ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Un ritardo voluto?
Considerazioni sulla mancata elezione di un giudice costituzionale da parte del Parlamento in seduta comune
di Francesca Biondi e Pietro Villaschi
1. Da quasi un anno ormai, la Corte costituzionale lavora a ranghi ridotti. L’11 novembre 2023 è, infatti, terminato il mandato della Presidente Sciarra e il Parlamento in seduta comune, cui la Costituzione affida l’elezione di un terzo dei quindici componenti del collegio, non ha ancora scelto il successore. Tale ritardo pare destinato ulteriormente ad aggravarsi. Andato, infatti, a vuoto anche l’ultimo scrutinio dello scorso 25 giugno, le Camere riunite si sono aggiornate a data da destinarsi.
Tra le forze politiche sembra serpeggiare l’idea di attendere la scadenza, a dicembre 2024, di altri tre giudici di nomina parlamentare (l’attuale Presidente Barbera e i vice-presidenti Modugno e Prosperetti), per procedere alla loro sostituzione in un’unica tornata. La volontà di seguire una logica “a pacchetto” è evidente spia della difficoltà delle forze politiche di trovare un accordo su un solo nome.
Come noto, per eleggere un giudice costituzionale i quorum fissati dalla Costituzione sono assai elevati (due terzi dei componenti del Parlamento in seduta comune per i primi due scrutini e tre quinti dal terzo in poi) e, dunque, un’intesa con almeno una parte delle forze di opposizione è necessaria. Anche se – va segnalato – oggi sarebbe sufficiente il “soccorso” di una decina di parlamentari di opposizione per permettere all’attuale maggioranza di scegliere “il” o “i” giudici mancanti[1].
Il rinvio dell’elezione, in altri termini, appare rivelatore della volontà di adagiarsi su una logica spartitoria, che è quanto di più lontano dal senso profondo delle maggioranze volute dalla Costituzione[2], che imporrebbero, al contrario, scelte condivise tra maggioranza e opposizione con l’obiettivo di individuare personalità di grande prestigio e competenza da far sedere a Palazzo della Consulta. Quello che se ne ricava è, come già evidenziava G. Zagrebelsky, una «concezione patrimoniale dei posti presso la Corte costituzionale»[3], da occupare con nomi che siano graditi a chi li nomina.
Non solo. Una simile scelta è gravida di ulteriori conseguenze.
Anzitutto, già da mesi la Corte costituzionale lavora con una composizione “squilibrata” e a ranghi ridotti. Mancando, infatti, un giudice di nomina parlamentare, negli equilibri interni alla Corte le altre due componenti (formate dai giudici nominati dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature) sono numericamente prevalenti.
Inoltre, essendo l’organo di giustizia costituzionale composto da quattordici membri, il voto del Presidente diviene decisivo qualora si verifichi una situazione di parità in seno al collegio[4].
Quando ci si avvicinerà alla scadenza degli ulteriori tre giudici, tali storture si acuiranno, dal momento che questi ultimi (attuale Presidente compreso) non parteciperanno più alle udienze e alle camere di consiglio in cui si dovessero discutere cause le cui decisioni essi non farebbero in tempo a firmare[5].
Se si attenderà a eleggere il giudice mancante sino a dicembre 2024, i giudici da nominare diventeranno addirittura quattro (situazione questa mai verificatasi nella storia repubblicana), e la Corte dovrà lavorare, per un periodo più o meno lungo, con undici componenti, soglia che la legge n. 87 del 1953 individua come limite minimo affinché la Corte stessa possa funzionare. Si prefigurerebbe, quindi, il rischio che l’inerzia del Parlamento si spinga sino a determinare la paralisi dell’organo supremo di giustizia costituzionale. Prosaicamente, basterebbe un’influenza che colpisca uno degli undici giudici rimasti in carica e tale scenario diverrebbe realtà.
In definitiva, il ritardo nella scelta dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune si risolve in una lesione di quel principio di leale collaborazione che dovrebbe presiedere i rapporti tra gli organi dello Stato: subordinando l’adempimento di un dovere costituzionale ai tempi e alle alchimie della politica, il Parlamento espone il collegio al rischio di funzionare a ranghi ridotti e squilibrati, se non, addirittura, di paralizzarsi[6].
2. Allargando lo sguardo rispetto alla contingente vicenda, va ricordato che l’individuazione del meccanismo di rinnovo dei giudici della Corte costituzionale e le problematiche connesse al possibile ritardo da parte delle Camere nella sostituzione dei posti vacanti non costituiscono una novità di questi ultimi anni. Si tratta, al contrario, di questioni dalle radici antiche, che impegnano la riflessione costituzionalistica sin dalle origini[7].
In principio, l’art. 135 della Costituzione e, soprattutto, la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 del 1953, regolavano l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale per mano del Parlamento in seduta comune in modo diverso da quello attuale.
Anzitutto, era richiesta la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti dei presenti negli scrutini successivi al terzo. Si trattava, quindi, di quorum più bassi rispetto a quelli odierni, ma che, comunque, richiedevano un’ampia convergenza (non fu considerata la proposta, pure avanzata in dottrina[8], di non prevedere alcuna maggioranza qualificata)[9].
Ma soprattutto, per quello che qui più interessa, differente era il sistema di rinnovo delle cariche.
L’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, optò, infatti, per un rinnovo parziale della Corte costituzionale, con l’obiettivo di assicurare il più possibile la sua indipendenza dalle forze politiche che avevano avuto modo di partecipare alla sua prima elezione. E così, era previsto che il mandato dei giudici durasse dodici anni, ma anche che, tra i giudici nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte, due per ciascuna componente (scelti mediante sorteggio dalla Corte stessa) sarebbero stati rinnovati anticipatamente decorsi nove anni, mentre i restanti nove sarebbero stati sostituiti al termine del dodicennio. Quanto ai rinnovi successivi, la disposizione conteneva un comma di dubbia interpretazione (definito in dottrina un “rompicapo”[10]), in quanto stabiliva: «successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni». Insomma, la legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, presupponeva il rinnovo contestuale dei giudici costituzionali in due “blocchi” di sei e nove e, per quanto riguarda il Parlamento in seduta comune, prefigurava, l’elezione contestuale di due giudici (dopo nove anni di attività della seconda formazione) e di tre giudici (dopo dodici anni). Questo sistema, che, nelle intenzioni del legislatore costituzionale, avrebbe determinato a regime un rinnovo scaglionato nel tempo, poteva tuttavia in concreto funzionare solo se tutti i giudici avessero terminato il mandato alla data prestabilita[11]. Invece, ben dieci giudici su quindici, per varie ragioni, si dimisero prima, tanto che ci si chiese se, per assicurare il funzionamento del congegno previsto dal legislatore del 1953, i giudici che fossero eletti in sostituzione di un giudice dimessosi anticipatamente, dovessero restare in carica per l’intero mandato oppure per il tempo residuo del mandato del giudice che venivano a sostituire.
In generale, comunque, l’obiettivo di tale complesso sistema era quello di evitare una scadenza in blocco di tutti i giudici costituzionali e di consentire, al contrario, un rinnovo parziale in tempi differenti e prestabiliti. La scelta di anticipare la scadenza di sei giudici (due di nomina presidenziale, due di nomina parlamentare, due scelti dalle supreme magistrature) mirava, inoltre, all’obiettivo di impedire proprio la logica delle nomine “a pacchetto” di più di tre giudici contemporaneamente: in altre parole, stante la disciplina originaria, non sarebbe stato possibile per il Parlamento - come accade invece oggi - procrastinare le nomina dei giudici per arrivare a eleggerne ben quattro in un’unica tornata.
Tuttavia, il meccanismo delineato dal legislatore del 1953 risultò eccessivamente rigido, complicato e di difficile applicazione pratica, tanto da sollevare, sin dal principio, più di una riserva[12]. Particolarmente significativo è che, nel settembre del 1963, il Presidente della Repubblica Segni abbia inviato un messaggio alle Camere con il quale criticava duramente proprio il sistema prefigurato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, che, riprendendo le parole del Capo dello Stato, nel disciplinare il rinnovo dei membri della Corte, poteva «produrre gravi inconvenienti», con particolare riferimento alla «durata variabile e incerta della nomina». Segni invitava, pertanto, le forze politiche ad abrogare, quanto prima, siffatta disciplina, per tornare al modello delineato originariamente dalla Costituzione, che prevedeva più semplicemente un mandato di dodici anni decorrente dalla data del giuramento[13].
Tali inviti furono recepiti pochi anni più tardi con l’approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha modificato l’art. 135 Cost.
Anzitutto, si decise di innalzare i quorum necessari per l’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune, richiedendo la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti negli scrutini successivi al terzo (art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 1967). Tale ampliamento delle maggioranze necessarie per l’elezione dei giudici costituzionali è spiegato, in dottrina, con la volontà di “spoliticizzare” ancora di più la scelta dei giudici costituzionali di nomina parlamentare. È però anche possibile collegare l’allargamento delle maggioranze necessarie per eleggere i giudici costituzionali da parte delle Camere riunite con l’abrogazione del meccanismo di rinnovazione parziale-contestuale “a blocchi” previsto proprio dalla legge costituzionale n. 1 del 1953 e poc’anzi descritto.
Con la riforma del 1967, infatti, l’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953 fu abrogato per introdurre un meccanismo, più lineare, che sancisce oggi il rinnovo parziale e progressivo di tutti i giudici della Corte costituzionale al venire meno dei singoli mandati: questi, senza distinzioni, rimangono quindi in carica per nove anni decorrenti dalla data del rispettivo giuramento e alla scadenza del termine cessano dall’ufficio e dalle funzioni esercitate sino a quel momento senza poter essere rinominati (art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha riscritto l’art. 135 Cost.). Non è, quindi, prevista alcuna forma di prorogatio e, dunque, quando un giudice termina il proprio mandato, il suo posto rimane vacante sino alla nomina del sostituto.
Una norma transitoria ha poi fissato in dodici anni - decorrenti dalla data del giuramento - la durata del mandato dei giudici nominati prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1967, chiarendo che anche a questi ultimi si sarebbe applicato l’art. 135, comma 4, Cost., in base al quale alla scadenza del mandato i giudici costituzionali cessano dalle loro funzioni.
Il meccanismo entrato in vigore nel 1967 e mai più modificato prevede, quindi, un rinnovo parziale e continuo dei giudici costituzionali allo scadere dei rispettivi mandati novennali. Non è esclusa, in linea puramente teorica, una perfetta coincidenza nella scadenza dei mandati, ma si tratta di un’ipotesi limite, tanto è vero che nella prassi i vari giudici non scadono mai tutti insieme.
Queste previsioni vanno poi coordinate con l’art. 16, comma 2, della legge n. 87 del 1953, che stabilisce che la Corte non può funzionare con meno di undici giudici e con l’art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 1967 che richiede il rinnovo della carica vacante entro il termine (come sappiamo rivelatosi meramente ordinatorio) di un mese.
3. Il sistema vigente, più funzionale rispetto a quello originariamente previsto, ha sin qui consentito il costante rinnovo parziale della Corte costituzionale: quando un giudice termina il mandato, quale che sia la ragione, può essere immediatamente sostituito.
Ci sono stati, per la verità, ritardi, anche consistenti, nella nomina dei giudici della Corte costituzionale di elezione parlamentare[14]. Basti ricordare che, per sostituire i giudici Casavola e Spagnoli, ci vollero ben undici mesi; nel caso del giudice Caianiello, addirittura venti mesi; nel caso di Guizzi e Mirabelli, diciassette mesi; per Vaccarella, ben diciotto mesi[15].
In anni più recenti, però, la sensazione è che il rinvio dell’elezione sia stato sempre più spesso “voluto” per avere un “pacchetto” di cariche da coprire nella stessa tornata: talvolta, l’elezione del giudice costituzionale mancante è stata favorita dal fatto che le Camere o il Parlamento in seduta comune erano chiamati a eleggere i componenti di altri organi (il Csm, ad esempio); in altri casi, invece, come nel 2015, si attese che ben tre fossero i giudici della Corte da eleggere così da favorire un accordo in sede parlamentare (in un’unica tornata furono eletti i giudici Barbera, Modugno e Prosperetti).
Anche oggi, la direzione verso cui ci si sta orientando è quella di attendere la scadenza di altri tre giudici per nominarne quattro tutti insieme alla fine del 2024.
Se, quindi, il ritardo nella nomina dei giudici costituzionali da parte del Parlamento è una costante della storia repubblicana, la novità va rinvenuta nel numero elevato di giudici da eleggere contemporaneamente e, forse, nelle ragioni che sottostanno al rinvio.
Sono infatti ormai venute meno alcune risalenti convenzioni costituzionali che, pur rispondendo a logiche “spartitorie”, avevano quantomeno il pregio di regolare i rapporti tra le forze politiche, riducendo il rischio di stalli eccessivamente lunghi (e potenzialmente pericolosi per il funzionamento stesso dell’organo di giustizia costituzionale) e l’individuazione da parte della maggioranza di tutti (o quasi) i candidati da eleggere. Nel corso della c.d. Prima repubblica, si era affermata una convenzione costituzionale secondo la quale due giudici spettavano alla Democrazia cristiana, uno al Partito socialista, uno al Partito comunista ed uno ai partiti laici minori (liberale e repubblicano) a rotazione[16]. Pertanto, quando terminava il mandato un giudice indicato, ad esempio, dalla Democrazia cristiana, si provvedeva subito (o quasi) a sostituirlo con altro indicato dallo stesso partito, e così via.
In seguito, seguendo una logica “maggioritaria”, il Parlamento ha inaugurato una prassi differente, in base alla quale erano eletti due giudici indicati dalla maggioranza e due dall’opposizione “a blocchetti”, mentre il quinto giudice era indicato dalla maggioranza “del momento” con il gradimento dell’opposizione secondo una logica bipartisan[17].
Negli ultimi anni, si assiste ad una rottura di qualunque prassi pre-definita: le forze di maggioranza, se hanno i numeri, tendono a scegliere candidati a loro più graditi, eventualmente riservando all’opposizione un posto. In questa logica, avere più posti da coprire favorisce accordi anche dentro la maggioranza.
Oltre alle conseguenze già segnalate, si può ipotizzare che questa prassi non favorisca la scelta di personalità di ampio e condiviso prestigio: un conto, infatti, è trovare un accordo su uno o più nomi condivisi, sulla cui competenza nessuno può obiettare, altro è dividersi previamente i posti da coprire e lasciare a ciascun partito la scelta del “suo” candidato.
4. Non è un caso che diversi siano stati, in dottrina, i rimedi prospettati per provare a ovviare all’inerzia parlamentare[18].
Il primo è quello di un messaggio formale alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, al fine di richiamarle all’osservanza dei propri doveri istituzionali. Il 7 novembre 1991 il Presidente Cossiga, nell’inviare un messaggio, si spinse a minacciare lo scioglimento anticipato nel caso di perdurante inerzia del Parlamento in seduta comune. Il messaggio sortì l’effetto sperato, visto che in meno di una settimana si procedette all’elezione dei giudici mancanti. Tuttavia, la minaccia di scioglimento anticipato pare davvero una soluzione limite e rischia, peraltro, di rivelarsi un’arma spuntata, non potendo garantire che le Camere procedano in tempo utile all’elezione dei giudici[19].
Richiami da parte dei Presidenti della Repubblica nella loro funzione di garanti della regolarità del funzionamento delle istituzioni non sono comunque mancati: dal messaggio di Segni del 16 settembre 1963, a quello di Ciampi del 26 febbraio 2002, al comunicato di Napolitano del 3 ottobre 2008, alle recentissime parole espresse il 25 luglio 2024 dal Presidente Mattarella in occasione della Cerimonia del Ventaglio.
Qualora il ritardo si dovesse spingere sino a rischiare di compromettere il funzionamento stesso della Consulta, è stata prospettata la possibilità che la Corte stessa, prima che la paralisi si verifichi, sollevi di fronte a se stessa un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento in seduta comune, in cui si accerti la menomazione della propria sfera di attribuzioni a causa dell’inerzia parlamentare; in quella sede, la Corte potrebbe, in ipotesi, anche auto-sollevarsi una questione di costituzionalità sulla disposizione (che però è di rango costituzionale, ossia l’art. 135, comma 4, Cost., così come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 1967) che vieta la prorogatio dei giudici costituzionali, per violazione del principio supremo dell’ordinamento che richiede la piena e costante operatività dell’organo di giustizia costituzionale[20].
Si è anche ragionato della possibilità di introdurre l’istituto della prorogatio con revisione costituzionale, modificando appunto l’art. 135, comma 4, Cost. Trattasi di una soluzione che, per un verso, scongiurerebbe il rischio di paralisi, dall’altro, però, potrebbe ulteriormente dilatare i tempi di sostituzione dei giudici, determinando nei fatti un allungamento del mandato di quelli scaduti ben oltre i limiti temporali tracciati dalla Costituzione[21].
Una ulteriore modifica consisterebbe nell’abbassamento del quorum di funzionamento della Corte oggi previsto dalla legge n. 87 del 1953. Si tratta di un requisito fissato in una legge ordinaria, che in ipotesi potrebbe essere abbassato a 10 per evitare che l’inerzia del Parlamento blocchi l’attività della Corte costituzionale: quand’anche tutti e 5 i membri di nomina parlamentare mancassero, vi sarebbero, infatti, quelli di nomina presidenziale e quelli eletti dalle supreme magistrature. Tale soluzione avrebbe, però, l’inconveniente di legittimare la prassi secondo cui l’organo supremo di giustizia costituzionale può lavorare a ranghi ridotti e con una composizione “squilibrata” e potrebbe aggravare la tendenza a procrastinare la scelta dei giudici da parte del Parlamento.
Ancora, è stata prospettata l’ipotesi di una modifica costituzionale che consenta, in via eccezionale, di avocare il potere di nomina in capo al Presidente della Repubblica e/o alle supreme magistrature o ancora alla stessa Corte costituzionale[22].
In dottrina si è infine ragionato della possibilità che il Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, convochi le Camere riunite e faccia ripetere ininterrottamente gli scrutini fintanto che non si arrivi ad una scelta condivisa, così da imporre l’adempimento di un preciso dovere costituzionale fissato dall’art. 135 Cost. In questo modo, si ritiene che, giocoforza, i gruppi parlamentari sarebbero costretti ad addivenire ad un accordo, eventualmente preceduto da una rosa di nomi che possa essere discussa tra le forze politiche[23].
5. Per concludere, il ritardo che le Camere stanno perpetuando nella scelta dei giudici costituzionali costituisce uno “strappo” del “tessuto costituzionale”, cui sarebbe necessario porre rimedio al più presto.
La Costituzione, nel definire la composizione e le modalità di scelta dei componenti della Corte costituzionale non detta, infatti, solo regole operative, ma delinea un preciso equilibrio, che mira a garantire il funzionamento dell’intero sistema di giustizia costituzionale.
Che il Parlamento, titolare della funzione legislativa e depositario della rappresentanza politica nazionale, si spinga a compromettere questo equilibrio, è atto che si pone ai limiti della scorrettezza istituzionale nei confronti di un organo, la Corte costituzionale, deputato a garantire proprio l’osservanza della Costituzione. È un po’ come se il “controllato” mettesse in discussione la legittimità e l’operatività del “controllore”, subordinando le regole costituzionali alle contingenze e alle alchimie della politica.
Non può, quindi, che auspicarsi che il Parlamento si decida ad ovviare alla propria inerzia.
L’attivazione, infatti, dei rimedi sopra prospettati costituirebbe il segno dell’incapacità delle forze politiche di cogliere il senso profondo delle regole fissate in Costituzione, che richiedono, anzitutto, che i rapporti tra i poteri dello Stato siano improntati al principio di leale collaborazione, così che l’intero sistema costituzionale si mantenga in equilibrio e possa funzionare fisiologicamente.
[1] La maggioranza di centro-destra è, infatti, complessivamente pari a circa 350 parlamentari, e la maggioranza dei tre quinti del Parlamento in seduta comune è poco più alta, ossia 360 componenti.
[2] Cfr. A. Pugiotto, «Se non così, come? E se non ora, quando?» Sulla persistente mancata elezione parlamentare di un giudice costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 22 ottobre 2008, 1-14.
[3] G. Zagrebelsky, La Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988, 74.
[4] Cfr. art. 17, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[5] Lo evidenzia P. Faraguna, Il giudice vacante alla Corte costituzionale: una questione di numeri, in LaCostituzione.info, 19 febbraio 2024.
[6] Evenienza questa peraltro verificatasi, per un breve periodo, nel 2002, quando la Corte dovette rinviare un’udienza per mancanza del numero legale. In quell’occasione i giudici vacanti per ritardo del Parlamento erano “solo” due, cui però si aggiunsero un giudice assente per lutto, uno per incompatibilità, uno per malattia, come ricorda M. Torrisi, La Consulta senza numero legale per la prima volta in quarantasei anni, in Dir e giur., 13/2002, 39.
[7] Sul punto, nella dottrina più risalente, si vedano G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione (A proposito delle modalità di elezione da parte del Parlamento dei giudici della Corte costituzionale), in Riv. it. sc. giur., 1954, 97 ss.; L. Elia, Durata in carica e prorogatio dei giudici costituzionali, in Giur. it., 1966, IV, 330 ss.; A. Pizzorusso, Art. 135, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1981, 147 ss.; R. Pinardi, Il problema dei ritardi parlamentari nell’elezione dei giudici costituzionali tra regole convenzionali e rimedi de jure condendo, in Giur. cost., 2003, 1819 ss. Più di recente, cfr. le acute riflessioni di A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quaderni costituzionali, 2/2024, 411-414.
[8] Ad esempio, da S. Galeotti, Sull’elezione dei giudici costituzionali di competenza del Parlamento, in Rass. dir. pubbl., 1954, 56 ss.
[9] Ricostruisce il dibattito in merito F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, La nuova Italia, Firenze, 1996, 85 ss.
[10] In questi termini A. M. Sandulli, Intervento, in G. Maranini (a cura di), La giustizia costituzionale, Vallecchi, Firenze, 1966, 428.
[11] Evidenzia tale criticità F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., 86.
[12] Cfr., sul punto, C. Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 1962, 970; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 987.
[13] V. il Messaggio del Presidente della Repubblica sulla elezione e la nomina dei giudici della Corte costituzionale e sulla non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, in Il Foro Italiano, n. 86/1963, 73-76. Di particolare interesse lo scambio di missive tra il Presidente Segni e il Prof. L. Elia antecedenti alla formulazione del messaggio, che ora possono leggersi nel volume Antonio Segni e i giuspubblicisti Carteggio sui poteri del Presidente della Repubblica, a cura di S. Mura, FrancoAngeli, Milano, 2024.
[14] Come ricorda A. Pugiotto, Come e perché, cit., 413.
[15] In quell’occasione, vi fu addirittura un’iniziativa di Marco Pannella, che per protestare contro il ritardo del Parlamento, iniziò un lungo sciopero della sete, accompagnato da un appello del 5 ottobre 2008, sottoscritto da ben 506 parlamentari, con cui si chiedeva al Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, di convocare le Camere riunite a oltranza “fino al formarsi delle decisioni necessarie”.
[16] Cfr. A. Pizzorusso, Art. 135, cit., 151 ss.; ed anche J. Luther, I giudici costituzionali sono giudici naturali?, in Giur. cost., 1991, 2478 ss.
[17] Su cui R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819 ss.; U. Spagnoli, I problemi della Corte. Appunti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1996, 20 ss.
[18] Sul punto, cfr. R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855; G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss.; A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 1-14.
[19] V. la ricostruzione di R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1840.
[20] Cfr., sul punto, le considerazioni di A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 12-14. Rileva una serie di criticità di questa soluzione R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1835-1836.
[21] Sui rischi e sui benefici dell’estensione della prorogatio ai giudici costituzionali, cfr. A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 13. Si segnala che, originariamente, la prorogatio era prevista dall’art. 18 del regolamento generale della stessa Corte costituzionale, che stabiliva che ciascun giudice restasse in carica «fino alla data del giuramento del giudice chiamato a sostituirlo».
[22] Su queste ulteriori soluzioni cfr. sempre R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855.
[23] Soluzione questa prospettata da G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss. e ripresa da A. Pugiotto, Come e perché, cit., 414.
La Corte costituzionale a ranghi ridotti: inefficienze e rischi derivanti dalla perdurante mancata elezione del quindicesimo giudice costituzionale
di Corrado Caruso e Pietro Faraguna
Sommario: 1. Le norme - 2. I fatti - 3. I rischi - 4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione? - 5. I possibili rimedi
1. Le norme
Lo scorso 24 luglio, in occasione della cerimonia del ventaglio al Quirinale, il Presidente Mattarella ha esortato, “con garbo e determinazione”, il Parlamento a eleggere il quindicesimo giudice costituzionale.
I motivi di questa esortazione sono forse noti, ma nel dubbio conviene ripassare le coordinate normative e i fatti istituzionali che hanno portato al monito. Quanto alle norme, «la Corte costituzionale è composta di quindici giudici», afferma l’art. 135 della Costituzione. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa immediatamente dalla carica e dall’esercizio delle funzioni, recita ancora l’art. 135 Cost., modificato dalla l. cost. 2/1967, che ha eliminato la prorogatio originariamente prevista dalla Costituzione. La stessa legge costituzionale poi, all’art. 5, secondo comma, dispone che, «in caso di vacanza a qualsiasi causa dovuta, la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa». Le fonti costituzionali delineano dunque un duplice obbligo, il secondo conseguenza del primo: la Corte deve essere composta da 15 giudici; là ove, per qualsiasi causa, l’integrità del collegio venisse meno, è necessario che l’istituzione incaricata provveda entro trenta giorni a ripristinarne l’originaria composizione.
Come noto, i giudizi di estrazione parlamentare sono un terzo del totale: per l’elezione di questi ultimi la legge cost. n. 2/1967, ha stabilito maggioranze molto alte (2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini, 3/5 in quelli successivi) che, unitamente a requisiti soggettivi non meno elevati (i giudici costituzionali devono essere professori ordinari in materie giuridiche, avvocati con almeno 20 anni di esercizio o magistrati delle supreme magistrature), contribuiscono a determinare un profilo di altissima professionalità e ampia legittimazione, anche per quei giudici che traggano la loro nomina dall’elezione parlamentare. La maggioranza richiesta per eleggerli, stabilita dalla l. cost. n. 2/1967, è persino più alta di quella necessaria a modificare la stessa Costituzione che stabilisce i criteri della loro elezione (sul punto si sprecano varianti di paradossi di Alf Ross[1]). Non è sempre stato così: nell’assetto originario dell’ordinamento repubblicano, prima dell’entrata in vigore della l. cost. n. 2/1967, le super maggioranze per l’elezione dei giudici costituzionali erano imposte… da una legge ordinaria (la legge n 87 del 1953)!
2. I fatti
Quanto ai fatti: i giudici costituzionali sono oggi quattordici, per la precisione dall’11 novembre 2023, ultimo giorno del mandato della Presidente Sciarra e dei Vicepresidenti de Pretis e Zanon. Per qualche giorno i giudici sono stati infatti 12, ma gli ultimi due sono stati prontamente sostituiti con le nuove nomine presidenziali dei giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi. Il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra, eletta giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune (la prima, e sinora unica donna che il Parlamento ha eletto nella storia della Repubblica), è invece ancora vacante, e sembra destinato a restare tale per un po’.
Negli ultimi trent’anni, dall’avvento del «bipolarismo rusticano»[2] della cosiddetta seconda Repubblica fino all’odierno, instabile, assetto tripolare, si è avuta una crescente difficoltà nel raggiungere gli elevati quorum stabiliti dalla Costituzione (lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato, tanto che per ben due volte si è recentemente “ripiegato” sulla rielezione del Presidente uscente). Basti pensare alle prolungate tempistiche per la sostituzione dei giudici Casavola e Spagnoli (undici mesi: 25 febbraio 1995-24 gennaio 1996), Caianiello (quasi venti mesi: 23 ottobre 1995-18 giugno 1997), Guizzi e Mirabelli (oltre diciassette mesi: 21 novembre 2000-24 aprile 2002), Vaccarella (poco meno di diciotto mesi: 2 maggio 2007-21 ottobre 2008)[3], sino ai 16 mesi necessari a colmare la vacanza aperta dalle uscite di Silvestri, Mazzella e Mattarella, pure cessati dalla carica in momenti diversi[4], chiusa con l’elezione, nel dicembre 2015, di Barbera, Modugno e Prosperetti (in scadenza a fine 2024)[5]. Tali difficoltà sono state più facilmente superate quando l’elezione non riguardava un solo posto vacante ma più d’uno, così da consentire un accordo tra diversi gruppi parlamentari e raggiungere l’elevato quorum richiesto dalla Costituzione.
Simile prassi è perfettamente comprensibile, e conduce a un progressivo accrescimento dell’elezione parlamentare: poiché non si raggiunge l’accordo per l’elezione di un solo giudice, si attende di doverne eleggere (almeno) due. Questi scadranno contemporaneamente (salvo imprevisti), e al loro pacchetto si “unirà” l’ulteriore elezione del giudice in scadenza solitaria. Il pacchetto diventerà inevitabilmente sempre più grande: abbiamo già assistito in passato agli effetti di questo processo (con la sostituzione contestuale di tre giudici che avevano terminato il mandato in momenti diversi) e potremmo presto assistere al “record” negativo, se il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra verrà riempito solo quando scadrà il pacchetto dei prossimi tre giudici parlamentari in uscita contestuale.
3. I rischi
Il fatto che la dinamica sia facilmente comprensibile sul piano descrittivo, non ne trasforma la natura: essa rimane una inadempienza costituzionale, con gravi effetti collaterali. Alcuni piccoli, uno molto grande. Tra quelli piccoli vi è che la Corte, tra la scadenza del giudice “solitario” e la scadenza del pacchetto più grande, lavora a ranghi ridotti. Lavorare con un giudice in meno significa avere una fonte di competenza e sensibilità in meno, significa avere tempi di decisione più lunghi (seppure non sia questo il problema dell’attuale stagione della Corte), significa lavorare in un collegio composto in numero pari (non il massimo per un organo che decide pur sempre votando a maggioranza).
Il rischio molto grande è determinato dal fatto che il funzionamento della Corte costituzionale è impedito se i giudici sono meno di undici. L’inadempimento costituzionale finisce naturalmente per travolgere come una valanga l’equilibrio e il funzionamento stesso dell’Istituzione, una volta che si vengano a creare pacchetti di 4 o 5 giudici da sostituire.
Come anticipato, il pacchetto di 4 giudici potrebbe essere realtà dal prossimo dicembre 2024, quando al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno ben tre ulteriori vacanze (il Presidente Barbera e i Vicepresidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). La Corte si ritroverà dunque con 11 giudici su 15. Per poche settimane, se tutto andrà bene (per qualche mese, in realtà, perché i giudici ancora in carica non partecipano alle udienze e camere di consiglio in cui si discutono cause le cui decisioni non farebbero in tempo a firmare), o per più tempo se la sostituzione del folto pacchetto dovesse incappare in difficoltà non previste.
La composizione della Corte con 11 giudici su 15 è evidentemente pericolosa per la stessa operatività del giudice delle leggi: ai sensi dell’art. 16 della legge n. 87 del 1953, «[l]a Corte funziona con l’intervento di undici giudici»: ciò significa che quando il collegio è completo, ci sono ben quattro assenze “di margine”, che non influiscono sull’operatività del collegio. Quando i giudici in carica si ritroveranno soltanto 11, qualunque vicissitudine personale – a partire da una semplice influenza – potrebbe mettere a repentaglio il funzionamento dell’intero organo. Peggio ancora: un assetto a 11 metterebbe nelle mani di ogni singolo giudice un potere, certamente del tutto alieno all’assetto costituzionale pensato dal Costituente, di impedire il funzionamento dell’organo, consentendo a questi di impedire al collegio di prendere qualsivoglia decisione mediante la sola forza della sua assenza. Si tratta di uno scenario evidentemente assai indesiderabile, e tutto suggerisce l’opportunità di evitare che tale scenario possa verificarsi. Obiettivo che si potrebbe tutto sommato raggiungere agevolmente, non facendo niente di più che adempiere a quanto chiede la Costituzione: assicurare che la Corte costituzionale sia composta da 15 giudici, non uno di meno.
4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione?
Ma perché non eleggere immediatamente il giudice mancante? La tattica “attendista” sembra avere motivazioni schiettamente politiche. Piuttosto che cercare attivamente un accordo immediato con l’opposizione (o una parte di essa) – attraverso l’individuazione di un profilo almeno parzialmente condiviso, oltre il perimetro della maggioranza che sostiene il governo – la coalizione governativa sembra voler esprimere un candidato “identitario”, verosimilmente vicino a Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa. Peraltro, eleggendo contemporaneamente quattro giudici costituzionali a dicembre – un evento, lo ripetiamo, senza precedenti nella storia repubblicana –, la maggioranza potrebbe ambire a nominare tre giudici, scegliendo, sulla base di convenienze contingenti, quale partito della frammentata opposizione premiare con l’individuazione dell’ultimo giudice.
La stessa Presidente del Consiglio Meloni ha espressamente rivendicato la prerogativa – sua e della maggioranza che la sostiene – di eleggere “suoi” giudici costituzionali, rispondendo a talune voci critiche, tra cui quella dell’ex Presidente della Corte Giuliano Amato, che hanno sollevato preoccupazioni sulle implicazioni illiberali di questa posizione[6]. Secondo Meloni, «questa idea della democrazia per la quale quando vince la sinistra chiaramente deve poter avere tutte le prerogative che riguardano la maggioranza e quando vince la destra no» avrebbe riflessi autoritari, collocandosi al di fuori della libera dialettica democratica[7].
Sebbene esprimere un giudice di “area” rappresenti una comprensibile aspettativa, applicare alle nomine costituzionali meccanismi da spoil system, distinguendo tra giudici costituzionali (appartenenti a partiti) di destra o di sinistra, è profondamente sbagliato, come ribadito a più riprese dall’attuale Presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera[8]. Eppure, l’idea della Presidente del Consiglio sembra essere condivisa dalle diverse forze politiche, come dimostra la silenziosa acquiescenza dell’opposizione, le cui varie anime sembrano più interessate a contendersi le “spoglie” dei giudici uscenti che a soddisfare l’obbligo costituzionale o denunciarne il perdurante inadempimento.
Sia chiaro: non ci pare che questi sviluppi testimonino un’imminente deriva autoritaria, comunque impedita o quantomeno resa assai difficoltosa dagli alti quorum di elezione, dalla variegata estrazione del collegio e dalla diversità delle istituzioni chiamate a nominare o eleggerne i componenti. Assistiamo piuttosto al rischio di una cattura partitocratica della Corte costituzionale, secondo una tendenza generale che da tempo caratterizza il nostro sistema politico[9], ma che oggi pare amplificata dalla fine dei grandi collanti ideologici, dalla mutazione dei partiti di massa in partiti “cartello” e dalla immedesimazione identitaria con l’elettorato che contraddistingue trasversalmente le forze politiche, inesorabilmente attratte dalle sirene del populismo[10].
Lo spoil system applicato alla Corte costituzionale è contrario alla Costituzione. Un conto è, infatti, provare a convergere verso personalità provenienti da una certa cultura politica, nell’ottica di caratterizzare il collegio in senso pluralistico; altro è ripartire, col famoso manuale Cencelli, i giudici costituzionali sulla base dell’appartenenza partitica. Questa conclusione si trae da una lettura sistematica delle norme costituzionali: il Parlamento in seduta comune svolge, non diversamente da quanto avviene per l’elezione del Presidente della Repubblica, funzioni di collegio elettorale «imperfetto»[11]: non sono giuridicamente previste la presentazione e la discussione di candidature, né le audizioni degli interessati, né la presentazione di programmi di giustizia costituzionale. Il giudice eletto non è il mandatario né il rappresentante di alcuna forza politica, ma agisce in nome del popolo e nell’interesse della Costituzione.
Inoltre, l’art. 135 Cost. si distingue da altre disposizioni costituzionali, come quelle relative alla composizione delle commissioni parlamentari permanenti (artt. 72.3) speciali (art. 82.3) o al collegio elettorale presidenziale (art. 83.2 Cost.), non prevedendo «che la composizione della Corte rifletta gli equilibri tra le diverse componenti parlamentari»[12]. Non c’è in altri termini la necessità di rispecchiare una proporzione tra le forze politiche: non a caso, gli alti quorum previsti, che avvicinano il voto a maggioranza all’unanimità, riflettono l’idea che la selezione del giudice avvenga per consenso piuttosto che sulla base di un semplice computo maggioritario dei voti.
Un processo di designazione in cui ogni partito nomini il proprio giudice rischierebbe di intaccare l’imparzialità della Corte, favorendo la fedeltà organica rispetto all’apertura a diverse visioni del mondo, alterando la percezione di imparzialità che ne ha l’opinione pubblica: la Corte costituzionale è, in fondo, “anche” un giudice[13] e, come tutti i giudici, deve non solo essereimparziale, ma anche sembrare tale all’esterno.
Infine, le nomine a pacchetto rischiano di produrre effetti indesiderabili sul corretto funzionamento della Corte indipendentemente da chi venga eletto: la sostituzione contestuale di 1/3 del totale dei giudici determinerebbe un cambiamento radicale e improvviso nella composizione del collegio, rischiando di interrompere, per una mera questione di discontinuità personale, l’andamento della giurisprudenza costituzionale, che in un ordinamento orientato al rispetto della rule of law è importante invece sia stabile e prevedibile (anche nel suo sviluppo e nella sua inevitabile trasformazione), in ossequio al fondamentale valore della certezza del diritto.
In un sistema ideale, il problema dell’inerzia parlamentare verrebbe risolto attraverso un approccio strategico o deliberativo delle forze politiche. I partiti dovrebbero abbandonare la pratica di nominare i giudici in base a profili di parte e optare invece per candidati con curricula impeccabili, che abbiano cultura politica ma non siano servitori del principe di turno. Basterebbe ricordare, a questo proposito, l’identikit, tratteggiato da Costantino Mortati, del perfetto giudice costituzionale: questi deve vantare profondità di cultura e possesso delle raffinatezze della tecnica giuridica, e, allo stesso tempo, «conoscenza della storia e delle istituzioni costituzionali», «piena indipendenza dalle parti politiche [...]» e, d’altra parte, «informazione precisa della posizione di ogni formazione politica, della loro ragion d’essere, dei loro programmi, del loro peso», «consapevolezza delle aspirazioni popolari, dei termini dei problemi sociali che vanno elaborandosi nella coscienza delle moltitudini»[14]. D’altronde, quanto più ampia è la legittimazione (in termini tecnici, politici e culturali) del giudice, tanto più facile è recidere i legami con l’istituzione di nomina[15]. Questo sarebbe fondamentalmente il risultato ottimale di una costituzione collaborativa, in cui ogni attore istituzionale opera all’interno di una relazione eterarchica di reciprocità, riconoscimento e rispetto[16].
5. I possibili rimedi
Tuttavia, la politica del mondo reale non funziona in questo modo. Il monito del Presidente Mattarella è solo l’ultimo, nella storia repubblicana, di una serie di richiami presidenziali volti a sollecitare le elezioni parlamentari dei giudici costituzionali[17]. In un caso, questo messaggio si è spinto fino a minacciare lo scioglimento anticipato delle Camere[18].
In effetti, il pericolo maggiore delle nomine a pacchetto risiede nella loro stessa percorribilità. Se, per qualsiasi ragione, le forze politiche non riuscissero a trovare la quadratura del cerchio, e si andasse al di sotto del quorum di 11 giudici, avremmo la paralisi certa di un organo costituzionale.
Proprio per evitare tale rischio, i Costituenti avevano disegnato un meccanismo volto ad evitare la scadenza contestuale di tutti i giudici[19], con un sistema di rinnovazione parziale del collegio: l’art. 135 Cost., nella sua formulazione originaria, prevedeva infatti che «[i] giudici sono nominati per dodici anni, si rinnovano parzialmente secondo le norme stabilite dalla legge e non sono immediatamente rieleggibili»[20]. La rinnovazione parziale cui faceva riferimento la formulazione originaria dell’art. 135 Cost. veniva disciplinata dalla legge 1/1953, il cui art. 4 stabiliva che «[i] giudici che sono nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte si rinnovano, decorsi nove anni, mediante sorteggio di due giudici tra quelli nominati dal Presidente della Repubblica, di due tra quelli nominati dal Parlamento e di due tra quelli nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa. Il sorteggio dei giudici è fatto dalla Corte tre mesi prima della scadenza del predetto termine di nove anni.
Decorsi gli altri tre anni, si rinnovano i giudici che non sono stati rinnovati. Successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni. In caso di vacanza dovuta alla scadenza del termine di dodici anni o ad altra causa la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa».
Questo complesso meccanismo, in sintesi, era vòlto a far uscire dalla porta esattamente quanto la recente prassi ha fatto rientrare dalla finestra: la sostituzione di giudici costituzionali attraverso nomine a pacchetto.
Molti altri interventi sarebbero in linea di principio concepibili: si potrebbe pensare di modificare i quorum di elezione, in modo da abbassare o alzare la maggioranza necessaria per eleggere un singolo giudice. Queste soluzioni, al di là della loro fattibilità concreta, non risolverebbero il problema: l’innalzamento promuoverebbe nomine bipartisan ma non eviterebbe il rischio di paralisi; l’abbassamento renderebbe più facile l’elezione ma alimenterebbe la partigianeria dell’eletto. L’amara realtà è che è ben difficile immaginare una soluzione che passi attraverso una riforma delle regole sull’elezione, posto che tale strada necessiterebbe di un contributo fattivo di quegli stessi attori politici al cui comportamento inerte la riforma dovrebbe rimediare: un’ipotesi, tuttavia, di cui si sta discutendo in Germania, ove si vorrebbe costituzionalizzare durata e quorum di elezione dei giudici (oggi disciplinati nella Bundesverfassungsgerichtsgesetz)[21].
Un’altra soluzione sarebbe un emendamento costituzionale che reintroduca la proroga del mandato dei giudici uscenti, ove ii loro sostituti non siano effettivamente e tempestivamente eletti. Anche in questo caso, la soluzione richiederebbe un intervento politico lungimirante, e che – forse proprio in quanto tale – sembra una soluzione scarsamente praticabile.
In alternativa, in caso di grave e perdurante paralisi la Corte stessa potrebbe annullare le norme costituzionali che contribuiscono a determinare la paralisi: l’oggetto potrebbe essere dato dalle disposizioni che escludono la prorogatio dei giudici, oppure quelle che impediscono alla Corte di funzionare con un collegio composto da meno di 11 giudici. Come extrema ratio potrebbe essere la Corte stessa ad auto-investirsi di tali questioni. In effetti, il potere di auto-rimessione consente alla Corte costituzionale di chiamare se stessa a controllare un atto legislativo, finanche avente rango costituzionale, facendo nascere un giudizio costituzionale indipendente da uno in corso: la Corte ha usato questo potere abbastanza raramente – circa 30 volte in quasi 70 anni – ma recentemente si è dimostrata meno riluttante nell’utilizzo di questa tecnica processuale[22]. Tuttavia, questa sarebbe veramente una last resort option, se non proprio un’ipotesi ai limiti del fantadiritto. L’opzione nucleare potrebbe aversi solo nel caso in cui lo stallo politico portasse la Corte a una completa paralisi, e l’occasione potrebbe persino originare da una lite interorganica promossa dalla Corte stessa contro l’inadempiente Parlamento in seduta comune. Si tratterebbe comunque di un irrealistico scenario non privo di ulteriori effetti collaterali. Uno su tutti: rischiare di dilapidare una reputazione “giurisdizionale” faticosamente conquistata.
Fermi, perciò, questi caveat, è pur vero che la giustizia costituzionale in Italia ha mostrato una versatilità notevole nel recente passato: la Corte ha aperto strade di accesso prima impensabili (ad esempio, per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi elettorali) e ha elaborato tecniche decisionali nuove (basti pensare alle ordinanze di incostituzionalità prospettata, nel caso Cappato e in altre successive occasioni). In questo laboratorio innovativo, è improbabile, ma non giuridicamente impossibile, immaginare che la Corte risolva da sé un problema che spetterebbe ad altri risolvere (ogni giorno di più, nell’ordinamento costituzionale non ogni cosa è “al suo posto”[23]).
In una parola: la politica che si cura da sé è fantapolitica (o quasi), la Corte che risolve da sé è fantadiritto (o quasi). In questo generalizzato quadro di fantasia, la realtà la perdurante assenza un giudice costituzionale. E prima di pensare alla paralisi dell’ordinamento costituzionale c’è forse spazio per denunciare, nel dibattito pubblico e in quello scientifico, quello che, secondo la Costituzione, è un grave inadempimento che va perpetrandosi dallo scorso 20 novembre nell’apparente disinteresse generale. Il fatto che, a seguito del monito del Capo dello Stato, il Presidente della Camera abbia annunciato[24] che, a partire da settembre, il Parlamento si riunirà in seduta comune una volta a settimana per eleggere il giudice costituzionale è un segnale che va nella giusta direzione; ma, come la saggezza proverbiale ci ha insegnato, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, profondo e burrascoso, della politica.
Il saggio sviluppa le considerazioni degli stessi autori pubblicate su La Repubblica del 15 luglio 2024, Un giudice da eleggere per la Costituzione e sul Verfassungsblog, Delegitimizing by Procrastinating Parliamentary Inertia in the Election of Constitutional Judges in Italy, 11 luglio 2024. Il contributo è frutto di una riflessione congiunta dei due autori. Ai soli fini degli almanacchi che governano il mondo della produzione scientifica, specifichiamo che Corrado Caruso è autore dei paragrafi 2 e 4, mentre Pietro Faraguna è autore dei paragrafi 1, 3 e 5.
[1] A. Ross, Theorie der Rechtsquellen. Ein Beitrag zur Theorie des positive Rechts auf Gundlage dogmenhistorischer Untersuchungen, Leipzing und Wien, 1929 (spec. cap. XIV).
[2] A. Barbera, Sussidiarietà e bipolarismo “mite” (Relazione al Convegno promosso dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà Sala Zuccari - Senato della Repubblica 29 marzo 2007), sul Forum di Quaderni costituzionali (https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/nuovi%20pdf/Paper/0021_barbera.pdf)
[3] I dati sono riportati in A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quad. cost., 2024, p. 412.
[4] Il 28 giugno 2014 cessarono dalle funzioni i giudici Silvestri e Mazzella, mentre il 2 febbraio 2015 fu il turno di Mattarella, nel frattempo asceso al soglio presidenziale.
[5] Riferimenti in D. Stasio, L’attività della Corte è a rischio, adesso il Parlamento deve difenderla, in La Stampa, lunedì 15 luglio 2024.
[6] Democrazia a rischio: l’Italia può seguire Polonia e Ungheria, intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 2 gennaio 2024.
[7] Conferenza stampa della Presidente del consiglio, 4 gennaio 2024, https://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-meloni/24717.
[8] A partire dalla conferenza stampa tenuta al momento dell’insediamento il 12 dicembre 2023, e poi ribadite nell’intervista a Liana Milella il 17 gennaio 2024, nella relazione sull’attività svolta dalla Corte nel 2023 (illustrata il 18 marzo 2024) e, da ultimo, nell’intervista a Emilia Patta per il Sole24ore il 28 giugno 2024.
[9] L’A. che per primo ha conferito dignità scientifica alla “partitocrazia” è G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia (Lezione inaugurale dell'anno accademico '49-'50), Editrice universitaria, Firenze 1950.
[10] Per una analisi della evoluzione del sistema dei partiti in Italia cfr. P. Ignazi, Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2022.
[11] Riassumono il dibattito a riguardo A. Poggi, La elezione del Presidente della Repubblica. Le proposte sulle candidature: questioni di metodo e di merito in Oss. Cost., 2/2022, pp. 39 e ss., nonché D. Chinni, Elezione e mandato del Presidente della Repubblica, lavoro inedito.
[12] A. Pugiotto, Come e perché, cit., p. 413.
[13] Insiste sull’anima giurisdizionale della Corte costituzionale, pur con diversità di accenti, R. Romboli, Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro
Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in Id. (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 1 e ss., A. Ruggeri, Tendenze della Costituzione e tendenze della giustizia costituzionale, al bivio tra mantenimento della giurisdizione e primato della politica, ivi, pp. 99-116.
[14] C. Mortati, La Corte costituzionale e i presupposti della sua vitalità, in C. Mortati, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza repubblicana. Raccolta di scritti, III, Milano, Giuffrè, pp. 683-684.
[15] M. Gren, Judges at Constitutional Courts / Supreme Courts, in Max Planck Encyclopedia of Comparative Constitutional Law, Oxford University Press, ad vocem.
[16] A. Kavanagh, The Collaborative Constitution, Cambridge University Press, 2023, pp. 86 e ss.
[17] Come ricostruito da A. Pugiotto, Come è perché, cit. p. 413, e da D. Stasio, L’attività della Consulta è a rischio, cit., numerosi sono stati i messaggi presidenziali: Antonio Segni (16 settembre 1963), Carlo Azeglio Ciampi (26 febbraio 2002), Giorgio Napolitano con un apposito comunicato (3 ottobre 2008), nonché lo stesso Mattarella, una prima volta, il 2 ottobre 2015.
[18] Così fece il Presidente Cossiga il 7 novembre del 1991.
[19] Sulle prime nomine alla Corte costituzionale vedi F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, Roma, 1996, p. 91 ss.
[20] La VII disp. trans. e fin. specificava poi che «[i] giudici della Corte costituzionale nominati nella prima composizione della Corte stessa non sono soggetti alla parziale rinnovazione e durano in carica dodici anni».
[21] Cfr. E. Caterina, La Corte prima della tempesta: come premunire le corti costituzionali da futuri assalti? La situazione in Germania e in Italia, in Diritticomparati.it, 15 febbraio 2024.
[22] P. Faraguna, A. Pugiotto, Corte costituzionale e autorimessione: una radiografia giurisprudenziale, in Quad. cost., 2024, pp. 373 e ss.
[23] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2023.
[24] Cfr. la dichiarazione del Presidente Fontana a margine della conferenza dei capigruppo. Ne danno conto D. Stasio, Grave lo stop sui giudici costituzionali. La Consulta non è terra di conquista, in La Stampa, 25 luglio 2024, p. 8 e A. Pugiotto, Il Parlamento gioca con la consulta ma Mattarella gli rovina la festa, in L’Unità, 27 luglio 2024.
Sommario: I. La sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2024 n. 96 in tema di verifiche preliminari nel processo civile. II. Disamina e commento delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 24 Cost. e del rispetto del principio del contraddittorio. III. Segue: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 76 Cost. e dell’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021. IV. Segue: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 3 Cost. e del principio di parità di trattamento tra questioni rilevabili d’ufficio. V. Osservazioni sullo stato del processo civile del nostro tempo. Giudicare e rassicurare. VI. Orelsan e il poema “Tout va bien”.
I. La sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2024 n. 96 in tema di verifiche preliminari nel processo civile.
1. Quando il Tribunale di Verona, con l’ordinanza del 22 settembre 2023, rimise la questione di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. alla Corte costituzionale, io mi prestai subito a preparare un commento per questa rivista[1], e il tono che decisi di usare fu quello del sarcasmo, poiché se da una parte condividevo i rilievi sollevati da quel giudice, dall’altra immaginavo che le questioni sarebbero state invece dichiarate infondate.
Oggi posso dire che la mia previsione fu corretta, visto che la Corte costituzionale, con la pronuncia che qui si annota, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. con riferimento agli artt. 76, 3 e 24 Cost.[2]
Le questioni sollevate dal Tribunale di Verona erano infatti sostanzialmente tre: eccesso di delega (art. 76 Cost.), principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), principio del contraddittorio (art. 24 Cost.)[3].
Tutt’e tre sono state dichiarate senza fondamento.
1.1. Per quanto riguardi l’eccesso di delega, dopo lunghe pagine nelle quali si illustra la disciplina esistente, nonché le sottolineature della Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 149 del 2022 (attuativo della legge delega n. 206 del 2021), nonché le prospettazioni del giudice remittente, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione; e ciò non tanto perché non mancasse effettivamente, nella legge delega, ogni riferimento a possibili decreti decisori delle verifiche preliminari anteriori alla prima udienza, quanto perché deve riconoscersi una “discrezionalità del legislatore delegato, il quale è chiamato a sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge delega, potendo così ben svolgere un’attività di riempimento normativo, che è pur sempre esercizio delegato di una funzione legislativa” (così espressamente Corte Cost. 3 giugno 2024 n. 96).
Sulla base di questo principio, che la Corte costituzionale ha ricondotto ai propri precedenti n. 79 del 2019, n. 198 del 2018 e n. 104 del 2017, ella ha proseguito sul punto asserendo che: “se effettivamente l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione, da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio”; ed inoltre: “la disposizione censurata è, al contempo, volta a realizzare il generale canone della concentrazione processuale sancito dalla lettera a) del medesimo art. 1, comma 5, della legge delega, perché orientata a ridurre le ipotesi di regressione del giudizio dopo il deposito delle memorie integrative”.
1.2. Quanto ai profili di cui all’art. 3 Cost., ovvero quanto al diverso trattamento posto in essere dall’art. 171 bis c.p.c., tra questioni processuali rilevabili d’ufficio che possono essere decise con decreto dal giudice prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c. e questioni che invece non possono decidersi se non dopo le memorie ex art. 171 ter c.p.c., la Corte costituzionale ha ritenuto che tale differenziazione non si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost.
Ed infatti: “Tale diversa regola processuale appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti volti alla corretta instaurazione del contraddittorio ovvero alla sanatoria dei vizi degli atti introduttivi e il rilievo d’ufficio di altre questione ad opera dell’autorità giudiziaria, hanno sui tempi di svolgimento del giudizio, sui quali sono suscettibili di incidere, dilatandoli, solo i primi, comportando, di regola, un differimento dell’udienza di trattazione”.
Dunque, la disparità di trattamento è data dalla legge poiché alcuni provvedimenti sono funzionali alla necessità di non perder tempo, mentre altri non hanno queste caratteristiche.
Ed ancora, per la Corte costituzionale: “Vi è, poi, che i provvedimenti emessi a seguito delle c.d. verifiche preliminari si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti: Il che impedisce di ritenere integrata un’ingiustificata disparità di trattamento”.
1.3. Infine, per quanto concerni il rispetto del principio del contraddittorio, la Corte costituzionale, di nuovo, non ha ravvisato violazioni dell’art. 24 Cost. da parte del nuovo art. 171 bis c.p.c.
La Corte costituzionale non ha negato che il problema possa legittimamente porsi, visto che il giudice, con l’art. 171 bisc.p.c.: “decide tali questioni con decreto, anticipatamente rispetto all’udienza di prima comparizione e, soprattutto, le decide senza che le parti siano chiamate ad interloquire su di esse o abbiano la possibilità di farlo”.
Ma, sottolinea la Corte costituzionale: “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” e va quindi al riguardo suggerita una “interpretazione adeguatrice”.
Quale?
Semplicemente: “per un verso il giudice, in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c. può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione. A questo scopo ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata, un’udienza ad hoc, nell’ambito di quelli che sono i propri generali poteri di organizzazione e direzione del processo”.
Parimenti una esigenza del genere può essere avvertita anche dalle parti, e quindi: “ciascuna parte può sollecitare il giudice affinché, esercitando il suo potere direttivo, fissi un’udienza ad hoc e determini i punti sui quali essa deve svolgersi……nell’uno e nell’altro caso la fissazione di un’udienza ad hoc soddisfa la necessità della piena realizzazione del contraddittorio tra le parti”.
Ogni soluzione, comunque, deve spettare al giudice, il quale ha il potere, caso per caso, di determinare il da farsi: “Rimane però che, pur nel contesto di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, l’art. 175 c.p.c. non può essere piegato fino a far ritenere un vero e proprio obbligo processuale del giudice, essendo il suo potere direttivo essenzialmente discrezionale. Non può escludersi che il giudice, seppur sollecitato a farlo, ritenga di non frapporre un’udienza anticipata nell’ordinario iter processuale al solo fine di realizzare il contraddittorio tra le parti su singole questioni di rito”; ed in queste ipotesi: “le parti, nelle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c. possono prendere posizione in ordine ai provvedimenti adottati dal giudice, in ipotesi chiedendone la modifica o la revoca, e il giudice debba pronunciarsi”.
1.4. “In sintesi” – conclude la Corte costituzionale – “anche se le verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c. hanno ad oggetto questioni di rito normalmente liquide, per altro verso non è sacrificato il contraddittorio delle parti nella misura in cui, quando emerga l’esigenza che questo debba dispiegarsi, il giudice possa adottare, nei modi sopra indicati, provvedimenti che salvaguardino il diritto di difesa. Così interpretata la disposizione censurata risulta non essere in contrasto con l’evocato parametro (art. 24 Cost.)”.
II. Disamina e commento delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 24 Cost. e del rispetto del principio del contraddittorio
2. Ora, per procedere al commento di questa decisione, ritengo necessario continuare a tenere separate le tre questioni sopra esposte, seppur invertendone l’ordine di trattazione, e così inizierei dalla più importante, ovvero dall’ultima, quella relativa all’art. 24 Cost. e al rispetto del principio del contraddittorio.
2.1. E nell’affrontare tale tematica, ritengo parimenti necessario fare un passo indietro, e muovere dalle differenze che nel nostro sistema processuale vi sono tra i provvedimenti che hanno la forma del decreto e quelli che hanno la forma dell’ordinanza.
Perché questa divagazione?
Perché la riforma Cartabia ha trasferito le verifiche preliminari che prima si trovavano nel vecchio art 183 c.p.c. nel nuovo art. 171 bis c.p.c., e in questo modo ha consentito che una serie di questioni attinenti a diritti processuali controversi, o potenzialmente controversi, che fino a ieri si pronunciavano con ordinanza, oggi si possano e si debbano pronunciare con decreto.
Esattamente, nel vecchio sistema dell’art. 183 c.p.c. la decisione delle questioni preliminari aveva la forma dell’ordinanza proprio perché data dal giudice in udienza, o immediatamente dopo essa, e quindi nel contraddittorio delle parti; inoltre, la forma dell’ordinanza assicurava la motivazione, e ciò nel rispetto dell’art. 134 c.p.c.
La riforma ha trasferito invece l’analisi e la decisione di queste questioni sub art. 171 bis c.p.c., aggiungendone, peraltro, un’ulteriore, visto che in tale nuova norma si trova oggi anche l’art. 107 c.p.c., prima non richiamato nell’art. 183 c.p.c.
Il problema è che questo trasferimento delle questioni dal vecchio art. 183 c.p.c. al nuovo art. 171 bis c.p.c. ha comportato la modifica della forma del provvedimento con il quale risolverle, poiché oggi, quelle medesime questioni, coerentemente alla circostanza che vengono pronunciate avanti la prima udienza e in assenza delle parti e dei loro difensori, vengono decise con decreto, e non più con ordinanza, e ciò emerge in modo chiaro dallo stesso tenore dell’art. 171 bis c.p.c., che all’ultimo comma dispone: “il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della cancelleria”.
2.2. Ora, però, questo trapasso non sembra essere privo di conseguenze sul piano della costituzionalità dell’art. 171 bisc.p.c., e per convincersi di ciò è forse utile tornare alle differenze, che, anche dal punto di vista della nostra tradizione processuale, corrono tra i decreti e le ordinanze.
a) I decreti che si pronuncino in seno al processo ordinario di cognizione, stando all’art. 135 c.p.c., si caratterizzano rispetto alle ordinanze sotto un duplice profilo: aa) sono provvedimenti privi di motivazione, “salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge”; ab) e sono provvedimenti pronunciati dal giudice senza il previo contraddittorio tra le parti; e l’assenza del contraddittorio, a sua volta, è giustificata: - dal fatto che il giudice, con il decreto, decide questioni che non hanno, a monte, normalmente, contrasto tra le parti; - e soprattutto dal fatto che il giudice, con il decreto, provvede su questioni che non attengono a veri e propri diritti processuali dei litiganti quanto piuttosto ad aspetti meramente organizzativi dell’attività processuale.
I decreti da ricordare, prima della riforma Cartabia, sono infatti quelli relativi alla designazione del giudice (art. 168 bis c.p.c.), allo spostamento dell’udienza per consentire al convenuto la chiamata in causa di un terzo (art. 269 c.p.c.), o comunque, più in genere, alla fissazione delle udienze (artt. 168 bis, 5° comma, 297, 303 c.p.c., artt. 80, 82 disp. att. c.p.c.), e poi quelli aventi ad oggetto la riunione dei procedimenti pendenti dinanzi al medesimo giudice (artt. 273 e 274 c.p.c.), o la correzione dei provvedimenti richiesti concordemente dalle parti (art. 288 c.p.c.), ecc……[4]
Si tratta, come può notarsi, o di questioni che non vedono le parti su posizioni contrapposte, oppure di questioni meramente organizzative, che non attengono a veri e propri diritti processuali.
Sulla base di ciò, e solo sulla base di ciò, detti provvedimenti possono essere pronunciati dal giudice senza contraddittorio e senza motivazione[5].
b) Per contro, le ordinanza sono provvedimenti motivati, ed infatti lo stesso art. 134 c.p.c. ricorda che: “L’ordinanza è succintamente motivata”; ed inoltre le ordinanze sono provvedimenti che seguono il contraddittorio tra le parti, tanto che si danno o in udienza: “Se è pronunciata in udienza è inserita nel processo verbale”, oppure a seguito di udienza, e in questi casi l’ordinanza: “è scritta in calce al processo verbale, oppure in foglio separato, munito della data e della sottoscrizione del giudice” (così l’art. 134 c.p.c.).
Proprio per queste diverse garanzie, le ordinanze possono avere ad oggetto la definizione di diritti processuali controversi tra le parti, e gli esempi da dare, sempre prima della riforma Cartabia, sono quelli dell’art. 39 c.p.c. con il quale il giudice dichiara la litispendenza o la continenza delle cause, dell’art. 102, 2° comma, con il quale il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario pretermesso, dell’art. 107 c.p.c., circa l’ordine del giudice di far svolgere il processo in confronto di un terzo al quale ritiene comune la causa, o ancora dell’art. 183, 7° comma c.p.c., ordinanza con la quale il giudice, ritenuti ammissibili e rilevanti, ammette i mezzi di prova richiesti dalle parti.
Si tratta, in questi casi, non tanto di aspetti meramente organizzativi del processo, quanto di propri diritti processuali, che il giudice decide con ordinanza, anziché con decreto, proprio per il rispetto che in questi casi si deve al principio del contraddittorio (art. 24 Cost.) e a quello della motivazione (art. 111 Cost.).
2.3. Dicevo, in questo contesto si inserisce altresì la nostra tradizione.
Già l’art. 50 del codice di procedura civile del 1865 asseriva che: “I provvedimenti dell’autorità giudiziaria fatti sopra ricorso di una parte senza citazione dell’altra, hanno nome di decreti”, col che rimarcando l’assenza del contraddittorio nella pronuncia dei decreti.
Giuseppe Chiovenda asseriva che il decreto avesse infatti una funzione quasi amministrativa piuttosto che giurisdizionale e che “non è che la conseguenza di questa natura il carattere proprio del decreto di essere emanato senza contraddittorio”[6].
Virgilio Andrioli scriveva che nel decreto “l’assenza di motivazione non dovrebbe arrecare alcun inconveniente, dal momento che esso non ha finalità decisoria perché è emanato sul presupposto che non vi sia controversia”[7]. E ancora per Salvatore Satta il decreto “non presuppone il contraddittorio tra le parti. Analizzando i vari casi che offre il diritto positivo, sembra possa dirsi che esso corrisponde più che ad una attività processuale vera e propria, ad una attività preparatoria del processo e di determinati atti del processo, ovvero ad una attività amministrativa o negoziale coordinata al processo”[8]
In questa tradizione anche Carmine Punzi, per il quale: “Il decreto… assolve a varie funzioni, spesso di carattere amministrativo e collaterali al processo vero e proprio” – e per questo: “il decreto è un provvedimento che non presuppone necessariamente il contraddittorio”[9]. Infine per Girolamo Monteleone il decreto: “trova ingresso anche nell’ordinario processo di cognizione, generalmente al fine di preparare, e consentire, la trattazione della causa nel contraddittorio tra le parti”[10]
2.4. Dunque, se tant’è, a me sarebbe sembrano necessario affrontare questo aspetto, che invece non è stato proprio preso in considerazione, nemmeno un cenno[11].
Mi sarebbe sembrato naturale chiedersi se poteva essere costituzionalmente legittimo sconfessare la nostra tradizione circa la differenza tra i provvedimenti che si adottano con ordinanza rispetto a quelli che viceversa si adottano con decreto,
E la domanda che necessitava di una risposta era esattamente quella se è costituzionalmente legittimo decidere con decreto diritti processuali delle parti affidate fino ieri all’ordinanza.
Questo, a mio sommesso parere, doveva essere il primo giudizio di costituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. in relazione all’art. 24 Cost.
Ma ciò non è stato.
Una riflessione su ciò, avrebbe tendenzialmente portato a ritenere incostituzionale la novità dell’art. 171 bis c.p.c., in quanto rivoluzionaria del principio fondamentale secondo il quale la decisione dei diritti processuali non può darsi d’ufficio dal giudice, senza contraddittorio e senza motivazione.
E doveva incutere preoccupazione l’idea di arrivare, con tale norma, ad una potenziale soppressione delle differenze tra ordinanze e decreti, tanto in ordine al loro contenuto quanto alla loro funzione; non a caso le prime regolate dall’art. 134 c.p.c., e gli altri, per ragioni opposte, regolati diversamente dall’art. 135 c.p.c.
Se si arriva viceversa a fare di tutta l’erba un fascio e a negare le differenze, allora in futuro potremmo immaginare due soli provvedimenti del processo civile, da una parte le sentenze e dall’altra i decreti + le ordinanze, fuse in un unico provvedimento.
Sarebbe questa, però, una modifica di sistema, non qualcosa che si possa fare in questo modo, quasi inavvertitamente, modificando una sola disposizione di legge.
Anche solo per questo, un operare del genere doveva trovare chiusura da parte della Corte costituzionale.
2.5. La Corte costituzionale ha invece giudicato legittima la novità, e ciò è stato motivato, direi, sotto un duplice profilo:
a) sotto un primo la Corte costituzionale ha asserito che la circostanza che le verifiche preliminari siano adottate con decreto non è grave, poiché le parti possono chiedere, fin dalle memorie ex art. 171 ter c.p.c., la revoca e la modifica di quel decreto, e il giudice, a questo punto, nel contraddittorio delle parti, deve provvedere a confermare, modificare o revocare la misura assunta ai sensi dell’art. 171 bis c.p.c.
Si legge infatti nella sentenza: “le parti, nelle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c. possono prendere posizione in ordine ai provvedimenti adottati dal giudice, in ipotesi chiedendone la modifica o la revoca, e il giudice debba pronunciarsi”[12].
b) Ed ancora, per la Corte costituzionale, il rispetto del contraddittorio si realizza in ogni caso quando il giudice lo ritenga necessario, poiché questi può sempre, d’ufficio o su istanza di parte, anche in base al disposto dell’art. 175 c.p.c., disporre una udienza ad hoc affinché le parti esercitino la difesa avanti le decisioni di cui all’art. 171 bis c.p.c.
Si legge ancora nella sentenza: “il giudice, in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c., può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione. A questo scopo ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata, un’udienza ad hoc, nell’ambito di quelli che sono i propri generali poteri di organizzazione e direzione del processo”.
Provvedo quindi a trattare separatamente le due questioni.
2.6. La prima argomentazione data dalla Corte costituzionale presuppone un dato che in verità non c’è, e che è quello che un decreto possa essere revocato o modificato.
La questione, infatti, non viene nemmeno dibattuta, e subito si asserisce che non sia grave che le verifiche preliminari si diano con decreto perché le parti, immediatamente, ne possono chiedere, nel contraddittorio fra loro, la revoca o la modifica.
Al riguardo, è necessario sottolineare che i decreti dei quali qui ci stiamo occupando sono solo quelli che si pronunciano nel corso del processo ordinario di cognizione, quali, appunto, i decreti che oggi si trovano nell’art. 171 bis c.p.c.
Con essi non hanno niente a che vedere i vari decreti che il codice di procedura civile invece inserisce nei processi speciali: tra questi il decreto cautelare (art. 669 sexies c.p.c.), il decreto nei procedimenti in camera di consiglio (art. 737 c.p.c.) e i decreti di condanna pronunciati con cognizione sommaria, quale i decreti ingiuntivi (art. 633 c.p.c.).
I decreti dei processi speciali possono sì essere revocati o modificati, e ognuno, normalmente, ha un suo regime di impugnazione, revoca o modifica.
Ma tutto questo non riguarda i decreti del processo ordinario di cognizione per l’organizzazione delle attività processuali quali quelli ex art. 171 bis c.p.c.
Per questi ultimi decreti, al contrario, un regime di revoca e modifica non esiste, ed anzi questa è, da sempre, una delle differenze che contrappongono le ordinanze dai decreti; ovvero, mentre le ordinanze pronunciate nel corso del processo ordinario di cognizione sono sempre revocabili e modificabili dal giudice ai sensi dell’art. 177 c.p.c., eguale disposizione con riferimento ai decreti non v’è, e non esiste infatti alcuna norma del secondo libro del codice di procedura civile che legittimi il giudice a modificare un decreto dopo che lo abbia pronunciato.
Di nuovo, tra la dottrina classica scriveva Giuseppe Nappi: “Il decreto in genere non è impugnabile, ma la legge espressamente dispone quando sia ammesso il reclamo”[13]; egualmente Salvatore Satta: “In linea di massima, non si applicano al decreto i principi di revocabilità e modificabilità propri delle ordinanze”[14]; e di nuovo così Carmine Punzi, per il quale il decreto: “non può essere revocato né modificato, se non con l’osservanza del procedimento appositamente predisposto dalla legge”[15]
Ora, che nella prassi del processo ordinario di cognizione si diano casi di revoca o modifica di decreti è possibile, visto il poco rispetto che ormai si ha della legge processuale, e visti i sempre maggiori poteri discrezionali che si riconoscono al giudice, ma che si possa asserire l’esistenza di un vero e proprio diritto processuale delle parti ad ottenere la revoca o modifica di un decreto, direi di no, proprio perché, per i decreti, lo ripetiamo, non esiste una disposizione analoga a quella che è stata data con l’art. 177 c.p.c. per le ordinanze.
Dunque, pronunciato un decreto ex art 171 bis c.p.c. non v’è una norma processuale che legittimi le parti a chiederne la revoca e/o la modifica e al giudice di concederla; questo è un percorso possibile per le ordinanze, ma non per i decreti; dal che l’ulteriore gravità della riforma nell’aver trasferito i provvedimenti che si davano con ordinanza con il vecchio art. 183 c.p.c. nei nuovi provvedimenti che si danno con decreto ai sensi dell’art. 171 bis c.p.c.
Avverso una istanza di revoca o modifica di un decreto, un giudice potrebbe semplicemente schernirsi dietro l’assenza di una disposizione analoga a quella dell’art. 177 c.p.c. che legittimi un simile potere, e così semplicemente dichiarare inammissibile la richiesta.
Non può sostenersi, pertanto, che la decisione con decreto delle verifiche preliminari non sia grave perché le parti in ipotesi ne chiedendo la modifica o la revoca e il giudice provvede, perché, in verità, le cose non stanno in quei termini, e i dubbi di costituzionalità in ordine all’assenza del contraddittorio dei decreti che si pronunciano ex art. 171 bis c.p.c., doveva rafforzarsi, e non venir meno, in ordine a questi aspetti.
2.7. La seconda questione adottata dalla Corte costituzionale, per la quale l’art. 171 bis c.p.c. non viola il principio del contraddittorio poiché il giudice può, anche prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., disporre comunque “un’udienza ad hoc”, va a mio parere integrata con almeno tre diverse osservazioni.
a) Una prima è che il diritto al contraddittorio deve essere assicurato dalla legge, non dal giudice.
Se il contraddittorio è assicurato solo dal potere discrezionale del giudice, che in taluni casi lo può concedere ed in altri no, lì il diritto al contraddittorio non esiste più, poiché nessuna garanzia dell’esercizio di esso è quindi in questo modo assicurato.
Nessuno mette in discussione che il giudice, nel processo civile, eserciti dei poteri discrezionali, ma questi poteri discrezionali non possono avere ad oggetto un diritto fondamentale garantito dalla costituzione quale è quello del contraddittorio.
Il diritto al contraddittorio deve essere assicurato dalla legge, e se la legge non garantisce il contraddittorio, allora va da sé che la legge è incostituzionale.
Direi, peraltro, che ciò si ricava dalle stesse disposizioni costituzionali.
L’art. 24 Cost. dice che “la difesa è diritto inviolabile”, e un diritto inviolabile non può essere rimesso alla discrezionalità del giudice; inoltre l’art. 111 Cost., come è noto, asserisce che il giusto processo è “regolato dalla legge”; il che, di nuovo, conferma che il diritto al contraddittorio, quale condizione prima di un giusto processo, deve essere assicurato dalla legge, e non rimesso alla discrezionalità del giudice, caso per caso, come se esistessero casi nei quali l’esercizio di esso non sia né necessario né opportuno.
b) In secondo luogo il processo civile deve normalmente rispondere ad un principio di legalità, ovvero deve svolgersi secondo regole predeterminate dalla legge; e queste regole hanno una funzione pubblica, che è quella di far sì che le parti, una volta che entrino in un Tribunale, conoscano a priori le modalità di svolgimento del rito che utilizza il giudice per decidere le sorti dei loro diritti soggettivi.
Ora, di nuovo, nessuno ha mai messo in discussione che nel corso del processo il giudice, possa, ai sensi dell’art. 175 c.p.c. esercitare “tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento”, ma tra questi poteri non è mai rientrato quelli di inventarsi norme che non esistono o capovolgere le assi portanti del procedimento, quali quelle, oggi, della struttura della prima udienza ex art. 183 c.p.c., che la stessa norma rubrica come “prima comparizione delle parti e trattazione della causa”, nonché quella di predisporre delle attività procedimentali non previste dalla legge e che si antepongano alla prima udienza, modificando l’iter fissato dai nuovi artt. 171 bis e ter c.p.c.
Che oggi ciò sia necessario per le scelte discutibili fatte dalla riforma Cartabia non v’è dubbio; ma che la soluzione invece di essere quella di dichiarare incostituzionale la norma sia quella di dar vita ad un correttivo non corrispondente al testo, e non previsto dalla legge, e rimesso alla discrezionalità del giudice, appare scelta discutibile, per non usare espressioni più forti, poiché in questo modo si attribuiscono al giudice poteri che questi non può avere, e perché in questo modo salta il principio di legalità del processo, che è quello che giustifica l’esistenza di un codice di procedura civile in un sistema, quale il nostro, che ancora deve essere considerato di civil law.
E, direi, che in questo senso è anche la giurisprudenza che ha preso posizione sull’art. 175 c.p.c., visto che per essa il giudice può “evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo”[16], ma non certo spingersi fino a rendersi autore delle regole, poiché ciò contrasterebbe con i fondamenti del nostro diritto.
c) La soluzione prescelta dalla Corte costituzionale, infine, a me sembra discutibile anche sotto il profilo delle fonti del diritto, che, sempre nel nostro sistema di civil law, non sono riconducibili al giudice.
Bisognerebbe porsi il problema, allora, dei limiti delle sentenze additive della Corte costituzionale: poiché è evidente che una cosa è asserire che una disposizione è costituzionale se interpretata in un certo modo, altra cosa è inventarsi un rito non previsto dalla legge per salvare dall’incostituzionalità una legge.
Qui la Corte costituzionale è arrivata ad asserire:
ca) che il giudice può disporre un’udienza ad hoc che si antepone alla prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c.: “Ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto, una udienza ad hoc”;
cb) che il giudice può consentire che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione;
cc) poi ancora si precisa che le parti possono chiedere l’udienza ad hoc, ovvero una udienza prima di quella dell’art. 183 c.p.c., anche nelle ipotesi nelle quali il giudice abbia assunto la decisione con il decreto ex art. 171 bis c.p.c. e se il giudice disattende questa richiesta all’udienza ex art. 183 c.p.c. “non può quest’ultimo, una volta rimasto inadempiuto l’ordine in questione, assumere provvedimenti sanzionatori in chiave processuale ma adotta quelli necessari per l’ulteriore corso del giudizio”;
cd) e poi ancora “ove la parte non abbia sollecitato il giudice a realizzare il contraddittorio anche prima dell’udienza di comparizione... non vi sarebbe un vulnus al diritto di difesa… rimarrebbero, nel caso di conferma, con ordinanza, del decreto ex art. 171 bis c.p.c., le ordinarie conseguenze della mancata ottemperanza all’onere processuale”.
Si tratta, in buona sostanza, della riscrittura degli atti introduttivi del processo, che riterrei non consentito al giudice delle leggi[17].
III. L’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 76 Cost. e dell’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021.
3. Possiamo passare all’analisi dell’eccesso di delega.
Sul punto, la Corte costituzionale ha asserito che deve attribuirsi una certa “discrezionalità del legislatore delegato, il quale è chiamato a sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge delega, potendo così ben svolgere un’attività di riempimento normativo, che è pur sempre esercizio delegato di una funzione legislativa” (così ancora la Corte Cost. 3 giugno 2024 n. 96).
E ha aggiunto la Corte costituzionale: “se effettivamente l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione, da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio”; poiché, appunto, “volta a realizzare il generale canone della concentrazione processuale sancito dalla lettera a) del medesimo l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021”.
3.1. Ora, par evidente, che se il legislatore delegato è tenuto non solo ad eseguire, bensì anche a svolgere un’attività di riempimento normativo, e se per riempimento normativo si intende che il legislatore delegato può inserire nel decreto legislativo qualunque cosa si collochi nel generale canone della concentrazione processuale, allora, potremmo dire, in verità, che il concetto stesso di eccesso di delega entra inevitabilmente in crisi.
Ed anzi, a questo punto, potremmo aggiungere che, dipendendo l’eccesso di delega da valutazioni del tutto discrezionali quali quelle della ratio delle norme, e/o del raggiungimento degli obiettivi delle norme, ecc….. non solo il legislatore delegato può fare così un po’ quello che vuole a fronte della legge delega, ma anche il giudice costituzionale è libero di decidere quello che ritiene più opportuno, se le verifiche si collocano su un terreno totalmente elastico e del tutto relativo quale quello che si ricava da simili posizioni (seppur già sostenute in altri precedenti della Corte costituzionale, ancora si ricordano i precedenti n. 79 del 2019, n. 198 del 2018 e n. 104 del 2017).
Ed infatti, se nel raffronto tra l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 e l’art. 171 bis c.p.c. non si scorgono eccessi di delega nonostante la prima disposizione non contempli alcuna verifica preliminare da decidere con decreto in assenza di contraddittorio e prima di ogni udienza tra le parti, e l’eccesso di delega non vi sarebbe perché il decreto legislativo è rimasto comunque coerente con l’esigenza della concentrazione e della ragionevole durata del processo, beh, allora, è provato che tutto, e il contrario di tutto, può ben costituire o non costituire eccesso di delega.
3.2. Direi, alla luce di ciò, che oggi, forse, sarebbe più coerente affermare che, in una realtà nella quale ormai la contrapposizione tra funzione legislativa ed esecutiva si è persa, e il Governo si è sostanzialmente appropriato anche della funzione legislativa svuotando le funzioni del Parlamento, è un lusso continuare a discutere di eccesso di delega, e che conseguentemente il rispetto dell’art. 76 cost. deve porsi nel nostro tempo solo in termini assai sfumati.
E se questa conclusione vale in generale nell’ambito del diritto costituzionale, ancor più vale per la recente riforma del processo civile, visto che la legge delega n. 206 del 2021, preparata in ogni sua parte dallo stesso Governo, veniva approvata dal Parlamento senza discussione, a fronte della fiducia posta su essa; e proprio al fine di evitare ogni discussione parlamentare, il disegno di legge delega veniva riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662; un nuovo, unico articolo lungo ben 39 pagine.
In meccanismi di questo genere, il tema dell’eccesso di delega possiamo davvero ritenerlo (per i nostalgici come me, purtroppo) uno strumento del passato.
3.3. In ogni caso, in tutta onestà intellettuale, nessuno poteva davvero pensare che la Corte costituzionale dichiarasse incostituzionale l’art. 171 bis c.p.c. per eccesso di delega, e probabilmente bene ha fatto la Corte a non cedere a questa idea.
La riforma di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 è piena di eccessi di delega, e se si dovesse andare a verificare, norma per norma, se vi sono stati degli eccessi nel passaggio dalla legge delega al decreto legislativo, allora tutta la riforma rischierebbe di cadere.
Io stesso, nel mio commento al Tribunale di Verona 23 settembre 2023 ne ricordavo ludicamente almeno quattro di questi eccessi, tutti aventi ad oggetto momenti centrali del nuovo processo civile: tra questi la disciplina della sinteticità e chiarezza degli atti processuali, oggi regolati dal decreto ministeriale 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione dell’art. 46 delle disp. att. c.p.c., la disciplina delle udienze cartolari e a distanza, regolate dagli artt. 127 bis e ter c.p.c., la disciplina della nuova procedura in appello di cui agli artt. 348 bis, 349 bis, 350, 3° comma, 350 bis c.p.c., e infine la disciplina del procedimento in cassazione ex nuovo art. 380 bis c.p.c.
Però, che facciamo?
Abroghiamo una riforma voluta dal PNRR?
Io, tra il serio e il faceto (direi più faceto che serio), proponevo di porre allora, accanto all’istituto dell’eccesso di delega, quello del ripensamento: una cosa è l’eccesso di delega, come tale incostituzionale; altra cosa il ripensamento, irrilevante invece.
Il Governo, quando ha scritto la legge delega, pensava di poter fare una cosa, poi ne ha fatta un’altra; evidentemente ha cambiato idea, che male c’è?
A tutti deve essere riconosciuto il diritto che i romani etichettavano con l’espressione re melius perpensa.
IV. L’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 3 Cost. e del principio di parità di trattamento tra questioni rilevabili d’ufficio.
4. Resta, infine, in tema dell’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto l’art. 171 bis c.p.c. dispone che il giudice possa decidere alcune questioni preliminari, ovvero quelle indicate nella norma, con decreto avanti il contraddittorio tra le parti, mentre tutte le altre verifiche preliminari, ovvero quelle non menzionate dalla norma, devono essere trattate dopo il contraddittorio e successivamente all’udienza ex art. 183 c.p.c.
La Corte costituzionale ha dichiarato anche questa questione infondata, perché il differente trattamento trova un sua ragion d’essere, che è quella che alcuni provvedimenti attengono a questioni più liquide, e sono così più funzionali alla necessità di non perder tempo, mentre altri non hanno queste caratteristiche.
Ed infatti, per la Corte costituzionale: “Tale diversa regola processuale appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti hanno sui tempi di svolgimento del giudizio”, e poi perché alcune “verifiche preliminari si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti”.
Ora, anche qui, che talune questioni preliminari si pongano diversamente rispetto ad altre a fronte del principio di ragionevole durata del processo appare affermazione non dimostrata, né la sentenza contiene alcun esempio per giustificare in concreto una simile differenziazione, e né ancora la legge delega poneva distinzioni tra questioni e questioni.
L’incompetenza del giudice, o il difetto di giurisdizione si pongano diversamente rispetto alla nullità della notificazione in punto di ragionevole durata del processo?
E ancora, come può sostenersi che alcune questioni, per materia, siano più liquide di altre, e non invece la liquidità di una questione dipenda semplicemente dalla complessità o meno del caso in concreto, senza che sia possibile darsi a priori la condizione di liquidità a seconda della materia?
Così, è sempre liquida una questione che cada in tema di litisconsorzio necessario, oppure di nullità della citazione, o ancora di intervento di un terzo al processo per ordine del giudice?
E parimenti non è mai liquida una questione preliminare non richiamata nell’art. 171 bis c.p.c. quale ad esempio quella relativa all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.?
Io credo che a queste domande non si possa con tranquillità rispondere in un senso o nell’altro, cosicché anche il tema del rispetto dell’art. 3 Cost. da parte del nuovo art. 171 bis c.p.c. doveva apparire, a mio sommesso parere, affatto chiara.
V. Osservazioni sullo stato del processo civile del nostro tempo. Giudicare e rassicurare
5. Ora, dovendo dare uno sguardo conclusivo d’insieme alla sentenza in commento, potremmo aggiungere che la Corte costituzionale non ha negato l’esistenza delle incostituzionalità sollevate dal Tribunale di Verona, solo che, per ognuna di esse, invece di scegliere la dichiarazione di incostituzionalità, ha preferito trovare una rassicurazione: a) il decreto di cui all’art. 171 bis c.p.c. è pronunciato sulle verifiche preliminari senza interlocuzione con le parti, è vero, ma la norma non è incostituzionale, perché il giudice può sempre disporre il contraddittorio anticipato nei casi più dubbi o complessi, e in ogni caso le parti possono sempre successivamente chiedere la revoca o la modifica di quella decisione; b) l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non prevedeva assolutamente un decreto che il giudice potesse pronunciare sulle verifiche preliminari avanti la prima udienza, è vero, ma l’art. 171 bis c.p.c. non si espone ad eccesso di delega, poiché il legislatore delegato può svolgere un’attività di riempimento normativo e comunque la norma ha come fine quello di contenere la durata del processi in una ottica di concentrazione; c) infine l’art. 171 bis c.p.c. differenzia sì le questioni attinenti alle verifiche preliminari, prevendendo che solo alcune possano essere decise immediatamente con decreto ed altre no, è vero, ma la norma non difetta sotto il profilo del principio di eguaglianza, in quanto la differenziazione ha una sua giustificazione, dovuta al fatto che le questioni scelte dall’art. 171 bis c.p.c. sono quelle più liquide e maggiormente idonee ad assolvere il compito di concentrazione delle attività processuali voluto dalla riforma Cartabia.
Quando ero adolescente, negli anni ’70, girava una frase che diceva: “Piove, Governo ladro!”, che significava un po’ che la colpa era sempre del Governo, anche quando il Governo, in verità, non aveva affatto colpe.
Oggi la tendenza mi sembra esattamente la contraria: il Governo non sbaglia mai, e tutto, in un modo o nell’altro, va sempre bene.
Questa idea secondo la quale tutto va sempre bene, ha fatto sì che di riforma in riforma, di intervento e intervento, si sia sostanzialmente capovolto le assi portanti del nostro processo civile, che oggi si presenta completamente trasformato, senza più regole fisse, senza più prederminazioni, senza distinzioni.
Quando negli anni ’30 Piero Calamandrei scriveva il suo breve articolo dal titolo Abolizione del processo civile?, il timore che egli aveva ero quello della soppressione del codice di rito a favore di un procedimento senza regole, in seno al quale il giudice potesse decidere dei diritti delle parti in modo libero e discrezionale.
Oggi si rischia di arrivare a quel risultato senza più nemmeno avere la necessità di abolire il codice: una rivoluzione.
Qual è, infatti, lo stato della procedura civile del nostro tempo?
È quello nel quale, data una certa procedura, il giudice può inventarne un'altra, se la ritiene più funzionale alla concentrazione processuale e al rispetto del contraddittorio; è quello dove il diritto fondamentale al contraddittorio può essere assicurato dal giudice e non necessariamente dalla legge; è quello, conseguenziale, nel quale non si ritiene più necessario che il cittadino abbia conoscenza predeterminata dalla legge delle regole processuali, e nessun problema si ha se questi debba invece scoprirle strada facendo, caso per caso; è quello nel quale le fonti del diritto si sfumano, e così anche l’autorità giudiziaria può essere, a pieno titolo, considerata fonte di diritto; è quello nel quale non si avverte più la differenza tra un decreto e un’ordinanza; è quello nel quale un decreto può avere ad oggetto anche la decisione di diritti processuali controversi e può essere modificabile e revocabile al pari delle ordinanze; è quello dove non è grave che il Governo svolga di fatto funzioni legislative e dove l’eccesso di delega (praticamente) non esista più; ed è quello, soprattutto, dove tutto va bene se il fine è il rispetto delle direttive europee.
VI. Orelsan e il poema “Tout va bien”.
6. Questa situazione, se mi è consentita una nota di colore in chiusura, a me ricorda il cantante francese Orelsan, il quale, nello spiegare ad un bambino come va il mondo, lo rassicura dicendo “Tout va bien”.
L’adulto spiega al bambino che: se un sans abri dorme per strada, è perché ama il rumore delle automobili; se una donna è piena di macchie su tutto il corpo, è perché ha giocato con le pitture; se un soldato in guerra è sparito, è perché si è riunito ad altri, lontano, in un girotondo, mano nella mano; Petit, tout va bien.
Poi l’adulto, in un’immagine che a me ricorda Giovanni Pascoli, dice al bambino: “Dormi, dormi!”.
[1] V. infatti G. SCARSELLI, Il Tribunale di Verona dubita della legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c., www.giustiziainsieme.it. 14 novembre 2023.
[2] V. anche M. BOVE, La trattazione nel processo ordinario di primo grado tra riforma Cartabia, intervento della Corte costituzionale e annunciato correttivo, in www, judicium.it.
[3] V. anche F.M. SIMONCINI, Le verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c. al vaglio della Corte costituzionale, in www, judicium.it, 22 febbraio 2024; D. VOLPINO, Il nuovo art. 171 bis c.p.c. censurato di incostituzionalità, Giur. it., 2024, 1080.
[4]V. anche N. GIUDICEANDREA, Decreto (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. del diritto, Milano, XI, 1962, 824.
[5] V. anche LANCELLOTTI, Decreto, voce del Noviss. dig.it., Torino, 1960, V, 278; LUZZATTI, Decreto, in Enc. forense, Milano, 1958, III, 36.
[6] CHIOVENDA, Istituzione di diritto processuale civile, Napoli, 1934, II, 357.
[7] ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, II, 378.
[8] SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1981, 212.
[9] PUNZI, Il processo civile, Torino, 2010, I, 41.
[10] MONTELEONE. Manuale di diritto processuale civile, Padova, 2007, I, 291.
[11] Né un ripensamento in tal senso sembra giungere dal c.d. decreto correttivo, che non solo conferma la decisione con decreto delle verifiche preliminari, ma anzi aggiunge un ulteriore potere ‘d’ufficio del giudice senza contraddittorio qual è quello di passare al rito sommario prima dell’interlocuzione di ciò con le parti.
[12] In argomento v. anche C. TRAPUZZANO, Sulle verifiche preliminari opera la garanzia del contraddittorio, anche in chiave postuma, in Il Quotidiano giuridico, on line.
[13] NAPPI, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1941, I, 771.
[14] Ancora SATTA, Diritto processuale civile, cit., 212.
[15] PUNZI, Il processo civile, cit., I, 41.
[16] v., infatti, ad esempio, Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass. 1 marzo 2012 n. 3189; Cass. 27 gennaio 2017 n. 2044; Cass. 9 gennaio 2019 n. 267; Cass. 27 maggio 2019 n. 14365.
[17] Sul punto v. anche C. CECCHELLA, Sentenza 96/24: il rigetto della questione di costituzionalità come fonte del diritto, Il Dubbio, 5 giugno 2024.
Immagine: John Koch, Padre e figlio (autoritratto), olio su tela, 1955, Kraushaar Galleries, New York.
L'ultimo articolo di Giacomo Matteotti - cento anni dopo
di Margherita Occhilupo
Questo articolo è apparso nel numero di luglio 1924 del periodico inglese English Life fondato da Brendan Bracken, uno degli amici più stretti di Winston Churchill che sarà poi Ministro dell'Informazione del suo governo tra il 1940 e il 1945. Si ritiene che Giacomo Matteotti lo abbia scritto nei primi giorni di giugno del 1924 [1]: questo lo rende uno degli ultimi testi a sua firma. Il contenuto fu parzialmente anticipato dalla stampa inglese nella seconda metà del giugno del ‘24, quando i giornali di tutta Europa denunciano incessantemente la scomparsa del deputato socialista. Matteotti oltre al suo costante impegno parlamentare e al suo lavoro sul territorio italiano, di cui molto si è detto su questa Rivista, aveva anche contribuito alla costruzione di un’opposizione internazionale al fascismo, viaggiando in tutta Europa e creando legami tra partiti socialisti e sindacati. Il suo rapimento ebbe un’immediata risonanza nei giornali di tutto il mondo occidentale, che seguirono la vicenda nel corso dell’estate del 1924 e poi continuarono a onorarne la memoria per decenni.
L'articolo "Machiavelli, Mussolini and Fascism", di cui pubblichiamo oggi una traduzione di servizio, è una risposta di Matteotti all'articolo a firma di Benito Mussolini apparso nel numero di giugno 1924 di English Life. Si trattava della rielaborazione, tradotta in inglese con il titolo “The Folly of democracy”[2], di uno scritto di Mussolini, "Preludio al Machiavelli”, già pubblicato in Italia sulla rivista Gerarchia nell’aprile del 1924, «nel quale, dietro la “disinvolta” attualizzazione dell’opera machiavelliana, si nasconde un atto di accusa alla democrazia e una feroce critica delle istituzioni politiche liberali»[3].
In questo scritto Matteotti confuta le storture dell’interpretazione che Mussolini dà al “Principe” di Machiavelli e afferma con incredibile lungimiranza che una delle peggiori creazioni di Mussolini sono i fascisti, ovvero il permearsi della mentalità e dei metodi fascisti nelle pratiche e nelle idee dei cittadini. Denuncia inoltre la corruzione degli alti funzionari fascisti, in particolare con riferimento alla convenzione siglata nell’aprile del 1924 dal Ministro dell’Economia nazionale con la compagnia petrolifera Sinclair Oil. L’affare Sinclar Oil fu poi utilizzato ai fini del depistaggio delle indagini per l’omicidio di Matteotti: collegare il delitto alla scoperta di fatti di corruzione portava a individuare come possibili mandanti soggetti diversi da Mussolini, in realtà l'unico mandante dell’omicidio. Matteotti fu fatto uccidere da Mussolini poiché era il più strenuo oppositore del regime fascista, il primo antifascista. Il depistaggio rallentò le indagini e consentì al regime di riassettarsi dopo “l’affare Matteotti” e così, con il trasferimento a Chieti, tutto finì con il “processo farsa”.
Come riporta l’occhiello dell’articolo «dal momento in cui questo articolo è stato scritto, Matteotti è stato rapito da alcuni sostenitori del fascismo ("Fascisti supporters") e la sua sorte è ancora ignota».
Il corpo dell’onorevole Giacomo Matteotti, assassinato da sicari fascisti il 10 giugno 1924, sarà ritrovato solo il 16 agosto 1924 alle porte di Roma e poi sepolto a Fratta Polesine, suo paese natale. Su questa Rivista abbiamo ricordato diffusamente la sua vita, il suo pensiero, il suo lavoro e l’importanza del suo contributo alle istanze antifasciste di tutta Europa. Si vedano: Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Con questo contributo la Redazione di Giustizia Insieme, nel ricordo vivo di Giacomo Matteotti, saluta le lettrici e i lettori.
Ci ritroveremo a settembre. Buona lettura e buona estate!
Machiavelli, Mussolini e il fascismo
di Giacomo Matteotti
Segretario politico del Partito Socialista Italiano
Questo articolo è una risposta all'articolo del signor Mussolini apparso sul numero di giugno di English Life. Dal momento in cui questo articolo è stato scritto, il signor Matteotti è stato rapito da alcuni sostenitori del fascismo e la sua sorte è ancora ignota.
La democrazia inglese è stata recentemente allietata dalla conversione del signor Mussolini ai principi machiavelliani. Nel suo stravagante articolo su Machiavelli chiarisce che la forza è la sua unica guida politica. Le sue osservazioni su Machiavelli sono da inquadrare in forma perpetua in una tesi universitaria. Sono degne di essere analizzate da chi ha esperienza delle teorie di Mussolini applicate al governo. Egli afferma che «pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Ma ci sono molti cittadini disposti a rovesciare quell'altare e a sacrificare lo Stato per i propri scopi. La rivoluzione francese e altre rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C'è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutt’al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso.»
«Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Mi sostiene in questa opinione una pregnante citazione del “Principe” di Machiavelli: “Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono”. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. “E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fossero stati disarmati.»
Ci si può chiedere se l'Inghilterra, il Paese di Gladstone e Bright, apprezzerà sentimenti tirannici così violenti - penso di no. La mia ultima esperienza in Inghilterra dimostra che il regime democratico si sta lentamente ma certamente imponendo sui vasti interessi imperiali dell'Inghilterra. Si tratta di una crescita graduale che sarà favorita da indiscrezioni come l'adesione di Mussolini ai principi infernali di Machiavelli. Quando Mussolini pone la domanda: «Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso.» La risposta è che la povera e laboriosa gente comune si dichiarerebbe a stragrande maggioranza contro la guerra se fosse concesso loro un referendum. E perché no? Il mondo è decimato, impoverito e lacerato dalle terribili conseguenze dell'ultima guerra. Se nei Paesi coinvolti fossero stati indetti dei referendum, non ci sarebbe stata la guerra.
Secondo Mussolini i profeti armati conquistano. Potrebbe essere così. Ma le loro conquiste sono permanenti? No! Mussolini stesso, con grande energia, ha costruito una forma di governo dipendente dalla spada, dalla violenza, dalle perversioni politiche. Il vigore delle sue idee, il potere dei suoi spietati seguaci hanno soppresso per un certo periodo la democrazia italiana. Essa risorgerà. Il governo fascista è già gravemente pregiudicato dai metodi dei suoi leader e dalle sinistre attività commerciali perseguite da alti funzionari il cui formidabile potere impedisce il controllo pubblico dei beni che amministrano. Queste cose non possono essere soffocate ancora a lungo. Già adesso emergono fatti sui quali il nostro Paese sarà chiamato in giudizio.
La condotta della Banca Commerciale con riguardo al prestito polacco è un esempio dell'avarizia sfrenata permessa dai governanti fascisti. Molto più gravi sono le azioni del Ministero dell'Economia Nazionale nei suoi rapporti con la Sinclair Oil Company. Il Senatore Corbino, Ministro dell'Economia Nazionale, ha consegnato vasti spazi di terra in Emilia e in Sicilia contenenti oltre 100.000 ettari* (*circa 250.000 acri) di ricchi giacimenti di petrolio alla Sinclair Oil Company, collegata alla tentacolare Standard Oil Trust. Questo territorio immensamente ricco viene conferito a una società straniera senza garanzie. La natura sorprendente di questa concessione è illustrata dal nono paragrafo del comunicato ufficiale del governo: “La concessione comprende la produzione di oli minerali, gas e relativi prodotti idrocarburi, mentre lo sfruttamento delle rocce bituminose è riservato alle imprese italiane. L'accordo ha una durata di 50 anni. I privilegi fiscali concessi alla società sono i seguenti: a) Esenzione dai dazi d'importazione per i macchinari necessari alla società qualora non sia possibile ottenerli da imprese italiane. In ogni caso è riservata la preferenza per la fornitura di tali macchinari, a parità di altre condizioni; b) Esenzione dall'imposta sul reddito per i primi dieci anni.” Siamo già a conoscenza di molte gravi irregolarità relative a questa concessione. Alti funzionari possono essere accusati di corruzione e tradimento o del più vergognoso mercimonio. Molto più sinistro è il comportamento di molti fascisti al potere, che praticano un prelievo capillare su imprese private e semipubbliche allo scopo di finanziare giornali fascisti e altre organizzazioni per il loro interesse e profitto.
Quando Mussolini afferma nel suo articolo su Machiavelli che “c'è poca giustificazione morale per il governo rappresentativo”, potrebbe esaminare il sistema da lui stesso costruito, che è in parte un oltraggio alla moralità. Mentre è impegnato a denunciare i difetti della democrazia, una parte incontrollabile dei suoi seguaci commette crimini di violenza e ricatto. Egli fa pochi sforzi per rimproverarli, non può sopprimerli, perché dalle loro spalle è salito sul suo alto seggio. Lo hanno messo lì considerandolo un loro sostenitore, e lui è impotente nel controllare i loro disegni malvagi. Machiavelli avrebbe permesso questa situazione? Non lo avrebbe fatto. Sapeva che uno Stato deve perire se i prepotenti privilegiati possono commettere crimini senza restrizioni. Mussolini invoca la sua autorità per giustificare la sua politica. Dovrebbe leggere il suo Maestro con maggiore impegno. Che si rivolga al capitolo diciottesimo del “Principe” e legga cosa pensava Machiavelli a proposito del governo: «si può combattere in due modi: con le leggi o con la forza. Il primo è tipico dell'uomo, il secondo degli animali.»
O ancora nel nono capitolo del “Principe”. «E non venitemi fuori con quel vecchio e trito che chi si fonda sul popolo si fonda sul fango. Questo è vero per un privato cittadino che fa affidamento sul popolo e spera che il popolo lo salvi se egli fosse oppresso da nemici o da funzionari. Scoprirebbe subito di esseri ingannato, come avvenne a Roma ai Gracchi e a Firenze a Giorgio Scali. Ma quando invece è in principe a fare affidamento sul popolo, un principe che sappia comandare ed umano e non si lasci turbare dalla avversità e sia preparato ad affrontare la situazione, e tenga in pugno con il coraggio e gli ordini tutto il popolo, non sarà ingannato da esso e scoprirà di aver creato delle buone fondamenta.»
La democrazia in Italia può ora assopirsi, ma sentimenti come quelli di Mussolini non possono non rubare il loro sonno. Invece di effusioni rozze come questo articolo su Machiavelli, Mussolini potrebbe applicarsi nel purificare la sua creazione - i fascisti - le cui azioni pubbliche tendono a rendere l'Italia infame in tutto il mondo.
Machiavelli, Mussolini and Fascism
By Giacomo Matteotti
Political Secretary of the Italian Socialist Party
This article is a reply to the article by Signor Mussolini which appeared in the June number of ENGLISH LIFE. Since this article was written Signor Matteotti was kidnapped by some Fascisti supporters and his fate is not yet known.
The democracy of England has lately been entertained by Signor Mussolini’s conversion to Machiavellian principles. In his extravagant article on Machiavelli it makes it clear that force is his sole political guide. His observations upon Machiavelli are to be incorporated in perpetual form in a University thesis. They are worthy of analysis by one who has experience of Mussolini’s theories applied to government. He says that
«there are very few heroes and saints who are now prepared to sacrifice themselves on the altar of the State. But there are many citizens willing to upset the altar and sacrifice that State for their own purposes. The French revolution and other revolutions were an attempt to make government subject to the free will of the people. This theory is based on foolishness and untruths. Why? First of all the people have never been defined. Such a theory is merely a political abstraction. No one knows where it commences or where it ends. The adjective “sovereign” applied to the people is a tragic farce. At most the people appoint delegates, but it is absurd to suppose that the people exercise sovereignty. There is little moral justification for representative government, but a great deal can be said for its mechanical usefulness. Even in countries where representative government has always obtained, a time occurs when it is fatal to consult the people. In times of war the cardboard crown of sovereignty is stripped from the people (for it is only fit for normal times) and the people have no alternative but to plunge into the unknown perils of war or to declare for revolution. For such occasions the people have but one duty to affirm and obey. It is evident that the sovereignty graciously granted to the people is taken from it at the time when it is most needed. In fact it is only allowed to continue when it is innocuous or considered as such, that is to say during the placid course of ordinary administration. Concerning this point, I should like to submit this question. Can anyone imagine a war being declared by referendum? A referendum is a very good thing when it is a question of choosing the best spot for placing the village pump. But when the supreme interests of the people are at stake even the most ultra-democratic Governments take care not to submit them to the judgment of the people.»
«Governments based exclusively on the will of the people have never existed, do not exist, and will probably never exist. I am supported in this view by a pregnant quotation from Machiavelli “Prince”: “Armed prophets conquer; those who are unarmed are ruined”. Because the nature of peoples is changeable; and while it is easy to persuade them of a thing, it is difficult to maintain them in the same persuasion. Therefore it is well to arrange things so that when people no longer believe they could be made to believe through force. Moses, Cyrus, Theseus and Romulus would not have been able to enforce their constitutions for long had they been disarmed”.»
One makes bold to wonder whether England, the country of Gladstone and Bright, will appreciate such violent tyrannical sentiments – I think not. My last experience of England shows that democratic rule is slowly but surely impressing itself upon the vast imperial interests of England. It is a gradual growth which will be helped by such indiscretions as Mussolini’s championship of the hellish principles of Machiavelli. When Mussolini asks the question «can anyone imagine a war being declared by a referendum? A referendum is a very good thing when it is a question or choosing the best spot for placing the village pump but when the supreme interests of the people are at stake even the most ultra-democratic government take care not to submit them to the judgment of the people.» The answer is that the poor toiling common people would overwhelmingly declare against war if a referendum were granted to them. And why not? The world is decimated, beggared and torn asunder but the awful consequences of the late war. If referendums had been taken in the countries involved, there would have been no war.
According to Mussolini armed prophets conquer. It may be so. But are their conquests permanent? No! Mussolini himself, by great energy has made a form of government dependent upon the sword, upon violence, upon political perversions. The vigour of his views, the power of his ruthless followers have for a time suppressed the democracy of Italy. It will rise again. Already the Fascist rule is gravely prejudiced by the methods of its leaders and by the sinister commercial activities pursued by high officials whose formidable power prevents public supervision of the trust they administer. Such things cannot long be stifled. Even now facts emerge upon which our country will be called to pass judgment.
The conduct of the Banca Commerciale in regard to the Polish loan is an instance of the unbridled avarice permitted by the Fascisti rulers. Much worse are the actions of the Ministry of National Economy in its dealings with the Sinclair Oil Company. Senator Corbino, the Minister of National Economy as handed over vast spaces of land in Emilia and Sicily containing over 100,000th hectares* (*about 250,000 acres) of rich oil deposits to the Sinclair Oil Company which is connected with the octopus-like Standard Oil Trust. These immensely rich territory is conferred upon a foreign company without safeguards. The startling nature of this concession is illustrated by the ninth paragraph of the official communique of the government: – “The concession embraces the production of mineral oils, gas and relative hydro-carbon products while the exploitation of bituminous rocks is reserved for Italian Enterprise. The agreement has a duration of 50 years. The fiscal privileges conceded to the company are as follows: a) Exemption from import duties in the case of machinery required by the company should it not be feasible to obtain such machinery from Italian firms. In every case the preference of furnishing these machinery is reserved, should all other terms be equal; (b) Exemption from income tax for the first ten years.”
We are already aware of many grave irregularities concerning this concession. High officials can be charged with treasonable corruption or of the most disgraceful jobbery. Far more sinister is the conduct of many leading Fascisti, who conduct a widespread levy upon private and semi-public enterprises with the object of maintaining Fascist newspapers and other organizations for their interest and profit.
When Mussolini states in his article upon Machiavelli that «there is little moral justification for representative government» he might examine the system built by himself, which is in parts an outrage against morality.
While he’s busy denouncing the defects of democracy, an uncontrollable section of his followers are committing crimes of violence and blackmail. He makes little effort to rebuke them, he cannot suppress them, for upon their shoulders he has climbed to his high seat. They having put him there regarding him as their supporter, and he is powerless to control their evil designs.
Would Machiavelli have permitted this situation? He would not. He knew that a State must perish if privileged bullies can commit crimes without restriction. Mussolini invokes his authority to justify his policy. He should read his Master with greater application. Let him turn to the eighteenth chapter of the “Prince” and read what Machiavelli thought concerning Government. «It should therefore be known that there are two ways of deciding any question. The one by laws. The other by force. The first is peculiar to men, the second to beasts».
Or again in the ninth chapter of the “Prince”. «Let no one quote the old proverb against me that he who relies on the people builds on a sandy foundation. It may be true of a single citizen opposed to powerful enemies or oppressed by the magistrates as happened to the Gracchi at Rome and to George Scali at Florence; but a prince who is not deficient in courage and is able to command, who is not dejected by ill fortune, not deficient in necessary preparations, knows how to preserve order in his States by his own valour and conduct, need never repent of having laid the foundation of the security on his people’s affections.»
The democracy in Italy may now slumber, by sentiments such as Mussolini’s cannot fail to steal their sloth. Instead of such crude effusions as this article on Machiavelli, Mussolini might apply himself to cleansing his creation – the Fascisti – whose public actions tend to make Italy infamous throughout the world.
[1] https://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/leg19/file/ASSR37_Chronicon.pdf
[2] “La follia della democrazia”. Una trascrizione dell’articolo inglese di Mussolini è reperibile qui https://andreapisauro.com/1924/06/01/the-folly-of-democracy/.
[3] MITAROTONDO L., The Folly of Democracy? Una pagina di resistenza e dissenso al Machiavelli in camicia nera, in Libertà uguaglianza democrazia nel pensiero politico europeo (XVI-XXI secolo), a cura di R. BUFANO, Lecce, Milella [«Politica Storia Progetto», n.7], 2018, pp. 165-180 (ISBN: 978- 88-3329-022-5).
Intervento alla cerimonia di commemorazione di Boris Giuliano
Scuola della Polizia di Stato (Roma, 23 luglio 2024)
Saluto con deferenza il Presidente della Repubblica, al quale porgo gli auguri più fervidi nel giorno del suo compleanno, esprimendo la mia gratitudine di cittadino e di magistrato per la guida saggia e illuminata che Egli assicura alla vita repubblicana.
Ringrazio il Capo della Polizia per l’iniziativa di dedicare al nome di Giorgio Boris Giuliano uno degli edifici di questa prestigiosa Scuola.
Una scelta che contribuisce a rinnovare il dovere di inchinarsi dinanzi al ricordo di un coraggioso servitore dello Stato, ma che impone anche di riconoscere il debito morale generato dalla consapevolezza che quel delitto fu il terribile epilogo di una vicenda profondamente segnata dalla solitudine istituzionale della vittima.
Una condizione che rese agevole il calcolo che precede l’assassinio: come era già avvenuto e come sarebbe ancora accaduto in quella Sicilia dove, secondo le parole dello storico Salvatore Lupo, negli ambienti polizieschi e giudiziari la maggioranza restava al riparo dell’ordinaria amministrazione, “per incapacità, o pigrizia, o paura, o complicità”.
Una condizione che rendeva immediatamente riconoscibili, non soltanto agli occhi di cosa nostra, i “morituri”: i pochi che sapevano dare prova di impegno efficace e intelligente.
È ciò che avvenne per Boris Giuliano.
La moglie Ines Maria, alla quale va oggi il mio omaggio devoto, lo ricordò ancora nell’aprile 1981 in una drammatica lettera al CSM, indicando i comportamenti passivi e remissivi di magistrati del tempo come fattore determinante dell’isolamento di un uomo inevitabilmente esposto alla rappresaglia mafiosa.
Fu così per Boris Giuliano.
Così come sarebbe stato da lì a poco anche per Cesare Terranova, Gaetano Costa e Giangiacomo Ciaccio Montalto.
Anche loro vittime di una violenza mafiosa che si scatenava quando ormai la vittima era già isolata in ambienti nei quali imperava la tentazione a lasciar andare tutto, senza concludere niente: per incompetenza, rassegnazione, indifferenza o compromissione.
Ben si comprende allora il senso profondo delle amare conclusioni che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino consegnarono nella sentenza-ordinanza che diede forma al Maxi processo, scrivendo: “se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.
Parole che muovevano dal riconoscimento del grande valore delle indagini, “accurate e fruttuose”, che avevano condotto Boris Giuliano a scorgere, prima di tutti, il ruolo assunto da cosa nostra nel traffico internazionale degli stupefacenti e a percorrere con determinazione e lungimiranza le strade della cooperazione internazionale, innanzitutto con le agenzie americane che indagavano sulle importazioni dalla Sicilia della morfina base che inondava le strade di New York.
Per comprendere il significato innovatore dell’opera di Boris Giuliano basterebbe ricordare la modernità di un suo rapporto del 7 maggio 1979: “Accertamenti su attività illecite condotte dal crimine organizzato in Italia e negli U.S.A., con pagamenti attraverso operazioni bancarie”.
Per la prima volta, le indagini su Cosa Nostra si proiettavano verso quel medesimo sistema bancario che vedeva in Sicilia un cugino di Stefano Bontade, allora capo della famiglia di Santa Maria di Gesù, ricevere, quale dirigente di una banca di Palermo, le richieste di informazioni del Commissario Giuliano su un’operazione di riciclaggio di 300.000 dollari del tempo che quello stesso mafioso col colletto bianco aveva disposto sotto falso nome.
Una vicenda, come avrebbe in seguito sottolineato Giovanni Falcone, che rivelava, oltre all’impegno profondo di Boris Giuliano, la sua condizione di pratica solitudine.
Falcone ne trasse una lezione fondamentale per sviluppare le indagini che, muovendo dalle intuizioni di Boris Giuliano, egli condusse sul cruciale versante dei traffici di droga fra Sicilia e Stati Uniti: occorreva procedere in modo sistematico, accumulando e verificando dati, informazioni e fatti “fino a quando la testa scoppia”, come ebbe a dire nel 1991 nella sua famosa intervista a Marcelle Padovani.
Il cambiamento fu reso possibile, dunque, solo da un’organizzazione radicalmente nuova delle indagini, sottratte alla sorte del lavoro solitario, come quello che Boris Giuliano era stato invece costretto ad intraprendere.
A ben vedere, dunque, la terribile vicenda di Boris Giuliano fu dunque una delle radici profonde dell’esperienza del pool antimafia di Palermo.
Un’altra, ancor più profonda, radice muoveva dalla consapevolezza che la minaccia mafiosa gravava ormai sulle stesse sorti della democrazia italiana, come l’omicidio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella aveva rivelato in modo eclatante e sinistro.
Una minaccia mafiosa che vedeva moltiplicare i suoi effetti destabilizzanti nell’obiettivo intreccio:
È importante ricordare oggi quella condizione di grave pericolo per la stabilità delle istituzioni democratiche, anche per comprendere appieno il valore di indagini che per la prima volta si proiettavano su due decisivi versanti:
Due direttrici di marcia nuove e feconde, che avrebbero dato grandi frutti negli anni successivi e che continuano anche oggi ad avere grande importanza.
Lo dimostrano le recenti indagini della Procura di Palermo e dell’United States Attorney Office for the Eastern District of New York, ancora una volta con il supporto dell’F.B.I.
Indagini che rivelano incredibili linee di continuità con quelle di Boris Giuliano, come dimostrato, ancora nel novembre 2023, dal nuovo arresto di quello stesso mafioso che il Commissario Giuliano aveva denunciato con il rapporto del 7 maggio 1979 che ho prima ricordato.
La collaborazione fra Italia e Stati Uniti è destinata a produrre ancora frutti importanti sull’asse Palermo-New York, ma ha un valore strategico su scala globale.
Noi lavoriamo innanzitutto per aprire ed estendere sempre più le strade della cooperazione internazionale nel contrasto della forza destabilizzante del narcotraffico e del riciclaggio dei relativi, enormi proventi.
Le tre giornate di lavoro fra decine di procuratori italiani e latino-americani svoltesi a Palermo in occasione del 32° anniversario della strage di Capaci stanno lì a dimostrarlo.
Un lavoro gomito a gomito, che ha generato nuove, importanti squadre investigative comuni e soluzioni condivise a tanti problemi delle più tradizionali forme di cooperazione giudiziaria: un incontro importante, che l’anno prossimo si rinnoverà a Rotterdam, come concordato con il Procuratore nazionale olandese e i Procuratori generali latino-americani.
Occorre proiettare sistematicamente le nostre indagini sulla dimensione globale del crimine organizzato, elaborando e condividendo progetti investigativi ambiziosi, necessari soprattutto per ricostruire i flussi finanziari a monte e a valle dei traffici di stupefacenti.
Abbiamo bisogno di sviluppare le nostre conoscenze sulla struttura e le logiche delle organizzazioni criminali che governano le rotte del narcotraffico internazionale, dando vita a network integrati che si avvalgono di una gigantesca rete logistica e di comuni strategie di occultamento e reinvestimento speculativo dei profitti dei traffici.
Un lavoro essenziale anche per cogliere la progressiva integrazione nella logica dei mercati criminali globali delle dinamiche evolutive di ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra, ma soprattutto per illuminare i legami profondi del narcotraffico con i fenomeni di corruzione e finanziamento del terrorismo che si registrano su scala globale.
Serve insomma un deciso cambio di passo, abbandonando le asfittiche e vanagloriose logiche di indagini volte al mero sequestro di carichi di droga, la perdita dei quali spesso rappresenta per i narcos un costo già preventivato e talvolta persino sotterraneamente negoziato.
È necessario alzare lo sguardo e indirizzare le indagini verso le componenti più sofisticate delle organizzazioni criminali, come tali chiamate a guidarne i processi di trasformazione tecnologica e le strategie di mimetizzazione finanziaria.
Per farlo occorre rapidamente recuperare il grave gap tecnologico che rallenta l’azione delle nostre straordinarie forze di polizia e rischia di tenerle lontane dalle linee più avanzate della collaborazione internazionale.
Soprattutto, occorre condividere strategie investigative di più ampio respiro, possibili soltanto condividendo quel paziente lavoro di accumulazione, analisi ed elaborazione di dati e informazioni che Giovanni Falcone conduceva fino a farsi “scoppiare la testa” e che tutt’oggi non ha alternative credibili ed anzi può essere sostenuto e reso più efficace dalle nuove tecnologie digitali.
Una strada obbligata.
Anche per evitare pericolosi arretramenti del modello italiano di indagini sulla criminalità organizzata al quale, per la profonda conoscenza dei fenomeni criminali e il rigore dei metodi di lavoro, molti, in tutto il mondo, guardano con fiducia.
Un modello ammirato anche perché è costato, purtroppo, il sangue di alcuni e, per fortuna, il sudore di tanti.
Leggere il nome di Giorgio Boris Giuliano all’entrata dell’edificio a lui dedicato aiuterà molti a ricordare il dovere di non disperdere quel patrimonio di esperienza e di credibilità.
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