6] Cfr. i Cap. I, 3 e seg. (“Fiducia vs diritto?”) e Cap. II, 14 e seg. (“«…e che abbiano a usare sempre la malignità nello animo loro». Alle radici del modello sfiduciario”).
[7] Fu Paul Ricoeur a definire Marx, Nietzsche e Freud “Maestri del sospetto”.
[8] T. Greco, op. cit., Introduzione, IX.
[9] T. Greco, op. cit., Cap. IV, 88 e seg. (“La fiducia dentro il diritto”).
[10] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it. a cura di R. Treves, Torino, 1963, 43 (Par. intitolato Il diritto come norma coattiva). Sulla riconduzione di questo paradigma a Kelsen, e poi anche allo Jhering de Lo scopo nel diritto, v., ampiamente, Greco, op. cit., Cap. III (che cita, nel medesimo senso, altri e importanti passi di Kelsen, tratti sia dalla Teoria generale del diritto e dello Stato (1945) sia dalla stessa Dottrina pura del diritto (1960), nella traduzione di Mario Losano, Torino, 1966).
[11] A tacer d’altro – va detto - perché vi è anche la critica logica per la quale il considerare giuridici solo quei precetti assistiti da una sanzione comporta un regresso all’infinito (l’applicazione della sanzione presuppone, a sua volta, l’applicazione di una ulteriore sanzione in caso di mancata applicazione della (prima) sanzione, e così via). Per questa critica, già peraltro conosciuta a Kelsen stesso, T. Greco, op. cit., Cap. III.
[12] Cfr., ad es., T. Greco, Relazioni giuridiche. Una difesa dell’orizzontalità del diritto, in Teoria e critica della regolazione sociale, 2014, 9 e seg.; Id., Paolo Grossi, teorico del diritto orizzontale, in Riv. di filosofia del diritto, 2016, 47 e seg.
[13] T. Greco, Le legge della fiducia, cit., 90.
[14] Ibidem, 96.
[15] T. Greco, op. cit., 49 (che cita, a proposito, F. Viola, La teoria del diritto come pratica sociale e la coercizione, in 2, Persona y derecho, 2019, 55).
[16] T. Greco, op. cit., 188 (citando F. Poggi, Concetti teorici fondamentali, Pisa, 2013, 93).
[17] T. Greco, op. cit., 56.
[18] Ibidem, 56 – 57.
[19] Di solito si fa l’esempio dell’ (ora) art. 315 bis c.c. (rubricato Diritti e doveri del figlio), comma 3, nella parte in cui stabilisce che “il figlio deve rispettare i genitori”, come paradigma di “norma imperfetta”, cioè priva di sanzione. A queste possono accostarsi quelle norme che sì prevedono una sanzione, ma questa è talmente piccola, leggera, da non rappresentare una valida minaccia e quindi incentivo (il punto è di scottante attualità: si pensi all’introduzione dell’obbligo vaccinale per far fronte alla pandemia da Covid-19 per i soggetti maggiori di cinquanta anni, di cui al Decreto Legge 7 gennaio 2022, n. 1, obbligo assistito da una (lieve) sanzione amministrativa pecuniaria pari a 100 euro; è evidente che non è sull’aspetto sanzionatorio che dobbiamo soffermarci, ma semmai, sul messaggio simbolico, o, meglio ancora, responsabilizzante). Secondo la visione qui fatta propria, queste disposizioni sono senza dubbio giuridiche. Non accogliamo, pertanto, la ricostruzione che faceva, tra gli altri, il Pugliatti, sulla linea, evidentemente, del positivismo kelseniano (Gli istituti del diritto civile, I, 1, ora in Scritti giuridici, Vol. II (1937 – 1947), Milano, 2010, 764): «Ma fu ed è facile rilevare che se la sanzione è un elemento costitutivo essenziale delle norme giuridiche, parlare di norme giuridiche imperfette, cioè prive di quell’elemento essenziale, è commettere un errore terminologico e consacrare una contraddizione logica, poiché non si dovrebbe parlare di norme giuridiche imperfette, sibbene di norme non giuridiche. Se la coercibilità si intende nel senso da noi proposto, allora si può veramente affermare che essa costituisce una qualità essenziale delle norme giuridiche».
[20] T. Greco, op. cit. 51 (che trae l’ultimo virgolettato da Riccobono, La vocazione critica della teoria del diritto europeo e la questione dei valori, in F. Cerrato, M. Lalatta Costerbosa (a cura di), L’Europa allo specchio. Identità, cittadinanza, diritti, Bologna, 2020, 133). «Non si tratta – scriverà poi più avanti l’A, nel Cap. VI, Per una cultura giuridica responsabile – di sostituire la convinzione alla costrizione, lo spontaneo adempimento all’ubbidienza forzata. Una tale sostituzione può dar luogo facilmente a equivoci…».
[21] S. Natoli, Il rischio di fidarsi, Bologna, 2017. Di Natoli, v. anche la Lezione Magistrale, disponibile su YouTube, intitolata Sulla fiducia. Egli, nell’argomentare questo punto relativo alla fiducia originaria, si richiama – assai evocativamente – all’arte, e in particolare alle suggestive rappresentazioni della “Madonna del Latte” (definita «icona universale della maternità, ma anche dell’affidamento») e alla preghiera dell’Angelo Custode, figura archetipa della protezione («in breve – scrive Natoli, Il rischio di fidarsi, cit., 8 – ci fidiamo perché radicati in una certezza originaria, di cui cifra simbolica – la più nota – è l’«Angelo Custode» della devozione cristiana, colui al quale la Pietà divina ci ha affidato: me tibi commissus pietate superna, illumina, custodi, rege et guberna»).
[22] Traggo i passi da M. Marzano, Avere fiducia, Milano, 2012 (Introduzione). Della medesima A., v. anche Cosa fare delle nostre ferite? La fiducia e l’accettazione dell’altro, Trento, 2012.
[23] A questo tema si è in particolare dedicata la riflessione del filosofo statunitense John Searle (già conosciutissimo per i suoi studi sulla costruzione della realtà sociale). Di questo A. cfr., da ultimo, in italiano, scritto a quattro mani insieme al filosofo torinese Maurizio Ferraris, Il denaro e i suoi inganni (a cura, e con un saggio, di A. Condello), Torino, 2018.
[24] “Lettera Enciclica Fratelli Tutti del Santo Padre Francesco sulla fraternità e l'amicizia sociale”, disponibile in https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html. Sul punto, cfr. i contributi di F. Savagnone, “Fratelli tutti” e la sfida della fraternità, in Giustizia Insieme, 13 ottobre 2020, e di T. Groppi, Fratelli tutti. Un’enciclica costituzionale, in Giustizia Insieme, 25 dicembre 2020. Si soffermano sulla dimensione giuridica dell’Enciclica anche A. Giovita, K. Laffusa, L’Enciclica Fratelli Tutti: aspetti giuridici di una proposta di fratellanza, in Jus (online), 2021, 229 e seg.
[25] E. Resta, Diritto fraterno, Laterza, 2005.
[26] T. Greco, op. cit., 74, ricordando in nota i lavori, in questo preciso senso, di I. Massa Pinto, Costituzione e fraternità, Napoli, 2011, e di F. Pizzolato, Il principio costituzionale di fraternità, Roma, 2012.
[27] Prendo tutti questi concetti e parole dall’intervento del Professor Achim Schütz, della Pontificia Università Lateranense (Roma, Laterano), nell’ambito del Seminario di Studio “Fratelli Tutti: una Enciclica oltre la crisi”, tenutosi il 2 dicembre 2020 presso la medesima Università (disponibile su YouTube).
[28] T. Greco, op. cit., Cap. V, 114 e seg. («Un fiorino!» La fiducia tra princìpi e regole).
[29] T. Greco, op. cit., 152.
[30] Il libro, non a caso, dedica alla pandemia molteplici riflessioni giuridiche.
[31] T. Greco, op. cit., 159 – 160.
[32] T. Greco, op. cit., 152.
Limiti all’accesso agli atti di gara e al potere acquisitivo del giudice in presenza di segreti tecnici o commerciali e tutela brevettuale (nota a Cons. Stato, Sez. III, 26 10 2021 n.7173)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa – 2. La vicenda – 3. Il potere acquisitivo del giudice in presenza di qualificate ragioni di riservatezza aziendale – 4. I requisiti di specificità e adeguatezza della motivazione relativa alla sussistenza della segretezza tecnica e commerciale – 5. Considerazioni conclusive sul contenuto della tutela brevettuale.
1. Premessa
Nell’ordinanza che si annota vengono in rilievo differenti profili connessi alla tematica del diritto di accesso agli atti di gara in presenza di segreti tecnici o commerciali e di brevetto, in merito ai quali, però, la Terza Sezione del Consiglio di Stato lascia dei dubbi interpretativi da sciogliere.
In particolare, la medesima, pronunciandosi in merito ai limiti del potere del giudice di procedere all’acquisizione integrale dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria al fine di garantire la completezza istruttoria del giudizio di merito, evita di affrontare direttamente la questione del rapporto di bilanciamento tra interesse del richiedente l’accesso ed esigenza di riservatezza del concorrente, enunciando, comunque, dei principi anche ad essa estensibili. Invero, il Collegio individua le caratteristiche che deve presentare la motivazione corredata all’opposizione all’accesso, evidenziando come non debba essere meramente apparente e sottolineando, altresì, come il momento e la sede in cui la concorrente si oppone all’ostensione degli atti, rappresentino un criterio di valutazione della fondatezza dell’opposizione stessa.
Ciò posto, a margine dell’ordinanza, si imporranno delle riflessioni in materia di segreti commerciali, con particolare riferimento al rafforzamento della loro tutela, sia a livello normativo che giurisprudenziale. Da ultimo, si ritiene opportuno interrogarsi sul reale contenuto della tutela brevettuale, al fine di comprendere se essa possa essere realmente considerata un limite alla divulgazione delle informazioni tutelate.
2. La vicenda
L’ordinanza n. 7173 del 2021 è stata pronunciata con riferimento ad un giudizio incidentale avente ad oggetto un’istanza ostensiva, formulata dalla parte appellante del ricorso principale e finalizzata ad ottenere l’esibizione dell’offerta tecnica della società aggiudicataria di una procedura di appalto espletata ai sensi dell’art. 54, co. 4, lett. c) D.lgs. n. 50/2016, essendosi la ricorrente classificata in seconda posizione. Invero, il giudizio di appello a cui inerisce il giudizio incidentale di cui si tratta, era stato promosso dalla medesima ricorrente, al fine di ottenere l’annullamento della deliberazione adottata dall’Amministrazione, con la quale si disponeva l’aggiudicazione della procedura di Appalto Specifico, concernente il servizio di lavanolo, alla società controinteressata.
L’istanza ostensiva era già stata formulata in occasione del primo grado di giudizio, ma era stata in quella sede respinta dal giudice a causa della mancata proposizione di rituali censure (motivi aggiunti, anziché semplice memoria) in relazione alla dedotta difformità dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria rispetto alle prescrizioni di gara.
Sul punto, però, la ricorrente aveva evidenziato, in sede di appello, come l’omessa formulazione di motivi aggiunti fosse dovuta proprio alla incompletezza istruttoria derivata dalla mancata acquisizione dell’offerta tecnica della controinteressata nonostante le formulate istanze istruttorie. La ricorrente, in particolare, aveva sottolineato come, non avendo l’Amministrazione provveduto al deposito dell’offerta ai sensi dell’art. 46, co. 2, c.p.a., la stessa avrebbe dovuto essere acquisita dal TAR ex art. 65, co. 3, c.p.a.
Ciò posto, la Terza Sezione, richiamando un orientamento della Corte di Giustizia[[1]], aveva accolto l’istanza istruttoria, rilevando come l’offerta tecnica dell’aggiudicataria costituisse documento essenziale, rappresentante il presupposto del provvedimento di aggiudicazione impugnato, e come, dunque, la stessa dovesse essere depositata agli atti di causa, affidando alla Segreteria il compito di oscurare le parti che, secondo comprovate ragioni della aggiudicataria, costituissero segreto tecnico o commerciale. In seguito al deposito dell’offerta con dichiarazione di integrale segretazione da parte della controinteressata, e alla conseguente opposizione della ricorrente, la Terza Sezione, accogliendo l’opposizione, ha assegnato all’aggiudicataria trenta giorni per provvedere al deposito dell’offerta tecnica con puntuale e motivata individuazione delle parti da oscurare. La controinteressata ha, quindi, provveduto al deposito della documentazione richiesta, indicando le parti contenenti, ad avviso della medesima, delle informazioni non divulgabili in quanto inerenti a segreti tecnici e commerciali, le quali sono state, di conseguenza, oscurate.
In seguito a ciò, la ricorrente ha presentato dei motivi aggiunti con i quali ha contestato le argomentazioni apposte a giustificazione della parziale secretazione dell’offerta, evidenziando, oltre al fatto che la brevettazione relativa alle invenzioni industriali “finisce con renderle di pubblico dominio”, che la presenza di segreti tecnici e industriali sia stata invocata in modo del tutto generico dall’aggiudicataria. Inoltre, la stessa ha sottolineato come l’obbligo di produzione delle schede tecniche dell’offerta si imponesse ai sensi dell’art. 51, co. 2, codice della proprietà industriale (d’ora in poi c.p.i.), atteso che “l’invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla […]”. Ha, infine, sostenuto come, ai sensi dell’art. 76, co. 1, lett. b) c.p.i., il brevetto sia nullo nel caso di mancata descrizione in modo sufficientemente chiaro e completo dell’invenzione, chiedendo alla Sezione di procedere alla relativa verifica.
3. Il potere acquisitivo del giudice in presenza di ragioni di riservatezza aziendale “qualificata”
Muovendo dall’esame delle censure proposte, nonché dal tenore delle precedenti ordinanze, il Collegio si premura inizialmente di delineare l’oggetto del giudizio, evidenziando come lo stesso non comprenda la questione del rapporto di bilanciamento tra esigenza di riservatezza del concorrente ed interesse del richiedente l’accesso, “in quanto il potere del giudice […], esercitabile anche officiosamente ex art 65, co. 3, c.p.a., è principalmente orientato a garantire la completezza istruttoria del giudizio di merito […] e non a soddisfare l’interesse ostensivo di una delle parti del giudizio, in funzione della difesa in giudizio degli interessi di cui essa è oggettivamente portatrice”. Ciò che acquista, dunque, rilevanza nell’opinione del Collegio è la funzionalità degli atti richiesti alla completezza del giudizio, piuttosto che l’interesse del ricorrente all’accesso, con specifico riguardo alla sua eventuale inflessione difensiva ex art. 53, co. 6, D. lgs. n. 50/2016.
Sul punto, peraltro, si ritiene che per quanto strutturalmente distinti, in tal caso, il potere istruttorio del giudice e l’interesse all’accesso del ricorrente siano in realtà orientati verso il medesimo scopo. Infatti, obiettivo dell’appellante era proprio quello di avere accesso alla documentazione richiesta al fine di formulare delle censure, le quali avrebbero consentito al giudice di pronunciarsi sul punto. Del resto, lo stesso ricorrente aveva lamentato di non aver potuto presentare dei motivi aggiunti proprio a causa della mancata ostensione della documentazione richiesta.
Nell’ottica dell’ordinanza, dunque, la tutela delle ragioni di riservatezza aziendale viene in rilievo, non tanto quale ostacolo al diritto di accesso del concorrente con il quale, secondo il Collegio, avrebbe dovuto essere contemperato già in prima battuta dall’Amministrazione, ma “quale limite oggettivo alla divulgazione della documentazione meritevole di segretazione”.
Infatti, la peculiare disciplina dettata dall’art. 53, co. 5, lett. a) D.lgs. n. 50/2016[[2]] in materia di accesso agli atti di gara e riservatezza, deve ritenersi applicabile altresì in relazione alla documentazione da acquisire in giudizio, in quanto si riferisce espressamente non solo al diritto di accesso, ma anche a ogni altra “forma di divulgazione”.
Di conseguenza, anche in tale occasione, il Consiglio di Stato si pronuncia sul tema del delicato rapporto tra divulgazione del contenuto delle offerte tecniche presentate in occasione delle procedure di gara e diritto alla segretezza aziendale[[3]]. Invero, pur sembrando la questione risolta dal legislatore, proprio con la citata disciplina di cui all’art. 53 D.lgs. n. 50/2016, è al giudice che si rimette, in concreto, il compito di conciliare i due interessi contrapposti.
4. I requisiti di specificità e adeguatezza della motivazione relativa alla sussistenza della segretezza tecnica e commerciale
Nel giudizio di cui si tratta, la Terza Sezione, nel cercare di conciliare le due esigenze contrapposte, di divulgazione e segretezza, si esprime sulla conformità della dichiarazione relativa alla sussistenza di segreti tecnici e commerciali resa dall’aggiudicataria ai requisiti di specificità e adeguatezza della motivazione richiesti nell’ambito delle precedenti ordinanze.
Sul punto essa si pone pienamente in linea con la giurisprudenza in materia, la quale, volendo contemperare il crescente rafforzamento della tutela della segretezza industriale[[4]] con la trasparenza garantita dall’esercizio del diritto di accesso, è sempre più attenta alla serietà della motivazione addotta sia a sostegno del segreto che a sostegno dell’accesso.
In questo senso, le corti di merito hanno precisato, da un lato, come del diritto di accesso non si possa fare un uso emulativo[5] e, dall’altro, come la dichiarazione con cui la concorrente intende opporsi alla ostensione dei documenti di gara, non può consistere in una “formula generica e stereotipata”[6]. Al contrario, infatti, la motivazione relativa alla sussistenza del segreto industriale e commerciale assume un ruolo centrale, considerato che la valutazione dell’effettiva inerenza delle informazioni in rilievo al complesso del know-how aziendale non può essere valutata ex officio dal giudice[[7]], richiedendosi, invece una “motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente”[[8]]. Nondimeno, la giurisprudenza ha avuto occasione di evidenziare come il diniego all’accesso non può fondarsi nemmeno su valutazioni proprie della stazione appaltante[[9]].
Quanto al sindacato del giudice sulla motivazione addotta dall’offerente, nella presente ordinanza il Collegio sottolinea come il giudice possa alimentarsi di tutti gli “elementi utili al suo giudizio”, sia estrinseci che intrinseci alle informazioni di cui si discute. In particolare, tra gli elementi estrinseci da valutare, l’ordinanza contempla il momento e la sede in cui l’offerente si oppone all’ostensione della documentazione, in quanto contenente segreti tecnici e commerciali. Ciò significa che l’opposizione della concorrente all’accesso, che venga manifestata già nel contesto dell’offerta, pur non rappresentando una pre-condizione della fondatezza dell’opposizione, risulterà più meritevole rispetto a quella formulata successivamente. Sul punto, dunque, la Terza Sezione si pone in contrasto con quella giurisprudenza[[10]] che, invece, riconosce l’esclusione dell’accesso solo in caso di dichiarazione preventiva del concorrente circa la presenza di segreti tecnici e commerciali.
Quanto, invece, agli elementi intrinseci da valutare ai fini del riconoscimento della sussistenza del segreto, pur condividendo con la Sezione la necessità di porre un “margine di affidamento” nelle dichiarazioni dell’offerente, ci si chiede, in maniera critica, se il giudice sia effettivamente dotato degli strumenti tecnici necessari per stabilire quali informazioni debbano essere sottoposte a segretezza e quali no. Ecco, dunque, che ci si dovrebbe forse interrogare sull’opportunità dell’intervento di un consulente tecnico, anche se ciò probabilmente mal si concilierebbe con le tempistiche del rito appalti.
In merito ai limiti del potere acquisitivo del giudice, la Terza Sezione osserva, infine, come questi debba ritenersi “affrancato dagli stringenti vincoli immanenti al principio dispositivo, con la conseguente possibilità di attingere ad argomenti ed elementi non dedotti dalle parti”.
Ciò posto sul piano teorico, il Collegio, con riferimento alla secretazione di alcune parti dell’offerta in virtù della sussistenza di segreti industriali e/o commerciali, applicando le coordinate interpretative delineate, conclude nel senso che non sussistono motivi ragionevoli per sostenere che le informazioni de quibus non ineriscano al know-how industriale dell’aggiudicataria, osservando, infatti, sia come l’opposizione del segreto fosse avvenuta già in sede di offerta, sia come il contenuto della dichiarazione di secretazione non possa essere tacciato di eccessiva genericità. Ciò nonostante, la Terza Sezione accoglie la richiesta ostensiva della concorrente, in quanto la società aggiudicataria aveva già adottato delle misure atte a salvaguardare i contenuti intrinseci degli invocati segreti, poiché nell’ambito dell’offerta la stessa aveva specificato che, essendo le fasi di lavorazione coperte da brevetto industriale, le medesime non sarebbero state illustrate nel dettaglio.
Con riferimento poi, ad un ulteriore allegato all’offerta, di cui l’appellante richiedeva l’ostensione, il Collegio decide nuovamente in senso ad essa favorevole, motivando nel senso che, contenendo, questo, informazioni su processi di produzione operati da soggetto imprenditoriale diverso dall’aggiudicataria, lo stesso non può ritenersi esclusiva di quest’ultima. Tuttavia, sul punto, si ritiene di osservare come, non essendo noti i rapporti tra la società aggiudicataria e il soggetto imprenditoriale terzo, una decisione in tal senso, potrebbe obiettivamente pregiudicare le informazioni riservate di quest’ultimo.
5. Considerazioni conclusive sul contenuto della tutela brevettuale
Oltre alle informazioni riferibili al know-how aziendale di cui il Collegio dispone, come visto, l’ostensione, l’appellante aveva formulato altresì richieste di acquisizione dei dati e della documentazione relativa al brevetto invocato dalla aggiudicataria. In relazione a tale elemento, però, la Terza Sezione ritiene di non poter accogliere le richieste in quanto, da un lato, lo stesso non rientra tra gli atti e documenti in base ai quali l’atto è stato emanato (atti a cui si riferivano le precedenti ordinanze del giudizio), e, dall’altro, risulta estraneo all’ambito di applicazione istruttorio dal quale è scaturito il provvedimento di aggiudicazione impugnato.
Ciò nonostante, pur non riguardando la pronuncia direttamente il tema del brevetto, si impongono delle riflessioni sul reale contenuto dello stesso. Invero, in più passaggi dell’ordinanza, sia con riferimento al contenuto dei motivi aggiunti presentati dall’appellante, che con riferimento alla dichiarazione di secretazione dell’aggiudicataria, si individuano dei richiami alla riservatezza connessa alla tutela brevettuale. In particolare, la ricorrente ha evidenziato come le ragioni del segreto siano state fondate dalla parte opponente proprio sulla copertura brevettuale delle informazioni richieste, motivo che sembra essere condiviso anche dal Collegio nel punto in cui afferma che “il contenuto della dichiarazione di secretazione [non può] essere tacciato di eccessiva genericità […] anche perché la dichiarazione di cui si tratta è specificata […] in relazione alla copertura brevettuale delle informazioni secretate”.
Ecco, dunque, che si impongono delle considerazioni sull’effettivo contenuto della tutela brevettuale. Nello specifico, ci si chiede se dal riconoscimento del diritto di brevetto derivi automaticamente l’esclusione della conoscibilità dell’opera dell’ingegno, come sembra essere presunto in alcuni passaggi della pronuncia, o se, diversamente, esso si limiti a garantire il solo diritto di sfruttamento economico. Sul punto, come evidenziato in premessa, il Consiglio di Stato non si esprime espressamente, lasciando dei dubbi interpretativi da sciogliere.
La questione non è di immediata risoluzione. Invero, se, per un verso, la sussistenza di un brevetto potrebbe suggerire la necessità del concorrente di mantenere delle informazioni riservate, per altro verso si è affermato in dottrina come la “presenza di un brevetto si giustifica proprio alla luce di una logica di rivelazione e trasparenza dell’invenzione, in quanto la sua immissione nel mercato può essere in grado di svelarne il contenuto”[[11]]. La stessa nozione di diritto di brevetto[[12]] non opera, peraltro, alcun riferimento espresso alla facoltà di escludere la conoscibilità dell’opera protetta. Inoltre, secondo la dottrina oggi prevalente, alla base del riconoscimento del diritto di brevetto vi sarebbe proprio una sorta di “contratto sociale” tra colui che ha inventato l’opera e il resto della collettività, in virtù del quale, il primo conseguirebbe il diritto all’esclusivo sfruttamento economico dell’invenzione e, la seconda, la possibilità di apprenderne l’insegnamento e utilizzarlo per futuri sviluppi[[13]]. In quest’ottica, peraltro, si è sostenuto che “il brevetto favorisca molto di più l’interesse pubblico al progresso tecnologico di quanto non faccia il regime di segreto perché comporta la messa a disposizione dei dati tecnologici che caratterizzano l’invenzione brevettata fin dall’inizio”[[14]], con ciò escludendosi la segretezza di quanto brevettato.
Non può poi non considerarsi come nell’ambito delle procedure di gara, oltre agli interessi del titolare del diritto di brevetto, venga in rilievo il fondamentale principio di trasparenza dell’attività amministrativa[[15]], il quale è volto proprio a promuovere la partecipazione dei cittadini alla stessa.
Ciò considerato, si ritiene, dunque, di dover ragionevolmente concludere nel senso che la sussistenza di un brevetto non può essere considerata di per sé idonea ad escludere automaticamente la conoscibilità dell’opera, essendo ciò addirittura contrario alla ratio stessa della brevettazione. Di conseguenza, al fine di mantenere delle informazioni secretate, a prescindere dalla sussistenza del brevetto, si ritiene necessaria una dichiarazione motivata del tutto analoga a quella richiesta, come nel caso dell’ordinanza in oggetto, in relazione ai segreti industriali e commerciali. Solo in tal modo, infatti, sarà possibile procedere ad un bilanciamento con le esigenze di accesso del caso concreto.
[[1]] Corte di Giustizia, 14.02.2008 in causa C-450/06, nella quale si afferma che “l’organismo competente a conoscere dei ricorsi deve necessariamente poter disporre di tutte le informazioni necessarie per essere in grado di decidere con piena cognizione di causa, ivi comprese le informazioni riservate e i segreti commerciali”.
[[2]] L’articolo riproduce, in sostanza, il contenuto dell’art. 13, D.lgs. n. 123/2006. La lett. a) del quinto comma, in particolare, stabilisce che sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione in relazione “alle informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”.
[[3]] Sul punto si veda V. Mirra, Accesso agli atti di gara e segretezza industriale: una conciliazione impossibile?, in Urb. e appalti, 2020, 171 ss.
[[4]] La maggiore attenzione riservata alla tutela della segretezza industriale e commerciale è confermata dall’emanazione della direttiva (UE) 2016/943 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l'acquisizione, l'utilizzo e la divulgazione illeciti, la quale, nell’ambito del secondo considerando, sottolinea come “i segreti commerciali consentono al creatore e all'innovatore di trarre profitto dalle proprie creazioni o innovazioni e quindi sono particolarmente importanti per la competitività delle imprese nonché per la ricerca, lo sviluppo e la capacità innovativa”. Sulla base di tale direttiva, peraltro, il Legislatore nazionale, con il D.lgs. n. 63/2018, ha provveduto a modificare l’art. 98 c.p.i. con l’intento di riservare tutela espressa ai segreti commerciali.
[5] In particolare, Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2020, n. 64 afferma che “la ratio legis è di far sì che, proprio con riguardo ad una gara pubblica, che non deroga ma assicura la corretta competizione tra imprese, del diritto di accesso – per quanto garantito dal principio di pubblicità e trasparenza della condotta delle pubbliche amministrazioni o dei soggetti funzionalmente equiparati (cfr. art. 1 l. 241/1990) – non si possa fare un uso emulativo, ad esempio da parte di contendenti che potrebbero formalizzare l’istanza allo scopo precipuo di giovarsi di specifiche conoscenze industriali o commerciali acquisite o detenute da altri”.
[[6]] In questo senso T.A.R. Lazio, Roma, I, 19 maggio 2018, n. 5583.
[[7]] D. Dell’oro, L’accesso ai documenti di gara: il know how aziendale il principio regolativo del conflitto di trasparenza e riservatezza, in ItaliAppalti, 2017.
[[8]] Così, Cons. Stato, Sez. III, 11 ottobre 2017, n. 4724. In particolare, in tale pronuncia il Consiglio di Stato asserisce che “il limite alla ostensibilità è subordinato all’allegazione di ‘motivata e comprovata dichiarazione’, mediante la quale si dimostri l’effettiva sussistenza di un segreto industriale o commerciale meritevole di salvaguardia” (in senso conforme Cons. Stato, Sez. III, 15.07.2014, n. 3688).
[[9]] Si veda al riguardo Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 2016, n. 3431.
[[10]] Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 2016, n. 3431 sottolinea come “la tutela del segreto tecnico o commerciale non può essere a sua volta opposta, per la prima volta, in sede di opposizione all’istanza di accesso, dovendo essere tale indicazione oggetto di esplicita dichiarazione resa in sede di offerta”.
[[11]] V. Mirra, Op. cit., p. 176.
[[12]] L’art. 66, co. 1, c.p.i. stabilisce che “I diritti di brevetto per invenzione industriale consistono nella facoltà esclusiva di attuare l'invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato, entro i limiti ed alle condizioni previste dal presente codice”. Per maggiori approfondimenti sul diritto di brevetto si veda P. Auteri e altri, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, VI ed., 2020.
[[13]] G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2015.
[[14]] P. Auteri e altri, Op. cit., p. 222.
[[15]] L’art. 1, co. 1., D.lgs. 33/2013 stabilisce che “La trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. La trasparenza è, inoltre, contemplata tra i principi generali dell’attività amministrativa dall’art. 1, co. 1, l. 241/1990. In tema di trasparenza si vedano, tra gli altri, R. Villata, La trasparenza dell'azione amministrativa, in La disciplina generale del procedimento amministrativo. Atti del XXXII Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 18-20 settembre 1986, Milano, 1989; F. Merloni, G. Arena, La trasparenza amministrativa, Milano, 2008.
Per celebrare la giornata della memoria e non dimenticare una delle più gravi tragedie della umanità la Rivista ospita una riflessione dell'Avvocato David Cerri su linguaggio e nazismo.
La lingua del nazismo
di David Cerri
...aperte le finestre del cielo
E lasciato libero lo spirito della notte
Assalitore del cielo, che ha la nostra terra
Sedotto, con molte lingue, impoetabili, e
Rotolato la maceria
Fino a quest'ora
Holderlin[i]
Interessarsi della lingua nazista non dovrebbe essere soltanto un esercizio letterario-linguistico, e neppure uno dei tanti modi per ricordare la Shoah: entrambe possibilità, peraltro, più che legittime. C’è anche un altro modo di atteggiarsi di fronte alla lingua dei totalitarismi (non solo quello tedesco novecentesco), vale a dire valutare cosa è andato definitivamente in archivio e cosa è rimasto pur nelle nuove condizioni sociali e politiche, o cosa, magari, è emerso nuovamente nel nostro vivere quotidiano.
Con questo approccio un riferimento inevitabile è l’opera di Viktor Klemperer, mite docente ebreo di Dresda che, sopravvissuto fortunosamente al nazismo, annotò l’evoluzione della lingua tedesca nel celeberrimo LTI - Taccuino di un filologo[i], cui attingerò frequentemente, anche perché alcune sue osservazioni mi sembrano attuali, ed in modo preoccupante (le citazioni sono da quel testo ove non diversamente indicato).
Suggerisco due angolazioni sotto le quali esaminare il fenomeno: quella più generale (e che forse meglio si presta a confronti col presente) dello stile, e quella della intenzionale spersonalizzazione dell’essere umano.
Lo stile, allora. Se una caratteristica basilare della Nazisprache è quella di essere una lingua povera, monotona, dalla sintassi semplice, una nota particolare va messa su come abbia cercato di annullare la distinzione tra lingua scritta e lingua parlata: “Anzi, tutto in lei era discorso, doveva essere la locuzione, appello e incitamento. Tra i discorsi e gli articoli del ministro della propaganda non c'era alcuna differenza di stile, ecco perché i suoi articoli potevano venire declamati così agevolmente. Declamarli (deklamieren) significa letteralmente leggerli a voce alta e sonora, ancora più letteralmente: urlarli. Lo stile obbligatorio per tutti era dunque quello dell’imbonitore”, e questa ultima nota rimanda in modo anche troppo preciso alla comunicazione contemporanea.
Come non riconoscere nel linguaggio delle televisioni commerciali, e poi della Rete, divenuto il linguaggio della politica, qualcosa di simile? Noi, però, dovremmo avere sufficienti anticorpi, così da evitare la lenta e spesso inconsapevole assimilazione segnalata da Klemperer:“il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente. (...) Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”.
O mi sbaglio ?
Utile l’esempio di un termine il cui significato viene trasformato dall’incessante uso da parte dello Stato e del Partito, e quindi di tutti i mezzi di comunicazione pubblica, così che, estinti l’uno e l’altro, esso riprende quello originario: Fanatismus, fanatisch.
“Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo. I termini fanatico e fanatismo non sono un’invenzione del Terzo Reich, che ne ha solo modificato il valore e li ha usati in un solo giorno con più frequenza di quanto abbiano fatto altre epoche nel corso degli anni”. Ma crolla il regime, termina la guerra, ed allora “se ne può dedurre con certezza che per tutto il periodo hitleriano nella coscienza o nel subcosciente del popolo è rimasta ben viva la consapevolezza che una condizione mentale molto prossima alla malattia e al crimine è stata considerata per 12 anni come massima virtù”.
Non altrettanto è accaduto a mio parere per quella che sempre Klemperer definisce efficacemente la “maledizione del superlativo”, che si ritrova nel suo uso ricorrente, come quello di aggettivi come “einzig“, “gigantisch“, “historisch“, del suffisso superlativo Welt- e delle parole superlative Raum (“c’è un che di indefinito che è suggestivo”) e welthistorisch (con riferimento ai discorsi ed ai decreti di Hitler). Nel contesto dei «superlativi numerici» si pensi poi all’uso degli aggettivi total, einmalig ed ewig. Totale, unico, eterno rimandano davvero alla comunicazione commerciale che conosciamo anche noi, con una importante differenza; quando Klemperer osserva che l’uso del superlativo sia “senz'altro comprensibile perché il superlativo è lo strumento propagandistico più ovvio per un oratore o un oratore politico, è la forma propagandistica per eccellenza” conclude “Perciò il partito nazista provvide in via amministrativa a riservarlo unicamente a sé, escludendo totalmente la concorrenza”, facendo riferimento alle circolari emanate per vietarne l’uso negli annunci commerciali. Questo certo non accade in regime di liber(issim)o mercato, dove l’uso è consentito (o imposto ?) a tutti ed in ogni ambito (e verrebbe da chiedersi – ma è ovviamente una battuta – se sia un reale progresso…).
Un’ultima noterella sulle “virgolette ironiche”, che servono a porre “dubbi sulla sua [della citazione] veridicità, di per sé fanno apparire menzogna l'affermazione riportata”; non a caso un tipico esempio è quello della parola “umanità”.
La lingua dello Stato nazista ha puntato decisamente sulla spersonalizzazione dell’essere umano, sotto almeno due profili: quello dell’individuo rispetto alla comunità patriottica, al Volk: “Du bist nichts, dein Volk ist alles!”, sul quale non mi dilungo, e quella di speciali categorie, ritenute inferiori: una espressione tipica quella di Untermensch, “subumano”, a proposito della quale merita ricordare come nulla abbia a che fare con il Superuomo nicciano (mai il filosofo tedesco la utilizzò), e che anzi pare abbia tra le prime testimonianze scritte di un uso consapevole quella di uno scrittore come Theodor Fontane, giusto in contrapposizione con l’Übermensch.
Meno note quelle di Menschenmaterial, “materiale umano”, e di Stück, “pezzo”, per i deportati, nella tipica definizione amministrativo-aziendale per i passeggeri dei treni speciali verso i lager. Fa riflettere che un simile processo sia avvenuto nell’America schiavista, dove veniva usata la parola Item, o il termine chattel, con le medesime intenzioni ed il medesimo significato, corrispondente alla attuale definizione di schiavitu’: “…lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi, e lo “schiavo” è l’individuo che ha tale stato o condizione”[ii].
Un altro modo per giungere allo stesso risultato fu quello dell’uso di espressioni denigratorie: così il medico ebreo o che cura gli ebrei non è Arzt ma Krankenbehandler, e l’avvocato diventa Rechtskonsulenten (consulente giuridico):“in ambedue casi non c'è solo l'intento di isolarli, ma anche di ridicolizzarli. Nel caso del consulente questo intento è più manifesto perché un tempo si distinguevano i Winkelkonsulenten (legulei, azzeccagarbugli) dagli avvocati e laureati riconosciuti dallo stato; quanto a Krankenbehandler, l'intento derisorio consiste nel sottolineare la mancanza di quel titolo professionale ufficiale di cui sono stati privati.”
Tipico della LTI, allo stesso fine, anche l’uso di espressioni eufemistiche, come Aussiedlung (evizione), per la distruzione ed il furto di proprietà; Entlassen (dimettere, licenziare), per l’assassinare; Erholung (ricreazione, recupero) per prigione, come in Erholungslager (una delle qualifiche, ad esempio, di Bergen-Belsen); Bauernhäuser (fattorie – oggi è il termine per gli agriturismi…) per le camere a gas, quando ancora venivano usati manufatti precari prima della costruzione delle strutture in cemento; Liquidieren, dal linguaggio commerciale: “se si liquidano delle persone queste vengono eliminate tolte di mezzo come oggetti perché viene loro attribuire il valore di oggetti”; Seuchensperrgebiet (un distretto dove c’è un’epidemia) per il luogo dove gli ebrei venivano riuniti e tagliati fuori dal resto della società. Tre parole, però sopra tutte: meno nota forse Gleichschaltung (coordinamento), per la forzata omologazione della società in genere, fenomeno che gradualmente “conformò” interi corpi sociali (uno per tutti: la magistratura); e poi invece notissimi quelli di Sonderbehandlung (trattamento speciale) per l’assassinio, poi sostituito nel 1943 su ordini di Himmler con l'innocuo participio durchgeschleust, che significa “passato attraverso” (cioè ucciso in un campo di sterminio), e di Endlosung der Judenfrage (la soluzione finale del problema ebraico) che non ha bisogno di spiegazioni.
Nella lingua del lager – che merita uno studio a sé – si va dall’uso macabramente ironico di Himmel (cielo), come in Himmelsfahrtblock (la baracca dei moribondi, di coloro che stanno per “salire in cielo”), e Himmelskommando (il reparto di Ordnungspolizei o SS che eseguiva le Azioni di sterminio), a quello di Fressen (l’atto del mangiare degli animali) di contro all’Essen (il mangiare degli uomini).
L’uso di queste nuove espressioni servì all’ufficializzazione di quelle pratiche disumane che, così designate in modo più o meno scientifico, non avrebbero potuto esser ritenute “criminali”. Ho già ricordato su queste pagine cosa fosse scritto sui vagoni dei treni speciali per la deportazione: R.U. (Rückker unerwünscht, cioè ritorno non desiderato!).
C’è un documento (un Vermerk, “rapporto”) del 1943 oggetto di una brillante tesi di laurea[iii], che fornisce un concreto esempio di reificazione; ad es. i verbi abgeben, abnehmen, mitgeben, liefern, transportieren e überweisen che hanno il significato di trasferire Waren, cioè “merci”, e quindi un riferimento ad oggetti, nel documento sono adoperati prevalentemente con riferimento a pazienti e personale medico; I sostantivi Verlegung, Abtransport sono connessi al campo semantico del “trasferire”; ma se Verlegung può essere riferito alle cose ed ai pazienti, Abtransport era generalmente usato per indicare il trasporto di Baumaterial, “materiale edile”, e non potrebbe esser riferito a persone, come invece in quel memorandum; similmente per espressioni quali die zuliefernden Kranken “gli ammalati da consegnare”, e die zurückbleibenden Kranken “gli ammalati da non trasferire”.
Se però c’è una categoria di “nemici” del Volk sulla quale il nazismo si accanisce con particolare ferocia è quella dei malati mentali: Erbkrank (malato per tare ereditarie) è anche il titolo di un famoso film di propaganda del 1936 destinato, con altre produzioni del Dipartimento per la politica razziale del NSDAP, a “preparare il terreno” per le tragiche iniziative dell’Aktion T4, precorritrici e vere incubatrici di tecniche e soprattutto di personale umano poi destinato ai lager. Anche a questo proposito abbondano gli eufemismi, da Ballastexistenzen, vite pesi morti, a Euthanasie, sinonimo del neologismo Gnadentod, “morte pietosa”, ed il tecnicismo Medizinische Vernichtung, “uccisione medica“. La propaganda del regime si serviva anche di orribili illustrazioni tese a rimarcare il costo, per il Volk, delle cure da somministrate a tali inutili soggetti.
Così anche i termini di minorati mentali (behinderte Menschen), malati psichici (Geisteskranke), assumevano una diversa lettura rispetto a quella scientifica, per confluire in quella più generale di “vite indegne di essere vissute” (lebensunwerte Leben), cui Marco Paolini ha dedicato un suo noto lavoro teatrale, Ausmerzen, espressione del mondo della pastorizia indicante la pratica di sopprimere gli animali più deboli del gregge, che non riuscirebbero a compiere la transumanza. L’espressione era stata usata per la prima volta nel titolo di un libro del 1920 di due eminenti studiosi e scienziati, il giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche, Die Freigabe der Vernichtung Lebensunwerten Lebens ("Ciò che consente la distruzione di una vita indegna di vita"), a proposito di soggetti non più “in grado di produrre” (arbeitsfähig).
Al termine di un percorso non solo linguistico si tramuteranno negli Stücke già ricordati e quindi in Krematoriumsfleisch, “carne da crematorio”, destinata infine agli Schornsteine, i camini, di Nelly Sachs:
O i camini
Sulle dimore della morte così ingegnosamente ideate
Quando il corpo di Israele salì come fumo
Attraverso l’aria [iv]
[i] Trad. di G.VIGOLO in F.HOLDERLIN, Poesie, Einaudi, Torino, 1958
...offen die Fenster des Himmels
Und freigelassen der Nachtgeist,
Der himmelstürmende, der hat unser Land
Beschwätzet, mit Sprachen viel, undichtrischen, und
Den Schutt gewälzet
Bis diese Stunde
[ii] LTI sta per Lingua Tertii Imperii, il sottotitolo essendo appunto La lingua del Terzo Reich nell’edizione italiana, Giuntina, Firenze, 1999. Klemperer tenne anche un prezioso diario Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Mondadori, Milano, 2000.
[iii] Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi, e sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù (1956), Legge di ratifica 20 dicembre 1957, n. 1304 , art.7.
[iv] M. CINIGLIO, Il lessico disumano del nazismo: l’oggettivazione linguistica dei malati psichici, Analisi di un documento del 20.8.1943 (tesi di laurea), 2010, https://www.academia.edu/6586949/Il_lessico_disumano_del_nazismo, consultato 1.1.2022.
[v] Ns. trad. di N.SACHS, In den Wohnungen des Todes (1947):
O die Schornsteine
Auf den sinnreich erdachten Wohnungen des Todes,
Als Israels Leib zog aufgelöst in Rauch Durch die Luft.
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