ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Guerre ataviche con mezzi moderni di Maria Teresa Covatta
Sommario: 1. L’Ucraina, la guerra atavica con mezzi moderni in Europa - 2. Gli altri conflitti e le crisi protratte - 3. La crisi dei diritti - 4. La crisi dell’ONU.
1. L’Ucraina, la guerra atavica con mezzi moderni in Europa
L’espressione è risalente e non stata coniata per l’Ucraina ma si adatta perfettamente a questo conflitto.
Il ruolo dei media non è mai stato così potente come nella guerra in corso, sotto plurimi profili, tanto che non a caso si parla di Inforwar.
L’opinione pubblica è stata quotidianamente informata ricevendo ad horas reportage e immagini che hanno portato l’invasione, il conflitto e le sue devastanti conseguenze umanitarie nelle case di tutto il mondo
Non si hanno evidenze specifiche sulle reazioni di oltre oceano, anche se giornalisti e opinionisti di stanza negli USA riferiscono che , al di là dell'informazione circa gli atti politici, dagli aiuti in armi a quelli di natura economica, la percezione comune è quella di una guerra lontana, mentre è evidente, invece, che in Europa il ruolo giocato dall’informazione è stato fondamentale anche per avallare le scelte politiche, economiche e umanitarie sia nazionali che dell’Unione in favore dell’Ucraina.
L’altro profilo non meno importante è che la raccolta massiva e costante di informazioni, dati e immagini ha rappresentato certamente un input di rilievo per l’avvio della procedura per crimini di guerra presso la Corte penale internazionale e, al di là delle prove acquisite direttamente sul posto dalla procura Generale della Corte nel corso della missione del 18 marzo in Ucraina, costituirà inevitabilmente materiale da utilizzare per il proseguimento e lo sviluppo della futura procedura.
Ma c’è un terzo aspetto che sottolinea l’importanza dell’informazione in questo conflitto: ed è il ruolo assegnato alla disinformazione.
Le testate giornalistiche indipendenti russe sono state fatte tacere .
A circa due settimane dall’inizio del conflitto la notizia della chiusura anche delle ultime due emittenti considerate libere, la radiofonica Radio Eco di Mosca e la TV satellitare Dozhd : ciò a seguito della decisione della Duma che ha approvato all’unanimità (!) un disegno di legge che prevede fino a15 anni di carcere per chi comunica “informazioni false” tra cui accuse all’esercito della Federazione di colpire i civili, violando il diritto umanitario, e notizie circa il numero dei soldati russi colpiti.
Anche le testate giornalistiche estere sono state costrette ad abbandonare la Russia, lasciandoci, come ultime immagini espressione di libertà, la protesta delle "Mamme dei Soldati di San Pietroburgo" (è il nome di una ONG che opera nel campo dei diritti umani in Russia), incarcerate mentre, al suono dei telefonini, cantano Zombie dei Cramberries come inno contro tutte le guerre.
Alle altre fonti di informazione lasciate “libere” di trasmettere sono state assegnate norme di linguaggio tassative da utilizzare, pena gravi sanzioni anche detentive in caso di violazione. Non c’è guerra, non c’è invasione, non c’è resistenza ucraina.
Persino l’incrociatore russo Moskva affondato a largo tra Odessa e Sebastopoli non è stato colpito da un missile di ultimissima generazione, pare addirittura sviluppato nel 2021, come riferiscono fonti Ucraine avallate da fonti USA, ma è andato a picco per effetto di un incendio sviluppatosi casualmente a bordo: notizia questa che dichiara con tutta evidenza che pur di negare il conflitto, la resistenza del “nemico” e le sue vittorie, si preferisce addossarne la responsabilità alla propria produzione navale e all’equipaggio.
E infine i social. Come riportato dall’agenzia russa Interfax, rilanciata da tutte le agenzie del mondo, il 14 marzo, al nono giorno del conflitto russo ucraino l’ente regolatore delle Telecomunicazioni in Russia, la Roskomnadzor, ha disposto il blocco di Twitter, Facebooke e Instagram nel Paese per il loro coinvolgimento in “attività estremistiche”, a causa della decisione della casa madre META di non inibire i contenuti contro i militari russi.
Il blocco è stato poi confermato da una sentenza del Tribunale di Mosca che ha accolto in tal senso una richiesta presentata dal procuratore generale
Milioni di russi sono stati quindi esclusi da quel tipo di informazione di massa, altrimenti inarrestabile. Così afferma Nick Clegg presidente del Global Affairs META sotto il cui cappello sono Instagram, Whathapp e Messenger: “I cittadini russi si troveranno tagliati fuori da informazioni attendibili, privati dalle loro modalità quotidiana di connettersi con famiglie e amici, di esprimersi in maniera sicura e anche di mobilitarsi”.
Ma forse il risultato di questa guerra di disinformazione nella guerra è che molti commentatori ritengono che gran parte dei russi si sono stretti intorno al loro presidente e hanno rafforzato la spinta nazionalista in atto, aumentata anche dalla difesa della "operazione militare" in Ucraina da parte del Patriarca russo-ortodosso Kirill, che in plurime dichiarazioni la definisce una guerra necessaria in nome della pace.
Non tutti, evidentemente, se l’Avvenire informa che l’emittente vaticana Radio Maria funge da “Radio Londra”, consentendo, quando è possibile, la connessione anche in Russia
La Infowar, infine, ha coinvolto anche l’Ucraina e l’UE che hanno stabilito restrizioni a quelle testate giornalistiche russe di stanza sul loro territorio considerate megafono del Cremlino.
Oltre alle armi di ultima e di ultimissima generazione ( recente la notizia della minaccia da parte russa di utilizzare missili con gittata di 18 mila Km), tra i mezzi moderni sono senz'altro gli attacchi cibernetici che si sono susseguiti e probabilmente si susseguono tutt’ora, atti a colpire punti nevralgici delle parti in conflitto .
La cosiddetta Cyber Army, l’armata di cyber legionari volontari mobilitati dall’Ucraina, si è fatta carico di veicolare messaggi contro la guerra alla popolazione russa privata degli usuali mezzi di informazione nonché di mettere in atto specifici attacchi a server strategici (banche russe, siti amministrativi e alla stessa Gazprom) “bombardandoli” fino al punto di renderli inutilizzabili almeno per qualche tempo.
Assoluta novità è l'utilizzo, da parte dell'Ucraina, di start-up (la più importante è il Gruppo HacKen) con il compito di indirizzare, strutturare e fornire assistenza tecnica ai legionari, una specie di Ground Control degli attacchi cibernetici.
Meno moderne, ma solo perché già sperimentate all'epoca della guerra fredda, le minacce di far uso di armi batteriologiche, chimiche e nucleari non meno di peso, oggi e in futuro, per le sorti di questa guerra e per i timori che suscita.
Detto questo non c’è dubbio che il conflitto ucraino resti una guerra “atavica” così come tante altre in corso attualmente nel mondo.
Sono stati messi in campo tutti i mezzi antichi, da sempre sperimentati per agire un conflitto, prima di tutti l'uso della forza e l’invasione di un altro territorio sovrano; ma anche l'ammantare appetiti geopolitici con la veste di interessi superiori o pretesi diritti nazionalistici; e ancora la violazione sistematica del diritto umanitario mediante l’uccisione di civili, le deportazioni forzate, l’inibizione dei corridoi umanitari e, come sembrano evidenziare le più recenti notizie e le immagini a corredo, la tortura e lo stupro di guerra.
Immagini crude riportate dai giornalisti che sono riusciti ad arrivare sul posto mostrano evidenze di abusi, massacri di civili i cui corpi sono stati abbandonati per strada,violenze e camere della tortura difficilmente liquidabili, come vorrebbe Mosca, come una montatura organizzata da Kiev con foto truccate o come una messa in scena provocatoria per interrompere i colloqui di pace.
Si registrano da più fonti le notizie di intere famiglie, tra cui, sembra, 5 mila bambini, deportate in Russia, ai confini con la Siberia; o quelle del blocco di corridoi umanitari perpetrate di fatto semplicemente non consentendo ai civili di mettersi in salvo allontanandosi dalle zone più attinte dai bombardamenti.
E da più fonti arriva la notizia che si era sempre temuta: lo stupro come arma da guerra. Varie testate giornalistiche, tra cui anche l’italiana Corriere della sera hanno raccolto vari j’accuse in tal senso. La vicepremier ucraina Olga Stefanishyna denuncia i vari episodi verificatisi in tutti territori di guerra e ne raccoglie le testimonianze. Gli stupri di guerra in Ucraina non sono una novità per il Paese: a questo proposito già la Corte penale internazionale aveva aperto un’inchiesta sulle violenze sessuali commesse in danno dei civili catturati nel Donbass,durante le operazioni che hanno accompagnato l’invasione della Crimea nel 2014.
La preoccupazione principale è quella dell’esposizione alle violenze di genere denunciate anche in un comunicato delle Nazioni Unite laddove si stigmatizza il timore che la situazione attuale possa molto concretamente mettere repentaglio la sicurezza di tutti gli ucraini e in particolare delle donne . Il rischio del dilagare degli stupri di guerra è, in questo caso come sempre, estremamente concreto, specialmente per i gruppi più vulnerabili poiché più esposti quali le combattenti volontarie e le giornaliste.
La violenza sessuale viene usata come vera e propria arma per punire i dissidenti, per rappresaglia contro la popolazione ma più in generale per ribadire la conquista del territorio sotto ogni punto di vista .
Lo stupro di guerra rende il corpo delle donne un oggetto a disposizione dei soldati la cui proprietà viene sancita dalla guerra stessa e in alcuni casi sfruttato come strumento di pulizia etnica o genocidio. Ed è un fenomeno che ritroviamo in tutte le guerre, del passato e del presente, tanto più efferato se coinvolge minori, sia come vittime che come spettatori.
Se non vi è alcun dubbio che queste condotte integrino crimini di guerra e gravi violazioni del diritto umanitario sembra più difficile ravvisare nei fatti di cui finora si è a conoscenza il crimine di genocidio ormai divenuto usuale nella terminologia mediatica che lo riconduce al concetto di crimine efferato.
In realtà il termine , coniato in relazione allo sterminio degli Ebrei, è stato codificato nel 1948 dalle Nazioni Unite che, in una apposita Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio, lo riferirono a omicidi, lesioni fisiche o mentali a membri di un gruppo perseguitato, all'inflizione di misure di morte lenta tali da determinare la distruzione del gruppo, per esempio privandolo di adeguati alimenti, assistenza medica o alle misure intese a impedire la riproduzione del gruppo come la sterilizzazione, le mutilazioni sessuali, la segregazione sessuale e gli stupri per alterare la composizione etnica del gruppo, nonché al trasferimento forzato di bambini ad altri gruppi, tutto con l'intento accertato di distruggere il gruppo in tutto o in parte.
Senz'altro le Nazioni Unite avevano presente, oltre all'Olocausto, anche altri episodi connotati da tali caratteristiche, in cui comunque era manifesto l'intento di annientare una intera popolazione o una gran parte di essa .
Secondo molti storici, tra questi anche quello che ebbe protagonisti la Russia di Stalin e i contadini ucraini nel 1934, allorché il primo, utilizzando a suo favore il crollo della produzione del grano, aumentò le requisizioni dei cereali e della sementi necessarie per la semina successiva, proibì ai contadini di lasciare il Paese e causò la morte per fame di circa 4 milioni di ucraini, con l'obiettivo di colpire popolazioni considerate inaffidabili e potenzialmente pericolose.
Come dire: la storia si ripete.
Detto questo, le valutazioni circa l'applicazione del crimine di genocidio ai fatti in corso, a prescindere dalle responsabilità individuali per i crimini di guerra che sono di competenza della Corte Penale Internazionale, spetteranno alla Corte Internazionale di Giustizia, in base all'art 9 della Convenzione del 1948 secondo cui competono alla Corte le controversie fra le parti contraenti relative all'interpretazione e applicazione della Convenzione, compreso l'accertamento della responsabilità degli Stati per il crimine di genocidio.
Il ricorso alla Corte, preannunciato dal presidente ucraino con un tweet (mezzi moderni!) consiste nella richiesta di accertare che in Ucraina non sia mai stato posto in essere un genocidio nei confronti delle minoranze russofone del Donbass con conseguente insussistenza delle ragioni di diritto asseritamente poste dalla Russia a sostegno dell'invasione.
2. Gli altri conflitti e le “crisi protratte”
L’impossibilità della Russia di Putin di "tornare indietro" e l’impossibilità per l’Ucraina di cedere la sua libertà e la sua integrità territoriale rischiano fortemente di trasformare la situazione ora in atto in una delle tante crisi protratte che si registrano nel mondo o, come si comincia a prospettare a seguito della possibilità di accordi a soluzione prolungata nel tempo, in una “guerra a bassa intensità”.
Senza azzardare scenari al momento imprevedibili, molti opinionisti ritengono che entrambe le soluzioni non sarebbero felici.
Si parla di crisi umanitaria quando la vita di intere popolazioni è messa pericolo da eventi causati dalla natura o dall'uomo.
Per crisi protratta si intende invece la situazione in cui i bisogni estremi, improcrastinabili e diffusi cagionati da un evento critico, sono protratti nel tempo, trasformando l’aiuto umanitario tipico, che è volto direttamente alla popolazione ed è fortemente concentrato sull’immediata soddisfazione dei bisogni umanitari di base (salvare la vita, fornire cibo, acqua e protezione, ripristinare rapidamente i servizi primari) in una sorta di dipendenza umanitaria, prolungata nel tempo, anche per lunghi periodi, che comporta uno sforzo internazionale non indifferente anche sotto il profilo delle risorse economiche e di capitale umano.
Facile comprendere cosa possa comportare una simile situazione nel caso dell’Ucraina, con i suoi 5 milioni di profughi, che diventano 12 se si contano i profughi interni e il Paese distrutto.
L’ipotesi della guerra a bassa intensità non sarebbe meglio. Con questa espressione (LIC-Low Intensity Conflict) si intende infatti una situazione conflittuale permanente e irrisolta in cui l’uso della forza è applicata selettivamente e in modo limitato, con dispiegamento di truppe o anche con risorse diverse dalla guerra, che si concreta in sollecitazioni continue e comunque sempre in situazioni a rischio di esplosione.
Il Global Conflicts Tracking, nel 2021, ha classificato ben 27 situazioni di crisi protratte causate da instabilità (ad esempio l’instabilità politica in Libia o la situazione della Nigeria, crocevia di traffici illeciti e attentati terroristici ), o da conflitti che proseguono da anni (ad esempio in Siria, lo Yemen, il Sud Sudan, la Repubblica Centro Africana, solo per citarne alcuni); o da guerre civili (quale quella che ha travolto il Myanmar, l'ex Birmania, con la presa di potere dei militari) e guerre a bassa intensità quale quella israelo-palestinese .
Se aggiorniamo l’elenco con la situazione determinatasi in Afghanistan e ora in Ucraina, ben si comprende che gli interventi di emergenza umanitaria si sono necessariamente sovrapposti agli interventi di aiuto allo sviluppo, i quali cercano soluzioni a lungo termine finalizzate a trasformare le società e a affrontare e risolvere stabilmente le cause che hanno dato luogo alle crisi; e si comprende altresì cosa significhi questo, in generale, rispetto al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, che si allontano a dismisura.
Ma le crisi protratte hanno anche un’altra caratteristica e cioè che possono facilmente destabilizzare intere regioni alle quali, per contiguità territoriale, necessariamente si propalano. Queste evenienze, per noi fin ora lontane anche se relativamente vicine- si pensi all’Africa e al Sahel- ci coinvolgono direttamente poiché nel caso della crisi Ucraina il territorio contiguo è l’Europa.
3. La crisi dei Diritti
La tutela dei diritti umani è affidata, com’è noto, in primis agli Stati Nazionali i quali dovrebbero provvedere al riconoscimento di tali diritti fondamentali all’interno delle Costituzioni e leggi e prevedere allo stesso modo strumenti validi di tutela in caso di violazioni, coerentemente a quanto sancito dal principio generale di sussidiarietà.
E tuttavia il diverso valore assegnato ancora oggi ai diritti fondamentali dalle diverse culture e società nei diversi luoghi del mondo ha reso evidente l’importanza di una disciplina internazionale volta a indicare in maniera globale e uniforme le procedure a tutela e difesa dei diritti umani.
Questo è stato ed è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dapprima codice etico con valore non vincolante, ora parte integrante del diritto consuetudinario internazionale per il tramite delle successive convenzioni con valore vincolante per gli Stati sottoscrittori, con previsione anche di strumenti di tutela giuridicamente codificate dal diritto internazionale.
La previsione teorica, però, non ha trovato la stessa applicazione ovunque.
Già prima dell’inizio del conflitto attuale la prospettiva umanitaria in Russia non era delle migliori. Secondo i dati di Amnesty International erano già gravemente limitati il diritto alla libera manifestazione del pensiero, la libertà di riunione, salvo che per gli eventi di massa filogovernativi, le manifestazioni pacifiche a sostegno dell'opposizione, gli arresti illegali seguiti da trattamenti degradanti, disumani, e persino dalla tortura, la persecuzione contro le persone Lgbti, sostenuta da una legislazione omofoba; e infine la deliberata impunità assicurata ai reati commessi contro i sostenitori dei diritti umani e i giornalisti non allineati (si pensi all'uccisione della giornalista investigativa Anna Politkovskaja), condannati anche da pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
I casi denunciati da Amnesty sono centinaia. Uno per tutti, la nota vicenda del leader dell'opposizione Aleksey Naval'nyi, condannato ripetutamente per le manifestazioni pacifiche poste in essere contro il "sistema Putin" e non liberato neppure dopo che la CEDU ne aveva ordinato il rilascio immediato per la sua sicurezza fisica.
A causa di tutto questo la Russia era già classificata dagli indicatori internazionali come uno Stato Fragile sotto il profilo della tutela dei diritti. Ora l’invasione dell’Ucraina, i divieti di qualunque forma di manifestazione di protesta, la repressione dei media di cui si è detto e la generale opera di disinformazione, anche dal punto di vista puramente linguistico, hanno confermato enfaticamente la posizione della Russia sotto tale aspetto
Attualmente lo spettro delle violazioni si è ampliata a dismisura entrando nel campo delle previsioni del Diritto Internazionale e del Diritto Internazionale Umanitario.
Cominciamo da quest’ultimo.
La tutela dei diritti umani in situazioni di conflitto è affidata al diritto internazionale umanitario (DIU) o diritto dei conflitti armati o diritto internazionale bellico che si applica unicamente ai conflitti armati, con la doppia funzione di disciplinare la conduzione delle ostilità e proteggere le vittime.
Il DIU non si occupa della liceità dei conflitti che è invece regolata dallo statuto dell’ONU e si basa sui principi elaborati durante le due Conferenze internazionali dell’Aja del 1988 e del 1907 (diritto dell’Aja) contenenti regole limitative riguardo ai mezzi e metodi di guerra e sulle armi utilizzate. Anche le violazioni del DIU, tra cui quelle registrate nel corso del conflitto Ucraino di cui si è detto, possono sfociare in crimini contro l’umanità i cui autori, a certe condizioni, potrebbero rispondere dinanzi alla Corte penale internazionale o dinanzi a corti speciali appositamente istituite (quali il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda o quello per la ex Yugoslavia)
Quanto alle violazioni del Diritto Internazionale, mai come nel caso della crisi ucraina si è parlato di ”diritto internazionale piegato alla politica”, oltre che, naturalmente, di violazione palesi delle norme di diritto.
L’espressione è utilizzata in un articolo pubblicato sul numero 2/2022 di Limes, dove Rosario Aitala e Fulvio Palombino spiegano in questo modo le argomentazioni “giuridiche” di Putin volte a ricondurre l’invasione sotto l’ombrello del diritto : “non ci è stata lasciata altra scelta.. se non quella che siamo costretti a fare”. Insomma l’invasione spiegata dall’invasore sotto la lente del diritto internazionale e in particolare proprio in relazione all’applicazione dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite
L’articolo 51 della Carta indica nella legittima difesa l’unica eccezione al divieto tassativo dell’uso della forza sancito dall’art 2 il quale prevede che gli Stati “ si asterranno nelle proprie relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato ovvero in modo comunque incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite”
Del pari inaccettabile, a fronte del principio, la tesi dell’uso preventivo della forza, inammissibile secondo gli studiosi, contrastato dalla stessa Russia nel contesto della crisi irachena del 2003 e comunque neppure ravvisabile nei fatti nel caso dell’Ucraina, che non stava né realizzando né meditando alcun attacco armato che richiedesse di essere prevenuto.
E dunque non sembra che ci possano essere dubbi che ordinando l'aggressione dell'Ucraina il presidente russo abbia violato i principi del diritto internazionale sotto il profilo della sovranità degli Stati, il principio dell'autodeterminazione dei popoli, l'obbligo di risolvere le controversie in modo pacifico e il dovere di astersi dall'uso della forza nonché il divieto di interferire nelle competenze di altri Stati.
Ha violato, inoltre, accordi multilaterali sottoscritti anche dalla Russia come quelli istitutivi del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e accordi bilaterali sottoscritti con la stessa Ucraina.
Tutto ciò ha fondato le risoluzioni del Parlamento Europeo del 28 febbraio e dell'Assemblea Generale dell'ONU del 2 marzo, di condanna dell'invasione, sorrette entrambe da maggioranze mai raggiunte.
Condanne cui hanno fatto seguito le sanzioni comminate dalla Commissione, nonché, sotto il profilo del Diritto Internazionale Umanitario, un pacchetto di misure volte a garantire l'attraversamento delle frontiere da parte dei profughi e la loro protezione temporanea.
Tutte le violazioni del diritto internazionale unitamente alle violazioni del Diritto Internazionale umanitario perpetrate con i crimini di guerra ai danni dei civili, di cui si è detto, hanno consentito di affermare che attualmente “la Federazione Russa è uno Stato fuori legge”.
La considerazione che Stati sovrani possano deliberatamente porre in essere azioni in palese violazione del diritto, anche quando influiscono pesantemente sul diritto dei popoli, senza neppure piegarsi alle negoziazioni diplomatiche o non rispettandone gli esiti, legittima l'idea che il diritto internazionale sia in difficoltà e che tali difficoltà si configurino soprattutto come crisi di responsabilità, intesa come negazione della riconducibilità effettiva dell'azione alle regole imposte dal diritto stesso e già volontariamente accettate.
Complica il quadro la presenza di cosiddetti ANS , gli attori in conflitto non statali, forze combattenti cui è difficile ricondurre la responsabilità sotto il profilo delle violazioni del diritto internazionale e del DIU poiché non riconducibili sotto la categoria dei soggetti internazionali. E anzi questi gruppi sono utilizzati dagli Stati proprio al fine di sottrarsi alla propria responsabilità, posto che non sono ad essi riconducibili "fino a prova contraria"
Così è stato per il Gruppo Wagner , la compagnia militare la cui azione in Siria, a sostegno di Assad , in Libia, nella Repubblica Centro Africana, o anche in Ucraina, è considerata riconducibile alla Russia di Putin che tuttavia ha sempre negato qualsiasi collegamento. Oppure, per l'Ucraina, l'ormai famoso battaglione Azov, ora però "statalizzato" perché integrato nell'esercito ucraino.
4. La crisi dell’ONU
Da tempo si parla della crisi dell’ONU , correlata al rimprovero di scarso intervento in tutte le maggiori crisi degli ultimi decenni nelle quali le Nazioni Unite, non “toccando palla” avrebbero mostrato la loro assenza e la loro ormai endemica impotenza.
La critica di essere un carrozzone che brucia inutilmente miliardi di dollari ogni anno si è acuita a seguito della crisi afgana dove l’ONU avrebbe mostrato di non essere in grado di affrontare l’emergenza ( così come invece auspicato dal Presidente del consiglio Draghi al vertice G20 Afghanistan) né svolgendo un ruolo diretto né attraverso un mandato congiunto degli Stati per il coordinamento delle risposte alla grave crisi umanitaria del Paese
Sembra dunque che il diritto internazionale della pace abbia fatto pochi passi nei quasi 80 anni trascorsi dalla Seconda Guerra Mondiale. La Comunità internazionale è meno disunita ma ancora incapace di far diventare realtà le norme di pacifica coesistenza tra popoli dettate dalla ragione.
Sotto un profilo storico, sebbene l'ONU abbia occupato un posto più centrale nel sistema della governance dopo la Guerra Fredda, non ha tuttavia subito una effettiva trasformazione parallela al sistema internazionale.
I mutamenti geopolitici, economici, sociali e le mutate esigenze di sicurezza hanno reso sempre più evidente le disfunzioni delle Nazioni Unite che oggi affrontano una crisi profonda che pone una sfida diretta alla filosofia dell'Organizzazione e ne mette in discussione la stessa legittimazione.
Prima causa di questa crisi il fatto che l'ONU continua ad essere consegnata a una struttura a cinque, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che non combacia più con il sistema internazionale multipolare e che lo costringono a decisioni incoerenti con la natura e rilevanza delle crisi.
Infatti, alla generale perdita di potere del multilateralismo, a fronte di Stati sempre meno disposti a cedere anche una minima parte della propria sovranità, si affianca l’ormai nota paralisi del consiglio di Sicurezza impossibilitato ad adottare una risoluzione di condanna dell’invasione dell’Ucraina per effetto dell’esercizio del diritto di vero da parte dello stesso Stato accusato dall’invasione. Anche le pronunce dell’Assemblea Generale restano di restare prive di effetti concreti, poiché l’organo è privo di poteri vincolanti e assume decisioni solo di carattere politico.
La vicenda Ucraina rende evidente ancora una volta di più che l’inazione del Consiglio di Sicurezza, che avrebbe, in teoria, gli strumenti necessari per intervenire e promuovere la pace e la sicurezza internazionali e che invece è paralizzato dal diritto di veto, è prova di un pericoloso deficit di democrazia e rende ormai non rinviabile la riforma delle Nazioni Unite salvo condannarle (cito ancora l’articolo di Limes) alla “irrilevanza davanti alla storia”.
L'intervento del presidente Zelensky proprio al Consiglio di Sicurezza, il suo atto d'accusa e la richiesta di espellere la Russia dal consesso, segnala all'evidenza il fallimento e l'ingabbiamento del sistema, specialmente allorché, come nel caso dell'Ucraina, è connesso proprio ad un membro del Consiglio stesso dotato di potere di veto, in palese conflitto di interesse.
La Spada Spirituale e la Spada Temporale: due visioni protestanti della guerra a confronto
di Tommaso Manzon
Sommario: 1. Introduzione - 2. Due tradizioni - 3. Conclusione.
1. Introduzione
Lo scopo di questo breve contributo è quello di fornire una panoramica della prospettiva protestante/evangelica di fronte alla guerra. La materia di per sé sarebbe vastissima, pertanto ci si concentrerà su due tradizioni di pensiero, prese nella forma in cui esse si sono presentate proprio all’epoca della Riforma protestante del XVI secolo[1]. Per potersi però avvicinare al tema, è necessario compiere alcune precisazioni, che potrebbero risultare superflue per alcuni ma che ciononostante non si possono dare per scontate.
Innanzitutto, è bene specificare come non vi sia una chiesa evangelica. Perlomeno, essa non esiste allo stesso modo in cui esiste una Chiesa Romano-Cattolica raccolta sotto il Vescovo di Roma e una Chiesa Ortodossa raccolta attorno al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli. Gli evangelici affermano con i grandi Credi della Chiesa Universale che l’Assemblea di Cristo è spiritualmente una attraverso il tempo e lo spazio; essi però non hanno mai sostenuto che una tale unità dovesse per forza tradursi in rapporti istituzionali stabili, i quali legassero tra loro le diverse comunità ecclesiastiche. Questo non nega che le diverse chiese protestanti siano spesso unite tra loro da legami organizzativi a livello locale, internazionale e mondiale. Tali rapporti si sviluppano sia a partire dalla comune appartenenza a una delle tante tradizioni componenti la famiglia evangelica, sia in maniera trasversale in base a certe sensibilità condivise che intersecano le singole storie dei vari filoni protestanti.
Per fare un esempio concreto, la comunità di cui faccio parte è legata a un’unione nazionale di chiese appartenenti alla stessa denominazione (quella battista). A sua volta, quest’unione di chiese appartiene a una federazione che opera a livello europeo che è anch’essa inserita all’interno di un contesto mondiale (rispettivamente, European Baptist Federation e Baptist World Alliance). Infine, a tutti e quattro i livelli (locale, nazionale, continentale e mondiale) queste comunità fanno parte di organi di cooperazione inter-protestanti (per esempio, la FCEI, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia). Il punto è che questi legami e le istituzioni che da esse sono generate non sono in primis la causa bensì il prodotto del comune sentire delle chiese che ne fanno parte.
Quindi, l’unitarietà dell’Assemblea di Cristo è un fatto di per sé spirituale ed invisibile e determinato da Dio; esso diventa visibile non a partire da istituzioni trans-comunitarie, bensì a partire dal raccogliersi di uomini e donne intorno a Dio in diverse assemblee locali. Contemporaneamente, queste assemblee sono il prodotto e si riconoscono come parte di una storia comune. A partire da questo concreto riconoscimento di ciò che è comune tra loro, le chiese formano strumenti d’incontro e di cooperazione che vanno al di là della loro dimensione locale.
La seconda precisazione da fare è molto più semplice ed è legata alle dimensioni attuali del movimento evangelico. Secondo un’indagine ormai relativamente datata (2011) ma che comunque ci fornisce un quadro abbastanza preciso della situazione, la somma di tutte le chiese evangeliche rappresenterebbe il 37% del cristianesimo globale o circa 800 milioni di persone[2]. Luteranesimo, presbiterianesimo, metodismo, battismo, mennonismo, pentecostalesimo, anglicanesimo sono solo alcune delle maggiori tradizioni che compongono questa compagine. Tali distinzioni però non dovrebbero essere esagerate; se infatti da un certo punto di vista è necessario parlare di protestantismi al plurale, dall’altro è sicuramente lecito parlare di protestantesimo al singolare. Ciò è reso possibile proprio dall’esistenza di una comune storia e di una comune sentire che lega queste tradizioni, sebbene in passato non siano mancati e tutt’ora non manchino i fanatismi e le incomprensioni.
Dunque, sia la vastità che la relativa frammentazione del movimento evangelico rende di fatto impossibile fare riferimento a una prospettiva che rappresenti la prospettiva degli evangelici. Ciò detto, è possibile indicare rispetto a un tema in particolare le principali tendenze di pensiero che si sono sviluppate nel corso dei secoli. Queste, pur nella loro relativa diversità, possono essere associate e messe a confronto in modo profittevole in base alla comune sensibilità che fa da sfondo a ogni espressione del cristianesimo riformato.
Una componente essenziale di questa sensibilità è quel principio di vita e di dottrina che viene normalmente indicato con l’espressione latina Sola Scriptura. La Confessione di Fede dell’UCEBI (Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia) spiega il Sola Scriptura in questo modo:
“La Bibbia è la sola testimonianza autentica e normativa dell’opera di Dio per mezzo di Gesù Cristo. In quanto lo Spirito Santo la rende Parola di Dio, essa va studiata, onorata e obbedita”[3].
Si potrebbero utilizzare altre parole per esprimere questo punto teologico, ma credo che ogni buon protestante dovrebbe essere d’accordo con questa formulazione. Qualunque altra cosa la Bibbia possa essere, per un cristiano evangelico essa deve essere almeno quanto viene detto in questa breve affermazione. In quanto tali, le Scritture diventano il punto di riferimento ultimo sul quale il cristiano deve orientare la propria azione e la propria comprensione di Dio e della vita. Le chiese evangeliche si riconoscono tra di loro come comunità che teorizzano e cercano, con tutti i loro limiti, di vivere all’altezza di quanto Dio ci ha testimoniato e insegnato per mezzo della sua Parola.
Questo ci porta infine al nostro tema. Che cosa, infatti, dice la Scrittura in merito alla guerra? Si noti che l’estratto citato dalla Confessione di Fede dell’UCEBI fa un riferimento in particolare alla figura di Cristo. Questo dipende dal fatto che una lettura cristiana della Bibbia non la riconosce solo come Parola di Dio, ma anche come Parola di Dio le cui diverse componenti (la Bibbia è notoriamente composta di diversi testi, scritti e raccolti nel corso dei secoli) si presenta come un organismo il cui cuore pulsante sono i quattro vangeli e la figura di Jeshua di Nazareth. Quindi, l’interpretazione delle Scritture deve procedere alla luce della figura di Gesù, della sua vita e dei suoi insegnamenti.
Concentrandosi sul tema del conflitto armato e della sua liceità, nessun pronunciamento di Gesù è forse più famoso di quello riportato nel Vangelo di Giovanni e che egli pronuncia di fronte a Ponzio Pilato. Interrogato infatti dal prefetto romano su che cosa abbia fatto per meritarsi di essere arrestato e se egli sia veramente il re dei giudei, Gesù risponde “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Giov. 18:36). Quest’affermazione potrebbe facilmente suonare come un rifiuto netto e senza appello dell’uso della forza e in particolare dello scontro armato di massa e organizzato (e cioè, la guerra).
Una buona lettura del testo biblico però non può fermarsi a poche parole sottratte dal loro contesto. Nel caso specifico si potrebbe per esempio notare come questa frase sia stata pronunciata in un momento estremamente particolare (l’arresto di Cristo) e domandarsi quindi quale sia la sua portata di applicazione ad altri contesti. L’affermazione poi che il regno di Cristo non sia di questo mondo (cioè, non ne segue le regole) non nega il fatto, sottolineato dallo stesso Gesù in altre occasioni, che i cristiani comunque si trovino nel mondo e non possano sottrarsi al fatto di essere messi alla prova da quanto accade nel mondo (cfr. Giov. 15:18-19, 16:33).
Nella misura in cui la guerra è una costante della storia e quindi della vita nel mondo, essa ha messo alla prova i cristiani e le cristiane dei diversi secoli. Lo ha fatto certo nei termini del loro coinvolgimento o meno in determinati conflitti, ma anche e proprio per questo motivo ha comportato uno sforzo sotto il profilo della riflessione teologica e della formazione spirituale. L’intrinseca delicatezza del tema della guerra, che ha spesso toccato in prima persona chi ha avuto l’occasione di rifletterci sopra, ha portato a produrre diverse posizioni sul tema. Spesso queste sono state determinate anche da questioni collaterali come, per esempio, la natura della Chiesa e il suo rapporto con la politica; a sua volta, la posizione presa dai cristiani di fronte alla guerra ha determinato in un senso piuttosto che in un altro altri aspetti della loro teologia e della loro prassi. Per questo motivo, parte della diversità esistente all’interno del movimento evangelico è dovuta proprio a differenti comprensioni del rapporto che dovrebbe esistere tra il cristiano e la guerra. Nelle prossime pagine si cercherà di esporre questa varietà di opinioni facendo riferimento alle due principali opzioni che sono state coltivate nei secoli dalla teologia evangelica.
2. Due tradizioni
La prima tradizione a cui si vuole fare riferimento è la cosiddetta “dottrina della guerra giusta”. Questa teoria non è tipica della teologia protestante, per cui al limite si dovrebbe parlare di una ricezione protestante della dottrina della guerra giusta. Infatti, la dottrina della guerra giusta è addirittura “più antica del cristianesimo”[4] ed è già attestata in testi quali il De re publica di Cicerone. Fu poi elaborata in chiave cristiana grazie in particolare al contributo di Agostino ed infine inclusa nel Decretum Gratiani diventando parte del diritto canonico della chiesa latina. In seguito, la dottrina della guerra giusta subì degli sviluppi ulteriori, fino a raggiungere la sua forma classica nel corso del XVI secolo[5].
In base a quest’ultima, esistono cinque condizioni secondo le quali si gode di un ius ad bellum: legitima auctoritas, iusta causa, recta intentio, ultima ratio, iustus finis; ovvero: si ha diritto ad iniziare una guerra solo se si ha l’autorità per farlo (es.: un privato cittadino non può dichiarare guerra a qualcuno), se si ha una ragione oggettivamente buona per dichiarare guerra (di norma, essere ingiustamente aggrediti), se lo si fa con le giuste intenzioni (ossia, per ristabilire lo stato precedente al conflitto e non con lo scopo di appropriarsi di qualcosa) e se è l’ultima risorsa disponibile al fine di ristabilire la giustizia. Infine, la guerra dev’essere intrapresa con l’obbiettivo finale di raggiungere la pace con il nemico[6]. Tutto lo sforzo bellico dev’essere inoltre condotto con mezzi proporzionati all’obbiettivo e discriminando tra civili e combattenti (i primi non sono infatti un bersaglio legittimo)[7].
Calvino e Lutero accolsero nel loro pensiero la sostanza di questa dottrina, influenzando così una parte cospicua della teologia protestante posteriore[8]. Inoltre, la Confessio Augustana, una delle prime confessioni di federe evangeliche e che fu offerta all’imperatore Carlo V nel 1530, presume chiaramente la validità della teoria della guerra giusta. La Confessio infatti riporta all’Articolo XVI De Rebus Civilibus che è lecito per i cristiani “jure bellare,[et] militare”[9]. Quest’affermazione non è però pronunciata nel vuoto ed è ulteriormente qualificata dal suo contesto. Innanzitutto, al termine del medesimo articolo si afferma che “debent Christiani obedire magistratibus suis et legibus; nisi cum jubent peccare, tunc etiam magis debent obedire Deo quam hominibus [Atti 5:29]”[10]. Dunque, non ogni tipo di guerra è legittima e un cristiano dovrebbe rifiutarsi di partecipare a una guerra ingiusta, mettendo per prima la sua obbedienza a Dio. In secondo luogo, l’Articolo XVI della Confessio è subordinato alla frase di apertura dell’Articolo I che recita “ecclesiae magno consensus apud nos docent […]”[11]; questo consenso tra le diverse chiese è a sua volta determinato da un principio, espresso nell’Articolo II, per cui “ad veram unitatem Ecclesiae satis est consentire de doctrina Evangelii et administratione Sacramentorum”[12]. Dunque, che cosa sia una guerra giusta dev’essere compreso sulla base delle Scritture, ed espresso a sua volta nel discernimento comune delle chiese di Cristo.
Un esempio concreto di come questo punto sia stato compreso negli ambienti della Riforma, ci viene da uno scritto di Lutero del 1526, e dunque in realtà precedente la Confessio, intitolato I soldati possono essere salvati?. La domanda che il riformatore prende in considerazione in questo scritto è se sia lecito o meno per un credente partecipare a un conflitto armato. Il passo scritturistico su cui Lutero centra la sua discussione è Romani 13:4: “il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male”. Secondo Lutero, la “spada” del magistrato è quella del governo civile, che include in sé stessa anche la possibilità di dichiarare guerra[13]; dunque questo governo civile è la legitima auctoritas che ha il diritto di aprire e chiudere un conflitto e tale autorità gli è impartitagli direttamente da Dio.
Questo governo civile si affianca, differenzia e trova la sua origine in un governo spirituale; questo per l’appunto è il “regno che non è di questo mondo di cui parla Cristo nel Vangelo di Giovanni: lo stesso Dio che ha istituito una spada spirituale e l’ha affidata ai predicatori affinché la amministrino attraverso la Parola, ha anche istituito una spada temporale affidandola ai magistrati”[14]. Questo non significa che la spada temporale sia guidata da quella spirituale, ma che i cristiani devono obbedire ad entrambe, nella misura in cui ambedue hanno la loro origine in Dio e sono preposte a regolare un certo ambito dell’esistenza. L’unica eccezione che si dà è qualora la spada temporale entri in contraddizione con quella spirituale, nel qual caso, come si è già visto, il cristiano deve obbedire a Dio al di sopra del magistrato.
Come nota Lutero, Paolo nella Lettera ai Romani afferma che l’autorità civile non è stata istituita da Dio per “infrangere la pace ed iniziare la guerra, bensì per amministrare la pace e prevenire la guerra”. Ciò si desume dal fatto che Paolo afferma che la spada è per il bene del giusto e la punizione di chi vuole il male[15]. Dunque, secondo Lutero l’unica guerra che Dio approva è quella che viene condotta contro coloro che conducono una guerra ingiusta; pertanto, in quanto tale la giusta guerra è sempre una guerra difensiva[16]. Il riformatore non teme quindi di definire questo tipo di conflitto un “opera d’amore”: come un buon medico a volte amputa degli arti per salvare il corpo, punire il malvagio al fine di ristabilire la pace si configura come un male necessario in vista di un bene più ampio[17]. In tal senso, Lutero invita il suo lettore a considerare la guerra con occhi da adulto, non condannandola in quanto tale, ma chiedendosi di volta in volta quale sia la ragione che sta dietro di essa e dunque se un particolare conflitto si configuri come giusto od ingiusto[18].
Il medesimo articolo De Rebus Civilibus della Confessio Augustana contiene insieme a una parte positiva anche una parte negativa. Infatti, le chiese che la sottoscrissero si preoccuparono non solo di delineare le proprie posizioni, ma anche di indicare ciò da cui intendevano allontanarsi. Pertanto, si legge che esse “damnant Anabaptistas, qui interdicunt haec civilia officia Christianis”[19]. Quest’affermazione, che sicuramente non riflette gli attuali rapporti tra le diverse denominazioni protestanti, riflette la condanna da parte degli estensori della Confessio della stretta separazione dal mondo praticata dal movimento anabattista.
La posizione anabattista è ben rappresentata dal IV e dal VI dei sette articoli componenti la Confessione di Schleitheim. Questo testo fu prodotto nel 1527 da un gruppo di anabattisti svizzeri e nello specifico per mano di un ex-monaco benedettino di nome Michael Sattler[20]. Il IV Articolo riguarda la separazione che i cristiani devono osservare rispetto a tutto quanto che nel mondo non è stato riconciliato con Cristo. Questa separazione include anche le “armi diaboliche della violenza, come la spada, l’armatura e cose simili e tutto quanto si possa fare per loro tramite al fine di proteggere gli amici o per offendere i nemici, e ciò in virtù della parola di Cristo: ‘non contrastate il malvagio’ [Matteo 5:39]”[21].
Il VI Articolo, riguarda invece la spada. Come si è discusso più sopra, Lutero distingue ma tiene insieme le due spade: esse sono amministrate differentemente ma sia l’istituzione civile che quella ecclesiastica sono in sé e per sé buone perché volute da Dio. Quindi, se l’uso della violenza non è mai in sé buono, lo diventa nel momento in cui esso è giustificato dal fine di ristabilire la pace sociale. La Confessione di Schleitheim afferma anch’essa che la spada temporale è un’ordinanza di Dio, ma la pone “all’infuori della perfezione di Cristo”[22]. In quest’area, la spada punisce i malvagi e protegge i buoni, ma, all’interno della “perfezione di Cristo” in cui si trovano i credenti, l’unico strumento per limitare il malvagio è l’ammonizione e l’allontanamento dalla comunione ecclesiastica[23]. Dunque, il cristiano non può usare la spada temporale, ma, come Cristo impedì che si lapidasse la donna adultera ammonendola allo stesso tempo di non peccare più, così devono fare i suoi discepoli; come Cristo rifiutò di risolvere una disputa ereditaria tra due fratelli, così i cristiani non dovrebbero essere giudici sopra questioni mondane (cioè, ancora una volta, esterne alla perfezione di Cristo)[24]. Infine, non è appropriato per un cristiano rivestire un ruolo pubblico nelle istituzioni (“essere un magistrato”), perché come Cristo rifiutò di essere fatto re dalla folla (Giov. 6:15) anche in questo dev’essere imitato dalla Chiesa[25].
È chiaro come di fronte a quest’impostazione del rapporto tra Chiesa e mondo, la guerra semplicemente non è una strada percorribile dal cristiano, in nessun caso. Perlomeno, non lo è, non la guerra fisica e cruenta. Infatti, nonostante il suo pacifismo, la Confessione di Schleitheim ritiene che i cristiani siano comunque impegnati in uno scontro. Citando il Paolo di 2Corinzi 10:4 (“infatti le armi della nostra guerra non sono carnali, ma hanno da Dio il potere di distruggere le fortezze”) la Confessione riporta che “le armi da guerra [di coloro che vivono nel mondo] sono carnali e operano solamente contro il corpo, ma le armi dei cristiani sono spirituali e operano contro le fortificazioni del diavolo. I mondani sono armati con acciaio e ferro, ma i cristiani sono armati con l’armatura di Dio: la verità, la giustizia, la pace, la fede, la salvezza e con la Parola di Dio”[26]. Dunque, se la spada temporale è buona per operare nel mondo, il cristiano che la raccoglie compie qualcosa di diabolico, per usare l’espressione ritrovata nel IV punto. Allo stesso tempo, egli è chiamato a combattere una guerra spirituale per l’espansione del Regno di Dio in terra, per la quale è stato equipaggiato da Dio con armi e protezioni altrettanto spirituali; questa, è una militia a cui ogni discepolo di Gesù è chiamato e a cui non può sottrarsi.
La Confessione di Schleitheim ebbe un impatto immediato sugli anabattisti della Svizzera e della Germania meridionale, sebbene le reazioni ad essa non furono sempre positive[27]. Per esempio, proprio sulla questione della spada ebbe da ridire il grande leader anabattista Balthasar Hubmaier, Costui infatti concepiva la possibilità che un cristiano potesse servire come magistrato e dover, se necessario, ricorrere alla violenza[28]. Non bisogna nemmeno dimenticarsi del noto episodio della cosiddetta “Ribellione di Münster”, durante la quale un gruppo di anabattisti guidati da Melchior Hoffman cercò di stabilire una “Nuova Gerusalemme” nella città westfaliana[29]. L’esperimento durò per circa un anno tra il 1534 e il 1535, terminando nel sangue dopo un lungo assedio ed eccessi di tutti i tipi perpetrati dagli occupanti della città. In ogni caso, la posizione separatista e pacifista della Confessione era maggioritaria tra gli anabattisti e con il tempo divenne quella normativa e tutt’ora perpetrata tra i Mennoniti e gli Hutteriti – ossia i gruppi direttamente successori dell’anabattismo delle origini[30].
3. Conclusione
Come si è precisato all’inizio di questo breve articolo, il mondo evangelico è ampio, numeroso e variegato al suo interno. Questo, pure sullo sfondo di una comune identità, ha fatto sì che differenti tradizioni assumessero diverse posizioni e sviluppassero diverse risposte di fronte agli stessi problemi.
Come si è visto, sebbene in modo molto parziale, il caso del tema della guerra non fa eccezione. Qui non è stato possibile fare di più che introdurre la questione, esponendo le linee generali di quelle che sono state le due grandi “scuole di pensiero” all’interno del mondo della Riforma. Ci si è però concentrati su figure, gruppi e documenti della prima ora; in un certo senso, si potrebbe dire che qui si è presa in considerazione la teologia riformata presa nel suo istante 0. Ma a 505 anni di distanza dal provvidenziale 31 ottobre in cui Lutero affisse le 95 sulla porta della cattedrale di Wittenberg le si sono complicate e non poco. Nuovi gruppi, nuove idee, nuovi stili di praticare la fede cristiana si sono sviluppati, a volte in continuità e a volte in discontinuità con i modelli del XVI secolo.
Rispetto al nostro tema, le direttrici da prendere in considerazione sarebbero molteplici. Innanzitutto, bisogna registrare come entrambe le opzioni che qui sono state discusse, sia quella della dottrina della giusta guerra che di un pacifismo senza se né ma, rimangono assolutamente vive e praticate. Allo stesso tempo, rimangono vivi sia un approccio separatista tra il mondo ecclesiastico e quello secolare, sia uno più continuista che vede tra queste due sfere della vita una distinzione che non sfocia in una separazione. A complicare ulteriormente questo quadro, oggi il pacifismo è diffuso anche all’interno di tradizioni che non sono le dirette discendenti dell’Anabattismo. Infine, a partire dal XVII secolo si è visto l’insorgere di gruppi che da un lato sposavano alcuni elementi dell’anabattismo ma che allo stesso tempo non erano necessariamente pacifisti né necessariamente ostili all’idea che un cristiano ricoprisse dei ruoli pubblici – si pensi per esempio al battismo e al congregazionalismo.
Pertanto, vi sarebbe ancora molto da scrivere ai fini di completare il quadro introduttivo che qui è stato proposto. Inoltre, sarebbe utile fare riferimento anche ad esempi concreti che hanno visto i cristiani protestanti misurarsi con la minaccia e l’attualità della guerra. Qui non è possibile aggiungere molto, ma si vorrebbe concludere proprio su questo punto, indicando le figure di due testimoni vissuti nel secolo scorso.
La prima è quella del ben noto teologo protestante Karl Barth, presbiteriano e dunque un successore spirituale di Calvino, nonché il teologo evangelico più noto e influente del XX secolo (ma probabilmente dai tempi stessi della Riforma). Costui, reagendo nel 1938 alla crisi cecoslovacca che avrebbe poi condotto agli accordi di Monaco, scrisse una famosa lettera aperta al teologo ceco Josef Hromadka – lettera che fu presto pubblicata nella stampa internazionale. In questo testo Barth attaccava le potenze occidentali per essersi piegate a Hitler e chiamava i cechi a resistere all’occupazione. Qui il teologo svizzero arrivò ad affermare che “ogni soldato ceco che combatterà e soffrirà lo farà anche per noi e, lo dico senza alcuna riserva, lo farà anche per la chiesa di Gesù Cristo, che nell’atmosfera creata da Hitler e da Mussolini è destinata a cader preda del ridicolo o dell’estinzione”[31]. Più tardi lo stesso anno, in una lezione pubblica intitolata “La Chiesa e il problema politico dell’oggi” Barth si ricollega al passo di Romani 13 precedentemente citato in connessione con Lutero. Secondo Barth, in virtù delle sue politiche lo stato nazista non è più uno stato, nel senso che non può più essere identificato con il tipo di autorità legittima delineata da Paolo[32]; piuttosto, il nazismo rappresenta la “dissoluzione fondamentale dello stato giusto”[33]. Quindi, la chiesa non può fare altro che pregare e operare per il rovesciamento del nazismo e la ricostituzione di uno stato giusto – anche con mezzi armati, se necessario[34]. Coerentemente con le sue posizioni anti-naziste, Barth si arruolò come volontario nell’esercito svizzero allo scoppiare del conflitto (Barth infatti era stato espulso dalla Germania nel 1935 per via delle sue posizioni politiche ed era rientrato nella natia Svizzera)[35].
L’altra figura a cui ci si vorrebbe richiamare è quella di Desmond Doss. Costui prese parte alla Seconda Guerra Mondiale tra le fila dell’esercito statunitense; nello specifico fu arruolato nella fanteria statunitense e partecipò al conflitto nello scenario bellico del pacifico. La cosa che distingue Doss da molti altri è che egli si arruolò come obbiettore di coscienza. Doss infatti oltre che avere un’intensa fede personale era stato cresciuto all’interno della Chiesa Avventista, una denominazione che tradizionalmente insegna la pratica della non-violenza, in linea con il precedente Anabattista. Per quanto il suo lavoro in un cantiere navale lo esentasse dalla coscrizione forzata, Doss decise di arruolarsi spontaneamente ma, in linea con le sue convinzioni, rifiutò l’addestramento alle armi e scelse di operare come soccorritore militare (in inglese combat medic).
Nel 1944, impiegato a Guam e nelle Filippine, Doss ricevette due Medaglie di Bronzo al Valore per il coraggio dimostrato nel soccorrere compagni feriti e rimasti sotto la linea di tiro. Infine, durante la Battaglia di Okinawa riuscì in una singola giornata a salvare circa 75 compagni rimasti feriti e incapacitati dal ritirarsi (il numero in realtà non è noto ed è collocato tra i 50 e i 100 soldati soccorsi). Nel corso della Battaglia di Okinawa Doss fu ferito quattro volte, inclusa un’occasione in cui cercò di calciare via (senza successo) una granata per allontanarla dal suo gruppo, finendo per ritrovarsi con 17 schegge all’interno del corpo. Per le azioni ad Okinawa, Desmond Doss fu il primo e finora unico obbiettore di coscienza a ricevere la Medaglia d’Onore dell’esercito americano[36].
Si è voluto concludere con queste due figure non per il gusto di presentare una breve galleria degli eroi – qualifica che sia Barth che Doss credo avrebbero comunque rifiutato. Piuttosto, l’intenzione è stata quella di mostrare come le idee di cui si è discusso abbiano nutrito nella stessa situazione due modi di agire molto diversi, ma che comunque erano motivati dalla stessa fede di fondo e che in entrambi i casi hanno esposto al pericolo chi ci stava dietro. Avendo esposto la teoria, riflettere sulla prassi altrui può ispirarci e dirigerci nel darci un orientamento di vita.
Certo, le due opzioni che sono state presentate in questo testo non sono sicuramente le uniche che, cristiani o meno che siamo, possiamo porci di fronte al problema del conflitto armato. Inoltre, bisogna differenziare tra un principio e l’applicazione che se ne fa. L’una cosa può essere buona e l’altra no: si può chiamare guerra giusta una guerra sbagliata, ma questo di per sé non è sufficiente per condannare la dottrina della guerra giusta; il pacifismo può essere una foglia di fico per la paura e/o l’indifferenza, ma questo di per sé non può farci rinunciare a priori al prendere in considerazione l’ipotesi pacifista. Il tutto contribuisce a rendere il quadro complesso, ma il confronto resta inevitabile; la guerra è con noi per restare, di questo c’è da starne certi.
La questione è particolarmente greve dato che stiamo parlando di cose che sono all’ordine del giorno. I tiranni vanno combattuti con le armi? Abbiamo l’autorità morale per farlo (e quanto è importante averla o non averla)? È proprio vero che non esistono guerre giuste? In che relazione stanno pacifismo e neutralità? Queste sono solo alcune delle domande su cui è importante riflettere nella congiuntura attuale. Specialmente è il caso di farlo ora, che tutto sommato ci riguardano ancora indirettamente. Se un uomo armato si presenterà alla nostra porta, sarà meglio avere pronte delle buone risposte e non sarà sicuramente la pigrizia intellettuale a fornircele (cfr. Prov. 6:6-11).
[1] Per una prospettiva più comprensiva sul tema, cfr. V. O. Morkevicius, “Norms of war in Protestant Christianity”, in World Religions and norms of war, V. Popovski, G. M. Reichberg, N. Turner (a cura di) (Tokyo: United Nations University Press, 2007), pp. 220-254.
[2] The Pew Forum on Religion & Public Life, Global Christianity: A Report on the Size and Distribution of the World’s Christian Population, p. 27, http://www.pewforum.org/files/2011/12/Christianity-fullreport-web.pdf.
[3] UCEBI, Confessione di Fede, Confessione di fede - Il portale delle chiese Evangeliche Battiste Italiane (ucebi.it).
[4] U. Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, in Guerra, Pace, Giustizia: Le chiese protestanti e la guerra in Ucraina, a cura di F. Ferrario (Roma: Edizioni com nuovi tempi, 2022), pp. 59-67 (59).
[5] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, p. 61.
[6] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, pp. 61-3.
[7] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, pp. 64.
[8] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, p. 60.
[9] P. Schaff, The Creeds of Christendom, vol. III (Grand Rapids: Baker Book House, 1977), p. 17.
[10] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 17.
[11] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 7.
[12] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 12.
[13] M. Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, in The Open Court 9 (1899), 525-45 (529).
[14] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 529.
[15] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 534.
[16] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 534.
[17] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 527.
[18] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 528.
[19] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 17.
[20] J. P. Wogaman, D. M. Strong, Readings in Christian Ethics: A Historical Sourcebook (Louisville: Westminster John Knox Press, 1996), p. 141.
[21] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki [accesso 20/04/2022].
[22] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[23] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[24] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[25] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[26] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki
[27] J. C. Wenger, A. C. Snyder, “Schleitheim Confession”, in Global Anabaptist Mennonite Encyclopedia Online (1990), https://gameo.org/index.php?title=Schleitheim_Confession&oldid=143737 [20/04/2022].
[28] J. Loserth, W. R. Estep, “Hubmaier, Balthasar (1480?-1528), in Global Anabaptist Mennonite Encyclopedia Online (1990), https://gameo.org/index.php?title=Hubmaier,_Balthasar_(1480%3F-1528)&oldid=168030 [20/04/2022].
[29] Cfr. K. Ralf, “The Melchoirites and Münster”, in A Companion to Anabaptism and Spiritualism, 1521-1700, a cura di J. Roth e J. Stayer (Leiden: Brill, 2007).
[30] Wenger, Snyder, “Schleitheim Confession”, https://gameo.org/index.php?title=Schleitheim_Confession&oldid=143737.
[31] K. Barth, Offene Briefe 1935-1942 (Zürich: Theologischer Verlag, 2001), pp. 122-6.
[32] A. Rasmusson, “‘Deprive Them of Their Pathos’: Karl Barth and the Nazi Revolution Revisited”, in Modern Theology 23 (2007), pp. 369-91 (382).
[33] K. Barth, The Church and the Political Problem of Our Day (New York: Scribner, 1939), p. 52.
[34] Rasmusson, “‘Deprive Them of Their Pathos’”, p. 382.
[35] Ciò detto, la posizione di Barth di fronte alla guerra è più complessa di quanto possa rendere conto questo singolo episodio; cfr. Morkevicius, “Norms of War in Protestant Christianity”, pp. 233ss.
[36] La sua vita è stata peraltro rappresentata nel 2016 dal film La Battaglia di Hacksaw Ridge, diretto da Mel Gibson.
I tabulati: il regime transitorio...in attesa degli effetti generati dallo tsunami della nuova sentenza della Corte di Giustizia
di Giorgio Spangher
Dopo essere rimasto per molti anni “dimenticato” dai diversi operatori della giustizia, il tema dei tabulati del traffico telefonico è diventato oggetto di attenzione e di prese di posizione a seguito della sentenza della Corte di Giustizia H.K. c. Procuratuur (C 746-18) con la quale, fra gli altri aspetti, i giudici europei hanno affermato che la direttiva 2002/58/CE, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, osta a una normativa nazionale che investa il pubblico ministero della competenza ad autorizzare l’accesso ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione al fine di condurre un’istruttoria penale, dovendo il controllo preventivo essere rimesso a un giudice o a una autorità amministrativa indipendente, comunque diversa dall’autorità richiedente.
Com’è noto, nel nostro Paese, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 81 del 1993 che con una sentenza interpretativa di rigetto, aveva affermato che “la particolare disciplina predisposta dagli artt. 266 e 271 c.p.p. sulle intercettazioni di conversazioni o di comunicazione telefoniche si applica soltanto a quelle tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali s svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima”, le questioni dei dati “esterni” delle comunicazioni sono rimaste ancorate agli orientamenti giurisprudenziali in materia, come cristallizzati nelle pronunce delle Sezioni Unite. Ad una prima presa di posizione (Cass. Sez. un. 13.7.1998, Gallieri) ritenendo non adeguata l’iniziativa della polizia giudiziaria (rispetto al pubblico ministero o al giudice), subentrava la decisione (Cass. sez. un. 23.2.2000, D’Amurri) con la quale si riteneva sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria, non essendo necessaria l’osservanza delle disposizioni relative alle intercettazioni e la sentenza (Cass. sez. un. 21.6.2000, Tammaro) con cui si precisava che “anche se manca la previsione di un immediato controllo giurisdizionale di detto decreto motivato, tuttavia il recupero di tale controllo, che attiene a un mezzo di ricerca della prova, avviene attraverso la rilevabilità, anche di ufficio, dell’eventuale relativa inutilizzabilità, in ogni stato e grado del procedimento, così nelle indagini preliminari nel contesto incidentale relativo all’applicazione di una misura cautelare, come nell’udienza preliminare, ovvero nel dibattimento o nel giudizio di impugnazione”.
Con riferimento alla conservazione dei dati, il quadro normativo va integrato con quanto previsto dal d. lgs. n. 196 del 2003 ed in particolare dall’art. 132, nonché dagli artt. 121, 123 e 126 .
Com’è noto, nella necessità di dare attuazione alla decisione dei giudici del Lussemburgo, essendo stato escluso che la decisione europea potesse trovare immediata applicazione nel nostro sistema processuale, rendendosi necessario un provvedimento legislativo (Cass. 4.10.2021 n. 1054) anche al fine di superare alcune incertezze applicative n sede di merito, ed in presenza di un rinvio pregiudiziale di un giudice italiano, è intervenuto il d.l. n. 132 del 2021 modificando nei presupposti e nelle modalità operative la disciplina dei data retention, introducendo altresì una previsione finalizzata a fissare i termini di utilizzabilità dei dati acquisiti precedentemente in forza della sola determinazione del pubblico ministero.
A tale proposito, il legislatore, con l’art. 1 del cit. d.l. come risultante dalla l. n. 178 del 2021 di conversione, ha previsto una disciplina transitoria con la quale si stabilisce che in deroga al principio del tempus regit actum, i dati esteriori relativi alle comunicazioni telefoniche (con ciò intendendosi, per quanto sopra detto, i numeri di chiamante e chiamato, data, ora, durata, compreso il luogo) – acquisiti prima del 30 settembre 2021, in base a decreto motivato del pubblico ministero (modalità legittima secondo la legge in precedenza vigente) – possono essere utilizzati come elemento di prova a carico dell’imputato solo “unitamente ad altri elementi di prova” e solo per l’accertamento dei reati che rientrano nella categoria già delineata “per il futuro” dal d.l. n. 132 del 2021.
Sui contenuti di questa previsione si è da ultimo pronunciata con alcune decisioni la Corte di Cassazione.
Con la prima pronuncia (Cass. sez. V, 24.02.2022, n. 8968), che riconduce alla disciplina dei dati del traffico, anche quelli relativi all’ubicazione, si precisa che la colpevolezza dell’indagato-imputato, non può fondarsi unicamente sui dati esteriori del traffico telefonico (contatti e collocazione dell’interlocutore).
Invero, escludendo riferimenti alla sanzione dell’inutilizzabilità dei dati acquisiti dal pubblico ministero (prima della modifica normativa) il legislatore consente di porre a fondamento di una condanna il materiale solo se integrato da “altri elementi di prova” che “non predeterminati nella specie e quantità possono essere di qualsiasi tipo e marca, così da ricomprendere non soltanto le prove storiche dirette, ma ogni altro elemento probatorio, anche indiretto ...”.
Questo elemento è alla base anche della decisione Cass. sez. II 31.1.2022, 11991, con la quale i data retention hanno integrato le acquisizioni documentabili dalla p.g., avviate dopo una denuncia anonima (che esclusa la configurazione di notitia criminis, ha costituito lo spunto investigativo per l’avvio dell’attività di ricerca della notizia di reato).
La motivazione, dove si sottolinea come la disciplina transitoria sia ispirata alla logica della non dispersione delle prove, di cui i riscontri sono ritenuti elemento compensativo della carenza di potere del p.m. (alla luce della decisione europea), si segnala per il fatto di adeguare nell’ambito dei data retention anche “l’aggancio delle celle telefoniche da parte del cellulare dell’imputato poste lungo al percorso da lui effettuato.
Si tratta del c.d. pedinamento satellitare che con la presente decisione viene in tal modo ricondotto nel contesto della disciplina di maggiore garanzia, superando orientamenti, a volte, diversi.
La varietà delle situazioni investigative prospetterà numerosi quesiti pratico-operativi che tuttavia dovranno essere ricondotti nella previsione a regime dell’art. 132 cit.
Al riguardo (anche in relazione a quanto conseguire, come si dirà, dalla recentissima sentenza sempre della Corte di Giustizia) già da ora resta aperto il tema del tempo della conservazione dei dati, non potendosi ritenere corretto che il maggior tempo di conservazione per i reati più gravi, consenta (per la non dispersione delle prove) di utilizzarli per quelli meno gravi. Sotto quest’ultimo profilo (anch’esso interessato dalla nuova sentenza della Corte di Giustizia) si potrebbe porre una questione di utilizzabilità.
Resta un interrogativo. Come mai, nel nostro Paese, dalla citata sentenza Tammaro non si sono prospettati quei profili di tutela e di garanzia che i diritti costituzionali avrebbero imposto. Come mai non solo avvocatura, ma anche la magistratura (cioè, i giudici) non si sono posti le questioni alle quali il giudice europeo ci richiama?
Credo che nel nostro Paese, il problema delle garanzie processuali sia fortemente condizionato dalla logica del doppio binario che finisce per attrarre anche la restante disciplina.
Come anticipato, il tema dei dati retention è destinato a ripercussioni significative ed in qualche modo dirompenti alla luce della sentenza della Corte di Giustizia (alla quale si è fatto un cenno) che esclude una conservazione ed un uso indiscriminato dei dati deducibili dai tabulati (v. Resta F., Dalla conservazione generalizzata a quella mirata: la Corte di Giustizia ridelinea i contorni della data retention, in Giust. insieme, 7.4.2022).
SCIA, tutela del terzo e obbligo di riesame. (Nota a Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737)
di Gabriele Serra
Sommario: 1. Premessa. La vicenda contenziosa. - 2. SCIA e tutela del terzo nella giurisprudenza costituzionale. - 3. La sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737. - 4. Sull’eccezionalità delle ipotesi di “riesame obbligatorio”. - 5. Conclusioni.
1. Premessa. La vicenda contenziosa.
Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato è tornato ad occuparsi delle forme di tutela del terzo controinteressato rispetto ad una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), segnatamente e come sovente accade, in materia edilizia, analizzando dette forme anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019 ed arricchendo gli spunti giurisprudenziali già in precedenza emersi.
Ora, ai fini di una migliore comprensione della decisione e delle considerazioni che seguiranno, è opportuno riassumere la vicenda sottesa alla recente decisione del Consiglio di Stato.
La fattispecie è quella, piuttosto ordinaria, di una rampa carrabile realizzata, nel 2018, in un’area in cui è situato un complesso a destinazione commerciale, a ridosso del confine con la proprietà della società ricorrente che, vista l'opera, aveva presentato istanza di accesso ai documenti e appreso che era stata presentata una DIA nel 2014, poi integrata con SCIA nel 2017 per due volte; di tal che, aveva presentato una istanza al Comune espressamente rubricata – e il profilo può essere rilevante, come si vedrà – “Istanza di annullamento DIA/SCIA, ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 e 21-nonies della legge 22 agosto 1990, n. 241”, sollecitando l'amministrazione all'esercizio dei propri poteri in materia. A detta istanza, l'ente aveva risposto, con provvedimento espresso, circa l'infondatezza nel merito, poiché l’intervento edilizio non avrebbe violato le distanze previste nel Regolamento edilizio.
Il T.A.R., sul ricorso proposto avverso tale provvedimento, prendendo atto della sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale 13 marzo 2019 n. 45, lo aveva dichiarato inammissibile, rilevando come la ricorrente avesse tardivamente proposto l'istanza all'amministrazione, in quanto la stessa era stata presentata decorso il termine previsto dalla legge per l'esercizio dei poteri inibitori spettanti in materia alla pubblica amministrazione, pur facendolo decorrere dalla conoscenza della SCIA avuta con l'istanza di accesso. E ciò, sia con riferimento alla domanda di illegittimità dell’omesso esercizio di tali poteri inibitori della pubblica amministrazione, sia alla domanda di annullamento del provvedimento comunale di rigetto dell'istanza[1].
Ciò posto, giova ricordare alcuni profili in merito alla disciplina normativa in tema di strumenti a tutela del terzo rispetto alla SCIA e alla giurisprudenza della Corte Costituzionale che su di essa si è pronunciata.
2. SCIA e tutela del terzo nella giurisprudenza costituzionale.
Senza potersi dilungare sul punto, è noto che la SCIA abbia subìto rilevanti modifiche normative nel corso del tempo e, oggi, sulla base dell'art. 19, comma 1, l. n. 241/1990, il privato che intenda intraprendere una certa attività può presentare all'amministrazione una segnalazione certificata e iniziarne immediatamente l'esercizio[2].
Per quanto qui rileva, nella sua attuale formulazione, l'art. 19, comma 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 prevede, in capo all'amministrazione competente, in primo luogo, il potere di verificare, entro sessanta giorni dal ricevimento della SCIA (trenta per i casi di "SCIA edilizia", come previsto dal comma 6 bis), la sussistenza dei requisiti per l'esercizio dell'attività intrapresa e, in caso di esito negativo, il potere di adottare i provvedimenti inibitori e repressivi.
Il successivo comma 4 poi, prevede comunque che l'amministrazione possa adottare i provvedimenti sopra descritti anche decorso il termine citato, ma solo in presenza delle condizioni di cui all'art. 21 nonies L. n. 241/1990[3].
La norma, come noto, disciplina l'esercizio del potere di autotutela dell'annullamento d'ufficio ed è, anch'essa, stata oggetto di numerose modifiche normative e, nel testo attualmente vigente, il potere è sottoposto alla triplice condizione che: non siano decorsi più di dodici mesi dall'adozione del provvedimento di primo grado (erano diciotto nella disciplina ratione temporis applicabile al caso deciso dalla sentenza in commento)[4]; sussistano “ragioni di interesse pubblico” per l’intervento dell’amministrazione; in ogni caso, si tenga conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Ciò ricordato, tema assai controverso è stato sempre quello della tutela del terzo a fronte della presentazione di una SCIA che abiliti un soggetto allo svolgimento di una attività che possa considerarsi pregiudizievole, quale derivazione dell'altrettanto annoso problema della natura giuridica della SCIA, se inquadrabile come strumento di semplificazione, mantenendo perciò esso natura di atto amministrativo, ovvero di liberalizzazione, conseguentemente essendo qualificabile come atto soggettivamente e oggettivamente del privato[5].
Senza svolgere una analisi diacronica troppo risalente, è noto che l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 avesse affermato la natura privatistica della SCIA, quale istituto di vera liberalizzazione, escludendo perciò la sua impugnabilità con una azione di annullamento, ma prevedendo la proponibilità di un’azione formalmente diretta contestare l’atto tacito di mancato esercizio dei poteri inibitori della P.A., che assumeva perciò i connotati di un’azione di accertamento della sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere vincolato e doveroso di inibizione e contestualmente di adempimento e di condanna[6].
Il legislatore intervenne poco dopo detta decisione e, pur confermando l'impostazione "liberalizzatrice" circa la natura dell'istituto in esame, costituente perciò atto privato non direttamente impugnabile, approntò una diversa tutela del terzo che si assumesse leso: l'art. 19, comma 6 ter L. n. 241/1990, introdotto dal D.L. n. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, tutt'oggi prevede che il terzo possa sollecitare con una istanza l'amministrazione all'esercizio delle verifiche ad essa spettanti e, in caso di inerzia della stessa, possa proporre l'azione avverso il silenzio ex art. 31 cod. proc. amm.
A fronte del problematico dato normativo in esame, con particolare riferimento al dies ad quem per l'esercizio dei poteri sollecitatori del terzo[7], era stata sollevata, dal T.A.R. Toscana, questione di legittimità costituzionale della norma in esame, per violazione degli artt. 3, 11, 97 e 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale n. 1 CEDU, dell’art. 6 par. 3 del Trattato UE e art. 117, comma 2, lett. m), Cost.), nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla S.C.I.A., esercitabile dunque sine die, con pregiudizio perciò dell’affidamento del segnalante circa la legittimità dell’attività intrapresa, del principio di buon andamento della P.A., del principio di certezza dei rapporti tra cittadino e amministrazione[8].
La questione di legittimità costituzionale è stata però respinta dalla Consulta con la sentenza 13 marzo 2019, n. 45, che ha rigettato la tesi del giudice remittente per cui non sarebbe ricavabile dal sistema normativo un termine finale per la richiesta, da parte del terzo, delle verifiche spettanti all'amministrazione[9].
Ad avviso della Corte infatti, il comma 6 ter citato, nell'affermare che il terzo possa sollecitare le verifiche spettanti all'amministrazione, deve intendersi riferito proprio ai poteri di cui ai commi 3, 4 e 6 bis dell'art. 19 L. 241/1990 e, conseguentemente, ai termini ivi previsti deve farsi riferimento per determinare il momento finale entro il quale il terzo possa sollecitare l'esercizio dei poteri dell'amministrazione (60/30 giorni e poi entro i successivi 18 mesi (oggi 12) in presenza degli altri presupposti dell'art. 21 nonies), e proporre, in caso di inerzia, il ricorso avverso il silenzio.
Per usare le parole della sentenza, "decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue".
La Corte, nel rilevare possibili profili di vulnus alla tutela del terzo derivanti dal principio affermato e paventati dall'ordinanza di rimessione, da un lato, de iure condito, richiama gli ulteriori strumenti comunque previsti a tutela del terzo dall'ordinamento, tra cui in particolare l'azione risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica[10]; dall'altro, de iure condendo, rileva che ciò "non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere".
In merito agli assunti ermeneutici raggiunti dal giudice delle leggi, la dottrina ha subito rilevato, per vero in senso critico, come l'impostazione della Consulta offrirebbe al terzo una tutela parziale, in quanto il grado di tutela dipenderebbe dal momento in cui il terzo abbia ad accorgersi della ritenuta illegittimità della SCIA: "se ciò avviene nei trenta (o sessanta) giorni successivi alla segnalazione (evenienza, come detto, assai rara), egli potrà ambire a una tutela piena; se invece ciò avviene nei successivi diciotto mesi, questi dovrà, come anticipato, accontentarsi di una tutela dimidiata, condizionata, nella sua effettività, dall'esistenza del potere pubblico"[11].
In questo senso perciò, è stato altresì rilevato che il terzo, nella ricostruzione della Corte, non appare "portatore di un proprio interesse contrario allo svolgimento dell'attività economica o edilizia avviata e per ciò solo meritevole di tutela, bensì titolare di una posizione giuridica meramente strumentale all'accertamento della conformità oggettiva dell'iniziativa alle disposizioni di legge"[12].
Una diversa questione di legittimità costituzionale della norma, a conferma della complessità del tema e della presenza di interessi confliggenti e tutti meritevoli, in qualche modo, di tutela, era stata proposta, poco prima della pubblicazione della decisione citata della Consulta, anche dal T.A.R. Emilia Romagna, Sez. Parma, questa volta adombrando, specularmente, la violazione del diritto di difesa del terzo controinteressato e la conseguente violazione dell’art. 24 Cost., in quanto, in senso contrario a quanto ritenuto dal T.A.R. Toscana e poi affermato dalla Corte Costituzionale, tale lesione deriverebbe proprio dalla previsione di un limite temporale all'esercizio della tutela del terzo, ricavabile dal sistema[13].
Detta questione di legittimità costituzionale è stata però dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 20 luglio 2020 n. 153, non essendo stato attivato nel giudizio a quo un ricorso avverso il silenzio, bensì avendo l'amministrazione riscontrato la diffida del terzo e l'atto in questione era stato impugnato con una ordinaria azione di annullamento; la Corte ha comunque richiamato tutte le conclusioni di cui alla precedente sentenza n. 45/2019 in merito alla tutela del terzo[14].
3. La sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737.
Orbene, svolte tutte le citate necessarie premesse, con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha riformato la decisione di primo grado, riassunta in apertura, svolgendo alcune rilevanti considerazioni.
In primo luogo, la Quarta Sezione sottolinea che la Corte Costituzionale ha riconosciuto al terzo la possibilità di sollecitare non solo le verifiche di cui ai commi 3 e 6 bis dell'art. 19, ma anche quelle di cui al comma 4, che si esercitano alle condizioni e nei tempi previsti dall’art. 21 nonies della legge n. 241/1990, al quale il comma citato rinvia, con la conseguenza che "ove l’amministrazione adotti un provvedimento di rigetto dell’istanza del terzo, volta a ottenere l’esercizio del potere in autotutela, il terzo medesimo può fare valere in giudizio le proprie ragioni avverse".
Nel caso esaminato dunque, si rileva l'erroneità della sentenza di primo grado che ha affermato l'inammissibilità del ricorso solo perché l'istanza del terzo fosse stata presentata decorso il termine di 30 giorni dalla conoscenza della SCIA edilizia, mentre l’istanza iniziale faceva chiaro riferimento all’art. 21 nonies; istanza alla quale, peraltro, il Comune aveva risposto con provvedimento espresso di diniego nel merito, argomentando sulla legittimità dell'opera realizzata, che veniva quindi impugnato con ordinaria azione di annullamento.
Di tal che, da un lato, il termine per la tempestività dell'istanza di sollecitazione delle verifiche da parte del terzo era quello di 18 mesi (oggi 12) di cui all'art. 21 nonies, che risultava rispettato; dall'altro, "il fatto che il Comune abbia dato riscontro all’istanza con un provvedimento espresso, sia pure di diniego, rende non decisiva, ai fini della controversia in esame, la questione se, nella specie, il Comune fosse obbligato o meno a rispondere all’istanza medesima".
In altre parole, nel caso di specie si controverteva su un caso del tutto speculare a quello che ha dato origine alla seconda delle menzionate sentenze della Corte Costituzionale, la n. 153/2020, non ponendosi proprio una questione di tutela limitata del terzo, avendo l'amministrazione riscontrato l'istanza del terzo nel merito e l'atto in questione era stato impugnato con una ordinaria azione di annullamento.
Tanto sarebbe bastato ad esaminare il ricorso nel merito e valutare la legittimità o meno della motivazione del provvedimento di diniego in autotutela.
Ciò in quanto, per consolidata giurisprudenza, se l’Amministrazione risponde negativamente a una richiesta di autotutela, tale diniego è impugnabile e sindacabile in sede giurisdizionale solo laddove lo stesso non si atteggi come un atto meramente confermativo di precedenti statuizioni, e come tale privo di autonoma portata lesiva[15].
Ma la decisione qui annotata procede oltre, ritenendo ciò necessario ai fini conformativi del riesercizio del potere della p.a.
A questo fine, il Consiglio di Stato, richiamando anche alcuna giurisprudenza espressasi già in precedenza in termini, afferma la peculiarità del potere di autotutela dell'amministrazione di cui all'art. 19, comma 4 L. n. 241/1990 rispetto al generale potere di annullamento d'ufficio, che non sarebbe discrezionale nella sua attivazione, come invece sopra visto in linea generale, ma, in presenza dell'istanza del privato, l'amministrazione sarebbe tenuta ad avviare il procedimento "anche per l’intima connessione di tale potere col più generale dovere di vigilanza che incombe al Comune sull’attività edilizia ai fini dell’ordinato assetto del territorio".
Ciò vieppiù a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, che "ha messo in evidenza la questione di possibili lacune nella tutela del terzo confinante rispetto agli interventi realizzati sulla base della SCIA"; di tal che, ad avviso della sentenza in esame, "l’amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo, ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo e ciò diversamente da quanto accade in presenza di un “normale” potere di autotutela che si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere, (…) in quanto coniuga in modo più equilibrato le esigenze di liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo (e, ora, viene incontro alle preoccupazioni manifestate dalla Corte costituzionale)"[16].
Di tal che, ritenendo fondato nel merito il ricorso, giacché, in senso contrario a quanto affermato nel provvedimento di diniego di annullamento d'ufficio, è risultata la violazione delle distanze stabilite dal Regolamento edilizio comunale, la sentenza qui in esame conclude che "l’Amministrazione comunale, nell’esercitare nuovamente, a seguito dell’annullamento, il proprio potere in autotutela secondo quanto stabilito dalla presente sentenza, verificherà la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies, della legge n. 241/1990".
4. Sull’eccezionalità delle ipotesi di “riesame obbligatorio”.
Ora, la decisione in commento stimola alcune osservazioni, che potremmo compendiare nella nota espressione manzoniana adelante con juicio.
È, infatti, in primo luogo, doveroso riconoscere come la formulazione dell'art. 19, comma 6 ter L. n. 241/1990, anche per come interpretata dalla Corte Costituzionale, abiliti a ritenere che l'amministrazione, sull'istanza del terzo controinteressato all'attività economica o edilizia intrapresa sulla base di una SCIA, sia tenuta a riscontrare detta istanza, anche se rivolta all'attivazione delle verifiche alle condizioni di cui all'art. 21 nonies L. n. 241/1990, avviando il relativo procedimento; se non altro, per la chiara attribuzione al terzo del rimedio del ricorso avverso il silenzio in caso di inerzia.
E tuttavia, le deviazioni rispetto alle ordinarie regole che governano il potere di autotutela dell'amministrazione si fermano (e devono fermarsi) qui.
Infatti, in linea generale, deve essere richiamato e ribadito il principio, davvero consolidato nella giurisprudenza e nella dottrina, per cui non si ravvisa alcun obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi su un’istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l’attivazione del procedimento di riesame, costituendo l’esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l’esercizio, per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l’illegittimità, è da ritenersi inammissibile[17].
Invero, proprio la disciplina di cui all'art. 19, comma 6 ter L. 241/1990 in tema di SCIA, è stata valorizzata, in dottrina, al fine di affermare come l'avvio del potere di autotutela debba considerarsi "obbligatorio" in presenza dell'istanza del privato che lo solleciti[18].
Unitamente alla norma citata, vengono richiamati, quali indici ulteriori in tal senso, le c.d. denunce qualificate, in particolare con riferimento alle Autorità Indipendenti[19]; le norme in materia di autotutela tributaria[20]; le considerazioni giurisprudenziali in merito all'obbligo di riesame in caso di istanza presentata durante la pendenza del termine per impugnare[21], nonché in presenza di riesame esercitato su analoghe istanze presentate da altri soggetti nella medesima situazione[22].
Altra fattispecie ritenuta rilevante sarebbe quella dell'obbligatorio riesame del provvedimento di primo grado, pur divenuto definitivo, per contrasto con il diritto dell'Unione Europea, sulla scorta di quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia in presenza di determinati requisiti[23]; impostazione peraltro anche recentemente confermata dalle note sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in tema di concessioni demaniali marittime, che, pur non ritenendo integrata la fattispecie, hanno espressamente ribadito tali assunti[24].
Su tali basi, si giungerebbe dunque ad affermare che il soggetto che invochi l'esercizio del potere di autotutela in capo alla p.a. sarebbe titolare di una posizione giuridica soggettiva qualificata, che dovrebbe in generale essergli riconosciuta quando potrebbe ricevere dall'annullamento in autotutela un vantaggio specifico e differenziato rispetto all'interesse generale alla legalità[25].
Ma questa generalizzazione non è tuttavia condivisibile.
Come lucidamente rilevato da altra recente dottrina infatti, a livello generale, la qualificazione di una situazione giuridica soggettiva necessita di indici positivi di rilevanza per l'ordinamento, non essendo sufficiente la mera corrispondenza di un interesse materiale privato con l’esercizio di un potere amministrativo; in particolare, "non sembra che possa ritenersi autonomamente qualificato dall’ordinamento l’interesse di chi aspiri a ottenere l’annullamento d’ufficio di un atto lesivo", in quanto nessun indice normativo conduce in tal senso, né l'art. 21 nonies fa riferimento alla posizione dell'istante[26].
Dunque, le argomentazioni sull'obbligo di riesame, pure rese dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, devono restare ben circoscritte alla situazione dell'amministrazione che riceva una istanza di esercizio delle verifiche di sussistenza dei requisiti per l'esercizio dell'attività oggetto della SCIA; sotto questo profilo d'altronde, non si tratta, nel caso di specie, propriamente dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio in senso proprio, in quanto, come noto, manca un provvedimento amministrativo di primo grado su cui intervenire, stante la natura privata della SCIA[27].
Esso è più propriamente un potere di controllo spettante all'amministrazione ex post, mancando il controllo a monte tipico dei provvedimenti autorizzatori, trattandosi di attività sì libera, ma pur sempre soggetta a regole; ecco che quindi ciò può spiegare come rispetto a questi poteri sia ammessa una facoltà di sollecitazione da parte dei privati interessati più forte e garantita[28].
5. Conclusioni.
Tali considerazioni assumono una ancor più centrale importanza a mente del fatto che le tesi dottrinali, sopra citate, che hanno proposto una generalizzazione dell'obbligo di riesame, si sono altresì espresse nel senso di una generale vincolatività nel merito dell'annullamento d'ufficio in presenza di una accertata illegittimità, eliminandosi in tal modo qualsiasi valutazione discrezionale che non sia indotta, in sostanza, da un dubbio circa la reale illegittimità dell’atto[29].
Accogliendo dunque questa impostazione, dovrebbe concludersi vieppiù nel caso della istanza del terzo rispetto alla SCIA circa il vincolo in capo all'amministrazione di esercitare i poteri inibitori (o più probabilmente repressivi, visto il tempo decorso), laddove la SCIA fosse stata presentata in carenza dei requisiti, senza che l'amministrazione possa svolgere quella discrezionale valutazione comparativa tra i diversi interessi coinvolti, come previsto ed imposto dall'art. 21 nonies a garanzia dell'affidamento del privato (rectius: segnalante).
Ma tale impostazione appare assai validamente confutata ancora da quella dottrina che ha messo in luce come sia senz'altro vero che sussiste la necessità che l’amministrazione persegua, mediante il controllo spontaneo degli atti assunti, la legalità del proprio operato e che quindi l'autotutela assume anche una funzione di "giustizia nell'amministrazione", ma, a fronte di tali esigenze, nondimeno "si stagliano i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, con forza e riconoscimento oggi sempre più robusti"[30].
È ancora perciò centrale, nel bilanciamento, la necessità di una ponderazione discrezionale da parte dell'amministrazione nell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio, ricordandosi peraltro come l'art. 97 della Costituzione non ponga su un piano sovraordinato la legalità dell'azione amministrativa rispetto al suo buon andamento, che compendia la cura dell'interesse pubblico concreto e l'affidamento meritevole di tutela del privato[31].
Tali considerazioni appaiono pienamente applicabili anche al, pur particolare, caso del potere di intervento dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 19, comma 4 L. n. 241/1990, sollecitato dal terzo che si assuma leso da una SCIA.
Sul piano del diritto positivo, la norma citata chiaramente è riferita alla sussistenza delle condizioni di cui all'art. 21 nonies L. n. 241/1990, la quale, proprio in ossequio alle esigenze di tutela dell'affidamento del privato, richiede una necessaria ponderazione degli interessi pubblici e privati confliggenti. Ma, inoltre, con particolare riferimento alla SCIA, ciò si impone ancor di più nel momento in cui il legislatore, ormai si è chiarito, abbia, con tale istituto, voluto disancorare l'esercizio di attività economiche e edilizie dalla necessità di una previa autorizzazione amministrativa[32].
In ultimo, e il caso oggetto della sentenza qui annotata ne pare essere una valida cartina al tornasole, può fungere da chiave di sufficiente tutela delle esigenze del terzo, l'individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la presentazione dell'istanza di sollecito allo svolgimento delle verifiche della P.A. dalla conoscenza dell'avvenuta presentazione della SCIA stessa.
Invero, la sentenza di primo grado oggetto dell'appello qui esaminato, aveva proprio valutato la tempestività dell'istanza di sollecito dei poteri di verifica della P.A. facendo decorrere il termine per la sua presentazione "dalla piena conoscenza della medesima, a seguito dell’ostensione dei relativi atti da parte dell’Amministrazione comunale in riscontro all’istanza di accesso proposta dalla ricorrente medesima".
Il profilo citato appare peraltro l'unico spazio interpretativo residuo per garantire, de iure condito, una sufficiente tutela del terzo rispetto ad una SCIA, in quanto qualsiasi ulteriore strumento appare invero sconfinare sul terreno proprio del legislatore, anche alla luce dell'invito rivolto dalla Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 45/2019.
Esso infatti, come anticipato, è rivolto, oltre che a impedire il decorso dei termini per le verifiche in presenza di una sollecitazione, proprio a operare una modifica normativa volta a consentire al terzo una conoscenza della SCIA "più immediata": maggiore immediatezza proprio rispetto all'ordinaria conoscenza, acquisibile per il tramite di una istanza di accesso ai documenti amministrativi, della SCIA presentata.
[1] La decisione di primo grado oggetto dell'appello qui esaminato è T.A.R. Sardegna, Sez. II, 20 marzo 2020, n. 177, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In argomento la bibliografia è particolarmente vasta. V., senza pretesa di esaustività, M.A. Sandulli, La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) (artt. 19 e 21 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in, M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell'azione amministrativa, Milano, 2020; G. Strazza, La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020; M.A. Sandulli, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, in M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa, Milano, 2016, 74 ss.; N. Paolantonio, W. Giulietti, Commento all'art. 19, in M. A. Sandulli (a cura di), Il codice dell'azione amministrativa, Milano, 2010, 748 ss.; F. Liguori, Le incertezze degli strumenti di semplificazione: lo strano caso della d.i.a. - s.c.i.a., in Dir. proc. amm., 2015, 4.
[3] Come noto, il riferimento all'art. 21 nonies non vale, tuttavia, a qualificare il potere della p.a. sulla SCIA in termini di autotutela decisoria, non venendo qui in rilievo l'esercizio di un potere di secondo grado, stante la mancata adozione di un atto a monte da parte dell'autorità competente. La disciplina dell'annullamento d'ufficio viene, invece, richiamata con riguardo alle condizioni legittimanti l'esercizio del potere inibitorio/conformativo da parte della p.a., come stabilite, appunto, nell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 (cfr. A. Briamonte, SCIA e tutela del terzo: la Corte Costituzionale si pronuncia sul termine ex art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, in Dir. Proc. Amm., fasc. 1, 2020, 125).
[4] Con riferimento alla SCIA, l’articolo 2, comma 4, del d.lgs. n. 222/2016 ha precisato che il termine de quo decorre dalla scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente.
[5] In tema V. V. Cerulli Irelli, Modelli procedimentali alternativi in tema di autorizzazione, in Dir. Amm., 1993, 55; F. Fracchia, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996, 241; M. Mazzamuto, La riduzione della sfera pubblica, Torino, 2000, 139; F. Liguori, Attività liberalizzate e compiti dell'amministrazione, Napoli, 2000 E. Boscolo, I diritti soggettivi a regime amministrativo. L'art. 19 della legge n. 241/1990 ed altri modelli di liberalizzazione, Padova, 2001; L. Ferrara, DIA (e silenzio-assenso) tra autoamministrazione e semplificazione, in Dir. Amm., 2006, 4, 759 ss.
[6] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 2011, n. 15, in Dir. proc. amm., fasc.1, 2012, 139 ss. con note di R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo e di L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.c.i.a. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90 e in Riv. Giur. Edil., fasc.2-3, 2011, 533, con nota di M.A. Sandulli, Primissima lettura della Adunanza plenaria n. 15 del 2011. È altresì noto che la Plenaria riconobbe anche la possibilità di proporre l'azione in via cautelare, prima ancora del perfezionarsi del termine per l’esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione.
[7] In argomento V. A. Berti Suman, Scia e tutela del terzo. Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i decreti attuativi SCIA1 e SCIA2, in www.giustizia-amministrativa.it, 17 giugno 2017. Sostanzialmente, per una prima impostazione, decorsi i termini di sessanta o trenta giorni, al terzo sarebbe consentito unicamente stimolare l’azione di autotutela della P.A., senza garanzia, quindi, che pur a fronte di una S.C.I.A. illegittimamente presentata, l’Amministrazione eserciti i propri poteri repressivi. Tale tesi assicura la stabilizzazione delle posizioni giuridiche, ma certamente compromette la situazione del terzo, dato il ristretto lasso di tempo decorso il quale la carenza dei presupposti non conduce più, automaticamente, all’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3. Secondo una diversa impostazione, il terzo potrebbe sempre ottenere l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3 (inibitori), ancorché siano decorsi i termini. L’opposta interpretazione finirebbe infatti per frustrare le esigenze di tutela del controinteressato, tenuto conto che, decorsi i brevi termini di legge (e tenuto anche conto che egli potrebbe non avere immediata conoscenza della S.C.I.A.), la salvaguardia della propria posizione sarebbe condizionata al giudizio discrezionale della Pubblica Amministrazione. Pertanto, se è vero che la tutela del terzo non può essere subordinata all’apprezzamento di interessi pubblici ulteriori rispetto al ripristino della legalità e se, al contempo, è vero che l’art. 19 comma 6 ter non stabilisce un termine decadenziale per la sollecitazione, è giocoforza ritenere che il terzo sia legittimato sine die a richiedere all’Amministrazione di intervenire sull’attività privata.
[8] Cfr. T.A.R. Toscana, Sez. II, con l’ordinanza dell’11 maggio 2017, n. 667, in Riv. Giur. Edil., 2017, 2, I, 328. In tema v. R. Bertoli, SCIA e tutela del terzo: decadenza del potere inibitorio e pretesa al suo esercizio, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Com., 2017, 6, 1392 ss.
[9] Corte Cost., 13 marzo 2019, n. 45, in Foro Amministrativo (Il), fasc.5, 2019, 762, con nota di C. Villanacci, La tutela del terzo nella SCIA: natura e limiti dei poteri della pubblica amministrazione nella ricostruzione della Corte Costituzionale e in Riv. Giur. Edil., fasc. 2, 2019, 318, con nota di S. Capozzi, SCIA e tutela del terzo: la Consulta chiarisce.
[10] Inoltre, la Corte menziona i poteri di cui all’art. 21, della legge n. 241 del 1990, precisamente nella sollecitazione dei poteri di verifica dell'amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni (comma 1), nei poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti da leggi di settore (comma 2 bis), tra i quali quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e ss. del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
[11] G. Mannucci, I limiti alla tutela dei terzi in materia di Segnalazione certificata di inizio attività, in Giur. Cost., fasc. 2, 2019, 730.
[12] F. Savo Amodio, S.c.i.a. e tutela del terzo: la complessa ricerca di un equilibrio, in Riv. Giur. Edil., fasc.1, 2020, 29
[13] Cfr. T.A.R. Emilia Romagna, Parma, Sez. II, ord. 22 gennaio 2019, n. 12, in Riv. Giur. Edil., 2019, 1, I, 186.
[14] Cfr. Corte Costituzionale, 20 luglio 2020, n. 153, in Giur. Cost., 2020, 4, 1737.
[15] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2019, n. 2645; Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2019, n. 1080, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] In tal senso, la decisione richiama il precedente di Cons. Stato, VI, 3 novembre 2016, n. 4610, che si può v. in Foro it., 2017, 3, III, 143, con nota di V. Mirra.
[17] Cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2018, n. 5344, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, v. la già risalente posizione di G. Codacci Pisanelli, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 151; più recentemente F. Bonamassa, Brevi riflessioni sulla natura discrezionale del potere di annullamento d’ufficio, in A. Sandulli, G. Piperata (a cura di), La legge sul procedimento amministrativo. Vent’anni dopo, Napoli, 2011, 369 ss. Sul tema si v. anche i contributi di F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015; Id., Profili evolutivi dell’autotutela (decisoria) amministrativa, in A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), I rimedi contro la cattiva amministrazione: Procedimento amministrativo ed attività produttive imprenditoriali, Napoli, 2016, 9 ss.; Id., Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, n. 8/2017; Id., Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in A. Contieri, F. Francario, M. Immordino, A. Zito (a cura di), L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Napoli, 2010, II, 107 ss.;
[18] Cfr. in particolare M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018.
[19] Su cui V. L. De Lucia, Denunce qualificate e preistruttoria amministrativa, in Dir. amm., 2002, 717 ss.
[20] Il decreto del Ministro delle finanze 11 febbraio 1997, n. 37, contiene un vero e proprio "Regolamento sull’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria".
[21] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 2006, n. 6056, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Essendo ciò imposto dal principio di imparzialità. In tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1227, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Ci si riferisce evidentemente alle sentenze Corte di giustizia, 13 gennaio 2004, in C-453/00, Kühne & Heitz e Corte di giustizia, Grande sezione, 12 febbraio 2008, in C-2/06, Willy Kempter. I requisiti sono, come noto, che: a) l’amministrazione disponga secondo il diritto nazionale del potere di riesame; b) l’atto amministrativo sia divenuto definitivo a seguito di una sentenza di un giudice nazionale di ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della CGUE successiva alla medesima, risulti fondata su una interpretazione errata del diritto adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale. Vale peraltro già qui richiamare la tesi dottrinale che ha evidenziato come dalle sentenze della Corte di Giustizia citate non si ricava neppure un obbligo di riesame da parte dell'amministrazione in tali casi, ma solo il rispetto del principio di equivalenza, per cui l'atto amministativo anticomunitario deve essere annullabile d'ufficio alle stesse condizioni di quello in contrasto con la normativa nazionale; infatti, le sentenze sono state rese con riguardo ad ordinamenti nei quali è previsto, a differenza del nostro, in via generale un dovere di riesame (Cfr. M. Silvestri, Potere pubblico e autotutela amministrativa. I rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nello specchio dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2021, 106-110, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti dottrinali adesivi).
[24] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 9 novembre 2021, nn. 17-18, par. 40, sulle quali si possono v., in questa Rivista, i contributi di M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria e F. P. Bello, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Si può altresì v. il fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”, su cui, in questa Rivista, v. la recensione di F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
[25] Peraltro, come si vede, ciò è proprio quanto la dottrina ha affermato in senso critico rispetto alla decisione della Corte Costituzionale, alla quale si obbietta di ritenere che i poteri del terzo denunciante esistano (e si estinguano) col potere dell'amministrazione, negando perciò autonomia alla sua posizione giuridica soggettiva. (Cfr. G. Mannucci, op. cit.); in termini anche R. Greco, I titoli edilizi “semplificati” dopo il Decreto-Legge 16 luglio 2020, n. 76, in www.giustizia-amministrativa.it, che rileva che "e invero, il “cuore” dell’intera problematica qui trattata ruota proprio attorno alla figura del terzo che si assuma pregiudicato dall’attività altrui avviata sulla base di una SCIA: se a costui si riconosce effettivamente una posizione giuridica sostanziale di tipo “oppositivo”, tale da fondarne la legittimazione e l’interesse a reagire in sede giurisdizionale (benché ordinariamente ci si riferisca a tale soggetto con la locuzione di “controinteressato”), allora si pone un serio problema di effettività della tutela attualmente riconosciuta dall’ordinamento. Se, invece, si volesse degradare l’interesse oppositivo del proprietario limitrofo a interesse di mero fatto, negandogli una situazione giuridica qualificata (ma questo neanche la Corte costituzionale lo ha sostenuto), allora sarebbe coerente la mancata previsione di specifici rimedi processuali a suo favore".
[26] Il riferimento è a M. Silvestri, op. cit., in part. 135-139. Tutto il lavoro è invero dedicato alla confutazione, pienamente condivisibile, delle recenti tesi emerse in merito all'annullamento d'ufficio, tanto con riferimento a quelle, qui richiamate, circa la doverosità dell'autotutela, quanto quelle, che peraltro appaiono condurre a conclusioni opposte, in merito all'"esauribilità" del potere di autotutela.
[27] In tema v. M. A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, in Federalismi.it.
[28] Cfr. M. Silvestri, op. cit., 140.
[29] Cfr. M. Allena, L’annullamento d’ufficio, cit., 111 ss., che parla di "presunzione relativa" della necessità di annullare d'ufficio l'atto illegittimo (141). Recentemente v. la panoramica esposta da N. Durante, L'autotutela doverosa, in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] M. Silvestri, op. cit., 149.
[31] Cfr. M. Silvestri, op. cit., 151.
[32] Sul tema, si v., ex multis, M. Clarich, Autorizzazioni e concessioni: presidi dell'interesse pubblico o barriere al mercato?, in Astrid - Rassegna, n. 17, 2014, e, sul rapporto tra semplificazione e liberalizzazione, G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della l. n. 124/2015, in Dir. Amm., 2016, 1-2, 107 ss.
Una sconfitta per l’umanità
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Un passo indietro nella storia - 2. Nessuna colomba di pace nel cielo dell’Ucraina - 3. Una guerra che non può avere vincitori.
1. Un passo indietro nella storia
La guerra è tornata in Europa, dopo più di vent’anni dalla conclusione dei sanguinosi conflitti che tra il 1991 e il 2001 hanno segnato la dissoluzione della ex Jugoslavia. Con la differenza, però, che ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni non è solo una crisi locale, ma rievoca le dimensioni planetarie delle due guerre mondiali e della “guerra fredda” che ne seguì.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non è stata solo una gravissima prevaricazione ai danni di una nazione sorella – tra russi e ucraini esistono da sempre legami profondi, che si manifestano in un rapporto di amore-odio frequente tra fratelli - , ma ha messo in moto una reazione a catena che sta coinvolgendo il mondo intero. Piuttosto che un conflitto locale, questa guerra si sta rivelando un conflitto epocale, da cui sembra emergere quello che sia il ministro degli esteri russo Lavrov che il presidente americano Biden, in ottiche diverse, hanno entrambi definito «un nuovo ordine mondiale».
In poche settimane, il grande passo di pace compiuto con l’abbattimento del muro di Berlino , nel 1989, appare annullato. Ogni ponte è stato abbattuto. Da una parte l’arroganza e la fredda determinazione di Putin, dall’altra la reazione unanime dell’Occidente, che ha risposto con uno sforzo senza precedenti di isolamento della Russia, hanno determinato una spaccatura che allo stato attuale appare insanabile.
Emblematica la votazione con cui l’Assemblea generale dell’Onu ha sospeso la Russia dal Consiglio dei diritti umani, che si aggiunge all’esclusione del governo di Mosca dal Consiglio d’Europa e al suo boicottaggio nel G20.
La decisione è stata presa a larga maggioranza e salutata con grande soddisfazione dai media occidentali. Uno sguardo più attento ci porterebbe però ad essere meno euforici. Sono 93 i Paesi che si sono pronunciati a favore, ma 24 si sono opposti e 58 si sono astenuti. Tra i contrari, molti storici alleati di Mosca, come Cina, Cuba, Bielorussia, Siria e Vietnam e altri che lo sono diventati di recente grazie agli aiuti militari ricevuti dal Cremlino, come Mali, Gabon e Zimbabwe. Nella lista degli astenuti, inoltre, figurano l’India il Brasile, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, l’Indonesia, la Giordania, l’Iraq, il Messico, la Nigeria, il Qatar, il Sudafrica… Ed è una scelta che suona come un preciso rifiuto alle insistenze degli Stati Uniti per una presa di posizione a favore della loro linea.
Il «nuovo ordine mondiale», insomma, è un passo indietro nella storia, perché comporta che circa metà della popolazione del pianeta sia schierata contro l’altra metà. Su tutti i piani. Lo scontro tocca perfino la sfera religiosa ed etica. Da una parte il patriarca di Mosca Kirill ha giustificato l’aggressione all’Ucraina evocando una vera e propria “guerra santa” contro la corruzione morale dell’Occidente, chiamando in causa il tema dell’omosessualità. Dall’altra la condanna dell’invasione è stata tradotta, anche grazie all’abile spettacolarizzazione da parte di Zelens’kyi, in una vera e propria “crociata” che ha portato a boicottare tutto ciò che è russo, dalle merci alle risorse energetiche , perfino agli atleti, che vengono esclusi dalle gare internazionali, e alle opere d’arte (a Vicenza un corpo di ballo ucraino si è rifiutato di rappresentare “Il lago dei cigni” di Ciakovskyi). Una strada che non sbocca da nessuna parte, chiunque esca vincitore dallo scontro sul campo.
2. Nessuna colomba di pace nel cielo dell’Ucraina
Non si vede, peraltro, alcun barlume di luce. Gli unici due Paesi che avevano cercato di evitare la guerra, la Francia e la Germania, si sono trovati isolati. I viaggi a Mosca di Macron e Scholtz da un lato si sono rivelati inutili di fronte al muro della determinazione di Putin, dall’altro non sono stati supportati in alcun modo dagli Stati Uniti che, pur essendo gli unici ad avere la certezza assoluta che la guerra sarebbe scoppiata, non hanno fatto nulla per cercare di impedirla, magari escludendo esplicitamente la prospettiva dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. È molto dubbio che questo sarebbe stato sufficiente a bloccare il progetto d’invasione, ma sarebbe stato almeno una mano tesa a Mosca.
Anche successivamente, a guerra iniziata, le possibilità di dialogo non sono migliorate. Da un lato, le stragi di civili compiute dalle truppe russe a Bucha, i saccheggi, gli stupri, le inaudite violenze perpetrate dagli invasori, una condotta di guerra da parte delle truppe russe mirante più a distruggere che a conquistare, hanno giustamente indignato il mondo intero. L’effetto di questa violenza indiscriminata è stato il drammatico esodo forzato di cinque milioni di ucraini!
Dall’altro lato, la parola è passata dai Paesi europei agli Stati Uniti assumendo, col presidente Biden, un tono di tale aggressività e violenza verbale da spingere la stessa Casa Bianca a cercare in qualche caso di attenuarla. Reazione oggettivamente giustificata sul piano etico, ma certamente poco adatta a incoraggiare un negoziato reso già molto problematico dall’atteggiamento della controparte.
E non sono state solo parole. Personalmente ho sempre pensato che aiutare gli ucraini a resistere all’invasione russa, anche inviando armi, fosse un atto doveroso di solidarietà verso un popolo che coraggiosamente si opponeva a un sopruso. Se la pace è, come dice Agostino, «la tranquillità dell’ordine», essa non può essere pagata con la sottomissione alla violenza altrui, perché un ordine autenticamente umano implica la giustizia e la libertà. A meno di condividere la famosa espressione usata dal ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca: «L’ordine regna a Varsavia».
Però questo sostegno avrebbe dovuto esser finalizzato a consentire ragionevoli trattative tra i contendenti. Invece l’eccezionale impegno finanziario profuso dagli Stati Uniti per sostenere la resistenza ucraina è stato caratterizzato da una escalation non solo nelle prese di posizione verbali, ma anche nel tipo di armamenti forniti, che da semplicemente difensivi sono sempre più diventati anche offensivi e finalizzati, più che a negoziare la pace, a vincere la guerra. Che così si è progressivamente trasformata in una specie “guerra per procura”, combattuta dalla Nato – ma in concreto soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna – sul suolo e sulla pelle degli ucraini.
Da parte sua il presidente Zelens’kyi, forte di questo appoggio, più che a cercare un dialogo con gli aggressori è sembrato intento a mobilitare l’opinione pubblica occidentale, utilizzando le sue grandi doti comunicative (è noto il suo trascorso di attore), allo scopo dichiarato di avere un illimitato appoggio militare, mostrandosi incurante delle conseguenze che avrebbe avuto una no-fly zone e un diretto confronto dei suoi alleati con la Russia.
In questa prospettiva, pur dicendosi disposto a trattare sull’ingresso del suo Paese nella Nato e sulla sua neutralità, di fatto proprio alla Nato - e agli Stati Uniti in particolare - è sembrato fare riferimento, distanziandosi anche dall’UE proprio nel momento in cui questa gli apriva le braccia per accogliere l’Ucraina tra i suoi membri. Il rifiuto di ricevere il presidente della Repubblica tedesca, la polemica con Macron per le sue riserve sul termine “genocidio”, usato dal presidente ucraino e da Biden, sono segnali evidenti di questa scarsa considerazione degli alleati europei, i più cauti nell’accogliere le sue richieste incalzanti.
3. Una guerra che non può avere vincitori
In questo contesto drammatico è stato più volte evocato il pericolo che la Russia - anche a causa delle perdite e dei rovesci militari provocati dalla incredibile inefficienza del suo esercito – faccia ricorso ad armi nucleari. Una minaccia ostentata dal Cremlino, che proprio in questo clima di tensione ha testato un nuovo, più micidiale, missile balistico. E tuttavia rimane improbabile che Putin arrivi al punto di usare l’atomica all’interno dei confini di un Paese limitrofo alla Russia, con le conseguenze che ciò avrebbe per la sua stessa nazione.
Il rischio sarebbe molto maggiore se lo scontro armato con gli Stati Uniti – che già ora è in corso, anche se in forma indiretta – si trasformasse in un conflitto diretto. Rischio tutt’altro che immaginario, visto che Biden, con l’appoggio incondizionato del premier inglese di Johnson, sembra ormai sempre più incline ad accogliere le richieste del presidente ucraino, che fin dall’inizio ha invocato un più pieno coinvolgimento dell’intero Occidente in questa guerra. E, se si arrivasse a questo – ma ci siamo purtroppo vicini - la minaccia di un catastrofico scontro nucleare diventerebbe tragicamente reale.
La sola voce che si è levata forte e chiara contro la guerra è stata quella di papa Francesco. Sulla linea dei suoi predecessori - i papi che si sono opposti prima di lui a tutte le guerre devastanti del secolo scorso come a quelle del nuovo millennio, - anch’egli non si stanca di lanciare il suo appello a fermare un conflitto da cui tutti, tranne i fabbricanti e i mercanti di armi, sono destinati a uscire perdenti. Al momento attuale, sembra che nessuno voglia ascoltarlo.
Eppure rimane la speranza che alla fine ci si renda conto, da tutte le parti, che la vagheggiata “vittoria” è in realtà un miraggio. Lo è per Putin, che pagherà qualunque ipotetico guadagno territoriale a un prezzo sproporzionato in termini economici, politici e di immagine. Lo è per l’Europa, che appare la più esposta ai gravissimi danni economici derivanti alla guerra. Lo è per gli Stati Uniti, che, se anche riusciranno a isolare e umiliare la Russia, avranno solo bandito ed esasperato un popolo di centocinquanta milioni di persone, di grandi tradizioni culturali e di enormi potenzialità militari, con cui sarà stato chiuso ogni tipo di dialogo e di collaborazione.
Per tutti vale il monito di papa Francesco: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell'umanità». Questa sicuramente lo è.
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