Che fine ha fatto il magistrato intellettuale del diritto, risolutore dei conflitti nell’ottica della funzionalità della giustizia? Come riportarlo in vita? Intervista di Paola Filippi a Luciano Violante
La magistratura è stata attinta dal medesimo processo di plebeizzazione che ha travolto la società italiana. Processo tipico delle società occidentali ove l’apparire ha sopravanzato l’essere. Tra i magistrati il potere e la sua esibizione hanno preso il sopravvento sul senso di responsabilità e sullo spirito di servizio. La magistratura è in conflitto, oltre che con se stessa, con la politica. Il primo passo per risolvere positivamente il conflitto è che la magistratura torni a essere credibile, ricominci a volare alto, a riflettere sulla legge, sui diritti e sulla società contemporanea. La via è quella della “Grande ricostruzione” della figura istituzionale del magistrato. La soluzione è quella di ricominciare a parlare di diritti e di tutela, senza presunzioni e senza corporativismi, con l’accademia e con l’avvocatura.
Questo quanto emerge dal dialogo con il Presidente Luciano Violante.
In questo frangente tanto più importante appare l’obiettivo per cui la nostra Rivista è stata fondata ovvero quello di diffondere il modello di magistrato non autoreferenziale ma capace di ascoltare e confrontarsi con la società e di offrire un luogo di confronto sui temi giuridici tenuti insieme dal filo rosso della giustizia al servizio della società.
1. Onorevole Violante nell’intervista pubblicata su questa Rivista il 12 maggio ci ha descritto la magistratura degli anni 60-70 come una magistratura “integrata con l’Università, impegnata a criticare la neutralità del diritto e la sacralizzazione del ruolo”, che “forte aveva il senso” - così lei scrive - di “far parte di una aristocrazia della Repubblica”. Devo dire che la sua descrizione corrisponde a quella che, della magistratura che trovammo, avremmo dato noi, che entrammo in servizio nei primi anni 90 – circa 2000 giudici ragazzini in cinque anni. Rispetto ai magistrati più anziani avevamo un senso affievolito dell’aristocrazia della Repubblica, ma avevamo un senso forte della nostra funzione come missione in tutti i settori: nel contenzioso civile, nella volontaria giurisdizione, nelle esecuzioni individuali e concorsuali civili, nelle indagini penali e nel processo accusatorio. Forte era il senso della responsabilità collettiva e dell’importanza della cultura. Era il tempo di mani pulite e delle stragi di mafia.
La scuola della magistratura non esisteva, né era ancora iniziata l’organizzazione della formazione permanente da parte della nona commissione del CSM.
La formazione era autogestita. I più preparati volentieri consegnavano la caisse a outils ai più giovani.
Nel 1988, è stato fondato il Movimento per la Giustizia, da un gruppo di “transfughi” di Unità per la Costituzione e Magistratura indipendente – corrente quest’ultima fondata negli anni sessanta da giovani magistrati “tradizionalisti” che negli anni ’70 costituiva il 44 % della magistratura –.
Il Movimento per la giustizia – ora confluito in Area democratica per la giustizia – elaborava, alla fine degli anni ’80, il concetto di funzione giurisdizionale come servizio, proseguiva nella critica alla neutralità del diritto e si focalizzava attorno all’obiettivo dell’efficienza con attenzione verso i valori sociali. Il Movimento per la giustizia coagulava, in quegli anni, le energie e gli entusiasmi di molti giovani magistrati che, peraltro, vedevano in Giovanni Falcone, uno dei fondatori del Movimento, un modello al quale conformarsi nella responsabilità, nella dedizione e nel sacrificio.
Poi gradualmente, ma inesorabilmente, la magistratura è cambiata, l’attenzione e gli obiettivi sono ruotati, o meglio si sono ripiegati dall’esterno verso l’interno, dal collettivo all’individuale.
Così la magistratura, perso il senso dell’aristocrazia e messo in secondo piano il senso dell’impegno sociale, si è ritrovata in balia di interessi individuali e sterili antagonismi. Alla fine degli anni ‘10 il riflusso e l’antipolitica, hanno così reso possibile il predominio dei Palamara di turno. Per analizzare il fenomeno è forse utile considerare il fattore invecchiamento: dall’inizio del 2000 la magistratura è drasticamente invecchiata. Nel 2002 l’età pensionabile è stata infatti portata a 75 anni (tornata a 70 solo dal 2014). Dall’entrata in vigore della riforma Castelli ad oggi l’età media dei vincitori di concorso è passata da 26-27 a 32 anni. Nei primi dieci anni del 2000 i concorsi sono stati sei a fronte dei dieci concorsi del decennio 1990/2000. Ma può essere solo l’invecchiamento la causa di un così radicale allontanamento dalla cultura della giurisdizione, dallo spirito di servizio? Quali sono state, secondo lei, le cause e le condizioni che hanno determinato il ripiegamento dei magistrati sulle loro carriere e della magistratura su sé stessa? Quanto ha contribuito la riforma Castelli, contro la quale tanto si erano battuti i magistrati?
Negli anni Sessanta e Settanta la società italiana era attraversata da un potente flusso riformatore. Noi eravamo in sintonia con questo flusso, che voleva più diritti e meno gerarchie. Lo scontro tra conservatori e riformatori, presente nella società, si manifestava anche nella magistratura. La parte riformatrice della magistratura si sentiva portatrice di un progetto di diritto e di giustizia che coincideva con le istanze fortemente presenti nella magistratura e le integrava. Oggi non è cambiata solo la magistratura; è cambiata l’intera società italiana, attraversata da trasformazioni comuni a molte società occidentali. Sono scomparsi i tradizionali corpi intermedi, si sono indebolite le discriminanti ideali; la comunità nazionale è diventata conflittuale, incline alla rissa. Assumono rilievo determinante l’apparenza, lo spettacolo e la esibizione del potere, specie se è piccolo potere. Si sono incrinate le categorie sociali del rispetto e della fiducia. Sono minoritarie la sobrietà e la discrezione. In sintesi, la società si è plebeizzata. Questi processi hanno inevitabilmente investito anche il diritto e la magistratura. L’ordinamento giuridico ha perso le caratteristiche di sistema: è diventato un infinito arcipelago regolatorio, nel quale ciascun piccolo pezzo di interesse pretende una propria regolazione. Nella magistratura in assenza di una dottrina unitaria della democrazia, del diritto e della giustizia è prevalso il corporativismo, l’esibizione. Il potere ha preso la prevalenza sul servizio. La lingua scurrile usata spesso dai magistrati nelle conversazioni intercettate prova la sintonia con la lingua peggiore della società. Credo quindi che le radici vadano ben oltre la riforma Castelli.
2. Sarebbe interessante approfondire se in altre professioni o in altri settori della cultura si sia verificato un fenomeno analogo a quello che ha interessato la magistratura. L’accademia, ad esempio, è stata vittima di un simile riflusso?
A mio avviso le uniche istituzioni rimaste estranee sono state la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale. La presidenza della Repubblica ha assunto un ruolo di guida delle istituzioni e di modello per i cittadini; ha funzionato come autorevole motore di riserva del sistema politico. È molto interessante il processo di laicizzazione avviato dalla Corte. Accortasi che la torre d’avorio non era più consona ai tempi si é aperta alla società, senza scadere nei suoi vizi. È stata presente nelle scuole e nelle carceri; ha varato la libreria dei podcast con interviste di grande interesse; ha spiegato in modo comprensibile a tutti il senso delle sue decisioni più difficili. L’accademia non è stata esente dai processi che hanno attraversato la società; nelle facoltà giuridiche molti preferiscono dare la priorità alla professione e una certa corporativizzazione chiude molti spazi ai giovani talenti. Peraltro conosco molte grandi competenze che sarebbero disponibili ad un confronto con la magistratura.
3. È in discussione un’ulteriore riforma dell’ordinamento giudiziario. Ci troviamo
di fronte a un altro snodo epocale. A
parte le proposte di modifica dello statuto costituzionale del magistrato della
cui gravità e irreversibilità la politica non sembra tener conto, a parte
la frettolosità del confronto e la costruzione della legge delega per
emendamenti, l’impressione è che la
magistratura conti veramente poco per la politica, e che, anzi, sia percepita
come un corpo antagonista. Nell’intervista, pubblicata su questa Rivista il 12
maggio scorso, lei giustamente ha scritto che, “la riforma è compito primario
delle istituzioni politiche”. Ma non
crede che, con riferimento a taluni specifici aspetti, le istituzioni politiche
dovrebbero, anche solo semplicemente ascoltare la magistratura? E ciò
soprattutto con riferimento a campi che non si conoscono. Non ha anche lei la
sensazione che, come la magistratura, anche la politica, alle volte, pecchi di
autoreferenzialità? O che, come i vecchi
magistrati, sia diventata sorda? È forse anche la politica vittima del medesimo riflusso di cui è vittima la
magistratura? D’altra parte nessuno se ne stupirebbe perché siamo tutti figli
della stessa epoca.
La
politica è, inconsapevolmente, alla ricerca di un ubi consistam e quindi misura la propria identità più sulle
inimicizie che sulle alleanze, più su quello che c’è da distruggere che su
quello che bisogna ricostruire. Si manifesta inoltre una netta separazione tra politica e società
perché è in crisi il principio di rappresentanza. Basti pensare ai partiti che
da anni si costituiscono non nella
società, ma in parlamento per rispondere
ad esigenze tutte interne al sistema politico, estranee ai bisogni sociali.
Tutto questo spiega, almeno in parte, alcuni atteggiamenti del Parlamento e dei partiti. D’altra parte la magistratura, da almeno trent’anni, si pone come controparte morale della politica, indicata
nella sua interezza corrotta, incapace e
inefficiente. Con questo retroterra, nessuno ascolta l’altro.
4. Per effetto di fattori “post mani pulite” (ovvero il Berlusconismo e poi, più recentemente, gli attacchi di Renzi), la magistratura continua a sentirsi, o forse a essere, sotto attacco. Gli effetti dell’essere, o del sentirsi, sotto attacco sono deleteri in termini di chiusura e ciò soprattutto perché la magistratura non ha più l’autorevolezza per resistere, come esortava Borrelli. La macchia Palamara grava su tutti i magistrati indistintamente, come un riflesso di senso di colpa: paradossalmente coloro che se lo incontravano lo evitavano, si sono ritratti ancora di più dalla vita associativa. Qual è secondo lei la via da perseguire? Noi crediamo che, ripudiati gli antagonismi, la via sia quella del dialogo costruttivo. In uno Stato di diritto l’essenzialità della separazione dei poteri va di pari passo con l’armonia dei poteri. Non crede che, nella situazione contingente, per il raggiungimento degli obiettivi del piano nazionale di ricostruzione e resilienza, l’armonia e la condivisione sono ancora più essenziali ? Non ritiene che le istituzioni politiche ne dovrebbero tenere conto?
Oggi i rischi più gravi sono venuti e vengono dall’interno. Credo anche io che occorra ricostruire il dialogo. Ma, chiedo scusa, la magistratura deve prima recuperare una propria autorevolezza, altrimenti è un contraente debole. Il conflitto è inevitabile in democrazia; è anzi la forza della democrazia. Ma per affrontare il conflitto, delimitarlo e condurlo verso una positiva conclusione, occorre essere credibili.
5. Tomaso Epidendio in un articolo, pubblicato su questa rivista il 24 maggio, dal titolo La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, ha illustrato il disegno costituzionale della magistratura riferendosi a esso “come a un grande sogno appartenente a tutti”. Il rischio concreto di incrinare il sogno ce lo ha tratteggiato Riccardo Ionta nell’articolo dal titolo I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai, pubblicato il 12 maggio.
In questo contesto, in un’ideale prospettiva di rinascita, il primo passo potrebbe essere l’uscita della magistratura dal suo isolamento. Solo un rinnovato confronto con l’accademia, con l’avvocatura più illuminata e tutti gli operatori del diritto, con coerente abbandono di deleterie autoreferenzialità, potrebbe offrire un via di fuga dall’attuale stato di stagnazione. Occorre rielaborare idee e pensieri utili per l’efficace esercizio della giurisdizione, riproporre al centro di ogni dibattito l’essenzialità del servizio giustizia, nella costante consapevolezza che l’elaborazione del pensiero passa attraverso il confronto “senza contrapposizioni” di idee contrapposte.
Secondo lei potrebbe essere questa la via da percorrere per un proficuo rinnovamento della magistratura?
Le valutazioni di Epidendio, di forte spessore teorico e quelle di Ionta, improntate ad una rigorosa esposizione delle conseguenze delle innovazioni nell’ordinamento giudiziario, spingono verso una “Grande ricostruzione” della figura istituzionale del magistrato insieme a una riflessione sul ruolo della legge e del diritto nella società contemporanea. Prenderei le mosse dalla riforma del processo penale e del processo civile, che incidono profondamente sul ruolo del magistrato e dell’avvocato. Ad esempio, una discussione sulla nuova udienza preliminare che coinvolga oltre ai magistrati, professori e avvocati potrebbe essere utile per avviare una nuova stagione. La riforma cambia il ruolo del pm, del giudice e dell’avvocato e pone seri problemi teorici sulla funzione del processo. Lo slittamento verso il diritto giurisprudenziale è inarrestabile, determinato dalla scarsa chiarezza delle norme e dalla molteplicità delle fonti. Quale l’impegno della magistratura per assicurare la certezza dei diritti in questa fase di transizione dalla law in book alla law in action? Cominciare a parlare di questi problemi, ad affrontarli senza presunzioni e senza corporativismi potrebbe metterci sul binario giusto.