ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il pasticcio dell’eutanasia. Le colpe del “politicamente corretto”
di Giuseppe Cricenti
Sommario: 1. Tutta una serie di equivoci - 2. Il principale degli equivoci: la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva - 3. La definizione di eutanasia - 4. Conclusioni. L’eutanasia come moda del politicamente corretto.
1. Tutta una serie di equivoci
La bocciatura del quesito referendario era prevedibile.
In effetti il referendum mirava ad abolire, quasi interamente, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente producendo un effetto ben maggiore di quello che stava a cuore ai promotori: non solo avrebbe reso lecita l’eutanasia ma qualsiasi caso di morte data con il consenso della vittima, salvo ipotesi eccezionali.
Chiaramente, posto in questi termini, il quesito non poteva passare: per quanto ancora non nota la motivazione, mi pare evidente che, come si evince dal comunicato stampa della Corte, la preoccupazione è stata quella di evitare che i cittadini chiamati al referendum, nella convinzione di star facendo un’opera di bene per i malati terminali, inconsapevolmente acconsentissero anche a condotte che con l’eutanasia hanno nulla da condividere.
Perché si è arrivati a tanto?
Intanto, perché, sia nel senso comune, che tra molti dotti, non è chiaro cosa si intenda per eutanasia, che non è né suicidio assistito né omicidio del consenziente, ma un’altra e ben diversa cosa; inoltre perché la precedente decisione della Corte Costituzionale (n. 242 del 2019), sul famoso “caso Cappato”, quella confusione ha alimentato, facendo soverchio affidamento su una distinzione del tutto irrilevante e fuorviante, tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva, ed ha fatto coincidere la prima con il suicidio assistito e la seconda con l’omicidio del consenziente, in modo del tutto ingiustificato: distinguo che ha indotto i promotori del referendum a chiedere l’abrogazione, almeno parziale, proprio dell’omicidio del consenziente, unica norma rimasta a sanzionare l’eutanasia, quella, per l’appunto, attiva.
Vediamo meglio perché.
Il senso della precedente decisione della Corte, ossia della sentenza n. 242 del 2019, era il seguente: se l’ordinamento riconosce il diritto del paziente di rifiutare le cure ancorché salvifiche, perché non dovrebbe riconoscere il diritto di morire facendosi aiutare da un terzo?[1]
In sostanza, conta l’autodeterminazione del paziente, nel senso che, nel ristretto ambito di casi in cui il malato è gravemente sofferente per una malattia irreversibile, è tenuto in vita artificialmente, ma è capace di prendere decisioni libere e consapevoli, allora «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita».
Conseguentemente, se il medico asseconda la determinazione del malato a morire, il suicidio assistito che ne risulta non è penalmente rilevante, e quindi l’art. 580 del codice penale, nella misura in cui invece lo sanziona, è illegittimo.
Ma i casi di assistenza del medico non si riducono a questo.
Infatti, osserva la corte[2] che la legge oggi vigente (il riferimento è alla legge n. 219 del 2017) consente al paziente di rifiutare le cure, ma non consente al medico una condotta attiva che causi la morte del sofferente, e neanche una condotta con cui il medico metta a disposizione del paziente mezzi utili a che costui possa provocarsela da sé.
In sostanza, la differenza tra la condotta lecita del medico e quella illecita è basata su un criterio naturalistico, vale a dire che dipende dalla circostanza che l’azione sia materialmente o meno compiuta dal paziente o dal sanitario.
Nell’operare questo distinguo, la corte ha ripreso una speciosa distinzione fatta dal Comitato di Bioetica, che, richiesto di un parere proprio sul caso oggetto di decisione, ha opinato come, nella misura in cui l’eutanasia consiste nell’anticipazione della morte del paziente per alleviarne le sofferenze, allora rientra nella fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Per contro, la differenza tra questo caso ed il suicidio assistito, starebbe nel fatto che è il paziente, nel suicidio assistito, a compiere l’ultimo atto[3]. Dunque, la validità di una qualificazione morale e giuridica dipende da una differenza meramente naturalistica: il paziente che prende da solo il farmaco, fornitogli dal medico, oppure il medico che glielo somministra direttamente. E cambia tutto.
Insomma, il Comitato di Bioetica, ed in una certa misura la stessa Corte costituzionale, richiamano distinzioni che sembravano superate, in quanto del tutto inutili, se non controproducenti, per una definizione dell’eutanasia. La distinzione tra azione ed omissione come distinzione naturalistica: l’agire è movimento corporeo, l’omissione no; e proprio per questo l’agire è causalmente efficiente e l’omissione no, o comunque, in alcune varianti, è causalmente meno determinante. Con la conseguenza che l’omissione va trattata in modo diverso, moralmente e giuridicamente più indulgente, dell’azione.
Ecco dunque perché il referendum ha dovuto avere ad oggetto la fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Avendo la precedente decisione della Corte costituzionale, ritenuto penalmente irrilevante l’eutanasia passiva, considerata come caso di suicidio assistito, ed avendo invece lasciato in piedi la rilevanza penale di quella attiva, considerata un caso di omicidio del consenziente, ne è seguita la necessità, per coloro che intendevano rendere lecita ogni ipotesi di eutanasia, di chiedere l’abrogazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente, unica fattispecie rimasta in vigore a sanzionare l’eutanasia, quella attiva.
2. Il principale degli equivoci: la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva
Il referendum, dunque, ha avuto una strada obbligata: puntare sull’omicidio del consenziente poiché questa fattispecie era l’unica rimasta a decretare la rilevanza penale dell’eutanasia, meglio, di quella ipotesi di eutanasia che la Corte costituzionale aveva ritenuto ancora penalmente rilevante a cagione del fatto che lì è il medico che aiuta il paziente a morire, con una sua attiva condotta.
Sia detto, e non per mero inciso, che v’era di certo interesse a far dichiarare anche questa forma di eutanasia come lecita, poiché un conto è lasciar morire il paziente, interrompendo la cura, ad esempio staccando il respiratore o togliendo il sondino naso gastrico, oppure non somministrando più i farmaci, e altro ben diverso conto è invece procurargli qualcosa che lo faccia morire subito: questa seconda soluzione evita le spesso lunghe sofferenze causate invece dalla prima.
Non ho qui lo spazio per dimostrare che quella distinzione, sfruttando un sedicente diverso ruolo causale, e conseguentemente un diverso statuto morale, dell’azione rispetto all’omissione, è del tutto fallace ed irrilevante, cosi come lo è il ruolo dell’intenzione nella fattispecie dell’eutanasia[4].
Inoltre, è mancata del tutto una riflessione su cosa si intenda per eutanasia, e se solo si avesse avuto cura di considerare che si tratta di una vicenda del tutto diversa da quelle incriminate dal codice penale (art. 579 e 580 c.p.) ossia suicidio assistito e omicidio del consenziente, non avremmo avuto bisogno di rigettare un quesito referendario e non avremo bisogno di una legge: se solo la Corte Costituzionale, avesse evitato di operare quella distinzione enucleando una ipotesi di eutanasia- quella attiva- da intendere ancora come penalmente rilevante.
Vediamo come può definirsi l’eutanasia.
3. La definizione di eutanasia
Da quanto sino ad ora detto, emerge come, sgomberato il campo da quelle distinzioni, si possono individuare condizioni necessarie e sufficienti per definire l’eutanasia come pratica lecita, secondo il modello ipotizzato da T. Beauchamp e A Davidson[5], che risponde peraltro ad acquisizioni pressoché condivise in bioetica e filosofia morale. Secondo questa definizione la morte di un essere umano, A, è un caso di eutanasia se e solamente se: (i) la morte di A è provocata da un altro essere umano, B, ma nel senso che quest’ultimo può essere sia la causa della morte di A che un elemento causalmente pertinente dell’evento morte (che ciò avvenga dunque per azione od omissione non rileva); (ii) B dispone di sufficienti elementi per credere che A soffre in modo intenso o è in uno stato di coma irreversibile, e questa credenza si fonda su una o più leggi causali attestate; (iii) la ragione maggiore per cui B vuole la morte di A è nel far cessare le sue sofferenze; (iv) tre le procedure che consentono la morte di A, A e B scelgono quelle che producono le minori sofferenze ad A, e comunque sofferenze minori di quelle che con la morte si vorrebbero far evitare; (v) A non è un organismo fetale.
Si tratta di cinque condizioni, individualmente necessarie ed insieme sufficienti a definire l’eutanasia.
Intanto (i) deve trattarsi di morte provocata da un terzo, condizione che serve a distinguere l’eutanasia dal suicidio; deve essere voluta per porre fine alle sofferenze di una malattia mortale irreversibile (ii e iii), e dunque, come abbiamo visto non può parlarsi di eutanasia rispetto ad un soggetto sano, né può questa condizione servire a distinguere tra azioni ed omissioni, ipotizzando che solo in quest’ultimo caso la morte sopravviene per decorso naturale della malattia, e salva la restrizione del concetto alle sole sofferenze dovute a malattie mortali o terminali, o particolarmente gravi[6], con la conseguenza che si spiega perché (iv) la sofferenza provocata dalla procedura di eutanasia prescelta non deve produrre sofferenze maggiori di quelle che si vogliono evitare. L’ultima clausola (v) consente di distinguere l’eutanasia dall’aborto; le prime quattro da qualsiasi forma di omicidio o suicidio assistito.
Se aiuto taluno a buttarsi dalla finestra perché deluso dalla fidanzata, o angosciato dai debiti, non è evidentemente eutanasia, e così se propongo a taluno di ucciderlo e costui acconsente.
Eutanasia è concetto ben preciso che indica la fine delle sofferenze di un malato, che è tenuto in vita, o potrebbe esserlo, artificialmente, e che non vuole che si prosegua in un accanimento terapeutico o che quell’accanimento mira a prevenire.
Un concetto onesto che non comprende la medicalizzazione del suicidio: sono solo un depresso e chiedo, magari pagando un ticket, di essere aiutato a morire dalla ASL. Ma che punta sulla fine di una sofferenza inevitabile e di un processo naturale che solo l’accanimento terapeutico può rallentare, senza che rilevi se la fine è decretata da un’azione o da una omissione.
4. Conclusioni. L’eutanasia come moda del politicamente corretto
Mi pare, in conclusione, che si possa convenire sul fatto che l’equivoco è partito proprio dalla decisione precedente della Corte Costituzionale che, dopo aver correttamente premesso che deve essere fatta la volontà del paziente, si è messa a distinguere tra il caso in cui quest’ultimo è aiutato dal medico attivamente oppure no, ed ha dunque ritagliato una ipotesi di eutanasia ancora penalmente rilevante nel primo caso, riferendola alla fattispecie dell’omicidio del consenziente, e così obbligando i promotori del referendum ad aggredire questa norma.
Utile sarebbe stato invece definire l’eutanasia secondo una ormai consolidata visione bioetica.
Ma non basta.
I promotori del referendum hanno agito anche per equivoco proprio: era difficile spiegare contrarietà ai sostenitori del quesito senza incorrere nell’accusa di voler negare autonomia al paziente, e senza essere persino additati tra quelli che vogliono obbligarlo a soffrire.
Ed anche qui l’equivoco.
Non ho lo spazio per dimostrare in questi ambiti quanto poco si sappia del concetto di autodeterminazione quando lo si usa nelle questioni di biodiritto: i bioetici ne hanno maggiore confidenza.
Ma mi limito a brevi chiose.
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’eutanasia è chiesta dai parenti di un malato che, per le condizioni in cui versa, non è in grado di decidere: dunque non realizza l’autonomia del paziente.
Anche quando si è in presenza di un testamento biologico, non bisogna dimenticare che si tratta , sì, di un atto di autonomia, ma di un soggetto sano, e non sappiamo se una volta trovatosi nelle condizioni presagite, costui mantenga la volontà espressa nella direttiva anticipata, o piuttosto cambi idea: gli oncologi di maggiore esperienza riferiscono di pazienti, che pur avendo fatto testamento biologico , chiedono poi di essere curati il meglio possibile, anziché rifiutare l’intervento. Altro è determinarsi da sano, altro è farlo quando la decisione da assumere è concreta.
Restano, certamente, i casi in cui il paziente è cosciente e decide da sé di rifiutare il trattamento medico, e lì la sua volontà va rispettata.
Quello che però da cui mettere in guardia è l’idea che, modernamente, non si può parlare di etica pubblica, se non attraverso l’etica dell’autodeterminazione. Segno dei tempi: non c’è etica pubblica al di fuori di quella dei diritti fondamentali.
L’eutanasia, quale momento di assoluta autodeterminazione del paziente, è un’invenzione degli intellettuali dell’occidente, che non corrisponde alla realtà dei fatti.
Il che non sarebbe un guasto, se questi ultimi, anziché una moda del politicamente corretto- faccio morire il paziente nel suo interesse- fossero frutto di una strategia epistemologicamente fondata.
[1] Corte Cost. 242 del 2019 : «Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più̀ lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».
[2] Corte cost. n. 242 del 2019
[3] Comitato Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 18 luglio 2019, p. 9 e ss..
[4] Rinvio chi avesse curiosità a G. CRICENTI, Il sé e l’altro. Bioetica del diritto civile, ETS, Pisa, 2013, p. 98 e ss. Ovviamente B. STEINBOCK, Killing and Letting Die, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1980 e H. KUHSE, The Sanctity-of-Life Doctrine in Medicine. A critique, Clarendon Press, Oxford, 1987, oltre che O.H. GREEN, Killing and letting Die, in «American Philosophical Quarterly», 17, 1980, pp. 195-204
[5] T.L. BEAUCHAMP -A DAVIDSON, The definition of Euthanasia, in «Journal of Medicine and Philosophy», 1979, p. 294 e ss.
[6] Il riferimento alle leggi causali certe consente di affrontare la questione della sofferenza non attuale ma futura, ossia di un soggetto di cui è certo che in un breve tempo soffrirà per una malattia che gli viene diagnosticata oggi e che è incurabile o irreversibile, cosi che rientra nel concetto di eutanasia anche la pratica volta ad evitare sofferenze non attuali , ma certe in futuro.
Contrasto al narcotraffico e legalizzazione delle “droghe leggere”*
di Franco Roberti
Sommario: 1. Premessa - 2. Il metodo di analisi -3. Le dinamiche del narcotraffico - 4. Il contrasto al narcotraffico: efficacia, limiti e prospettive di sviluppo - 5. Le proposte di legalizzazione - 6. Le condotte punibili - 7. Conclusione.
1. Premessa
Le osservazioni che seguono riflettono, con pochi aggiornamenti, quelle da me espresse il 20 giugno 2016, su richiesta della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in relazione alle proposte di legge in materia di stupefacenti (Giachetti ed altre), ivi giacenti e forse oggi risvegliate dalla prospettiva referendaria.
Venendo in rilievo questioni che hanno riflessi immediati sul tema del contrasto alle mafie, ritengo di dover evidenziare immediatamente che qualunque ipotesi di legalizzazione delle c.d. “droghe leggere” andrebbe inquadrata in una strategia di potenziamento della complessiva azione di contrasto al narcotraffico, nei termini che la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha costantemente indicato nelle Relazioni Annuali trasmesse al Parlamento nel periodo 2014-2018.
Su questo tema la DNA ha inteso fornire un contributo anche propositivo, di natura pragmatica, scevro da pregiudizi politici ed ideologici ed esclusivamente fondato su fatti e circostanze documentate. Con la finalità di trovare soluzioni concrete ai complessi e numerosi problemi della materia, molti dei quali da troppo tempo si ripropongono reiteratamente, uguali a se stessi, senza che vi sia una risposta di sistema davvero efficace.
2. Il metodo di analisi
I punti di partenza delle osservazioni contenute in quelle Relazioni, e che anche in questa sede saranno svolte, sono tre.
Il primo punto è costituito da una documentata analisi del fenomeno in tutti i suoi aspetti, che serve a comprendere - al di là delle pur legittime opinioni - di che cosa concretamente parliamo. Tale analisi è stata realizzata sulla base dello studio: a) delle indagini e dei processi che, in materia di traffico di stupefacenti, vengono portati a termine su tutto il territorio nazionale; b) dei diversi report redatti dalle principali Agenzie nazionali ed internazionali che si occupano del tema.
Nel dettaglio, vengono accertate a livello nazionale: le dimensioni quantitative e qualitative del narcotraffico, l’entità del mercato e, quindi, il numero dei consumatori, le dinamiche criminali che muovono il sistema del narcotraffico e le grandi organizzazioni che le governano, la quantità di risorse finanziarie che il fenomeno muove, la direzione verso cui tali risorse vengono indirizzate, e, infine, in senso dinamico, i trend ed i profili evolutivi sia del traffico che del consumo.
Il secondo punto è offerto dalla raccolta e messa a sistema dei risultati raggiunti dall’azione di contrasto al narcotraffico nei suoi diversi ambiti (droghe pesanti, droghe sintetiche, droghe c.d. leggere). Anche in questo caso va fatto esclusivo riferimento a dati oggettivi, desumibili: dai quantitativi di stupefacente sequestrato, dal numero dei consumatori, dalla quantità e qualità degli arresti effettuati, dal livello della catena criminale cui le investigazioni sono giunte, dalla entità dei patrimoni confiscati, dai risultati ottenuti attraverso le indagini finanziarie svolte sul versante delle transazioni finalizzate al pagamento delle partite di stupefacenti.
Il terzo punto consiste nella individuazione delle criticità dell’azione di contrasto. In altri termini, la valutazione della sua adeguatezza - sia in senso globale che in relazione ai diversi aspetti del fenomeno - svolta sulla base dei dati e delle circostanze di fatto acquisite in relazione ai primi due punti.
L’analisi complessiva di tutte queste risultanze, consente, a sua volta, l’individuazione del concreto rilievo e della reale importanza che il narcotraffico, nel corso del tempo, ha assunto, prima, nel contesto criminale e, poi, in quello dell’economia legale.
Non si tratta di un esercizio accademico, ma del presupposto conoscitivo che consente alla DNA di svolgere in modo consapevole i propri compiti istituzionali. Fra questi, vi è quello di garantire, a livello nazionale, anche nel contrasto al narcotraffico, tempestività, e completezza delle investigazioni e, quindi la loro concreta efficacia.
3. Le dinamiche del narcotraffico
Orbene, partendo dalle concrete risultanze delle analisi condotte in relazione ai punti sopra indicati - che consentono di avere chiara l’attuale dinamica del narcotraffico, la sua dimensione, la sua concreta pericolosità, la completezza ed utilità degli strumenti investigativi e normativi utilizzati nell’azione di contrasto - sarà qui evidenziato se, ed in quale misura e per quali aspetti, le proposte di legge all’esame del Parlamento possano, nell’attuale contesto, rappresentare uno strumento idoneo a rendere più efficace l’azione di contrasto al narcotraffico.
Ciò impone una rapida sintesi dell’attuale situazione che non può che partire dalla fotografia del fenomeno. Quella di cui si è detto al primo punto.
In proposito, si è rilevato che negli ultimi anni, a fronte di una stabilizzazione del consumo di droghe pesanti tradizionali (cocaina ed eroina), di una concentrazione delle leve di comando del traffico in poche mani, di un significativo incremento del consumo e del traffico delle nuove droghe sintetiche, si è avuta una straordinaria crescita del consumo di cannabinoidi. Nella Relazione Annuale trasmessa al Parlamento nel 2015, la DNA calcolava che, sulla base dei dati noti relativi al periodo immediatamente precedente, in Italia, il circolante annuo di cannabis, per difetto, era di circa 1.500.000 kg (tale per cui, in astratto, poteva ipotizzarsi che ciascun italiano, compresi vecchi e bambini, potesse consumare circa 25 grammi di cannabis all’anno). Nella stessa Relazione si precisava che le stime più aggiornate del più importante organismo mondiale che si occupa del fenomeno, l’UNODC, evidenziavano la presenza in Italia di un mercato della cannabis composto da circa 3.000.000 di consumatori abituali. Dato, come si vede, congruo e proporzionato rispetto a quello fornito dalla stessa DNA sul quantitativo di cannabis annuo circolante in Italia. E per avere una idea delle dimensioni internazionali di questo mercato, a sua volta, l’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze, nel suo rapporto del 2015, stimava che, sugli oltre 500.000.000 abitanti dell’Unione Europea, circa 78 milioni avevano fatto uso, in modo più o meno prolungato o più o meno abituale, di sostanze stupefacenti del tipo cannabis. Cioè poco meno del 20% del totale della popolazione.
Sul fronte dei gruppi criminali che gestiscono in Italia il narcotraffico, si è assistito ad un conferma della leadership della ‘ndrangheta – nel traffico di cocaina – e, nel medesimo settore, di un consolidamento delle posizioni della camorra. Le mafie balcaniche e quelle pugliesi mantengono invece una forte presenza nel settore del traffico dell’eroina.
In quello della cannabis, la posizione di preminenza deve essere riconosciuta alla camorra, che anche grazie ai suoi insediamenti in Spagna, ha agevoli e continui contatti con i principali luoghi di produzione nord-africani, nonché ai gruppi albanesi (l’Albania è divenuta il primo produttore europeo di cannabis) e, ancora una volta, a quelli balcanici. Va altresì segnalata una fortissima produzione di cannabis in Afghanistan, che è, unitamente a quella marocchina, al primo posto nel mondo ed ha in parte soppiantato la coltura del papaver somniferum (papavero da oppio).
Le organizzazioni criminali straniere (albanesi, marocchini, nigeriani, serbo-montenegrini, bulgari), sono oramai in grado di contendere alle altre formazioni criminali il controllo dei segmenti delle direttrici di traffico che interessano l’Italia e la gestione della rete di spaccio sul territorio nazionale delle principali sostanze d’abuso.
I dati appena esposti sono di rilievo nelle valutazioni che ci accingiamo a svolgere sulle proposte di legge in questione. Dimostrano, infatti: 1) che le mafie transnazionali hanno una posizione di sostanziale monopolio nella gestione dei traffici di stupefacenti, ovviamente compreso quello della cannabis; 2) che la crescente domanda di cannabis ha trovato una pronta risposta nella straordinaria nuova produzione afgana, agevolata dalla situazione socio-economica e politica determinata dal recente ritorno al potere dei Talebani. Ciò significa che questa fondamentale area di produzione della cannabis è controllata da gruppi fondamentalisti e terroristi che da essa traggono la principale fonte di finanziamento.
4. Il contrasto al narcotraffico: efficacia, limiti e prospettive di sviluppo
Esaminati questi primi aspetti, prima ancora di trarre le necessarie conclusioni, verifichiamo quale sia la situazione con riferimento al secondo e terzo punto in premessa indicati. In altri termini deve darsi conto dell’efficacia dell’azione di contrasto. Il che significa evidenziare i risultati dell’azione di contrasto al traffico e le criticità emerse.
Prima di tutto, deve chiarirsi che azione di contrasto efficace non è quella che tende al mero contenimento del fenomeno, bensì quella – ovviamente compatibile con le risorse del Paese – in grado di invertire il trend di continua crescita del narcotraffico che, nel corso degli ultimi trenta anni, ha aumentato a dismisura il potere criminale e finanziario dei narcotrafficanti e attualmente costituisce una preziosa risorsa anche per i terroristi.
È stato già in passato evidenziato come il crimine organizzato si sia rafforzato negli anni, sia nel nostro Paese che nel mondo intero, grazie proprio al controllo di un mercato che vale, annualmente, circa 560 miliardi di curo a livello globale e circa 30 miliardi di curo in Italia (pari a circa il 2% del PIL nazionale): ricchezza illecita inevitabilmente destinata a refluire in gran parte sul mercato finanziario ed economico legale, alterandone le regole essenziali e, fra queste, la più importante che è quella che, in un sistema liberal-democratico, assicura giustizia, equità e progresso sociale, ossia la parità di partenza fra i diversi operatori economici.
Considerando solo gli ultimi 20/25 anni, in concreto, è stato stimato che, ad oggi, in termini assoluti, le narcomafie dispongano, al netto, di un patrimonio ripulito, presente sui mercati finanziari, immobiliari e mobiliari, pari a circa 8.300 miliardi di euro a livello globale ed a circa 400 miliardi di euro in Italia. Patrimonio che – sulla base dei dati forniti dall’UNODOC - di anno in anno si incrementa di circa 20 miliardi di euro. E che, in tutta evidenza, rappresenta un condizionamento insostenibile per un corretto svolgimento della vita sociale ed economica del Paese e per la libera concorrenza.
Pensiamo quanta corruzione può essere – ed è – alimentata da soggetti criminali che dispongono di queste entrate e di questi patrimoni. Come infatti abbiamo già osservato, anche secondo la più prestigiosa Agenzia internazionale che si occupa di crimine organizzato, l’UNODOC, in qualsiasi paese del mondo, vi è, non solo, una relazione diretta, un rapporto di rafforzamento reciproco, fra la corruzione e la sua diffusione e la rilevanza economica che ha assunto il narcotraffico in quel determinato contesto, ma anche un rapporto diretto fra il rafforzamento delle grandi organizzazioni criminali che trafficano in stupefacenti e la penetrazione di queste nella politica e nella amministrazione pubblica, sia locale che nazionale. Sul punto, UNODOC faceva proprio l’esempio della situazione italiana in cui le grandi organizzazioni mafiose mantengono intatte la loro capacità di condizionamento delle istituzioni pubbliche, proprio in quanto dispongono di risorse rilevanti provenienti dal traffico di stupefacenti.
Da qui nasce la priorità dell’azione di contrasto al narcotraffico e proprio su questo terreno la sua efficacia deve essere misurata. Verificando, cioè, la sua capacità di superare un inaccettabile status quo e di invertire una rotta che ha portato, negli ultimi trenta anni, a concentrare in mani criminali rilevantissime risorse illecite che - specialmente nel post pandemia e nella gestione del PNRR - rischiano di condizionare l’economia legale e lo sviluppo del Paese.
In concreto, invece, si è verificato che, pure a fronte di un eccezionale impegno della Magistratura e delle Forze dell’ordine, l’azione di contrasto non è stata in grado di invertire il trend che si è descritto. Non è stata in grado cioè, di incidere sul cuore del problema.
E se, come crediamo, il cuore del problema è rappresentato dalla capacità del narcotraffico di creare e concentrare ricchezze illecite, allora, l’azione di contrasto efficace deve essere sviluppata in tale direzione.
In vista di tale obiettivo la DNA ha proposto nuovi protocolli d’indagine e l’adozione di nuovi strumenti normativi che potenzino le investigazioni.
Anzitutto, dovrebbero essere impiegate in modo più incisivo le risorse, assai rilevanti, che pure vengono spese su questo fronte senza tuttavia riuscire ancora a invertire la rotta.
In particolare, occorrerebbe investire maggiormente nella specializzazione delle Forze dell’ordine in tre settori vitali, che sono: 1) quello dell’informatica – è sul web, ed ancora di più sul deep web, che corre la nuova frontiera del traffico – potenziando la Polizia Postale e dotando la DCSA di personale e poteri investigativi analoghi a quelli della Polizia Postale; 2) quello delle intercettazioni telematiche, con normative più stringenti nei confronti degli internet provider e tecnologie costantemente aggiornate nella disponibilità degli inquirenti; 3) quello delle investigazioni sul riciclaggio dei proventi del traffico, e, prima ancora, sui movimenti finanziari che muovono e alimentano i traffici, da svolgersi anche attraverso l’impiego delle operazioni sotto copertura in contesti economici e finanziari.
In questa prospettiva, va osservato che sul fronte delle droghe pesanti tradizionali, cocaina ed eroina, pur non conseguendosi lo sperato risultato di “inversione del trend”, si è tuttavia ottenuto un sensibile contenimento del fenomeno e, talora, anche dei significativi successi sul fronte degli arresti dei grandi trafficanti, della confisca (ancora ex post, ed assai parziale) dei patrimoni illecitamente accumulati e del sequestro dei grandi carichi. Si tratta di risultati conseguiti grazie alla abnegazione delle Forze dell’ordine e della Magistratura, che tuttavia scontano il limite della perdurante carenza dell’azione di contrasto sul versante dei meccanismi che consentono le enormi transazioni finanziarie che ruotano intorno al traffico e, quindi delle persone fisiche e giuridiche operanti, nell’ombra, in tale settore (il che spiega la ragione per cui non siamo ancora arrivati al cuore del problema).
Gli stessi risultati di contenimento non si sono ottenuti - nonostante lo stesso impegno profuso - nel settore del contrasto al traffico della cannabis, sempre più fiorente grazie ad un consumo incontrollato di massa.
Ed è paradossale che ciò sia avvenuto in un settore, quello delle droghe leggere, nel quale, sicuramente da un punto di vista quantitativo, l’impiego di uomini e risorse, non solo in Italia, ma in Europa, è stato maggiore.
Si è infatti constatato che, sia in Italia che in Europa, le attività repressive sul traffico, lo spaccio e la detenzione di cannabis – a ragione è ritenuto lo stupefacente certamente dannoso, ma meno pericoloso ed a cui si riconnettono, infatti, in tutta Europa, di norma, le sanzioni meno gravi - impegnano sull’intero territorio nazionale (e non solo) un numero di appartenenti alle Forze di polizia giudiziaria e di magistrati che è un multiplo di quello impegnato nelle azioni di contrasto all’eroina ovvero alla cocaina, alle droghe sintetiche, ben più micidiali.
I sequestri di quantitativi di cannabis, sono, a seconda degli anni, 100 o 150 volte di più di quelli di eroina e cocaina e 8000 volte maggiori dei sequestri delle droghe sintetiche. In pratica sequestriamo in misura infinitamente più ampia la sostanza meno dannosa rispetto a quelle ben più nocive, se non letali.
E così, per allargare l’orizzonte, a dimostrazione di una tendenza comune a livello continentale, ì comandi di polizia europei nel solo 2013 sono stati impegnati a segnalare alle più diverse Autorità - giudiziarie ed amministrative - circa 782.000 consumatori di cannabis e a redigere 120.000 rapporti di denuncia per spaccio di tale sostanza - mentre, per dare un riferimento comparativo con l’eroina, le denunce, sempre a livello europeo, per il mero consumo sono state circa 20 volte in meno e per la cessione 7/8 volte in meno.
A loro volta i sequestri di cannabis, che a livello europeo sono stati nel numero di 431.000, sono un multiplo di quelli di tutte le altre droghe messe insieme.
A livello nazionale, nel corso del biennio 2014-2015, furono denunciate per produzione, traffico. e spaccio di cannabinoidi 27.098 persone, che erano di più della somma dei soggetti denunciati per traffico e spaccio di tutte le tradizionali droghe pesanti il cui numero, complessivamente, ammontava a circa 26.000 unità.
Bisogna chiedersi, allora: quante migliaia di ufficiali di polizia giudiziaria impegniamo, complessivamente, nel settore della repressione del traffico di cannabis, considerando prima il numero degli agenti impegnati ad effettuare sul territorio questi interventi, poi quello degli Ufficiali di pg impegnati a redigere le relative informative e verbali e, infine, quello di carabinieri, finanzieri, poliziotti, quotidianamente impegnati nei tribunali per deporre in udienza ? E quanti magistrati, cancellieri, agenti della penitenziaria, funzionari di prefettura, assistenti sociali, impieghiamo per dare corso alle denunce, ai processi o alle segnalazioni di natura amministrativa per lo spaccio, il traffico o per la mera detenzione di tale sostanza? E con quali risultati ?
La risposte, anche qui, sono agevoli.
Impegniamo, sul fronte repressivo per il fenomeno cannabis, circa la metà delle forze che abbiamo a disposizione sul campo per contrastare complessivamente il narcotraffico ed il conseguente gravissimo fenomeno del riciclaggio.
Non solo, quindi, non sarebbe pensabile impiegare più uomini e mezzi nella repressione del fenomeno, perché ciò sottrarrebbe le residue risorse all’azione di contrasto contro fenomeni che lo stesso legislatore ritiene più gravi (traffico di droghe pesanti, riciclaggio, corruzione, contrasto alle mafie e al terrorismo, ecc.), ma sarebbe necessario dirottare risorse ed energie dalla repressione di fenomeni meno gravi (fra cui quello della cannabis) verso quelli ben più gravi che abbiamo indicato.
Quanto ai risultati della strategia repressiva contro la cannabis - che è stata nel corso del tempo, a seconda delle diverse opzioni scelte dal legislatore, più o meno severa – anche qui, sulla scorta dei numeri in nostro possesso, possiamo affermare che la stessa ha oggettivamente condotto – al di là delle buone intenzioni di chi intendeva reprimere il fenomeno – non ad una riduzione o ad un contenimento del fenomeno, ma ad una sua più ampia diffusione.
La verità è che di fronte ad 80 milioni di consumatori presenti nella sola Europa, di fronte ad un mercato che ha oramai l’ampiezza di quello della Coca Cola, dei tabacchi, degli alcoolici, lo strumento penale diviene , in sé, inadeguato. E lo è ancora di più in quanto la pericolosità del fenomeno è sempre meno avvertita.
5. Le proposte di legalizzazione
Nella descritta situazione, vanno positivamente valutate le proposte di legge che mirano a legalizzare la coltivazione, la lavorazione e la vendita della cannabis e dei suoi derivati. La legalizzazione, infatti, se correttamente attuata, potrebbe portare : 1) ad una rilevante liberazione di risorse umane e finanziarie in diversi comparti della Pubblica Amministrazione (FFOO, Polizia Penitenziaria, funzionari di Prefettura, ecc.); 2) ad una ancora più importante liberazione di risorse nel settore della Giustizia, dove sono decine di migliaia i procedimenti penali che richiedono l’impegno di magistrati, cancellieri ed ufficiali giudiziari, con risultati spesso del tutto inconcludenti in quanto vengono irrogate sanzioni che rimangono sulla carta; 3) ad una perdita secca di importanti risorse finanziarie, per le mafie e per il sottobosco criminale che, ad oggi, hanno il monopolio del traffico; 4) ad una contestuale acquisizione di risorse finanziarie per lo Stato, attraverso la riscossione delle accise; 5) al prosciugamento, in una più ampia prospettiva di legalizzazione a livello europeo, di risorse economiche e finanziarie per il terrorismo integralista che controlla la produzione afgana di cannabis; 6) in conclusione, ad un vero rilancio – attraverso la liberazione e l’acquisizione delle predette risorse - dell’azione strategica di contrasto, che deve mirare ad incidere sugli aspetti (davvero intollerabili) di aggressione e minaccia che il narcotraffico porta sia alla salute pubblica (attraverso la diffusione di droghe pesanti e sintetiche) che all’economia ed alla libera concorrenza (attraverso il riciclaggio).
E seppure tutto ciò non fosse vero (ma, in realtà, è vero) la legalizzazione avrebbe comunque il pregio di porre fine ad una azione repressiva che si è rivelata del tutto inefficace. In qualsiasi modo, nel corso degli anni, sia stata svolta. E che, anzi, ha fornito, a livello di marketing, un ulteriore vantaggio alla cannabis: la fascinazione del proibito.
E tuttavia la legalizzazione, per essere davvero funzionale agli scopi sopra indicati, dovrebbe mantenersi in binari chiari e pragmatici e rifuggire da ipocrisie, ideologismi, prese di posizioni, che sarebbero più dannosi che utili.
Quanto alla chiarezza – anche perché ci offre un modello sperimentato e funzionante, anche da un punto di vista fiscale – appare condivisibile l’idea di inquadrare la cannabis fra i generi di monopolio. L’assimilazione cioè – sia pure nella particolarità del caso - del regime giuridico della cannabis a quello dei tabacchi, fatta propria da diverse proposte di legge, appare una soluzione concreta, fattibile e priva di rischi. E tuttavia, per rimanere tale, dovrebbe essere portata avanti con coerenza e senza tentennamenti. In questa prospettiva, l’idea di creare, quanto al commercio al dettaglio della cannabis, una (inevitabilmente) nuova rete di esercizi commerciali dedicata solo alla vendita di questo prodotto, desta forti perplessità. Non diversamente da quanto si avuto modo di constatare in altri settori di recente legalizzati (ad esempio quello delle scommesse), questo nuovo affare attirerebbe inevitabilmente gli interessi del crimine organizzato. Fermo restando infatti, il divieto di vendita della cannabis ai minori, esiste invece una rete già nota, collaudata, sicura e conosciuta di rivenditori di generi di monopolio e non si vede perché non si possa ricorrere alla stessa – ovvero a parte della stessa, escludendo chi abbia eventuali controindicazioni di carattere oggettivo o soggettivo - per la distribuzione del prodotto.
Appare, invece, assolutamente non condivisibile l’idea di autorizzare la c.d. coltivazione in forma associata della cannabis.
La valutazione degli effetti di una norma, in astratto ragionevole, la si deve, infatti, misurare in concreto, tenendo conto della situazione di fatto in cui si cala. E riteniamo che la forma di coltivazione associata, possa essere un ulteriore cavallo di Troia per fare rientrare nell’affare la criminalità organizzata che, attraverso le associazioni in questione, potrebbe acquisire un importante ed ulteriore opportunità per produrre e commerciare la cannabis.
Invero, sarebbero inesauribili le possibilità per la criminalità di creare e governare associazioni “fantasma” (se ne vedono moltissime in tutti i settori, da quello agricolo a quello dei servizi) composte da persone spesso inconsapevoli, ovvero da meri prestanome.
Dunque, l’introduzione della previsione della coltivazione in forma associata, con ogni probabilità, porterebbe ad un aggiramento della normativa sul monopolio e ad una nuova discesa in campo del crimine organizzato in una materia che, con la legalizzazione, si intenderebbe sottrarre alla sua egemonia. Ma non solo. La legalizzazione della coltivazione della cannabis in forma associata porterebbe, paradossalmente, sia a livello preventivo (per i necessari controlli da svolgere) che e a livello repressivo (in relazione ai prevedibili abusi che sarebbero posti in essere), a drenare ed impiegare quelle risorse umane e finanziarie che invece si volevano liberare legalizzando il settore.
Infine deve esaminarsi la previsione della legalizzazione della coltivazione individuale, c.d. “domestica”, di un quantitativo ridotto di cannabis per uso personale (pari, secondo le diverse proposte di legge a 4/5 piante di sesso femminile), la cui liceità sarebbe subordinata ad una previa comunicazione da parte del consumatore/produttore ai Monopoli di Stato.
Anche in questo caso, sia pure in misura diversa rispetto a quanto si è osservato sulla produzione associata, vanno espresse delle perplessità.
Sulla base di una valutazione immediata, nel previsto sistema di legalizzazione della cannabis, non parrebbe congruo prevedere sanzioni penali a carico di chi la produce a fini di auto-consumo, nei limiti quantitativi sopra indicati.
Occorre tuttavia osservare che, anche in questo caso, la pratica si potrebbe prestare ad abusi e ad aggiramenti sostanziali del regime di Monopolio che è stato previsto e che deve essere, invece, l’architrave del sistema.
La coltivazione cosiddetta domestica, infatti, se svolta in rete ed in modo coordinato da un numero cospicuo di soggetti, che magari sono meri prestanome, tutti formalmente autorizzati all’autoproduzione, rappresenta un rischio concreto di creazione di un mercato illegale e clandestino che, invece, la normativa sulla legalizzazione si propone di sconfiggere.
E ciò senza contare un ulteriore grave rischio: in sede di autoproduzione domestica, e al riparo dei controlli che verrebbero effettuati sui generi di monopolio, potrebbero essere coltivati dei prodotti che attirano un mercato di nicchia, interessato ad un prodotto caratterizzato da alta concentrazione di THC e dunque, maggiormente nocivo ed in grado di indurre maggiore dipendenza.
Del resto, va ricordato che la pratica della auto-produzione si è sviluppata nel contesto di un sistema proibizionista. Essendo vietata la vendita della cannabis, attualmente, il consumatore che non vuole entrare in contatto con il sistema criminale che la traffica e la spaccia, si produce da solo la cannabis necessaria per il suo consumo.
Ma tutto ciò non avrebbe più senso in un sistema in cui il consumatore di cannabis, al pari di quello di sigarette, potrà comprare un prodotto sicuro (nei limiti in cui può esserlo) in una qualsiasi rivendita autorizzata presente nel suo luogo di residenza. Non a caso, infatti, il sistema di “autoproduzione” del tabacco non è mai stato neppure lontanamente pensato ed ipotizzato. E non si vede la ragione per la quale, di fronte ai ragionevoli rischi che si sono sopra indicati, dovrebbe esserlo per la cannabis.
6. Le condotte punibili
Così delimitato l’ambito nel quale – con la maggiore semplificazione e le maggiori cautele possibili - dovrebbe fluire la produzione e la vendita della cannabis, si tratta ora di affrontare il capitolo delle condotte punibili e delle sanzioni penali.
Un assetto equilibrato del sistema penale in materia, che salvaguardi in modo efficace il principio del Monopolio di Stato e la salute pubblica (con riferimento in particolare a quella dei minori) e non ingolfi il sistema processuale con fatti bagatellari, potrebbe essere articolato come segue.
Per i casi di minore rilievo e gravità, quali ad esempio la consumazione della cannabis in luoghi vietati, appare evidente la opportunità di prevedere, non diversamente dalle analoghe fattispecie in materia di divieto di fumo da tabacchi, soltanto severe sanzioni amministrative.
Per la detenzione, attesa la varietà dei casi e l’enorme differenza di lesività delle diverse condotte, sarebbe opportuno distinguere. Appare condivisibile la previsione della proposta Giachetti che – al di là dei casi di uso terapeutico – fissa un limite massimo di quantitativo di cannabis legittimamente detenibile nella misura di gr 5 al di fuori del proprio domicilio e di gr 15 presso il proprio domicilio. Tuttavia tale previsione deve tenere conto del fatto che, secondo l’impostazione fino ad ora seguita (e seguita dalla stessa proposta Giachetti) la cannabis di monopolio dovrà essere venduta, sigillata, in apposite confezioni dotate di etichetta dei Monopoli. Dunque, la stessa (non diversamente dalle sigarette dei monopoli rispetto a quelle di contrabbando) sarà distinguibile da quella commerciata illegalmente al di fuori del regime monopolistico.
Appare, allora, evidente che un conto è la detenzione, oltre il limite quantitativo fissato, della cannabis di monopolio, acquistata legittimamente in un esercizio commerciale abilitato, e, ben altro, è la detenzione di cannabis illegale, prodotta parallelamente in un mercato clandestino. Nel primo caso, la sanzione, seppure seria, dovrebbe essere di tipo amministrativo, non venendo pregiudicati i principi fondanti della legalizzazione. Nel secondo caso, tenuto conto che vengono in rilievo condotte che alimentano un mercato e una attività controllato da entità criminali riguardando, per l’appunto, la detenzione di cannabis prodotta illegalmente, non potrebbe che farsi ricorso alla deterrenza delle sanzioni penali, fatta salva l’ipotesi di detenzione per uso personale nei limiti quantitativi di 5 grammi (o 15 grammi, presso il proprio domicilio), che dovrebbe rimanere immune da sanzione penale ed essere punita solo amministrativamente –
Per la produzione illecita, in un auspicato regime che faccia divieto a chiunque di coltivare la cannabis al di fuori del sistema del Monopolio di Stato, dovrebbero trovare applicazione gli stessi principi e, quindi, le stesse sanzioni previste per la detenzione illecita di cannabis prodotta al di fuori del controllo statale, che tengono conto dell’entità della produzione e, quindi, della gravità della condotta.
Per le ipotesi di illegale importazione, esportazione, trasporto e passaggio in transito, egualmente, la summa divisio dovrebbe essere fatta fra i casi che riguardano l’uso personale e riferibili, quindi, a quantitativi che possono arrivare al massimo a 5 grammi (i 15 grammi abbiamo visto valgono per la detenzione presso il proprio domicilio) e i casi che eccedono tale quantitativo. Nel primo caso il fatto non potrebbe essere in alcun modo sanzionato penalmente, nel secondo caso dovrebbe venire in rilievo l’ulteriore distinzione che è stata fatta in precedenza, quella, cioè, fra cannabis di monopolio e cannabis prodotta e commercializzata al di fuori del regime di monopolio. Nel primo caso, coerentemente, la sanzione dovrebbe essere solo amministrativa e, quindi, per lo più pecuniaria. Nel secondo caso, le pene dovrebbero essere in linea con quelle indicate al secondo punto.
Per la cessione a titolo gratuito appare, in via generale, condivisibile l’impostazione della proposta Giachetti e delle altre che vanno nella stessa direzione: la cessione gratuita di quantitativi fino a 5 grammi, per il consumo del beneficiario della cessione, dovrebbe ritenersi, nel prospettato regime di legalizzazione, del tutto lecita. Ma è necessaria una precisazione. Può essere lecita, la cessione gratuita di tale quantità, quando riguarda cannabis di monopolio. Ma non nel caso di cannabis prodotta al di fuori del regime di monopolio e, quindi, illegale. In quest’ultimo caso, se si vuole mantenere coerenza al sistema e si intende salvaguardare il principio del Monopolio di Stato come sua pietra angolare, appare indispensabile una adeguata sanzione penale nei confronti di chi cede, sanzione che, a nostro avviso, dovrebbe essere in linea con la meno grave delle ipotesi di illegale detenzione.
Per i casi di offerta, vendita e cessione a titolo oneroso, avvenuti al di fuori dell’unico canale consentito, ancora una volta la linea di demarcazione fra sanzione penale e sanzione amministrativa non può che passare attraverso quella fra cannabis prodotta in regime di monopolio e cannabis prodotta illecitamente e clandestinamente.
Nel primo caso, che riguarda le ipotesi del soggetto non autorizzato, che vende cannabis prodotta in regime di monopolio (quella, per così dire, con il bollino dei Monopoli di Stato) ancora una volta, ci sembra opportuna e ragionevole la sola sanzione amministrativa .
Nel secondo caso, quello della vendita a terzi di cannabis prodotta al di fuori del regime di monopolio (dunque, parliamo di cannabis, non controllata, con THC, a volte, assai elevati e dannosi) vengono in rilievo condotte particolarmente gravi che ledono contestualmente la salute pubblica ed interessi finanziari dello Stato. Ovvio che la sanzione penale dovrebbe essere, a seconda dei quantitativi commerciati, in linea con le pene previste dal secondo punto.
Restano, ovviamente, ferme le disposizioni di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Un discorso a parte - ed una particolare attenzione - merita, infine, il tema del consumo della cannabis da parte dei minori e la cessione della cannabis ai minori.
Si tratta di un tema assai delicato, in quanto vengono in rilievo soggetti in relazione ai quali - per la loro vulnerabilità ed influenzabilità e per la minore capacità che hanno di auto-imporsi regole nel consumo - va prevista una tutela penale particolarmente intensa.
Dunque la cessione a minore, di qualsiasi tipo di cannabis e di qualsiasi tipo di stupefacente, deve essere fortemente dissuasa, prevedendosi, in relazione alla cannabis (ed, anche, in relazione alla cessione di altre sostanze stupefacenti), fattispecie autonome di reato, con sanzioni minime e massime particolarmente elevate, dalla metà al doppio di quelle ordinariamente previste negli altri casi di cessione illegale.
Su questo argomento non si condivide, quanto alla liceità della vendita della cannabis, la parificazione degli ultra-sedicenni ai maggiorenni, fatta propria da alcune proposte di legge. Piuttosto, più opportunamente, dovrebbe graduarsi la pena, aggravandola nel caso degli infra-sedicenni e, ancora di più degli infra-quattordicenni, rispetto al caso generale di cessione ai minori.
Peraltro, proprio la complessiva legalizzazione della produzione e del commercio della cannabis, e il conseguente calo di procedimenti ed indagini penali, consentirebbero di concentrare l’attenzione investigativa su questo fronte, particolarmente importante.
Proprio la possibilità che il messaggio pubblicitario possa essere captato e recepito dai più giovani e dai minori, poi, impone che la pubblicità della cannabis, venga non solo vietata ma penalmente sanzionata.
7. Conclusione
In conclusione, nei limiti e con le precisazioni fornite, si ritiene che quello della legalizzazione della cannabis, sarebbe un approdo logico e coerente del sistema a fronte dei deludenti risultati concretamente ottenuti con una politica di criminalizzazione.
Tuttavia, la scelta legislativa di fondo in esame (che appare, nei fatti, oggettivamente, opportuna ed utile) dovrebbe essere vissuta dall’opinione pubblica non come una resa al narcotraffico (perché non lo è) ma, al contrario, come il segno di una inversione di rotta da parte dello Stato , di una concentrazione delle proprie risorse disponibili su ciò che è veramente pericoloso per la salute dei cittadini, per l’economia del Paese e per l’ordine pubblico. E affinché ciò avvenga, a nostro avviso, dovrebbero darsi, da subito, dei segnali importanti. In particolare, le proposte di legge in esame, tenuto conto di quanto sopra si è detto, dovrebbero, contestualmente, contenere delle previsioni concrete che diano il segno di questo rinnovato sforzo dello Stato contro le narcomafie.
All’uopo appaiono apprezzabili le previsioni di utilizzare parte dei proventi fiscali, che saranno riscossi grazie al regime di monopolio della vendita della cannabis, per finanziare il contrasto al traffico delle droghe pesanti e sintetiche. Ma servono indicazioni più precise e stringenti.
*Sul medesimo argomento si rinvia ai precedenti REFERENDUM "CANNABIS LEGALE" - IL QUESITO, L'uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (Nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020), Coltivazione di Cannabis e uso "teraupetico" (Nota a Tribunale Arezzo, 11 dicembre 2020 e Tribunale Arezzo, 26.4.2021), La diffusione della droga in Italia di Giulio Maira, "Il nuovo che avanza...": confronto tra opposti orizzonti legislativi in tema di c.d. "piccolo spaccio" (art. 73, comma V, d.p.r. n. 309 del 1990)"Il nuovo che avanza...": confronto tra opposti orizzonti legislativi in tema di c.d. "piccolo spaccio" (art. 73, comma V, d.p.r. n. 309 del 1990), Quantità ingente di droghe leggere: la Cassazione conferma i due chilogrammi, Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite di Lorenzo Miazzi (parte seconda), Coltivazione e uso personale dopo le Sezioni Unite di Lorenzo Miazzi (parte prima), CANNABIS: DALLE SEZIONI UNITE UNA RISPOSTA CHE VA INTERPRETATA, LA DOSE DROGANTE: Concetto Scientifico o Normativo?, L'amministrazione della Cannabis ad uso medico, Sulla commerciabilità della cannabis sativa, La vendita della cannabis light diventa illecita? Contrasto interpretativo in Corte di Cassazione, La liceità della coltivazione di piante di cannabis sativa prevista secondo la disciplina introdotta dalla legge n. 242 del 2016 implica quale logico corollario la liceità della commercializzazione dei suoi derivati.
Note sul diritto al silenzio in diritto tributario[1]
di Alessandro Giovannini*
Il diritto al silenzio è senz’altro compatibile con i princìpi propri al diritto tributario. La sua applicazione però intanto è predicabile in quanto il “silenzio” risponda ad un comportamento difensivo all’interno di un procedimento d’accertamento o controllo della capacità contributiva del soggetto passivo in esito al quale sia prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa - propria o impropria - avente i caratteri sostanziali dell’afflizione[2], purché il di lui comportamento non integri la violazione di un obbligo collaborativo che affianca, e nel suo esercizio sostituisce, il potere acquisitivo che l’amministrazione potrebbe esercitare autonomamente.
Sommario: 1. Introduzione. Il diritto al silenzio come diritto soggettivo di difesa - 2. Conclusioni (anticipate) sull’applicazione del diritto al silenzio in ambito tributario e sui suoi limiti generali - 3. La compatibilità costituzionale del diritto al silenzio con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche - 4. Il diritto al silenzio nella tensione tra posizioni giuridiche delle parti del procedimento d’accertamento o controllo - 5. La radice del dovere di collaborazione tra vincolo solidaristico e poteri derivati riferiti al privato - 6. Lo spazio applicativo dello ius tacendi - 7. Sanzioni proprie, improprie e possibili equivoci concettuali.
1. Introduzione. Il diritto al silenzio come diritto soggettivo di difesa
Per i principi costituzionali nazionali e sovranazionali, il diritto al silenzio costituisce articolazione del diritto soggettivo di difesa proprio di chi è chiamato dall’autorità a dare notizie o narrare accadimenti a sé sfavorevoli[3]. Il silenzio esercitato in ragione della difesa, perciò, consente di attribuire un valore giuridico positivo ad un comportamento omissivo altrimenti macchiato da antigiuridicità.
È un diritto, quello al silenzio, dalle radici antiche, nato in seno al diritto penale e al diritto processuale penale, ma tornato d’attualità dopo che la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte costituzionale italiana lo hanno ritenuto estensibile al diritto sanzionatorio amministrativo e al procedimento amministrativo[4].
In ambito tributario si sta discutendo, perciò, se un diritto siffatto sia compatibile con i princìpi costituzionali sul concorso impositivo alle pubbliche spese e se, in concreto, siano individuabili ipotesi normative nelle quali possa trovare applicazione[5].
2. Conclusioni (anticipate) sull’applicazione del diritto al silenzio in ambito tributario e sui suoi limiti generali
Rovesciando il tradizionale ordine illustrativo, espongo subito le mie conclusioni, consegnando ad esse l'attacco tetico.
Lo ius tacendi è senz’altro compatibile con i princìpi di diritto tributario. La sua applicazione però intanto è predicabile in quanto il “silenzio” risponda ad un comportamento difensivo all’interno di un procedimento d’accertamento o controllo della capacità contributiva del soggetto passivo in esito al quale sia prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa - propria o impropria - avente i caratteri sostanziali dell’afflizione[6], purché il di lui comportamento non integri la violazione di un obbligo collaborativo che affianca, e nel suo esercizio sostituisce, il potere acquisitivo che la pubblica autorità potrebbe esercitare autonomamente.
3. La compatibilità costituzionale del diritto al silenzio con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche
Il ragionamento che intendo svolgere a spiegazione della conclusione sinteticamente esposta muove da un doppio presupposto. Il diritto tributario, anzitutto, è un diritto come tutti gli altri e dunque metodo e criteri d’interpretazione non divergono da quelli propri di altri settori dell’ordinamento[7].
Il secondo presupposto è questo: l’obbligo contributivo previsto dall’art. 53 Cost., conseguente al vincolo solidaristico scolpito nell’art. 2, non ha per se stesso privilegio nella scala dei valori costituzionali[8]. E infatti, come non si può accettare l’esistenza di “diritti tiranni”[9], così non sono concepibili “obblighi tiranni”, in grado cioè di contrapporsi, per “azzerarli”, a diritti soggettivi fondamentali[10].
Anche l’obbligo contributivo, perciò, soggiace alle regole generali di contemperamento proprie a qualsiasi altra posizione giuridica costituzionalmente rilevante.
Questa precisazione è tanto utile quanto più s’intenda arrivare subito al nocciolo della questione.
Se il silenzio, come ho detto, traduce un comportamento espressivo del diritto alla difesa, ovvero e in altre parole, se il silenzio come difesa consente di valutare positivamente un comportamento omissivo altrimenti qualificabile come antigiuridico, in linea di principio nessuna preclusione può essere opposta al suo esercizio nel procedimento impositivo.
L’obbligo contributivo e la capacità contributiva che fonda quell’obbligo, non sono autocostitutivi di posizioni di supremazia dell’amministrazione finanziaria, né è conforme o sarebbe conforme al diritto costituzionale moderno una “giurisprudenza degli interessi” che tendesse ad assegnare all’interesse fiscale ruolo assorbente e privilegiato nella dinamica del procedimento impositivo. E neppure si può ritenere che l’interesse collettivo o gli interessi collegati alla ipostatizzata figura statale prevalgano sempre ed in ogni caso, perché superiori ontologicamente, sui diritti degli individui, specialmente quando questi presidiano la loro dignità[11].
Questo non significa negare agli art. 2 e 53 Cost. forza immediatamente vincolante e men che meno significa negare loro funzione costitutiva dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche.
Vuol dire, piuttosto, assegnare a queste norme le funzioni loro proprie, ossia quelle di criterio di riparto dei carichi pubblici e di cerniera fra solidarietà, uguaglianza e diritti proprietari, da un lato, ed interesse generale alla contribuzione, dall’altro. E vuol dire, in seno all’interpretazione, tornare ad invocarle conformemente alle loro funzioni, riservando ad esse la corretta collocazione.
4. Il diritto al silenzio nella tensione tra posizioni giuridiche delle parti del procedimento d’accertamento o controllo
Segnati i confini della trama costituzionale, il silenzio deve essere studiato nella sua effettiva qualificazione: come alter ego del diritto di difesa, il suo “altro da sé”, ma pur sempre “sé”.
Muovendo da questa considerazione, il ragionamento si semplifica e il suo nocciolo diventa questo: solo quando l’esercizio del nemo tenetur se detegere è causato dal precedente o concomitante esercizio del potere d’indagine di un organo dello Stato, il silenzio stesso diventa difesa[12]. In ogni altro caso, il silenzio deve essere qualificato per quello che è: omissione o inadempimento di un obbligo.
Seppure in un contesto di tensione tra posizioni giuridiche delle parti, come questo, il silenzio non può tuttavia essere invocato se cade su elementi che l’amministrazione potrebbe acquisire con l’esercizio diretto dei poteri di accesso, ispezione e sequestro.
E infatti, se le richieste della pubblica autorità cadono su documenti o atti prodromici e strumentali alla dichiarazione[13] o anche solo strumentali al controllo della sua veridicità e completezza[14], il silenzio si formerebbe su elementi che l’amministrazione potrebbe senz’altro apprendere in autonomia. E che solo per ragioni di efficienza ed efficacia dell’azione il legislatore ha reputato conveniente farli trasmettere o consegnare direttamente dal contribuente, com’è chiaramente desumibile dall’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972[15].
5. La radice del dovere di collaborazione tra vincolo solidaristico e poteri derivati riferiti al privato
Le osservazioni da ultimo svolte esigono un chiarimento ulteriore. Per individuare la radice degli obblighi strumentali di esibizione e consegna ai quali or ora si è fatto riferimento e per cogliere il motivo per il quale il silenzio in tali circostanze non può trovare giustificazione, si possono seguire strade diverse.
Si può muovere da una lettura estensiva dell’art. 2 della Costituzione. Si può sostenere che, come l’obbligo di dichiarazione assolve un dovere strumentale alla realizzazione del valore solidaristico di concorrere alla spese pubbliche, così gli obblighi secondari concorrono alla realizzazione dello stesso vincolo, compresi quelli il cui adempimento è collegato ad una richiesta dell’amministrazione[16].
Oppure, nella ricerca di quella radice, si può scegliere di abbandonare il riferimento diretto ai valori costituzionali. È la strada che a me sembra preferibile, poiché richiamarsi ad essi fa correre il rischio, da un lato, di applicarli impropriamente, ossia di utilizzarli oltre le loro reali funzioni e i loro “naturali” confini come fossero passe-partout buoni ad ogni uso; dall’altro, di scivolare nuovamente nell’equivoco concettuale della loro supremazia su concorrenti valori posti a presidio del singolo[17].
Il motivo più convincente, però, per me è un altro. Utilizzare l’art. 2 Cost. per giustificare i doveri di collaborazione endoprocedimentali rischia di sfociare in argomentazioni che, alla prova dei fatti e per coerenza logica ancor prima che sistematica, potrebbero non lasciare margini residuali di applicazione al diritto di tacere. In parole semplicissime, di sfociare in argomentazioni che alla fine “provano troppo”[18].
Infatti, se la radice del dovere di collaborazione sta nell’art. 2, tutte le richieste della pubblica amministrazione potrebbero essere intese come funzionali o strumentali alla realizzazione del vincolo solidaristico del concorso alle pubbliche spese. E ciò anche quando, invece, seguendo un’impostazione alternativa e anelastica, il silenzio potrebbe essere applicato conformemente alla sua ratio.
Credo che l’alternativa si possa costruire collegando il dovere di collaborazione al potere amministrativo di acquisizione diretta degli elementi istruttori e dunque qualificando il dovere collaborativo stesso come potere derivato.
Mi spiego meglio. Nel procedimento di ricerca della capacità contributiva del singolo si possono isolare coppie diverse di situazioni giuridiche, alcune soltanto riguardanti il rapporto tra potere d’accertamento e obbligo collaborativo del contribuente sottoposto ad indagine. Nella strutturazione moderna di queste coppie e del loro contenuto, è frequente che la legge addossi a quest’ultimo obblighi che, se adempiuti, realizzano in via sostitutiva l’esercizio dei poteri pubblici, dei quali, tuttavia, l’amministrazione rimane titolare in ragione della sua posizione autoritaria “originaria”[19].
Non mi riferisco, certo, all’obbligo di dichiarazione gravante sul soggetto passivo, che come detto trova autonomo fondamento. Mi riferisco, invece e proprio, agli obblighi posti a suo carico in funzione dell’esercizio dei poteri di controllo nella fase successiva alla presentazione (o mancata presentazione) della dichiarazione medesima.
Nell’intervallo tra la sua presentazione (o sua omessa presentazione) e il provvedimento d’accertamento, è il potere autoritativo di controllo per come regolato dalla legge ad ordinare e scandire anche la condotta del contribuente[20]. Però, com’ho appena osservato, nelle moderne dinamiche procedimentali l’esercizio di profili strumentali a quel potere è talvolta rimesso al privato. Con un azzardo intellettuale, allora, si può forse dire che, se questi viola il dovere di collaborazione, è come se omettesse l’esercizio di un potere strumentale derivato.
Ecco perché il diritto al silenzio non può essere invocato a giustificazione dell’omessa collaborazione nei casi in cui la legge autorizza la pubblica amministrazione a richiedere l’esibizione o la consegna della contabilità, di database, documenti bancari, contratti o altri atti che la stessa potrebbe acquisire direttamente con l’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e sequestro[21].
In queste circostanze l’omissione è nient’altro che violazione di obblighi in sé rilevanti, ed è per questo che il silenzio, qui, non può calzare il cappello del diritto di difesa, non si può ammantare, cioè, della dignità giuridica dell’esercizio di un diritto, rimanendo piuttosto macchiato del disvalore omissivo.
6. Lo spazio applicativo dello ius tacendi
Quale, allora, lo spazio applicativo del diritto al silenzio? Mi pare di poter dire che il suo esercizio si possa considerare legittimo nelle ipotesi in cui la legge consente all’amministrazione di invitare il contribuente a comparire di persona per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento[22]. Ed anche nelle ipotesi in cui è legittimata a procedere per il medesimo scopo in forma scritta[23].
Lo stesso si deve dire, ritengo, per l’invito a rendere notizie durante accessi ed ispezioni. Un conto, infatti, è se l’agente in quei frangenti intima di consegnare un documento o uno scritto che lo stesso agente potrebbe acquisire con l’esercizio diretto dei poteri di controllo[24], altro è se la domanda si appunta su notizie od elementi dei quali non potrebbe avere altrimenti riscontro, giacché acquisibili solo con l’”interrogatorio” del contribuente, tramite, in buona sostanza, una sua “confessione”.
Il nemo tenetur se detegere è nato, proprio, per casi simili: proteggere l’inquisito che, sottoposto ad interrogatorio, si sarebbe potuto trovare costretto, anche solo moralmente, a rendere edotta l’autorità su questioni a sé sfavorevoli che la stessa non avrebbe potuto conoscere o delle quali non avrebbe potuto formarsi un convincimento compiuto, almeno nell’immediatezza, se non attraverso l’interrogatorio o la confessione indotta.
Il diritto a non concorrere alla propria incolpazione, stringi stringi, sta proprio e tutto qui. E sono proprio queste le circostanze che rendono il diritto di tacere “l’altro da sé” del diritto di difesa.
7. Sanzioni proprie, improprie e possibili equivoci concettuali
Le cose fin qui dette consentono di esaminare un ultimo profilo conseguente all’esercizio del diritto di tacere: quello sanzionatorio.
Iniziamo col ricordare che le sanzioni amministrative si possono distinguere in proprie ed improprie[25]. Cosa siano le une e le altre è aspetto ormai noto e sul quale, qui, reputo non essenziale soffermarmi.
La riflessione, invece, deve cadere su aspetti specifici che si legano a questa distinzione.
Muoviamo dalle sanzioni proprie. In seno ad esse occorre separare quelle composte in funzione della violazione dell’obbligo di parlare dalle sanzioni collegate a fattispecie evasive del tributo che possono o potrebbero essere sorrette dalla narrazione del contribuente a sé sfavorevole.
La illegittimità delle prime si può predicare quando rivolte a punire un comportamento che in realtà si conforma allo ius tacendi[26]. È il caso nel quale la sanzione rappresenta anche solo una minaccia al comportamento omissivo del contribuente sottoposto ad accertamento.
Il vizio di previsioni simili è tanto più grave in quanto legato a fil doppio, ancor prima che all’art. 24 Cost., all’art. 3, sotto il profilo della irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte legislative. Vizio che potrebbe perfino connotarsi come “uso distorto della discrezionalità” a tal punto elevato da “raggiungere una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa”[27].
Più complesso è il discorso sulle seconde. Le sanzioni collegate all’accertamento del credito o del maggior credito erariale vengono giocoforza in considerazione come conseguenza dell’accertamento stesso. È perfino banale rilevarlo. Ma questa constatazione torna utile per chiarire che nella logica sistematica del diritto al silenzio esse possono bensì rilevare, ma soltanto come elementi comparativi del suo corretto esercizio.
È esattamente la riproduzione di quel che accade in ambito penale: come in questo le pene si pongono a fronte della conoscenza di fatti di reato e dunque sono esse stesse, anche se solo previste, l’effetto indesiderato e perciò combattuto dall’indagato con l’arma difensiva del silenzio, così avviene in tributario. Infatti, le notizie sfavorevoli al contribuente narrate nel corso di un “interrogatorio” sono fatti dai quali scaturisce, sì la determinazione dell’imposta o della maggiore imposta, ma anche l’applicazione delle sanzioni amministrative (o anche penali).
In queste circostanze, dunque, tanto in diritto penale, quanto in diritto tributario, la sanzione non è un posterius all’esercizio del silenzio, come si deve dire per quelle previste a petto dell’omessa collaborazione, ma viene in considerazione come “antecedente morale” che legittima il privato a non concorrere alla propria incolpazione e ad esercitare la facoltà di tacere.
Ipotesi ulteriori, ma non diverse nella struttura, sono quelle relative alle sanzioni improprie. Qui, però, occorre sforzarsi di non mischiare la tipologia della sanzione, propria o impropria che sia, con i fatti determinanti l’uso del silenzio.
La qualificazione della condotta omissiva alla stregua di violazione ovvero di esercizio del diritto di difesa, non dipende dal fatto che l’amministrazione sia legittimata a ricorrere ad un tipo di sanzione piuttosto che ad un’altra. Dipende dalla fattispecie che determina l’uso del silenzio.
Se il silenzio è esercitato legittimamente e dunque è davvero tale per il diritto, il tipo di sanzione anche solo astrattamente applicabile è irrilevante: che sia propria o impropria poco importa. Sono le circostanze di fatto sulle quali si radica il silenzio che ancora una volta vengono in considerazione, non altro[28]. Purché, ça va sans dire, la conseguenza legata al silenzio sia realmente qualificabile come sanzione, sebbene impropria, secondo i canoni ormai consolidati dell’afflittività[29].
Le conclusioni l’ho già esposte in testa. A chiusura, dunque, ad esse rinvio.
*Professore ordinario di diritto tributario presso l’Università di Siena.
[1] Il lavoro riprende il saggio dal titolo I princìpi del diritto al silenzio in corso di pubblicazione sulla Rivista trimestrale di diritto tributario.
[2] Si può dare per presupposta la conoscenza del carattere punitivo della sanzione tributaria pecuniaria nella logica e nella struttura del d.lgs. n. 472 del 1997 e dei decreti collegati n. 471 e n. 473, cosi come del diritto unionale e internazionale. Cfr., F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1367 ss.
[3] Questo aspetto è ampiamente studiato e non più discusso. Si ritenga sufficiente il rinvio a Corte cost., 10 maggio 2019, n. 117, e per la dottrina a L. Paladin, Autoincriminazioni e diritto di difesa, in Giur. cost., 1965, 312; V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel diritto penale italiano, Milano, Giuffrè, 1972, 5 ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2003, 253; P. Moscarini, Silenzio dell’imputato (diritto al), in Enc. Dir., Annali, III, Milano, Giuffrè, 2010, 1079 ss.; G. Stanzione, Autoincriminazione e diritto al silenzio, Padova, Cedam, 2017.
[4] Mi riferisco a Corte Giust., 2 febbraio 2021, C-481/19, D.B. contro Consob, e a Corte Cost., 13 aprile 2021, n. 84. Non mi soffermo ad analizzare minuziosamente queste pronunce, né ripercorro la vicenda che ne sta alla base, ritenendole ormai note. Su di esse, in questa rivista, v. A. Sciacca, Nemo tenetur se detegere: potenzialità espansive della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale sul sistema tributario, 2021; M. Baldari, La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob, 2021; B. Nascimbene, CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni, 2021; S.F. Cociani, Sul diritto del contribuente al silenzio e a non cooperare alla propria incolpazione: dal giusto processo al giusto procedimento?, in Riv. trim. dir. trib., 2021.
[5] Cfr. A. Marcheselli, Accertamenti tributari e diritto al silenzio del contribuente, in Studi in memoria di Francesco Tesauro, Torino, Utet, 2022, e prima, dello stesso A., Diritto al silenzio del contribuente nell’infedele dichiarazione TARSU, (nota a Cass., sez. trib., 11 febbraio 2005, n. 2823), in Corriere Tributario, 2005, pp. 1839 ss.; Id, Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline. Cedam, Padova, 2012, 31 ss.; S.F. Cociani, Sul diritto del contribuente al silenzio, cit.
[6] Si può dare per presupposta la conoscenza del carattere punitivo della sanzione tributaria pecuniaria nella logica e nella struttura del d.lgs. n. 472 del 1997 e dei decreti collegati n. 471 e n. 473, cosi come del diritto unionale e internazionale. Cfr., F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1367 ss.
[7] Sia consentito rinviare ad A. Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, Milano, Giuffrè, 2014, passim. Sull’interpretazione, in termini ampi, cfr. G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, Cedam, 2003.
[8] Mi sembra che su questo aspetto la dottrina ormai converga unanimemente. Fra i molti, cfr. F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Napoli, ETS, 2012; Batistoni Ferrara, Capacità contributiva, in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, Giuffrè, 1999; F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, ETS, 2007; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Padova, Cedam, 1996, e, se si vuole, per ulteriori riferimenti bibliografici, A. Giovannini, Capacità contributiva, in Treccani, 2013.
[9] È la nota e assai efficace espressione utilizzata dalla Corte costituzionale in alcuni suoi arresti. V. Corte Cost., sent. n. 85/2013, per la quale: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Tesi riaffermata dalla stessa Corte in successive pronunce, fra le quali sent. n. 5/2018.
[10] E che il diritto al silenzio si colleghi, proprio, alla dignità dell’individuo è chiaramente detto dalla Corte costituzionale nella già richiamata sent. Cfr. In dottrina, P. Piantavigna, Il diritto del contribuente a non collaborare all’attività accertativa, in Riv. dir. fin e sc. fin., 2013, II, 73 ss.; Id., Osservazioni sul procedimento tributario dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2007, I, 44 ss.; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione europea, Milano, Giuffrè, 2010, 333 ss.
[11] Non mi sfugge, certo, che questo modo di ragionare contrasta con il pensiero e l’opera di una parte consistente della giurisprudenza. Tuttavia, una timida apertura, seppure in un contesto non schiettamente tributario, si è avuta con Corte costituzionale 11 ottobre 2012, n. 223, in Giur. it., 2013, 2471. Ha detto la Corte che l’eccezionalità della situazione economica, se “è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti altrettanto eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui i cittadini necessitano ... è compito dello stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali e i diritti dei singoli, i quali, princìpi, non sono certo indifferenti alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non possono consentire deroghe a primari interessi posti a garanzia, proprio, delle persone”.
[12] Nella tavola del diritto sovranazionale ed in quello nazionale del giusto procedimento, il diritto di difesa è considerato tale anche se esercitato in fasi diverse ed antecedenti a quelle processuali. Su questo aspetto, dottrina unanime e giurisprudenza prevalente concordano. Cfr. per tutti Police, sub art. 24, in Comm. Cost., a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, I, Utet, Torino, 2006, 518 ss.
[13] Come sono ad esempio le fatture, i documenti bancari, le scritture contabili, il bilancio, i database e altri strumenti di conservazione informatica, contratti o altri scritti, anche informali, comunque riferibili allo svolgimento dell’attività.
[14] Oppure strumentali alla verifica della giustezza della sua omessa presentazione e, casomai, alla ricostruzione della capacità contributiva del trasgressore.
[15] Sui poteri d’indagine, cfr. recentemente G. Fransoni, Le indagini tributarie, Torino, Giappichelli, 2020, 45 ss.
[16] A questa conclusione giunge A. Marcheselli, Accertamenti tributari e diritto al silenzio, cit.
[17] E’ possibile che questo sia quel che è accaduto a Cass. Pen, V, n. 3555/2022, chiamata ad esaminare la questione di legittimità riguardante l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi a petto di proventi reato, la cui omissione integra il reato di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000. La Corte l’ha risolta reputando il diritto al silenzio recessivo rispetto al dovere contributivo (art. 53 Cost.) e dunque qualificando come prevalente l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche rispetto all’omessa presentazione della dichiarazione. Credo che il riferimento ai principi costituzionali, qui, non sarebbe stato necessario, poiché il reato che consegue all’omissione dichiarativa non può trovare “copertura” nell’esercizio del silenzio: l’omessa presentazione della dichiarazione è un obbligo autonomamente rilevante, che non ha niente a che vedere con l’esercizio della difesa, come spero di avere chiarito nelle pagine addietro. Piuttosto, l’obbligo di dichiarazione dei proventi illeciti e ancor prima la loro qualificazione come reddito, determina una diversa e ancor più grave lesione dei principi costituzionali e ordinamentali generali, ma non interessa il profilo per come eccepito innanzi alla Corte di Cassazione (se si vuole, A. Giovannini, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, Giuffrè, 2000, e Id., Proventi e costi di reato in generale nel diritto tributario, in Trattato dir. sanzionatorio tributario, diretto da A. Giovannini, vol. I, Milano, Giuffrè, 2016, 915 ss.).
[18] Non intendo dilungarmi sui caratteri del metodo giuridico e sui criteri di verifica dei risultati dell’interpretazione affinché metodo e criteri si possano considerare scientificamente fondati. Se si vuole, anche per ampi riferimenti alla letteratura, cfr. A Giovannini, Il metodo, i princìpi e il sarcofago, in Riv. dir. trib., 2021, I, 507 ss.
[19] Semplifico molto il ragionamento, prendendo a prestito categorie ed espressioni che la storia del diritto pubblico ha ormai consegnato all’uso, senza avere la prostesa che le parole scelte siano scientificamente esaustive o aggiornate alla modernità.
[20] Il fatto, poi, che il procedimento si debba informare alle regole di lealtà, parità, trasparenza, buona fede, insomma alle regole del “giusto procedimento”, non annulla il potere autoritativo della pubblica amministrazione. Piuttosto quelle regole lo disciplinano con rigore, costringendo il suo uso a venire allo scoperto ed a giustificarsi, proprio, alla loro luce.
[21] Mi riferisco agli artt. 51 e 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 e agli omologhi artt. 32 e 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, ad esclusione delle ipotesi che saranno specificate nel successivo § 6.
[22] Art. 32, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, e art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.
[23] Art. 32, n. 4 della legge sull’accertamento, e art. 51, n. 3, della legge sull’IVA.
[24] Si ricordi che, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, gli agenti possono procedere a perquisizione personale, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, all'esame di documenti ed a richiedere notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale, ferma restando la norma di cui all'articolo 103 c.p.p. sui vincoli e sulla illegittimità di ispezioni, perquisizioni e sequestri presso i difensori (art. 51 d.P.R. n. 633).
[25] Su queste categorie, cfr. ampiamente L. Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1317 ss., e prima, Id., Sanzioni improprie ed imposizione tributaria, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, ESI, 2006, 519 ss., nonché R. Alfano, Sanzioni amministrative tributarie e tutela del contribuente, Napoli, ESI, 2020, 289 ss.
[26] Può essere il caso dell’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, nelle parti in cui si riferisce o si può applicare alla mancata comparizione del contribuente, alla mancata risposta a questionari o alla mancata collaborazione in sede di accesso e ispezione quando le richieste avrebbe determinato una “confessione”.
[27] Così Corte Cost., sent. n. 313 del 1995.
[28] Così si può dire per l’accertamento extra contabile previsto dall’art. 39, comma 2, lettera d-bis), del d.P.R. n. 600 del 1973, se fondato unicamente sulla mancata “confessione” del contribuente o sulla mancata risposta ai questionari. Diverso è il discorso sulle preclusioni probatorie di cui all’art. 52, comma 5 e 10, del d.P.R. n. 633 del 1972, tradizionalmente qualificate come sanzioni improprie. Il fatto che i documenti o le scritture, comprese quelle contabili, non esibiti, consegnati o prodotti all’amministrazione non siano più utilizzabili come corredo probatorio favorevole al contribuente, determina senz’altro un vulnus costituzionale. Ma non è corretto ritenere che esso sia conseguenza della compressione del diritto al silenzio. Quel vulnus, che pure è evidente, deve essere affrontato e risolto con altri metri costituzionali, non con quelli riferibili al “nemo tenetur se detegere”, che nelle ipotesi sarebbe improprio invocarlo.
[29] Molto chiaramente L. Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, cit., 1324 ss.
Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?
Lo scorso 11 febbraio si è tenuto presso l'Università di RomaTre il convegno "Il caso Randstad Italia tra questioni di giurisdizione e di giustizia", dedicato alla decisione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea 21 dicembre 2021 C- 497/20 resa a seguito della rimessione operata con l'ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598/2020.
All'incontro, introdotto dal Prof. Antonio Carratta, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di RomaTre, hanno partecipato il Prof. Avv. Fabio Francario, il Presidente di Sezione del Consiglio di Stato Marco Lipari, il Presidente di Sezione della Corte di Cassazione Raffaele Frasca, il Prof. Avv. Aldo Travi e il Prof. Avv. Romano Vaccarella.
I lavori sono stati conclusi dalla Prof. Avv. Maria Alessandra Sandulli.
La Rivista mette a disposizione dei propri lettori la videoregistrazione del convegno.
Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria*
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale. – 3. In via preliminare. L’inammissibilità degli interventi e la possibilità di impugnare le sentenze della Plenaria “per motivi di giurisdizione”. – 4. Il confronto con il diritto UE. – 5. Gli effetti del rilevato contrasto con il diritto UE.
1. Premessa
Lo scritto si propone di offrire spunti introduttivi a una riflessione sulla delicata tematica della natura e del regime delle concessioni demaniali marittime (ma anche lacuali e fluviali) con finalità turistico-ricreative (che, per brevità, saranno atecnicamente indicate come “concessioni balneari” o “concessioni costiere”) all’esito delle sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, con le quali l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dichiarato l’inefficacia delle relative proroghe ex lege (per le quali la l. n. 145 del 2018 e il d.l. n. 34 del 2020 avevano stabilito la scadenza del 31 dicembre 2033) per contrasto con il diritto eurounitario, rinviando tuttavia “l’operatività degli effetti” delle pronunce al 1° gennaio 2024[1].
La questione della compatibilità delle suddette proroghe con il diritto eurounitario è nota e ampiamente dibattuta[2]. Essa si lega essenzialmente alla riconducibilità di tali concessioni all’ambito applicativo della Direttiva CE n. 123 del 2006 (cd “Direttiva Servizi” o “Direttiva Bolkestein”, relativa ai “servizi nel mercato interno”, di seguito anche “DS”) – che, dopo aver accolto, all’art. 4.1, una definizione molto lata di “servizi”, comprensiva di “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’arti- colo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione”, dispone, all’art. 12, che “1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una deter- minata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, precisando che, in tali casi, l’autorizzazione debba avere “una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami” – e, più in generale, alla necessità che il relativo affida- mento si conformi ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza ai sensi dell’art. 49 TFUE.
In Italia la questione assume massima e particolarissima rilevanza dal momento che, anche in considerazione della estensione del nostro patrimonio costiero e delle condizioni climatiche favorevoli, le cd concessioni balneari in essere ammontano a circa 30000[3] e, nella maggior parte dei casi, i loro titolari hanno creato vere e proprie aziende, con significativi investimenti, in termini economici e personali, e importanti avviamenti.
Pur avendo ripetutamente preannunciato un riordino della materia nel rispetto dei suddetti principi di evidenza pubblica, il nostro legislatore ha quindi, fino a oggi, inaccettabilmente “temporeggiato”, continuando a rimandare il problema, attraverso una reiterata serie di proroghe generalizzate delle concessioni in essere; ciò che ha evidentemente scatenato la reazione delle istituzioni eurounitarie (sfociata il 3 dicembre 2020 in una lettera di messa in mora da parte della Commissione che avviava la fase precontenziosa di una nuova procedura di infrazione[4] ) e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[5] e creato un clima di gravissima incertezza nel settore.
In questa situazione, con decreto n. 160 del 24 maggio 2021, il Presi- dente del Consiglio di Stato, facendo per la prima volta uso dello speciale potere riconosciutogli dall’art. 99, comma 2, c.p.a., ha investito del tema l’Adunanza plenaria, sottoponendole i seguenti quesiti:
- se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turisti- co-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-executing, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all’accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva.
- nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo ri- esame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio.
- se, con riferimento alla moratoria introdotta dall’art. 182, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell’Unione europea, debbano intendersi quali «aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145.
Nonostante tale intervento “propulsivo” del Giudice amministrativo, o magari proprio in attesa di un “soccorso” dell’Adunanza plenaria, il Governo ha assunto ancora una volta una posizione “attendista” e, sordo alle pressanti sollecitazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[6], ha espunto il tema delle concessioni balneari dal d.d.l. concorrenza 2021, limitandosi a prevedere una delega al Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, sentita la Conferenza unificata, un decreto legislativo per la costituzione e il coordinamento di un sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni pubblici al fine di promuovere la massima pubblicità e trasparenza, anche in forma sintetica, dei principali dati e delle informazioni relativi a tutti i rapporti concessori, tenendo conto delle esigenze di difesa e sicurezza. Una scelta che, pur sicuramente fondata sull’auspicio di poter effettivamente creare i presupposti per provvedere, in tempi brevi, all’indispensabile riordino della materia, non poteva mancare di destare perplessità e preoccupazione, non soltanto alla luce del fallimento dell’analogo progetto del 2018, ma anche – e soprattutto – perché non accompagnata da alcuna anticipazione del termine di scadenza del 2033.
E così, lo scorso 9 novembre, l’Adunanza plenaria, con le richiamate sentenze 17 e 18, identiche nella motivazione e nella numerazione dei paragrafi, ha coraggiosamente elaborato la “sua” soluzione, assumendo sulle proprie spalle anche il pesante fardello di “scelte” che competevano e competono piuttosto al potere legislativo.
Come era prevedibile, e come è stato immediatamente confermato, le sentenze hanno acceso un intenso dibattito, di cui hanno dato testimonianza anche vari incontri di studio (consultabili on line)[7].
Si tratta, infatti, di pronunce fortemente impattanti sul piano economico, sociale e giuridico, e che, sotto quest’ultimo profilo, pongono rilevanti questioni processuali e sostanziali, attinenti a vari rami del diritto (eurounitario, costituzionale, amministrativo, civile e penale).
2. Il quadro normativo e giurisprudenziale
I profili di interesse e di criticità delle sentenze sono molteplici e non possono essere tutti evidenziati in queste brevi considerazioni introduttive. Mi limiterò pertanto a segnalarne alcuni tra i più significativi, che sono però già sufficienti a dare un’idea della problematicità della situazione determinata dalle sentenze in commento.
Prima di entrare nel vivo del ragionamento svolto dalla Plenaria, sembra utile premettere, in termini di estrema sintesi, un richiamo al quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Come noto, le concessioni di cui si discute hanno a oggetto l’utilizzo di beni che, ai sensi dell’art. 822 c.c., appartengono al demanio necessario dello Stato e la cui gestione (ad eccezione dei porti) è stata poi affidata alle regioni, che l’hanno a loro volta delegata ai comuni.
Con specifico riferimento al demanio marittimo, gli artt. 36 e 37 c. nav. dispongono che “L’amministrazione marittima,compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo”, e che “Nel caso di più domande di concessione, è preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell’amministrazione, risponda ad un più rilevante interesse pubblico”. Qualche maggiore indicazione è rinvenibile nel Regolamento per l’esecuzione dello stesso codice (d.P.R. n. 328/1952), che, all’art. 18, prevede una modalità particolare di evidenza pubblica, avviata e condizionata dalla presentazione di una domanda di concessione (per certi aspetti analoga a quella prevista dall’art. 7 del TU della legislazione sulle acque pubbliche – R.D. n. 1775 del 1933 – per le concessioni di queste ultime, ma) con un regime di pubblicità molto ridotto[8].
Il c. 2 dell’art. 37, c. nav. prevedeva peraltro che, che, nel caso di pluralità di domande di concessione di beni demaniali marittimi, fossero preferite in sede di rinnovo, i titolari delle precedenti concessioni.
Il d.l. 5 ottobre 1993 n. 400, convertito nella l. n. 494, recante disposizioni per la determinazione dei canoni delle concessioni demaniali marittime, stabiliva poi all’art. 01 che “1. La concessione dei beni demaniali marittimi può essere rilasciata, oltre che per servizi pubblici e per servizi e attività portuali e produttive, per l’esercizio delle seguenti attività:
- gestione di stabilimenti balneari;
- esercizi di ristorazione e somministrazione di bevande, cibi precotti e generi di monopolio;
- noleggio di imbarcazioni e natanti in genere;
- gestione di strutture ricettive ed attività ricreative e sportive;
- esercizi commerciali;
- servizi di altra natura e conduzione di strutture ad uso abitativo, compatibilmente con le esigenze di utilizzazione di cui alle precedenti categorie di utilizzazione”.
Il comma 2 dello stesso articolo, come modificato dall’art. 10 della l. n. 88 del nel 2001 e “autenticamente interpretato” dalla l. n. 172 del 2003 (e infine abrogato dalla l. n. 217 del 2011 per far posto alle proroghe “a data unica”), dopo aver fissato in 6 anni la durata delle concessioni “indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per lo svolgimento delle attività”, stabiliva peraltro che le concessioni per finali- tà turistico-ricreative di cui alle lettere da a a f (a eccezione di quelle rilasciate nell’ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorità portuali di cui alla l. 28 gennaio 1994 n. 84) fossero tutte automaticamente prorogate di ulteriori 6 anni a ogni scadenza.
Ancora, la l. n. 296/2006 (“legge finanziaria 2007’’), modificando l’art. 3 del d.l. n. 400/1993, prevedeva che le concessioni demaniali marittime dovessero avere una durata non inferiore ai 6 e non superiore ai 20 anni “in ragione dell’entità e della rilevanza economica delle opere da realizzare e sulla base dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo predisposti dalle regioni”.
Il sistema finiva dunque di fatto per consentire concessioni perpetue, con conseguente sostanziale preclusione di ogni possibilità di subentro per altri eventuali aspiranti.
Merita tuttavia evidenziare che, per un verso, anche da un primo confronto con i sistemi vigenti negli altri Stati dell’Unione non si riscontra una situazione normativa chiara e univoca sul regime dei beni pubblici e sulle regole di selezione dei soggetti privati eventualmente autorizzati a occuparli e a utilizzarli a fini economici[9] e, per l’altro verso, che, a differenza di quanto avvenuto, prima, per gli appalti e, poi, anche per le concessioni di lavori e di servizi, il legislatore eurounitario non ha mai adottato specifiche regole per disciplinare la durata e le modalità di affidamento delle concessioni di beni. Anzi, la Direttiva 2014/23/UE, che, per la prima volta, ha disciplinato le procedure di affidamento delle con- cessioni di servizi pubblici, ha espressamente escluso dal proprio ambito di applicazione le concessioni di beni. E così, evidentemente, anche il nostro codice dei contratti pubblici.
Pure la giurisprudenza comunitaria che, dalla nota sentenza Teleaustria del 2000 (richiamata anche dalla Plenaria), ha sancito l’obbligo di rispettare i principi generali di pubblicità, trasparenza e imparzialità nella selezione dei contraenti pubblici, si riferiva comunque alla – diversa – materia degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori e di servizi pubblici, tra i quali, come espressamente precisato dal riportato art. 01 del d.l. n. 400 del 1993, non rientrano evidentemente quelle per finalità turistico-ricreative.
In questo contesto si è però inserita, nel 2006, la richiamata Diretti- va 123, che, come detto, dopo aver accolto, all’art. 4.1, una definizione molto lata di “servizi”, comprensiva di “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione”, ha, come visto, enunciato, all’art. 12, che, a fronte di risorse scarse per l’esercizio di un’attività, le relative autorizzazioni debbano avere una durata limitata ed essere esito di apposite procedure di selezione tra i candidati potenziali, con idonee garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità, con conseguente divieto di rinnovo automatico e di altre misure di preferenza per i precedenti titolari.
Nel 2008, la Commissione europea ebbe quindi ad aprire una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, che ne ottenne l’archiviazione, rassicurando le istituzioni europee che avrebbe sollecita- mente provveduto al riordino della materia.
Pur preannunciando, sin dal 2009, un intervento diretto a disciplina- re le modalità di affidamento delle concessioni de quibus “nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti”, il nostro legislatore, confidando evidentemente anche in un diffuso convincimento della inapplicabilità della Direttiva alle concessioni di beni (tesi sostenuta del resto dallo stesso F. Bolkestein proprio in riferimento alle concessioni balneari in un’audizione alla Camera dei Deputati[10]), si è peraltro limitato a sopprimere il cd “diritto di insistenza” del concessionario uscente (previsto dal testo originario dell’art. 37, c. nav.), ed è, all’opposto, ripetutamente intervenuto a posticipare la scadenza dei rapporti in essere (art. 1 c. 18, d.l. n. 194/2009, convertito con modificazioni nella l. n. 25/2010 e art. 24 c. 3-septies d.l. n. 113/2016 convertito nella l. n.160/2016).
Tale comportamento è stato stigmatizzato dalla CGUE nella nota sentenza Promoimpresa del 14 luglio 2016, che ha costituito la base argomentativa della decisione assunta dalla Plenaria.
Ma, approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020 (fissata nella citata l. n. 160 del 2016), con la l. n. 145 del 30 dicembre 2018 (“legge finanziaria 2019”) il nostro legislatore, pur apparentemente avviando un iter di riordino della materia[11], ne procrastinava di fatto ulteriormente l’attuazione, demandando (senza termini) al Governo di individuare (con apposito dPCM) i principi ed i criteri tecnici ai fini dell’assegnazione (delle sole) nuove concessioni di aree demaniali prive di concessioni in essere, all’esito di una consultazione pubblica della durata massima di 180 giorni, e disponendo una nuova proroga generalizzata delle concessioni esistenti, questa volta addirittura al 31 dicembre 2033 (art. 1, c. 682 e 683).
Ne è seguita una situazione di grave incertezza per gli operatori e per le amministrazioni, cui i comuni hanno reagito in modo non univoco, alcuni concedendo la proroga fino al 31 dicembre 2033, altri disapplicando la norma nazionale e avviando procedure selettive, altri ancora adottando soluzioni tampone, con proroghe limitate nel tempo in attesa dell’auspicato riordino, altri, infine, omettendo di pronunciarsi sulle istanze dei concessionari.
Ciò ha dato vita a vari contenziosi, che, a fronte di un prevalente orientamento nel senso della necessaria disapplicazione (rectius, non-applicazione) della legge di proroga[12], hanno visto emergere una forte posizione di dissenso da parte delTAR di Lecce, che, come dichiarato anche in diverse interviste del suo Presidente, si è espresso in senso nettamente contrario alla configurabilità, de iure condito, di un obbligo delle amministrazioni di disapplicare le leggi di proroga e di avviare procedure selettive in assenza delle necessarie regole statali[13].
La situazione si è, se possibile, ulteriormente aggravata quando, nell’ambito degli interventi connessi all’emergenza epidemiologica da COVID-19, con il d.l. n. 34 del 2020 (convertito nella l. n. 77/2020), c.d. Decreto Rilancio, il Governo, nel ribadire la valenza delle proroghe fino al 2033, ha disposto la sospensione dei procedimenti amministrativi volti alla nuova assegnazione delle concessioni demaniali marittime o alla riacquisizione al patrimonio pubblico delle aree demaniali, facendo espresso divieto alle amministrazioni di intervenire qualora “l’utilizzo dei beni demaniali da parte dei concessionari verrà confermato verso pagamento del canone previsto dall’atto di concessione” (art. 182, c. 2)[14].
Infine, il d.l. n. 104/2020 (convertito nella l. n. 126/2020), nell’ambito delle misure a sostegno dell’economia, ha esteso formalmente la suddetta proroga al 2033 alle concessioni lacuali e fluviali, oltre che a quelle per la nautica da diporto.
Ne è seguita, il 3 dicembre 2020, una nuova lettera di messa in mora da parte della Commissione UE, che ha contestato l’inottemperanza dell’Italia agli obblighi imposti dagli artt. 12 DS e 49 TUE.
In particolare, dopo aver sottolineato che, nella sentenza Promoimpresa, la CGUE ha “chiaramente confermato che le “concessioni demaniali marittime e lacuali rilasciate dalle autorità pubbliche e che mirano allo sfruttamento di un’area demaniale a fini turistico-ricreativi” devono essere qualificate come autorizzazioni all’esercizio di una determinata attività economica in base al concetto di “regime di autorizzazione” stabilito dall’arti- colo 4 della DS”, e “ha inoltre confermato in via generale che il capo III della direttiva sui servizi (quindi anche l’articolo 12 della medesima direttiva) si applica anche a situazioni puramente nazionali”, la Commissione ha rilevato che “sebbene abbia lasciato al giudice del rinvio la valutazione circa la scarsità delle risorse naturali necessaria ai fini dell’applicazione dell’articolo 12 della DS nei singoli casi oggetto di contenzioso, la CGUE ha sottolineato tuttavia che “il fatto che le concessioni di cui ai procedimenti principali siano rilasciate a livello non nazionale bensì comunale deve, in particolare, essere preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato”. Inoltre, evidenziando il carattere assoluto e generalizzato delle proroghe disposte dal nostro legislatore, la Commissione ne ha desunto “che la legislazione nazionale in questione inevitabilmente riguardi concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considerate scarse in base ai criteri stabiliti dall’articolo 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE”. E ancora che la medesima legislazione nazionale “non distingue tra situazioni in cui esiste un interesse transfrontaliero certo e situazioni in cui tale interesse non esiste, per cui ha ad oggetto anche situazioni che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 49 TFUE”.
Per quanto qui più interessa, la Commissione ha poi osservato che non è possibile invocare l’art. 12.3 DS, il quale, come si dirà meglio infra, consente di derogare alle regole proconcorrenziali per motivi imperativi di interesse generale, “senza un’analisi caso per caso che consenta di valutare il legittimo affidamento dei titolari delle concessioni, come nel caso di “una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”. E ha aggiunto che “secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione. In secondo luogo, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono. In terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili[15]”. Da ultimo, la Commissione ha rilevato che, in ogni caso, “nella misura in cui è probabile che venga pregiudicato un interesse transfrontaliero certo – per quanto riguarda almeno alcune delle concessioni oggetto delle proroghe ex lege stabilite dalla legislazione italiana, è possibile presumere l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo sulla base dell’ubicazione geografica dell’area demaniale e del valore economico delle concessioni”, le suddette proroghe comportano anche una violazione dell’art. 49 TFUE.
La lettera ha poi specificamente censurato anche il divieto di so- spendere i rapporti concessori in essere per violazione del principio di leale cooperazione degli Stati membri nell’osservanza del diritto dell’Unione.
E, ancora con riferimento all’art. 12 della DS, ha stigmatizzato le richiamate disposizioni della l. n. 145/2018 per ciò che, per l’assegnazione delle nuove concessioni potenzialmente disponibili, non definiscono “alcun criterio specifico e oggettivo né prevedono alcuna procedura, in particolare per quanto concerne l’obbligo di assicurare una procedura di selezione tra i candidati potenziali che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento” (il che “nella pratica non permette di assicurare che tali nuove concessioni siano assegnate in conformità ai detti principi”), e, per le concessioni esistenti, prevedono tempistiche estremamente lunghe (almeno tre anni) delle attività preparatorie del previsto riordino, non prevedono norme o procedure che tengano conto anche delle possibili specificità locali e che garantiscano una procedura di selezione tra i candidati potenziali che presenti le suddette garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità e, oltre tutto, ne affidano la definizione a uno strumento tecnico (il dPCM) di rango secondario, inadeguato a modificare il quadro normativo vigente (d.l. n. 400 del 1993 e Regolamento di esecuzione del c. nav.).
La lettera non si è quindi limitata ad affermare l’incompatibilità del modello di “proroga generalizzata e indiscriminata” con il diritto UE, ma ha espressamente sottolineato la necessità di individuare “con legge” i criteri e le modalità di affidamento delle concessioni balneari per garantire il rispetto dei surrichiamati principi.
La Commissione ha pertanto invitato la Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 258 TFUE, a trasmetterle le proprie osservazioni entro due mesi dal ricevimento della lettera, riservandosi “il diritto di emettere, se del caso, il parere motivato previsto dal medesimo articolo”.
Come detto, il legislatore italiano non è più intervenuto sul tema, e, anzi, il Governo lo ha espunto dal d.d.l. concorrenza, riproponendo la strada della previa mappatura della situazione esistente (sulla base, peraltro di criteri che dovranno a loro volta essere definiti con decreto legislativo delegato da adottare entro l’ulteriore termine di sei mesi dell’entrata in vigore della – non ancora emanata – legge concorrenza 2021).
Dal momento che, a distanza di 13 mesi dalla lettera di contestazione, la Commissione non ha espresso il parere motivato, si poteva però ipotizzare che (anche se non ve ne è traccia pubblica) lo Stato italiano avesse fornito una risposta idonea a rassicurare la Commissione.
In ogni caso, stante il diverso piano in cui operano la politica e la giurisdizione, tale risposta non può essere consistita nell’auspicio di un intervento “suppletivo” del massimo consesso della giustizia amministrativa.
Le considerazioni svolte nella lettera di contestazione sono comunque molto utili per una più consapevole disamina delle sentenze dell’Adunanza plenaria e delle problematiche da esse affrontate (e sollevate).
3.In via preliminare. L’inammissibilità degli interventi e la possibilità di impugnare le sentenze della Plenaria “per motivi di giurisdizione”
In primo luogo, proprio considerando l’impatto delle pronunce, non può non destare perplessità la rigida “chiusura” agli interventi delle Associazioni di categoria e dei soggetti che erano intervenuti negli altri giudizi che, pur analogamente pendenti dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, non sono stati “deferiti” all’Adunanza plenaria. La straordinaria capacità “creativa” dimostrata, pure in questa occasione, dal Giudice della nomofilachia amministrativa avrebbe quantomeno potuto essere utilizzata anche per chiedere alle Sezioni di riferimento una previa pro- nuncia sulla ammissibilità di tali interventi. La portata innegabilmente “decisoria” delle risposte date ai quesiti e il fortissimo impatto “a tutto tondo” delle pronunce sull’intero sistema giuridico-economico delle nostre coste (significativamente considerate come un unico bene per affermarne l’interesse transfrontaliero certo: v. infra) – con la dichiarazione di radicale inefficacia di tutte le proroghe, anche future, delle concessionia uso turistico-ricreativo disposte con apposite leggi e senza una previa procedura di evidenza pubblica – avrebbe invero imposto di garantire la massima effettività del contraddittorio con tutte le parti che avevano manifestato il loro concreto interesse a difendere le posizioni cui il legislatore, le amministrazioni e, come si è visto, in alcuni casi, gli stessi giudici, avevano riconosciuto stabilità. Per le stesse ragioni non è accettabile il rifiuto dell’intervento delle Associazioni di categoria (§ 10.3) con la giustificazione che la pronuncia è resa sui quesiti posti in un giudizio sul “diniego di proroga di una singola concessione demaniale”, e“non incide in via diretta ed immediata sugli interessi istituzionalmente rappresentati [da tali Associazioni], ma produce solo effetti non attuali e meramente eventuali sulla sfera dei concessionari”.
Già per questo primo profilo, incontestabilmente decisorio, le sentenze potrebbero essere quindi impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost., per eccesso di potere giurisdizionale sub specie di astratto e aprioristico “diniego di giustizia” nei confronti dei predetti aspiranti intervenienti.
Con riferimento alla più ampia questione della possibilità di farne oggetto di ricorso per “motivi di giurisdizione”, merita peraltro sin da ora osservare che, anche in termini più generali – per quanto detto e per quanto emerge dalla piana lettura del relativo testo – tali pronunce sono immediatamente idonee a incidere, anche sotto il profilo sostanzia- le, (quantomeno) sulle posizioni delle parti in causa e non appare per- tanto giustificabile escluderne a priori la censurabilità dinanzi alla Corte di Cassazione semplicemente trincerandosi dietro la natura formalmente non decisoria delle sentenze dell’Adunanza plenaria (in pretesa analogia con quanto affermato, in una singola pronuncia e in situazione affatto diversa, dalla Suprema Corte nella sentenza 22 dicembre 2017, n. 13, con riferimento al vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico antecedenti al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). Una tale soluzione di chiusura contrasterebbe, a tacer d’altro,anche con il principio di economicità del sistema (o “servizio”) giustizia, evidentemente pregiudicato dalla moltiplicazione dei ricorsi avverso le successive decisioni man mano rese dalle Sezioni semplici nel rispetto delle conclusioni accolte dalla Plenaria. Ma, soprattutto, come è agevole comprendere, essa rallenterebbe in termini oltremodo rischiosi l’acquisizione di una necessaria certezza sulla effettiva intangibilità processuale del quadro “costruito” dal Giudice amministrativo. Un quadro che, da più parti e sotto vari profili, è apparso come un’indebita invasione della sfera riservata al legislatore[16].
4. Il confronto con il diritto UE
La lettura – e rilettura – delle pronunce restituisce invero sempre più la triste impressione che, avvertendo la difficoltà della politica di trovare urgentemente una soluzione a un problema sicuramente serio e annoso, aggravato dalle vane e ripetute sollecitazioni delle istituzioni eurounitarie a un legislatore smaccatamente attendista, il Consiglio di Stato, con un’azione congiunta dei suoi organi supremi, abbia ingiustamente sacrificato il suo ruolo di giudice-interprete per privilegiare quello -proprio piuttosto della funzione consultiva- di “ausiliare” il legislatore in una congiuntura particolarmente difficile, fino ad assumere, in sua vece, posizioni e scelte di “opportunità” e di “equilibrio”nel contemperamento di diversi interessi, che sono appannaggio esclusivo della politica. Pur comprendendo la generosità del gesto – particolarmente importante in un momento di grande sintonia tra i vertici nazionali e quelli dell’Unione – siffatto modus operandi, come già rilevato in altre occasioni[17], non manca di destare serie perplessità.
Il percorso motivazionale delle sentenze non appare del resto lineare.
A cominciare dall’approccio al diritto UE.
La Plenaria muove dal richiamo alla citata sentenza 14 luglio 2016 della CGUE sul caso Promoimpresa, evidenziando(§ 12 delle sentenze) che essa ha affermato, in sintesi che
1) l’art. 12, §§ 1 e 2, della DS deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati;
l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali in essere per attività turistico ricreative, “nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo” e, dichiarando di condividerla, ribadisce “il principio secondo cui il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 dellec oncessioni in essere”, ritenendolo evincibile sia dall’art 49 (e dall’art. 56) TFUE, che dal citato art. 12 della Direttiva123/2006.
Sotto il primo profilo, richiamando peraltro soltanto la giurisprudenza UE in tema di appalti, la Plenaria afferma che “l’interesse transfrontaliero certo consiste nella capacità di una commessa pubblica o, più in generale, di un’opportunità di guadagno offerta dall’Amministrazione anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non portano alla conclusione di un contratto di appalto o di concessione, di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri”. Senonché, per poter aprioristicamente sostenere la sussistenza di tale interesse per la totalità delle “concessioni balneari” (con buona pace del ritenuto difetto di legittimazione delle Associazioni di categoria), è costretta a fare un ulteriore salto logico, affermando che per queste ultime “a venire in considerazione come strumento di guadagno offerto dalla p.a. non è il prezzo di una prestazione né il diritto di sfruttare economicamente un singolo servizio avente rilevanza economica. Al contra- rio degli appalti o delle concessioni di servizi, la p.a. mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo”, e facendo leva sull’eccessivo guadagno consentito ai concessionari (anche solo per effetto della combinazione tra la modestia del canone e la facoltà di subconcedere il bene a un prezzo più alto), per sostenere che, per evitare “disparità di trattamento” tra le diverse aree, “non vi è dubbio che le spiagge italiane (così come le aree lacuali e fluviali) per conformazione, ubicazione geografica e attrazione turistica presentino tutte e nel loro insieme un interesse transfrontaliero certo, il che implica che la disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata si pone in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE, in quanto è suscettibile di limitare ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, a maggior ragione in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere”.
L’argomento appare francamente forzato e dimostra, anzi, la debolezza della costruzione. L’interesse transfrontaliero certo richiesto per invocare la violazione del Trattato TFUE deve riguardare il singolo atto e non può essere evidentemente riferito a un insieme di situazioni e di rapporti con diversi soggetti. La stessa sentenza Promoimpresa ricorda del resto che l’individuazione di tale interesse deve essere effettuata dal giudice del rinvio, “tenendo conto in particolare della situazione geografica del bene e del valore economico” della relativa concessione, tanto da dichiarare inammissibile la questione prospettata da un giudice che non aveva specificamente individuato la sussistenza di un siffatto interesse in relazione alla fattispecie controversa (§ 68). In termini ancor più evidenti, la lettera di contestazione della Commissione UE si era, come visto, limitata a rappresentare la “possibilità di presumere” la sussistenza di un interesse transfrontaliero certo per “almeno alcune” delle concessioni in oggetto, senza affatto affermare un siffatto interesse per tutte quelle esistenti. Ogni eventuale dubbio a tale riguardo avrebbe dovuto dunque essere sottoposto alla CGUE, pena la sottrazione della questione al suo giudice naturale e la conseguente censurabilità della pronuncia per invasione della sfera ad esso riservata[18].
Non convince neppure, evidentemente, il richiamo all’esigenza di evitare disparità di trattamento tra le diverse aree.Tale disparità, legittimata dalla stessa Commissione, è invero perfettamente ragionevole e logica in considerazione proprio del diverso appeal del bene e della maggiore o minore disponibilità di analoghe risorse.
Evidentemente consapevole della debolezza dell’approccio, la Plenaria afferma infatti che “l’obbligo di evidenza pubblica discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della c.d. direttiva 2006/123, che prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo”. Il problema si sposta però – e le sentenze ben lo comprendono – sulla riconducibilità delle concessioni de quibus all’ambito di applicazione di tale articolo e, questione di non poco momento, sull’idoneità della direttiva a esplicare un effetto diretto sui rapporti concessori in essere. L’iter argomentativo seguito a tale riguardo dal massimo Consesso della giustizia amministrativa si appoggia ancora una volta sulla richiamata sentenza Promoimpresa del 2016 (e a ben vedere, pur non evidenziandolo, sulla ricostruzione fattane nella lettera di contestazione del 2020). Anche sotto questo profilo, il ragionamento della Plenaria non appare tuttavia agevolmente condivisibile. È ben vero, infatti, che – nonostante, come anticipato, lo stesso Frits Bolkestein abbia espressamente escluso che la DS intendesse riferirsi anche alle concessioni di beni[19] – la giurisprudenza UE, anche recentemente, facendo leva sull’ampia definizione di “servizio” data dal suo art. 4.1, comprensiva di “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione”, vi abbia specificamente ricondotto anche l’“attività di locazione di un bene immobile […], esercitata da una persona giuridica o da una persona fisica a titolo individuale” (Corte di giustizia, Grande sezione, 22.9.2020, C-724/2018 e C-727/2018, § 34).
Il tema dei suoi effetti sulle proroghe de quibus è tuttavia molto più complesso.
Il primo possibile ostacolo individuato dalla sentenza Promoimpresa a una immediata e generalizzata eliminazione dal mondo giuridico delle proroghe ex lege delle concessioni balneari è invero rappresentato, come ha poi ricordato la stessa Plenaria, dalla condizione della scarsità della risorsa. Condizione che significativamente la CGUE, lungi dal ritenere insita nel bene costiero, rimette di valutare, evidentemente di volta in volta, al giudice nazionale. Lascia, quindi, perplessi la valutazione svolta in modo generale e onnicomprensivo dalla Plenaria. Il Supremo Collegio ritiene invero di poter superare l’ostacolo riconosciuto dalla stessa CGUE richiamando dati non pubblici[20] e riferiti, ancora una volta, alla situazione complessiva nazionale, oltre che al netto delle concessioni in proroga. Laddove la valutazione avrebbe dovuto, più coerentemente, essere operata, caso per caso, dal giudice delle singole fattispecie – anche alla luce del fatto, valorizzato dalla sentenza Promoimpresa (cfr. § 25 sentenze), che le concessioni sono rilasciate a livello comunale e non nazionale – e, possibilmente, all’esito di una attenta e puntuale ricognizione e pianificazione dell’uso delle coste,di cui significativamente il Governo ha ribadito la necessità, tanto che, per questa espressa ragione, ha nuova- mente rinviato il riordino del sistema. Merita a tale proposito ancora una volta richiamare la lettera di contestazione del 2020:la Commissione non ha escluso ex se la necessità della prodromica ricognizione della situazione in essere (limitandosi a censurare le tempistiche previste dalla l. n. 145 del 2018), né ha affermato che tutte le aree demaniali destinabili a uso turistico-ricreativo sono “risorse scarse”, ma ha soltanto – affatto diversamente – rilevato che disposizioni della suddetta l. n. 145/2018 “sono di natura generale e assoluta e non tengono conto né delle specificità locali (ad esempio non vi è alcuna disposizione che limiti tali proroghe alle zone in cui le risorse non sono limitate) né di eventuali valutazioni effettuate nel conte- sto delle attività di mappatura e di revisione svolte a norma dei commi 677 e 678”. Come per l’interesse tranfrontaliero, la Commissione ha dunque stigmatizzato il fatto che, attraverso una proroga generale indiscriminata, la legislazione nazionale in questione vi abbia inevitabilmente compreso anche concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considera-te scarse in base ai criteri stabiliti dall’art. 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE. La differenza rispetto a quanto affermato dalla Plenaria è plateale.
Anche sotto questo profilo, pertanto, il Supremo Collegio, qualora avesse nutrito dubbi al riguardo, avrebbe dovuto rivolgere uno specifico quesito alla Corte UE.
In ogni caso, non sembra pacifico che sussistano i presupposti per parlare di violazione di una “direttiva self executing”. Innanzitutto, per- ché la Direttiva Servizi è stata specificamente recepita dal nostro legislatore con il d.lgs. n. 59 del 2010, che, all’art. 16, riprendendo testualmente i contenuti dell’art. 12 DS, impone alle autorità competenti al rilascio di titoli autorizzatori disponibili per una determinata attività di servizi, limitato per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili, di applicare “una procedura di selezione tra i candidati potenziali e assicurare la predeterminazione e la pubblicazione, nelle forme previste dai propri ordinamenti, dei criteri e delle modalità atti ad assicurarne l’imparzialità, cui le stesse devono attenersi”. Aggiunge però, in linea col co. 3 dello stesso art. 12, che “Nel fissare le regole della procedura di selezione le autorità’ competenti possono tenere conto di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.
In secondo luogo, perché, nonostante gli abili sforzi del Collegio
giudicante per affermarlo, si potrebbe obiettare che la Direttiva, richiedendo comunque un intervento del legislatore,non abbia quel livello di dettaglio e di specificità necessario ai fini della sua diretta applicabilità e difatti, significativamente, nella sentenza Promoimpresa non vi è alcuna affermazione in tal senso e, come visto, laCommissione censura la l. n. 145 del 2018 anche perché, non fissando alcun “criterio specifico e oggettivo” per l‘affidamento delle nuove concessioni e non prevedendo “alcuna procedura, in particolare per quanto concerne l’obbligo di assicurare una procedura di selezione tra i candidati potenziali che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, non permettono in pratica di assicurare che esse siano assegnate in conformità ai detti principi. La Plenaria supera l’impasse osservando che “il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per potersi considera re self-executing dipende dal risultato che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è necessaria per realizzare tale risultato”, sicché, nella specie, esso sarebbe rinvenibile nella chiarezza dell’obiettivo – apertura al mercato dei servizi – e nella correlata imposizione di “una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mu- tuo riconoscimento e proporzionalità”, che, pur in assenza di una specifica declinazione di tali principi, le amministrazioni concedenti potrebbero (e dovrebbero) autonomamente costruire per porre fine al sistema privilegiato delle proroghe (§ 26 sentenze).
L’imprescindibilità di un intervento legislativo, più volte sottolineata anche dalla Commissione, è tuttavia dimostrata dagli stessi successivi passaggi delle sentenze in commento, laddove si fa riferimento alla possibilità/opportunità di consentire la proroga delle concessioni in essere quando ciò sia finalizzato alla tutela di interessi culturali, sociali, ecc., e alla necessità di prevedere meccanismi idonei in qualche modo a tutelare le posizioni dei gestori uscenti, ma anche –e, si può dire, soprattutto – laddove, dopo aver nettamente dichiarato che gli atti di proroga adottati in attuazione di leggi in tesi inapplicabili devono ritenersi tamquam non essent, dilazionano di due anni tale “inesistenza” sulla scorta di una valutazione di “congruità” del tempo necessario per disciplinare, allestire e concludere le nuove gare.
Meglio sarebbe stato allora forse reinterrogare in modo più puntuale la Corte di Giustizia, anche sotto il profilo della possibilità di riconoscere effetti diretti verticali “inversi” della Direttiva al fine di consentire all’amministrazione di applicare immediatamente le sue disposizioni nei confronti dei concessionari.
Ancora meglio, tuttavia, sarebbe stato portare un tema così delicato alla Corte costituzionale, sollevando una questione di legittimità costituzionale delle leggi di proroga per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. in riferimento all’art. 12 della DS quale parametro interposto di costituzionalità.
Così facendo, si sarebbe correttamente rimessa al Giudice delle leggi la scelta – naturalmente sempre previo eventuale rinvio alla Corte di Giustizia – se dichiarare incostituzionali le leggi di proroga per contrasto con un diritto UE privo di effetti diretti (e la sentenza costituzionale, in questo caso, avrebbe potuto sospendere il giudizio in attesa dei chiarimenti della Corte di Giustizia o al limite prevedere anche un differimento dei suoi effetti temporali); oppure – qualora la DS fosse stata ritenuta dotata di effetti diretti – valutare l’esistenza di possibili “controlimiti” all’ingresso della norma europea nell’ordinamento italiano.
Le sentenze sembrano però tradire, a ben vedere, un interesse di fondo diverso da quello del mero rispetto del primato del diritto UE, che nulla ha a che vedere con questo e che, ancora una volta, introduce un elemento eccentrico rispetto al ruolo del giudice: l’esigenza di un migliore sfruttamento del patrimonio nazionale costiero “e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza” per “contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita” (§ 27 sentenze). Così come, del resto, è eccentrica l’affermazione, nella lettera di messa in mora della Commissione, che, attraverso le proroghe delle concessioni costiere in essere, “l’attuale legislazione italiana impedisce, piuttosto che incoraggiare, la modernizzazione di questa parte importante del settore turistico italiano”. Se è vero, infatti, come è vero, che la Direttiva Bolkestein si occupa soltanto di liberalizzazione delle attività economiche, e, solo in questi limiti, anche di quelle turistiche, la considerazione è totalmente fuori luogo e dovrà essere, se mai, riproposta nel quadro di una normativa di armonizzazione della disciplina di tutte le attività turistiche all’in- terno dell’Unione. Normativa che, per quanto concerne le autorizzazioni contingentate, dovrà però tenere conto anche dei regimi adottati dagli altri Stati in ordine alla gestione di tutti i beni pubblici utilizzati da terzi per l’esercizio di attività economiche.
Il richiamato § 27 delle sentenze rivela, inoltre, un probabile equivoco di fondo, che potrebbe avere sviato l’intero ragionamento del Supremo Giudice amministrativo, laddove afferma che “il confronto “è estremamente prezioso per garantire ai cittadini (…) una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza”. L’abbaglio è evidente e trova espressa conferma nell’art. 01 del d.l. n. 400 del 1993, che, come visto, tiene espressamente distinte le concessioni per finalità turistico-ricreative da quelle “per servizi pubblici” (il che rende inapplicabili alle prime i principi e le regole delle concessioni finalizzate alla gestione di tali servizi e, per l’effetto, lascia privo delle necessarie specifiche regole il relativo affidamento). Senza dimenticare che la DS non trova applicazione ai servizi pubblici, sicché, se il riferimento a questi ultimi fosse convinto, il richiamo a tale Direttiva sarebbe improprio. Mentre, se, come è verosimile, è il riferimento a essere “improprio”, le ragioni di interesse generale sulle quali la Plenaria fonda la necessità di un confronto competitivo generalizzato si indeboliscono, vedendo rafforzare l’esigenza di investire della questione la Corte costituzionale, per una ponderata valutazione dei possibili “controlimiti” all’indiscriminato cedimento dei valori del nostro patrimonio costiero al diritto della concorrenza.
5. Gli effetti del rilevato contrasto con il diritto UE
Con buona pace dei principi di certezza del diritto, ci troviamo quindi di fronte a pronunce che, per un verso, mentre ribadiscono che gli atti amministrativi in contrasto con il diritto UE sono semplicemente annullabili, subito dopo – per sfuggire ai limiti temporali dell’autotutela caducatoria stabiliti dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990 s.m.i. – muovendo da presupposti, come visto, a loro volta incerti, affermano con nettezza che le proroghe disposte dalle singole amministrazioni mediante il richiamo alle leggi del 2018 e del 2020 non sarebbero espressione di un potere amministrativo, ma atti meramente ricognitivi, i quali, stante il contrasto delle suddette leggi con norme UE a effetto diretto (da cui l’obbligo di tutte le autorità nazionali di non applicarle[21]), devono ritenersi addirittura tamquam non essent, e, per l’altro verso, consapevoli dell’ingestibilità degli effetti di una tale deflagrante affermazione, statuiscono (recte dispongono), attraverso una inedita e poco convincente analogia con la graduazione degli effetti dell’annullamento di un atto illegittimo, che l’operatività degli effetti delle decisioni assunte deve essere rinviata di un biennio, come se il “fatto” dell’inesistenza ab imis di tali atti potesse esse- re artificiosamente sospeso fino al 1° gennaio del 2024 (!).
È però agevole obiettare che, diversamente dal caso dell’annullamento di un provvedimento, che incide, sia pure con effetto ex tunc, sulla sua validità – tanto che il provvedimento, fino a che viene annullato, è valido ed efficace – un atto qualificato ab origine tamquam non esset, perché meramente ricognitivo di una legge a sua volta ab origine inapplicabile, non può acquistare efficacia in virtù di una sentenza, tanto più se è proprio quella che dichiara l’inapplicabilità della legge che ne è il fondamento. Non solo.
Per soccorrere il legislatore, le sentenze incorrono anche in una contraddizione che non pare superabile: se il primato del diritto UE e la pretesa valenza autoapplicativa della Direttiva 123/2006 ostano all’applicazione delle leggi nazionali di proroga e gli atti amministrativi che le richiamano devono per l’effetto davvero essere considerati tamquam non essent, le sentenze che ne affermano comunque l’efficacia fino al 31 dicembre 2023 finiscono, in sostanza, esse stesse per disporre, in via giurisdizionale, la medesima proroga generalizzata e indiscriminata delle vigenti concessioni che hanno ritenuto incompatibile con il diritto UE. E, dunque, proprio in forza del ragionamento svolto, dovrebbero essere a loro volta disapplicate dalle amministrazioni e dagli altri giudici.
Non è difficile immaginare la confusione che ne conseguirà.
Si è già detto che le sentenze (o comunque quelle, a partire dalle pronunce sui giudizi a quibus, vi si adegueranno) potrebbero essere impugnate dinanzi alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8, Cost., per eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore e/o del- la Corte di Giustizia e/o ancora della Corte costituzionale.
Ma, anche senza considerare tali evenienze, i contenziosi che ne seguiranno saranno verosimilmente numerosi.
Le singole amministrazioni concedenti dovrebbero, secondo la Plenaria, “comunicarne” l’esito ai concessionari in proroga, i quali, verosimilmente, attiveranno autonomi giudizi per difendere le proprie posizioni, prospettando presumibilmente in quelle sedi questioni di compatibilità costituzionale ed eurounitaria. L’espressa esclusione di ogni potere amministrativo potrebbe peraltro creare, nonostante la materia sia affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche dubbi sulla giurisdizione.
Le amministrazioni che hanno già avviato procedure di evidenza pubblica, qualora non ritenessero di disapplicare le sentenze, dovrebbero confermare l’operatività delle proroghe fino al 31 dicembre 2023; e verosimilmente saranno destinatarie di azioni risarcitorie da parte dei concessionari non prorogati.
Ma, soprattutto, non mancheranno le azioni risarcitorie contro le amministrazioni concedenti e contro lo stesso Stato (in forma di giudice o di legislatore[22]) per aver creato un affidamento nella stabilità del titolo. Proprio l’investitura della Plenaria e il suo contorto esito escludono invero che la situazione antigiuridica da essa riscontrata –ma significativamente confermata per un ulteriore biennio – fosse immediatamente percepibile ai concessionari[23], che, all’opposto, avevano pieno titolo per sentirsi rassicurati dai ripetuti interventi del legislatore (dal 2009 al 2020), dalle proroghe amministrative e, in vari casi, anche da appositi giudicati e/o dal decorso del tempo per l’esercizio del potere di autoannullamento che la stessa Plenaria ha confermato essere di norma lo strumento per la rimozione degli atti anticomunitari. Sicché, per poter essere edotti della pretesa inconsistenza delle proroghe amministrative, i concessionari,non solo avrebbero dovuto essere esperti di diritto eurounitario, ma avrebbero dovuto addirittura avere coscienza che esse non avevano valenza provvedimentale, ma meramente ricognitiva e che, per tale ragione, dovevano ritenersi sottratte ai limiti dell’autotutela e alle garanzie dell’inoppugnabilità![24].
È del pari prevedibile l’avvio di un intenso contenzioso civile (con conseguenti eccezioni di illegittimità costituzionale e incompatibilità eurounitaria) tra coloro che abbiano eventualmente stipulato atti di trasferimento o di subconcessione, con possibile chiamata in causa delle stesse amministrazioni concedenti.
Nonostante le “rassicurazioni” fornite dalla Plenaria, le sentenze potranno poi avere riflessi di carattere penale. Come dimostrato dalle considerazioni svolte dal GIP del Tribunale di Genova sull’istanza di revoca del sequestro dei “Bagni Liggia”[25], infatti, è innegabile che le sentenze daranno forza all’orientamento più rigoroso già manifestato dallaCorte di Cassazione sul carattere abusivo delle occupazioni fondate sulle proroghe ex lege, in ragione del relativo contrasto con il diritto UE[26]. Evidenzia infatti il Giudice, richiamando le parole della Suprema Corte penale, che,contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato, con riferimento all’operazione di disapplicazione di una norma anticomunitaria, non può “porsi una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi l’ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”; sicché, come si legge nel medesimo provvedimento, le decisioni assunte dalla Plenaria, lungi dall’essere irrilevanti ai fini penali, contribuiscono, con il loro “autorevole avallo” a confermare “l’esistenza dell’elemento oggettivo del reato”. E non si può purtroppo escludere il rischio che,dopo le lapidarie affermazioni di tali pronunce, i giudici penali ritengano che la fictio del “rinvio” al 31 dicembre 2023dell’operatività dei relativi effetti non sia sufficiente a riconoscere l’assenza dell’elemento soggettivo di un illecito che,anche per la stessa Plenaria, è già in atto da molti anni.
Da ultimo, ma assolutamente non ultimo, c’è poi sicuramente da attendersi un vasto e acceso contenzioso sulle modalità e sulle procedure di selezione dei nuovi concessionari, che, nonostante l’imprescindibilità di una disciplina unitaria a livello nazionale (ai sensi dell’art. 117, comma 1, lett. e, Cost.), sintomaticamente rilevata, come visto, anche dalla Commissione UE nella lettera di contestazione del 2020, la Plenaria sembra imporre di fatto alle singole amministrazioni di avviare (e concludere) entro il 31 dicembre 2023.
Dopo avere (in tesi) legittimato le proroghe di un ulteriore biennio, il Collegio afferma infatti, che “scaduto tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se vi sia –o meno- un soggetto subentrante nella concessione” e, utilizzando lo schema delle sentenze “monito” della Corte costituzionale, aggiunge con assoluta nettezza che “si precisa sin da ora che eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni disciplina comunque diretta a eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere”.
Ma quid iuris nell’ipotesi, che la storia vede tutt’altro che improba- bile, di ulteriore inerzia del legislatore? Potrà il fardello gravare intera- mente sulle amministrazioni, demandandosi così di fatto a queste ultime, con le scarne indicazioni date nel § 49 delle sentenze in un ennesimo, indebito, slancio “paranormativo”, anche l’individuazione delle possibili eccezioni per superiori ragioni di interesse pubblico e di misure idonee a tutelare in qualche modo (ma non troppo) le posizioni dei concessionari uscenti. Senza soffermarmi sugli altri profili, limitandomi allo spinoso tema dell’indennizzo, merita segnalare che la Plenaria afferma, tra l’altro, testualmente che “l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, esse- re supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi”. Ma trascura evidentemente che, in mancanza di diverse norme primarie, la disposizione applicabile è l’art. 42 c. nav. (cui la Plenaria non fa alcun cenno), il quale prevede la corresponsione di un indennizzo soltanto nel caso, evidente- mente diverso da quello configurato dalle sentenze in commento (con- cessioni scadute per proroghe tamquam non essent), in cui sia stata disposta una revoca anticipata della concessione e soltanto qualora questa abbia “dato luogo a costruzione di opere stabili”, con la precisazione che, salvo che non sia diversamente stabilito, l’indennizzo è “pari al rimborso di tante quote parti del costo delle opere quanti sono gli anni mancanti al termine di scadenza fissato” e che, in ogni caso, esso “non può essere superiore al valore delle opere al momento della revoca, detratto l’ammontare degli effettuati ammortamenti”.
Lo stesso codice della navigazione aggiunge peraltro, all’art. 49, parimenti non considerato dalle sentenze, che “Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato. In quest’ultimo caso, l’amministrazione, ove il con- cessionario non esegua l’ordine di demolizione, può provvedervi a termini dell’articolo 54”.
Mentre è indubbio che i concessionari uscenti che, confidando nelle proroghe, hanno continuato a investire le proprie risorse (economiche e personali) nelle imprese e nelle attività svolte sulle aree in concessione, dovranno essere, quanto meno, adeguatamente indennizzati, non soltanto per gli investimenti effettuati e non ancora ammortizzati (condizione sulla cui ricorrenza si apriranno ulteriori contenziosi), ma anche per l’avviamento aziendale di cui i nuovi gestori potranno fruire.
Quanto alla peculiarità delle diverse situazioni e agli interessi pubblici che giustificano la sottrazione di alcune concessioni alle regole della concorrenza, è agevole, innanzitutto pensare a quelli di carattere sociale (tipico l’esempio delle aree attrezzate per le colonie) o di carattere storico-culturale (in analogia a quanto ritenuto per i ristoranti “Savini”, “Gatto rosso” e “Il salotto” all’interno della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano[27]), ma anche a luoghi di particolare pregio paesaggistico e/o rilevanza ambientale, strettamente legati nella tradizione all’identità di una specifica comunità territoriale.
Il problema dei problemi, come ben evidenziato dalla Commissione UE nella lettera di messa in mora 2020, è comunque quello della definizione dei requisiti e delle regole della procedura. L’espressa esclusione delle concessioni di beni dall’ambito di applicazione della Direttiva sulle concessioni di servizi pubblici, in una con la altrettanto espressa distinzione tra le concessioni di aree demaniali per finalità turistico-ricreative e le concessioni di servizi pubblici tracciata dall’art. 01 del d.l. n. 400 del 1993 (significativamente richiamata anche nella lettera di messa in mora del 2020) non consentono di utilizzare sic et simpliciter i criteri e le regole procedimentali stabiliti per tali concessioni. Né può dicerto indurre in tal senso il riferimento, evidentemente atecnico, ai “servizi pubblici”, contenuto nel § 27 delle sentenze. E tanto meno può essere rimessa all’autonomia (e alla fantasia) delle singole amministrazioni comunali la fissazione di tali criteri e regole, a rischio di creare una vera e propria Babele. Quid iuris, allora, se il 31 dicembre 2023 non saranno stati ancora individuati nuovi concessionari? Varrà, verosimilmente, la regola generale che impone al concessionario uscente di garantire la gestione del bene fino al subentro del nuovo gestore. Ma quale gestore continuerà a investire senza alcuna certezza sulle sorti di tali investimenti?
Il rischio, dunque, è che il Consiglio di Stato, per “soccorrere” il legislatore, abbia inferto un altro duro colpo alla sicurezza giuridica e all’economia del nostro Paese.
*L’articolo riproduce la introduzione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria” ed è destinato agli Scritti in onore di Maria Immordino, in corso di pubblicazione.
[1] Per un primo commento sulle sentenze, v. E. CANNIZZARO, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato; F.P. BELLO, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, entrambi in Giustiziainsieme.it, 2021 e M. TIMO, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, in Riv. giur. edil., n. 5/2021 e ivi ulteriori richiami.
[2] La bibliografia sul tema è vastissima. Si segnalano quindi, per tutti, senza pretesa di esaustività, i lavori monografici di A. GIANNELLI, Concessioni di beni e concorrenza, Napoli 2018 e di M. TIMO, Le concessioni balneari alla ricerca di una disciplina fra normativa e giurisprudenza, Torino, 2020 e i lavori ivi richiamati; F. CAPELLI, Evoluzioni, splendori e decadenza delle direttive comunitarie. Impatto della direttiva CE n. 2006/123 in materia di servizi: il caso delle concessioni balneari, Napoli 2021; nonché, oltre allo scritto di B. CARAVITA DI TORITTO, G. CARLOMAGNO, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma, pubblicato in federalismi.it, n. 20/2021 (che si ripubblica in questo fascicolo in memoria dell’illustre condirettore), i contributi raccolti nel volume a cura di A. LUCAREL- LI, B. DE MARIA, M.C. GIRARDI Governo e gestione delle concessioni demaniali marittime, Principi Costituzionali, beni pubblici e concorrenza tra ordinamento europeo e ordinamento interno, in Quaderni della Rassegna di diritto pubblico europeo, 7, Napoli 2021 e, con specifico riferimento al decreto con cui il Presidente del Consiglio di Stato ha richiesto l’intervento dell’Adunanza plenaria, R. DIPACE, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative, in Giustiziainsieme.it. 2021.
[3] Fonte: Unioncamere.
[4] Procedura di infrazione 2020/4118 C (2020) 7826 final, Bruxelles, 3 dicembre 2020.
[5] In particolare, l’Autorità ha osservato che, nei mercati in cui, in ragione delle specifiche caratteristiche oggettive delle attività tecniche, economiche e finanziarie, esiste un’esclusiva, o sono ammessi a operare un numero limitato di soggetti, l’affidamento delle concessioni deve comunque avvenire mediante procedure concorsuali trasparenti e competitive, al fine di attenuare gli effetti distorsivi della concorrenza, connessi alla posizione di privilegio attribuita al concessionario. Con conseguente obbligo di disapplicare la normativa interna, che viola i principi concorrenziali nella misura in cui impediscono il confronto competitivo che dovrebbe essere garantito in sede di affidamento dei servizi incidenti su risorse demaniali di carattere scarso, in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere (ex multis, AS1701 del 28 luglio 2020, Comune di Piombino, AS1712 del 1 dicembre 2020, Comune di Castiglione della Pescaia, AS1719 del 9 dicembre 2020, Comune di Castellabate. Cfr. anche AS1684 del 7 luglio 2020, Osservazioni in merito al alle disposizioni contenute nel Decreto Rilancio).
[6] Cfr. la Segnalazione ai sensi degli artt. 21 e 22 della l. n. 287 del 1990 in merito a Proposte di riforma concorrenziale, ai fini della Legge Annuale per il Mercato e la Concorrenza Anno 2021, 45 s.
[7] Inter alia, Demanio e mare: il problema delle concessioni alla luce dell’adunanza ple- naria, organizzato dall’Università della Calabria il 22 novembre 2021, e Diritto dell’Unione Europea e concessioni balneari alla luce delle recenti sentenze dell’Adunanza Plenaria, organizzato dall’Università degli studi di Napoli Federico II il 20 dicembre 2021, cui adde la Relazione tenuta sul tema da G. MORBIDELLI al convegno IGI del 14 dicembre 2021.
[8] Art. 18 – Pubblicazione della domanda 1. Quando si tratti di concessioni di parti- colare importanza per l’entità o per lo scopo, il capo del compartimento ordina la pubblicazione della domanda mediante affissione nell’albo del comune ove è situato il bene richiesto e la inserzione della domanda per estratto nel Foglio degli annunzi legali della provincia.
2. Il provvedimento del capo del compartimento che ordina la pubblicazione della domanda deve contenere un sunto, indicare i giorni dell’inizio e della fine della pubblicazione ed invitare tutti coloro che possono avervi interesse a presentare entro il termine indicato nel provvedimento stesso le osservazioni che credano opportune.
3. In caso di opposizione o di presentazione di reclami la decisione spetta al ministro dei trasporti e della navigazione.
4. In ogni caso non si può procedere alla stipulazione dell’atto se non dopo la scadenza del termine indicato nel provvedimento per la presentazione delle osservazioni e se, comunque, non siano trascorsi almeno venti giorni dalla data dell’affissione e dell’inserzione della domanda.
5. Nei casi in cui la domanda di concessione sia pubblicata, le domande concorrenti debbono essere presentate nel termine previsto per la proposizione delle opposizioni.
6. Il ministro dei trasporti e della navigazione può autorizzare l’esame delle domande presentate anche oltre detto termine per imprescindibili esigenze di interesse pubblico.
7. Quando siano trascorsi sei mesi dalla scadenza del termine massimo per la presentazione delle domande concorrenti senza che sia stata rilasciata la concessione al richiedente preferito per fatto da addebitarsi allo stesso, possono essere prese in considerazione le domande presentate dopo detto termine.
8. Le disposizioni del presente articolo si applicano in ogni altro caso di presentazione di domande concorrenti.
Il successivo art. 19 del Regolamento individua il “contenuto dell’atto di concessione”, precisando che:
- Nell’atto di concessione devono essere indicati:
- l’ubicazione, l’estensione e i confini del bene oggetto della concessione;
- lo scopo e la durata della concessione;
3) la natura, la forma, le dimensioni, la struttura delle opere da eseguire e i termini assegnati per tale esecuzione;
4) le modalità di esercizio della concessione e i periodi di sospensione dell’esercizio eventualmente consentiti;
5) il canone, la decorrenza e la scadenza dei pagamenti, nonché il numero di rate del canone il cui omesso pagamento importi la decadenza della concessione a termini dell’articolo 47 del codice;
6) la cauzione;
7) le condizioni particolari alle quali è sottoposta la concessione, comprese le tariffe per l’uso da parte di terzi;
8) il domicilio del concessionario.
2. Agli atti di concessione devono essere allegati la relazione tecnica, i piani e gli altri disegni.
3. Nelle licenze sono omesse le indicazioni che non siano necessarie in relazione alla minore entità della concessione.
[9] Si rinvia, in proposito, allo studio del Parlamento europeo, Concessioni balneari in Italia e Direttiva 2006/123/EC, nel contesto europeo, Bruxelles, 2017 e agli Studi della Camera dei Deputati su Le concessioni demaniali marittime in Croazia, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna, Info aggiornate all’8 marzo 2018.
[10] Cfr. E. AjMAR, P. MAffEI, Concessioni balneari: si naviga a vista. Uno studio di caso, in federalismi.it, n. 18/2020. Il discorso integrale di Frits Bolkestein, dal titolo “Convegno. L’Euro, l’Europa e la Bolkestein spiegate da Mr. Bolkestein” e registrato da Radio Radicale a Roma il 18 aprile 2018, è disponibile sul sito www.radioradicale.it».
[11] Si affidava a un apposito dPCM da emanare entro 120 giorni, di fissare i termini, le modalità e le condizioni per procedere: alla ricognizione e mappatura del litorale e del demanio costiero-marittimo; all’individuazione della reale consistenza dello stato dei luoghi, della tipologia e del numero di concessioni attualmente vigenti nonché delle aree libere o concedibili; all’individuazione della tipologia e del numero di imprese concessionarie o sub-concessionarie; alla ricognizione degli investimenti effettuati nell’ambito delle concessioni stesse e delle tempistiche di ammortamento connesse, nonché dei canoni attualmente applicati in relazione alle diverse concessioni; all’approvazione dei metodi, degli indirizzi generali e dei criteri per la programmazione dell’uso delle coste; all’individuazione di un nuovo modello di gestione delle imprese turistico-ricreative che operano sul demanio marittimo secondo schemi e forme di partenariato pubblico-privato, nonché di un sistema di rating delle imprese che svolgono tali attività; alla revisione organica delle norme connesse alle concessioni demaniali marittime contenute nel codice della navigazione o in leggi speciali in materia; al riordino delle concessioni demaniali marittime ad uso residenziale ed abitativo; alla revisione e all’aggiornamento dei canoni demaniali posti a carico dei concessionari.
Le amministrazioni competenti, individuate dal medesimo dPCM, avrebbero dovuto provvedere, entro due anni, all’esecuzione delle attività ivi previste. Nessun dPCM è stato però emanato.
[12] Inter alia, Cons. Stato, Sez. VI, 18 novembre 2019 n. 7874, ma, già sulla proroga del 2016, Sez. V, 5 marzo 2018 n. 1342. La stessa sez. V del Cons. di Stato, con le sentenze dalla n. 7251 alla 7258 del 2019, in una serie di contenziosi identici in cui si contestava l’avvio da parte di un comune di procedure di evidenza pubblica per la concessione di beni demaniali marittimi, ha tuttavia dichiarato “l’improcedibilità” degli appelli promossi dal comune per l’intervenuta l. n. 145/2018.
[13] A. GIUZIO, Balneari, Pasca: “Inammissibile negare proroga al 2033, urge riforma concessioni”, in MondoBalneare.com, 2021 e, tra le diverse pronunce, la sentenza 27 novembre 2020, n. 895.
[14] A fronte di diverse sentenze che hanno ribadito la necessità di disapplicazione del- le proroghe ex lege – tra cui TAR Campania, Sez. Salerno, 29 gennaio 2021, n. 265 e TAR Sicilia, Sez. Catania, 15 febbraio, 2021 n. 504 – il TAR Lecce ha continuato ad esempio a sostenere la sua posizione (cfr. la sentenza n. 603 del 2021).
[15] Sentenze 16 novembre 1983, Thyssen AG c. Commissione, C-188/82, ECLI:EU:C:1983:329, § 11; 6 febbraio 1986, Vlachou c. Corte dei conti, C-162/84, ECLI:EU:C:1986:56, § 6; 20 settembre 1990, Commissione c. Germania, C-5/89, ECLI:EU:C:1990:320, § 14; 7 giugno 2005, VEMW, C-17/03, ECLI:EU:C:2005:362, §§ 73-74; 24 novembre 2005, Germania/Commissione, C-506/03, ECLI:EU:C:2005:715,
§ 58; 16 dicembre 2010, Kahla Thüringen PorzellanKahla Thüringen Porzellan/ Commission, C-537/08, ECLI:EU:C:2010:769, § 63; 14 ottobre 2010, Nuova Agricast e Cofra/Commissione, C-67/09, ECLI:EU:C:2010:607, § 71 ss.
[16] Sulla ritrosia della Corte di cassazione a riscontrare in concreto tale vizio, pur ripetutamente riconosciuto in astratto, sia consentito il rinvio a M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme.it, 2020.
[17] Da ultimo, La “risorsa” del giudice amministrativo in Questione giustizia, n. 1/2021 e, ivi ulteriori richiami.
[18] Non è questa la sede per addentrarsi nella disamina della sentenza CGUE del 21 dicembre scorso sul caso Randstad Italia, ma si segnala che la Grande Sezione nonsi è pronunciata sul secondo quesito, con il quale la Cassazione le chiedeva di chiarire “se gli art. 4, 19 TUE e 267 TFUE, ostino all’interpretazione ed applicazione degli artt. 111 Cost., 360 e 362 c.p.c. e 110 c.p.a., secondo cui il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per motivi inerenti alla giurisdizione, sotto il profilo del c.d. difetto di potere giurisdizionale,non sia proponibile come mezzo di impugnazione di sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo su questioni disciplinate dal diritto dell’Unione Europea, omettano immotivatamente dieffettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario e di pregiudicare l’uniforme applicazione e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dal diritto dell’Unione”.
[19] 19 Si v. anche C. FOTINA, Bolkestein: «La direttiva non si applica agli stabilimenti balneari», in Il Sole 24 ore, 18 aprile 2018.
[20] Si parla genericamente di “dati forniti dal sistema informativo del demanio marittimo (SID) del Ministero delle Infrastrutture”.
[21] Nel senso che anche gli organi amministrativi son giuridicamente tenuti a disapplicare le disposizioni nazionali in contrasto con la normativa europea di dettaglio immediatamente applicabile, nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia, cfr. già le sentenze CGUE 22 giugno 1989 (Fratelli Costanzo) e C. cost. n. 389 del1989.
[22] Sulla responsabilità dello Stato legislatore, M. DI FRANCESCO TORREGROSSA, La responsabilità dello Stato-Legislatore e l’attività amministrativa, Napoli 2019.
[23] Come richiesto dalla stessa Adunanza plenaria con la sentenza n. 20 del 2021 per configurare un concorso di colpa del beneficiario di un atto o comportamento illegittimo a lui favorevole.
[24] Sono molto utili, in tal senso, le considerazioni svolte dal GIP del Tribunale di Ge- nova nel provvedimento del 3 dicembre 2021, di revoca del sequestro dei“Bagni Liggia”.
[25] Provvedimento 3 dicembre 2021, di revoca del sequestro.
[26] Inter alia, sent. 25993 del 2019 e le altre sentenze citate nel menzionato provvedimento di dissequestro.
[27] Cfr. C. Stato, Sez. V, 3 settembre 2018 n. 5157 (redatta dallo stesso estensore della sentenza n. 18).
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