ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La diffusa – e forse pressoché unanime – convinzione che la repressione delle attività illecite, ancorché significativa, è sicuramente tardiva, sta suggerendo di attivare meccanismi di prevenzione atti ad impedire lo svolgimento di attività illegali, dannose o pericolose.
Lo stesso meccanismo processuale, del resto, tende ad individuare nei suoi percorsi mezzi e strumenti cautelari, motivati da indici prognostici e significativi di pericolosità. Si tratta, spesso, di strumenti operanti in tempi contingentali. Peraltro, oltre ai tempi che gli sviluppi processuali richiedono, stratificatisi nel tempo, devono essere assicurati diritti e garanzie rispettosi delle disposizioni costituzionali e sovrannazionali, che spesso possono rendere non pienamente efficace l’accertamento della responsabilità e la conseguente sanzionabilità dei comportamenti contra legem.
Sotto questa prospettiva, recuperando un armamentario proprio della pubblica sicurezza si sono individuati strumenti di prevenzione articolati intorno alla pericolosità delle persone desunte dai loro comportamenti, atteggiamenti, modi di vita, propensioni che suggerivano l’adozione nei loro confronti di provvedimenti impeditivi, ostativi, restrittivi.
Lo sviluppo dinamico della società e l’esigenza di evitare che la condizione soggettiva, sotto vari profili, possa non arginare adeguatamente le attività illegali, l’esigenza di proteggere la società, le persone, lo sviluppo economico, ha finito per fare degli strumenti di prevenzione una risorsa sempre più usata, considerata la bassa soglia di ingresso, la sua flessibilità, la sua efficacia.
Nella sostanziale unitarietà del suo nucleo essenziale, si è trattato, storicamente, di uno strumento che si è modellato con facilità alle diverse finalità che il potere voleva di volta in volta eseguire: protezione della proprietà, dissenso politico, disordine sociale.
Nel nostro Paese, superato il riferimento alle deviazioni antiregime, il nucleo essenziale ha preso le mosse dalla legislazione antimafia, nella sua dimensione soggettiva, per approdare più recentemente alla dimensione patrimoniale ed economica.
Gli ampliati strumenti di intervento e il dilatato orizzonte dei destinatari ha reso necessario il consolidamento strutturale delle attività espletabili, degli uffici proponenti e degli organismi decisori, consolidando un corpus normativo, nel quale non potevano non innestarsi – seppur ad un livello diversificato – le garanzie proprie di ogni percorso sanzionatorio.
Si è reso opportuno e forse necessario approvare un “Codice” della legislazione antimafia, di prevenzione, che si è venuto progressivamente arricchendo ma soprattutto modificando, in relazione alle esigenze che sono venute maturando in materia, soprattutto per effetto dello spostamento del focus della prevenzione personale e quella patrimoniale, con la necessità di creare organi di gestione dei patrimoni sequestrati e confiscati.
Il modello “antimafia” ha fatto crescere in parallelo altre procedure di prevenzione, diversamente modulate in relazione alla diversità dell’oggetto e della finalità ostativa ed impeditiva perseguita.
Si tratta di un panorama “altro”, diverso, sorretto, tuttavia, dalla medesima finalità e dalla stessa ispirazione.
Di tutto ciò, il Commentario cerca di fornire una lettura teorico-pratica corredata dai riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, anche sovrannazionali, che ne stanno progressivamente arricchendo la ricostruzione.
Il rilievo degli interessi moratori ai fini della verifica dell’usura presunta è oggetto di animato dibattito giurisprudenziale. Il tentativo è quello di individuare una strada percorribile muovendo dall’analisi delle recenti Sezioni Unite che hanno chiarito il rilievo della commissione di massimo scoperto per i rapporti bancari conclusi prima dell’introduzione dell’art. 2 bis nel D.L. n. 185 del 2008 ad opera dalla legge di conversione n. 2 del 2009.
Sommario: 1. Il rilievo degli interessi moratori ai fini del calcolo dell’usura. - 2.Le Sezioni unite civili 16303/2018 sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura.- 3. Il rilievo dei principi espressi dalle Sezioni Unite applicati agli interessi di mora.
1.Il rilievo degli interessi moratori ai fini del calcolo dell’usura
Negli ultimi anni il tema del rapporto tra mora e usura è al centro di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale. La questione, più nel dettaglio, afferisce alla possibilità di tener conto degli interessi moratori ai fini della verifica del superamento del tasso soglia e muove dall’inclusione nel T.E.G. (tasso effettivo globale) di voci di costo non contemplate dalla Banca d’Italia e quindi non oggetto di computo ai fini della rilevazione del T.E.G.M. (tasso effettivo globale medio).
Il TEG è un indicatore che rappresenta il costo complessivo del finanziamento nel caso concreto. Ai fini della verifica del rispetto delle soglie di usura il TEG si pone a confronto con il TEGM, stabilito ogni 3 mesi rilevando i tassi praticati sul mercato, contraddistinti per tipo di operazione e per classi di importo e che determina, per l’appunto, le soglie di usura.
Ebbene, la Banca d’Italia nel calcolare il T.E.G.M non tiene conto di talune voci di calcolo come gli interessi moratori e la commissione di massimo scoperto.
Si discute, pertanto, sul se tale assenza sia da intendersi come argomento contrario alla computabilità degli interessi moratori nel campo di applicazione dell’usura.
Ad oggi si fronteggiano due orientamenti.
L’orientamento che nega rilievo agli interessi moratori individua, in primis, argomenti di carattere testuale. L’art. 644 co.1 c.p. riferisce ad interessi “in corrispettivo”. L’interesse moratorio sarebbe allora, escluso da tale riferimento: questo non ha funzione corrispettiva, ma risarcitoria.
Si obietta, però, che l’argomento non è di per sé dirimente perché l’art. 644 co. 4 c.p. d’altra parte fa riferimento alle “remunerazioni a qualsiasi titolo”, non limitando il riferimento ai soli interessi corrispettivi. Ancora, si afferma che la clausola che predetermina l’entità degli interessi moratori ha natura di clausola penale. E’ noto che la clausola penale, ove manifestamente iniqua, è riducibile anche d’ufficio. La disciplina sarebbe, quindi, incompatibile con quella dell’usura.
Si nega, poi, rilievo all’interesse moratorio ai fini del calcolo dell’usura perché, diversamente, si darebbe rilievo a forme di inadempimento maliziose: il debitore sarebbe indotto a non adempiere per ottenere la conversione del mutuo da oneroso a gratuito.
Si afferma, in ultimo, che, in senso negativo, va letto il principio di simmetria che deve sussistere tra TEG e TEGM. Se una voce di calcolo non è computata nel TEGM (in astratto), ma calcolato nel TEG (nel caso concreto) è, chiaramente, più facile il superamento della soglia di usura, poiché nel confronto tra dato reale e dato legale, quest’ultimo sarà più basso.
Se bastasse rilevare la mancata inclusione di una voce di costo nei decreti ministeriali, però, l’autorità amministrativa diverrebbe prevalente anche rispetto alla legge.
Dai veloci dati richiamati si rileva la difficoltà della questione e il rilievo della conclusione raggiunta.
2.Le Sezioni Unite civili 16303/2018 sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura.
Così sintetizzato il problema, le questioni si sono poste tutte simmetricamente anche per il computo della commissione di massimo scoperto.
Più nel dettaglio, ci si è interrogati sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura per il periodo in cui era assente una legge di disciplina.
Le Sezioni Unite, di recente, hanno risolto la questione sul rilievo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura per rapporti bancari svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore (il 1 gennaio 2010) delle disposizioni di cui all'art. 2 bis del D.L. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009.
Occorre, pertanto, verificare se da quella sentenza possono trarsi elementi di rilievo per risolvere la questione oggi ancora dibattuta e avente ad oggetto gli interessi di mora.
Le Sezioni Unite, componendo un contrasto interpretativo, chiariscono la natura non interpretativa (e quindi retroattiva) dell’art. 2 bis D.L. n. 185 del 2008.
Il principio espresso - che qui più rileva - è quello per cui computare nel calcolo del TEG in concreto interessi di mora non previsti per il calcolo del TEGM contrasterebbe con il principio di simmetria. Più chiaramente la Corte afferma che “una tale asimmetria contrasterebbe palesemente con il sistema dell'usura presunta come delineato dalla L. n. 108 del 1996, la quale definisce alla stessa maniera sia - all'art. 644 c.p., comma 4, - gli elementi da considerare per la determinazione del tasso in concreto applicato, sia - alla L. n. 108, art. 2, comma 1, cui rinvia l'art. 644 c.p., comma 3, primo periodo, - gli elementi da prendere in considerazione nella rilevazione trimestrale, con appositi decreti ministeriali, del TEGM e, conseguentemente, per la determinazione del tasso soglia con cui va confrontato il tasso applicato in concreto..”.
La Corte sembra, cioè, richiamare quel principio di simmetria fondante l’orientamento di quanti escludono il computo degli interessi di mora e delle commissioni di massimo scoperto applicate ante 2010 per il calcolo dell’usura.
L’affermazione è però subito dopo specificata.
Il Supremo Consesso chiarisce che la mancata inclusione delle C.M.S. nei decreti ministeriali, provvedimenti amministrativi subordinati alla legge, non è, infatti, idonea ad escluderne il rilievo ai fini del calcolo dell’usura.
Si afferma, significativamente, che la mancata inclusione “imporrebbe, semmai, al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e di disapplicarli (con conseguenti problemi quanto alla stessa configurabilità dell'usura presunta, basata sulla determinazione del tasso soglia sulla scorta delle rilevazioni dei tassi medi mediante un atto amministrativo di carattere generale)”.
Si specifica, poi, che la commissione di massimo scoperto, quale "corrispettivo pagato dal cliente per compensare l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello scoperto del conto... calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento" non può non rientrare tra le "commissioni" o "remunerazioni" del credito menzionate sia dall'art. 644 c.p., comma 4,che dalla L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 1, (determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata “natura corrispettiva” rispetto alla prestazione creditizia della banca.
3. Il rilievo dei principi espressi dalle Sezioni Unite applicati agli interessi di mora
E’ il caso di verificare se i principi richiamati possano rilevare anche per la risoluzione dell’attuale questione del computo degli interessi moratori ai fini del calcolo dell’usura.
Si riconosce, da una parte, il rilievo di un generale principio di simmetria che deve sussistere tra elementi computati nel TEGM e valutati ai fini del TEG, ma, dall’altra, si chiarisce che l’eventuale mancata inclusione di un elemento nei decreti ministeriali non è motivo di risoluzione. Il giudice dovrà, anzi, rilevare l’illegittimità del decreto.
Non può, pertanto, escludersi il rilievo degli interessi moratori sulla scorta del mero principio di simmetria delle voci di calcolo del TEG e del TEGM.
Piuttosto, allora, la vera questione riguarda la natura degli interessi moratori e la loro inclusione nel comma 4 dell’art. 644 c.p. che chiarisce “per le determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate al credito”.
Le sezioni Unite, per dare rilievo alla C.M.S., infatti, hanno chiarito che la stessa rientra a pieno titolo tra le “commissioni o remunerazioni” del credito di cui all’art. 644 co.4 c.p., attesa la sua dichiarata natura corrispettiva.
La natura corrispettiva pare, invece, assente negli interessi moratori. Questi ultimi, infatti, non hanno funzione corrispettiva, ma risarcitoria: non rappresentano, quindi, remunerazione del credito, ma una forma di risarcimento del danno da ritardo. Sono, cioè dovuti solo in caso di inadempimento e rappresentano un costo eventuale del credito.
Inoltre, il primo comma dell’art. 644 c.p. fa espresso riferimento ad interessi “in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità”.
Interpretazione conforme al codice penale sembrerebbe, allora, escludere il computo degli interessi moratori dal calcolo dell’usura.
Purtuttavia, occorre rilevare che il legislatore dove voleva escludere il rilievo lo ha fatto (escluse le spese per imposte e tasse) e che l’art. 1, co. 1, d.l. n. 394 del 2000 (convertito nella legge n. 24 del 2001), nell’interpretare autenticamente l’art. 644, ha stabilito che : “ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. (...) si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. L’intenzione legislativa sembra, quindi, far riferimento ad interessi tanto corrispettivi quanto moratori.
Volendo, allora, ritenere anche gli interessi di mora rilevanti ai fini del calcolo dell’usura è però necessario comprendere gli effetti di tale sconfinamento. Gli interessi moratori, derivanti da un comportamento inadempiente della parte, dipendono esclusivamente dalla condotta del debitore che potrebbe effettivamente essere indotto all’inadempimento al fine di superare la soglia di usura e, quindi, liberarsi anche degli interessi corrispettivi.
Potrebbe, allora, sostenersi che restano dovuti gli interessi corrispettivi, ma vengono meno gli interessi moratori (usurari) ovvero che gli interessi corrispettivi continuano ad essere dovuti e gli interessi moratori restano dovuti, non più al tasso legale, ma al tasso usurario (Cass. 27442/2018).
Così chiarito resterebbe solo da risolvere il problema della soglia da utilizzare per verificare se gli interessi moratori sono usurari.
Ancora una volta è utile richiamare le Sezioni Unite espressesi in materia di commissione di massimo scoperto.
Il Supremo consesso ha affermato che i decreti in realtà danno atto dell'ammontare medio delle CMS, espresso in termini percentuali, sia pure a parte (in calce alla tabella dei TEGM).
La presenza di tale dato nei decreti ministeriali è sufficiente per escludere la difformità degli stessi rispetto alle previsioni di legge.
La circostanza che tale entità sia riportata a parte, e non sia inclusa nel TEGM strettamente inteso, è un dato formale non incidente sulla sostanza e sulla completezza della rilevazione prevista dalla legge.
E’ enunciato allora, il seguente principio di diritto: "Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore delle disposizioni di cui al D.L. n. 185 del 2008, art. 2 bis, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta come determinato in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale d'interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata - intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento - rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti ministeriali emanati ai sensi della predetta L. n. 108, art. 2, comma 1, compensandosi, poi, l'importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza tra l'importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati".
Ebbene, volendo provare a traslare quanto enunciato anche con riferimento agli interessi moratori, (ricordando che taluno ritiene impossibile individuare una soglia agli interessi di mora) può richiamarsi l’orientamento giurisprudenziale che afferma che per evitare il confronto tra tassi disomogenei (il tasso di mora applicato al debitore e i tassi soglia, determinati, senza tenere conto dei tassi moratori), ed ai fini dell'individuazione, comunque, di un parametro di riferimento, occorre tenere conto del fatto che la Banca d’Italia, pur non includendo la media degli interessi moratori ai fini del calcolo del T.E.G.M., ne ha fatto, nel 2009, una rilevazione separata, individuando una maggiorazione media, in caso di mora, di 2,1 punti percentuali. Al tasso-soglia “ufficiale” andrebbe, quindi, aggiunta tale percentuale (Trib. Roma, Sez. XVII, 7 dicembre 2018).
RUOLO DELLA PENA di Giorgio Spangher
1. Innescato da alcune vicende giudiziarie si è da tempo riacceso il confronto di opinioni sul ruolo della pena, nella contrapposizione tra una visione rieducativa della stessa ed una più dichiaratamente retributiva.
Sullo sfondo della insicurezza determinato dalla globalizzazione il dibattito ha finito per coinvolgere inevitabilmente tematiche diverse: determinazione di nuove fattispecie incriminatrici, inasprimento delle pene, regole procedurali, regime penitenziario. Del resto, la presenza di “fenomeni” criminali non consente risposte episodiche, nella misura in cui la metabolizzazione di un singolo episodio delittuoso, non è possibile a fronte d’una sua reiterazione che proprio per questo fatto ne amplifica e ne moltiplica le implicazioni.
In questo contesto si inserisce la legge che esclude l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, con l’intento di evitare che alcuni reati – soprattutto l’omicidio aggravato – con il meccanismo delle attenuanti, combinato con l’effetto premiale del rito contratto possa condurre ad una pena ritenuta inadeguata alla gravità del reato.
Il riferimento all’omicidio aggravato non è casuale ove si considerino in materia la previsione di cui al comma 3 dell’art. 90 c.p.p. ove si prevede che in caso di morte della vittima del reato, i diritti della persona offesa siano esercitati – a sua tutela – dai prossimi congiunti e da persona legata da relazione affettiva o stabilmente convivente, che assumeranno su di sé anche la posizione di danneggiati dal reato, con ricadute significative sul loro atteggiamento processuale. La posizione a “tutela” dell’offeso, vittima di omicidio, finisce per investire questi soggetti di una funzione di “supplenza” sotto vari profili, non escluso quello sanzionatorio.
2. Il comma 1 bis dell’art. 438 c.p.p. inserito dalla riforma prevede, pertanto, che “non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo”.
Si raccorda a questo dato anche l’abrogazione del secondo e del terzo periodo del comma 2 dell’art. 442 c.p.p. ove si prevedeva che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta; ed alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nel caso di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo.
Invero, proprio la premialità del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo consente al condannato di collocare la pena nelle soglie che consentono l’accesso ai benefici penitenziari.
La considerazione che nello sviluppo del procedimento l’ipotesi accusatoria formulata dal pubblico ministero con la richiesta di rinvio a giudizio possa modificarsi rendendo possibile l’accesso al rito abbreviato ha suggerito al legislatore che la difesa debba, a tal fine, formulare una richiesta, ancorché inammissibile ovvero da rigettare, nel corso dell’udienza preliminare. La stessa richiesta, se formulata nel corso dell’udienza preliminare, potrà essere reiterata entro i limiti di cui agli artt. 421 e 422 c.p.p.
Ovviamente questa richiesta – inammissibile – non finalizzata ad ottenere dal giudice la verifica delle condizioni di ammissibilità del rito, non determinerà l’operatività di quanto previsto dall’art. 438, comma 4, secondo periodo, c.p.p., in tema di produzione di indagini difensive, e dall’art. 438, comma 6 bis, c.p.p., in tema di sanatoria delle indicate patologie processuali.
Il legislatore non esclude che la formulazione dell’imputazione subisca variazioni lungo il corso del procedimento così da incidere sull’originaria inammissibilità ovvero sull’iniziale possibilità di disporre il giudizio abbreviato.
Si prevede, così, che qualora all’esito dell’udienza preliminare la qualificazione giuridica del fatto consenta il rito abbreviato, il giudice con il decreto che dispone il giudizio debba informare l’imputato che entro quindici giorni potrà chiedere il rito speciale.
Qualora, invece, richiesto e disposto il rito abbreviato il fatto dovesse essere contestato nei termini escludenti il rito, il giudice revocherà il provvedimento e procederà alla prosecuzione dell’udienza preliminare, ovvero disporrà che si proceda con l’udienza preliminare.
Qualora il giudice del dibattimento riconosca che il fatto come da lui qualificato avrebbe consentito il giudizio abbreviato, applicherà con la sentenza la riduzione della pena nei limiti previsti dall’art. 442, comma 2, c.p.p.
Non è chiaro se a questo fine è sufficiente la richiesta inammissibile formulata nell’udienza preliminare, ovvero se sia necessario ripetere la richiesta all’inizio del dibattimento ovvero se la richiesta del rito possa essere formulata per la prima volta nel momento di apertura del giudizio.
3. Il riconoscimento della premialità della pena dovrebbe valere anche per il giudizio d’appello e in cassazione ex art. 620, lett. 1, c.p.p., senza necessità che sia riproposta la domanda del rito abbreviato. Dovrebbe riconoscersi che un eventuale accoglimento dell’appello del p.m. in punto di qualificazione del fatto, ostativa il rito, determinerà l’esclusione della premialità precedentemente riconosciuta. Ci si dovrebbe interrogare se analoga conclusione possa operare per il giudizio di cassazione ovvero se sarà necessario procedere ad annullamento con rinvio.
Nel caso del giudizio immediato troverà applicazione l’art. 458 c.p.p.: l’imputato, per poter godere della premialità della pena all’esito del dibattimento dovrà formulare la richiesta del rito abbreviato ancorché inammissibile ed il giudice richiesto del rito disporrà il giudizio immediato.
4. Memore della decisione Corte Edu sul caso Scoppola, dovendosi escludere, trattandosi di materia attinente alla pena, l’operatività del principio tempus regiti actum, il legislatore ha previsto che la riforma si applichi solo ai reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge.
5. Sotto il profilo sistematico, la riforma determinerà un appesantimento del carico di lavoro delle Corti di assise, senza alleggerire quello dei gip/gup.
Si creeranno problemi per le collaborazioni nei processi di criminalità organizzata, in quanto queste erano spesso incentivate dalla premialità del rito abbreviato.
Si devono escludere, a prima lettura, profili di illegittimità costituzionale, trattandosi di scelta che riguarda tutti i reati, puniti con la pena massima. Va tuttavia fatto notare che la scelta legislativa sacrifica la logica dell’economia processuale che aveva connotato il rito e in parte lo caratterizza ancora per gli altri reati, a fronte dell’esigenza d’una pena maggiormente afflittiva che a giudizio del legislatore appare motivazione prevalente.
1. Il caso “Dj Fabo”, quando la vita arriva prima del diritto: il processo a carico di Marco Cappato. - 2 La sentenza della Corte Costituzionale del 24 ottobre 2018: l’innovazione è nel metodo. - 3. Uno sguardo comparatistico. La regolamentazione del fine vita oltre confine.
1. Il caso “Dj Fabo”, quando la vita arriva prima del diritto: il processo a carico di Marco Cappato.
Negli ultimi anni, il panorama del fine vita, conteso tra disponibilità e indisponibilità del bene vita, ha visto dirottata l’attenzione verso un caso dalla forte pregnanza mediatica e dai notevoli risvolti giuridico-penalistici. Si tratta della vicenda umana, ancora in via di definizione processuale, di Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo) dove si sono intrecciati temi tanto diversi quanto inscindibilmente connessi: il problema del fine vita, l’urgenza di una legge sul testamento biologico, il concetto di eutanasia e quello di morte dignitosa, fino ad arrivare a mettere in discussione la legittimità costituzionale e l’attualità dell’art. 580 c.p. sull’istigazione o aiuto al suicidio. Il tutto, in virtù di una vita che si esige essere dignitosa e libera di essere vissuta o, soprattutto, non vissuta.
E’ noto come, all’esito del processo instaurato a Milano contro Marco Cappato per il reato di cui all’art. 580 c.p., la Corte d’ Assise, mentre ha assolto l’imputato per la parte di istigazione al suicidio perché il fatto non sussiste, abbia sospeso il giudizio per il restante capo di imputazione, rimettendo la questione alla Consulta.
La sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. colpisce la parte in cui lo stesso incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio (per ritenuto contrasto con gli artt. 3 e 13 comma 1 della Costituzione). Il risultato è che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, appaiono sanzionabili con la pena della reclusione da cinque a dodici anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione.
Di evidente percezione il rilevato contrasto con innumerevoli norme costituzionali, si pensi all’art. 3 relativo al principio di uguaglianza, all’art. 13, baluardo della libertà personale, nonché all’art. 25 comma 2, sul principio di legalità e irretroattività penale, e, in ultimo, all’art. 27 terzo comma che sancisce la funzione rieducativa della pena per il reo.
Ad una più attenta analisi delle motivazioni addotte, i giudici milanesi hanno ritenuto che il suicidio costituisca esercizio di una libertà dell’individuo. Pertanto, azioni idonee a pregiudicare l’autodeterminazione dello stesso costituirebbero offesa al bene giuridico tutelato dalla norma in esame, e solo queste risulterebbero meritevoli di sanzione penale. Alla luce di tali considerazioni, dove si colloca l’apporto fornito da Marco Cappato? L’aiuto del leader radicale non risulterebbe idoneo a ledere alcun bene giuridico, giacché il proposito suicida di Antoniani si era già cristallizzato da tempo e il contributo dell’imputato si è concretizzato nel mero trasporto dello stesso in Svizzera.
I giudici hanno osservato, in primo luogo, che alla base delle norme sull’istigazione e aiuto al suicidio, introdotte dal legislatore nel regime fascista del 1930, vi fosse la considerazione del suicidio come un disvalore: solo per preminenti ragioni di politica criminale era stato ritenuto inutile e dannoso punirne il tentativo. La sanzione prevista dalla norma era pensata a tutela del “diritto alla vita”, come valore in sé, indipendentemente dalle deliberazioni del titolare, essendo chiaramente sancita la prevalenza dello Stato sulla libertà dell’individuo.
Ebbene, leggendo oggi la medesima norma alla luce dei principi costituzionali, appare evidente e urgente la necessità di innovare quei concetti pre-costituzionali. Dalla lettura complessiva della Costituzione emerge una nuova e diversa considerazione del diritto alla vita, che si pone come presupposto degli altri diritti riconosciuti all’individuo e proprio attraverso questi si definisce.
Senza dimenticare che, con l’introduzione del rivoluzionario principio personalistico enunciato all’art. 2 e dell’inviolabilità della libertà individuale di cui all’art. 13, la Carta costituzionale ha sancito un vero cambiamento di rotta. Non si torna indietro: è l’uomo, e non più lo Stato, al centro dell’attenzione. E la vita umana non può essere concepita senza il riferimento all’autodeterminazione.
Infine, i giudici milanesi hanno rilevato che una tale sanzione, sproporzionata rispetto all’offesa arrecata, impedirebbe alla pena stessa di ottemperare alla funzione sua propria, costituzionalmente riconosciuta dall’art. 27 co. 3, volta alla rieducazione del reo.
Il dado era tratto. La dottrina pronunciatasi sul punto aveva prospettato diverse possibili soluzioni per la Corte, sulla base di variegate tecniche decisorie: l’accoglimento parziale, ovvero il rigetto; il rigetto semplice o quello con interpretazione; la vera e propria sentenza “interpretativa di rigetto”, sino all’inammissibilità in senso stretto. Nessuna strada era inaccessibile, preclusa o impercorribile. L’unica opzione che, tuttavia, forse non meritava di essere considerata, per un caso così complesso, delicato ed atteso, era quella del non liquet.
Bisognerebbe chiedersi, forse, se sia da considerarsi ancora suicidio il “congedo dalla vita” scelto, dolorosamente nonché drammaticamente, da chi vive una situazione in cui il corpo si è ormai congedato dalla persona, vale a dire la ricerca della quiete operata da un individuo che non riconosce più alcuna immagine di sé e si limita a porre fine ad una condizione di perenne sofferenza.
In ogni caso, con la rimessione alla Consulta, la stessa è stata investita di un compito di storica ed impareggiabile importanza, non tanto per il processo Cappato quanto per l’autodeterminazione in generale: definire, una volta per tutte, se il reato di aiuto al suicidio, nato in un contesto stato-centrico, sia ancora conforme alla Costituzione italiana e ai suoi valori.
2. La sentenza della Corte Costituzionale del 24 ottobre 2018: l’innovazione è nel metodo.
Ci si aspettava l’annuncio di una sentenza sulla costituzionalità o incostituzionalità dell’art. 580 c.p., ed invece la Corte ha disposto il rinvio del processo al prossimo settembre 2019, per consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina.
Precisamente, la Corte costituzionale ha rilevato che l'attuale assetto normativo concernente il fine vita lasci prive di adeguata protezione determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di tutela, da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti.
La Corte Costituzionale ha così consapevolmente inaugurato una strada nuova e coraggiosa, innovando il proprio catalogo di tecniche decisorie e riconoscendo, pur senza dichiararla, la “parziale” illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.
Ciò che si è sorprendentemente verificato è che la Corte costituzionale ha finalmente rilevato l’assenza di una «adeguata tutela» nell’assetto normativo che riguarda il fine vita, concedendo al Parlamento un anno per colmare la lacuna, intervenendo medio tempore con un’appropriata disciplina.
Che significato ha una presa di non-posizione di questo stampo? È la presa d’atto di un vuoto normativo, di una mancanza di tutela nei riguardi di situazioni dall’evidente particolarità e dalla notevole frequenza, che spiana la strada al Parlamento per la trattazione di un tema da sempre visto con diffidenza e paura, soprattutto in considerazione dell’iniziativa popolare di legge sull’eutanasia, fino a ieri mai tradottasi in discussione. Non si tratta in sostanza di un semplice monito al legislatore, ma dell’assegnazione di un “termine ultimo”, una data entro cui legiferare.
A destare stupore è il metodo, la via seguita dalla Corte stessa, senza precedenti in Italia; i giudici costituzionali hanno riconosciuto che l’attuale normativa, che punisce ogni forma di agevolazione al suicidio, non realizza un ragionevole bilanciamento dei molti interessi coinvolti, ma fanno un passo di lato - non indietro - investendo il Parlamento del compito di trovare un corretto equilibrio.
L’originale tecnica decisoria adottata trae ispirazione da precedenti della Corte Suprema del Canada nel 2015 e della Corte Suprema del Regno Unito nel 2014 e consiste nel disporre il rinvio del giudizio in corso, con contestuale fissazione della data di discussione delle questioni in ballo. Si determina, fatalmente, la messa in mora del Parlamento. Ma perché questa scelta? La Corte ha agito con una prudenza di non poco conto, evitando una secca declaratoria di incostituzionalità che, in assenza di regolamentazione normativa, avrebbe esposto soggetti deboli e vulnerabili ad abusi e strumentalizzazioni altresì patrimoniali. Ha scongiurato il rischio che la somministrazione di farmaci in grado di procurare la morte in un breve lasso di tempo potesse degenerare in vera e propria “alternativa” ad esigenze organizzative o supplire all’incapacità delle strutture di fornire adeguata assistenza con percorsi di cure palliative. E non è tutto: la Corte ha voluto impedire che una dichiarazione di inammissibilità della questione, con monito al legislatore, determinasse inevitabilmente la condanna di Cappato.
La Corte non si nasconde dietro le Camere, semplicemente abbandona la strada vecchia per la nuova. Avrebbe potuto dichiarare l’inammissibilità della questione sollevata e dare un consueto monito al legislatore affinché rimuovesse il ravvisato vulnus. E invece ha differito la propria valutazione, auspicando la sopravvenienza di una legge che regoli la materia in base alle non più taciute esigenze di tutela.
Si è detto che la Corte fa una passo di lato, non indietro, non abdicando affatto alla propria funzione, ma affidando al Parlamento il compito di regolare ed illuminare una materia per troppo tempo lasciata al buio; né lascia l’imputato in balia dell’arbitrio del legislatore stesso, riservandosi l’ultima parola e preannunciando il suo intervento il 24 settembre 2019, in caso di inerzia legislativa. È una Consulta che si rivela rivoluzionaria nel metodo, ma profondamente ancorata ai propri principi costituzionali; il suo messaggio è netto, difficile da ignorare per la politica.
Paradossalmente, nel “decidere di non decidere”, la Corte dà uno scossone di portata storica alle Camere.
È la grande occasione per il legislatore di redigere una legge, necessaria e pretesa dall’opinione pubblica, sul fine vita e l’occasione di discutere su un’eutanasia legale, in grado di rompere il silenzio su un tema che non è più possibile ignorare, in considerazione, altresì, dei tanti casi in cui si è manifestata la perentorietà di un intervento.
Ciò che si auspica è che finalmente venga riconosciuto, nelle situazioni come quella di Fabo, uno “spazio libero dal diritto penale”. Se così non fosse, il risultato sarebbe costringere, chi versi in quella drammatica situazione di sofferenza, ad affrontare una scelta crudele e disumana. Costui potrebbe “accettare” la propria prigionia materiale e spirituale, in presenza di condizioni che rendono la vita insopportabile, sacrificando il proprio diritto di autodeterminarsi liberamente e subendo un’irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi può provvedere da solo a por fine alla propria vita non più dignitosa. In alternativa dovrebbe optare, necessariamente, per un percorso di fine vita tramite sospensione dei sostegni vitali, una scelta che lo esporrebbe ad una agonia del corpo difficile da accettare. L’ultima opzione possibile, paradossalmente, si tradurrebbe nella scelta di una richiesta di solidarietà - come ha fatto Fabiano - consapevole che ciò esporrebbe chi accoglie quella richiesta di aiuto ad un gravissima censura, ad una pena intransigente.
Siamo dinanzi ad un passaggio di testimone, si chiede alle Camere ciò che si è già chiesto alla Corte, di non abbassare lo sguardo, di accogliere un “diritto penale del rispetto”; del rispetto sia per chi abbia deciso per la vita ad ogni costo, sopportando con coraggio o solo per rassegnazione la prigionia del proprio vivere, sia, soprattutto, per chi autonomamente e consapevolmente decide per la dignità di vivere o morire; sia, infine, per chi in queste condizioni si limita ad invocare un “aiuto nel morire”, una solidarietà che l’ordinamento giuridico non dovrebbe censurare con tanta assolutezza e intransigenza.
È il tema del fine vita, della voglia di far valere una vita di qualità ed una morte dignitosa e meno sofferente possibile, servendosi della concreta ed effettiva possibilità di scegliere come e quando vivere e morire.
Dando uno sguardo alla situazione attuale e ai primi mesi trascorsi dalla pronuncia, quali le prospettive? La Corte ha cercato un dialogo col Parlamento, ha espresso una richiesta di aiuto. La strada è lunga e tutta in salita, anche se lo scorso gennaio è stata depositata alla Camera una proposta di legge di iniziativa popolare, già avanzata nel “lontano” 2013.
Ma la proposta di iniziativa popolare è solo la prima di quelle (almeno altre 2) che saranno esaminate, e il Parlamento dovrebbe accelerare il passo per ottemperare al suo compito e rispettare la fatale scadenza (non certo remota) del 24 settembre 2019 stabilita dalla Consulta. Se così non fosse, allora la parola tornerebbe ai giudici costituzionali, decretando una triste sconfitta della politica.
Un dato è certo: l’innovazione metodologica della Corte denota una profonda sensibilità nei confronti dei diritti individuali, delle prerogative costituzionali, nonché del dialogo imprescindibile tra i poteri dello Stato. E questa sensibilità si è tradotta in una sentenza di incostituzionalità “differita”, rimandata ad un futuro prossimo e, per ciò solo, più sicura e consapevole.
Cosa accadrà il 24 settembre 2019? Presumibilmente, la Corte manterrà la stessa composizione, lasciando presagire che i già rilevati profili di incompatibilità costituzionale, nell’ipotesi di inerzia o incapacità legislativa, condurranno ad una definitiva dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 e di un’eventuale normativa insoddisfacente. La partita è tutta da giocare, ma in campo scenderanno gli stessi giocatori?
3. Uno sguardo comparatistico. La regolamentazione del fine vita oltre confine.
Il tassello finale è quello comparatistico. Uno sguardo fuori Italia può davvero disvelare scenari interessanti e disparati, ed essere fonte di ispirazione per le scelte decisive a cui è chiamato il Parlamento.
FRANCIA
In Francia l’eutanasia attiva ed il suicidio assistito non sono ammessi, mentre è parzialmente ammessa l’eutanasia passiva. Nel 2016 il Parlamento francese ha approvato un disegno di legge che consente ai medici di sedare i pazienti fino alla morte, senza cadere, però, negli spazi del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria. La nuova legge sul fine vita supera la precedente “loi Leonetti”. Viene introdotta «un’eutanasia mascherata» dietro il sipario della sedazione terminale. Il testo parla di un «diritto alla sedazione profonda e continua» fino al decesso per i malati in fase terminale. Allorquando un paziente è «affetto da una malattia grave e incurabile», e la sua «sofferenza è refrattaria alle cure» e si è davanti a una «prospettiva di vita» molto breve, allora può essere addormentato e tutti i sostegni vitali, come alimentazione e idratazione, possono essere interrotti.
SVIZZERA
La Svizzera prevede sia l’eutanasia attiva indiretta (assunzione di sostanze i cui effetti secondari possono ridurre la durata della vita), sia quella passiva (interruzioni dei dispositivi di cura e di mantenimento in vita), sia il suicidio assistito; l'Art.115 del codice penale svizzero entrato in vigore nel 1942 (ma scritto già nel 1918) considera un reato aiutare una persona a suicidarsi solo se il motivo segue fini d'interesse personale.
L’iter da seguire è in ogni caso lungo e complesso. Una commissione controlla minuziosamente tutta la documentazione del malato, poi acconsente al trasferimento. Successivamente subentra un medico con l’unico compito di dissuadere il malato dalla sua intenzione. Nel caso in cui persista una volontà ferrea e cristallizzata, si procede con il ricovero. Il malato viene condotto nella struttura e, quando comincia il processo vero e proprio, viene somministrato il pentobarbital di sodio. Dopo pochi minuti giunge il coma profondo e viene paralizzata la respirazione. Si pone così fine alla vita; una “dolce morte” difficile da immaginarsi.
GERMANIA
In ambito tedesco, La Corte di giustizia si è espressa nel 2010 a favore dell'eutanasia passiva. Pur non essendovi una legge specifica, anche l'eutanasia attiva è ammessa se è chiara la volontà del paziente. Invero, Il Parlamento tedesco il 6 novembre 2015 ha espressamente vietato la “sistematica assistenza al suicidio in forma commerciale” come invece ammesso nella vicina Svizzera, sanzionandola nei casi più gravi con la reclusione fino a 3 anni. A ben vedere, la legge non è diretta a colpire medici che in una situazione difficile agiscano secondo coscienza, quanto piuttosto la ripetuta promozione commerciale del suicidio.
OLANDA
Nel 1993 in Olanda, in materia di eutanasia, una regolazione provvisoria fu accettata sia dal Parlamento, che dal Senato. Nel 2002 la Legge sull’eutanasia entrò in vigore. Tale legge non implica una legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito, atti che rimangono proibiti, ma non punibili, se eseguiti da un medico che ha osservato i criteri di accuratezza, espressamente elencati all’articolo 2 della Legge sull’eutanasia. Il medico deve convincersi che la sofferenza del paziente sia senza prospettive e insopportabile, ossia che non ci sia più possibilità di curare la malattia del paziente, di migliorare la sua condizione, di eliminare o rendere sopportabile la sua sofferenza. Si tratterebbe di un criterio medico, munito di oggettività.
BELGIO
Il Belgio, secondo dopo l’Olanda nell’apertura al fine vita, nel settembre del 2002 e dopo un acceso dibattito, ha autorizzato il suicidio assistito, incredibilmente esteso nel 2014 anche ai minori. Da allora, stando ai dati della Società reale di medicina olandese, circa 4.000 persone l’anno sono state aiutate a morire. Trattasi, in particolare, di malati terminali di tumore, ma altresì di pazienti colpiti da Alzheimer in stadio avanzato.
SPAGNA
In ambito spagnolo, sia il suicidio assistito che l’eutanasia passiva sono stati depenalizzati a partire dal 1995. Dopotutto, fatta eccezione per qualche isolato documento di condanna da parte della chiesa e per l’opposizione parlamentare dei popolari, non si rinviene in Spagna un effettivo contrasto alla cultura della morte. Si tratta di un paese che fino a ieri veniva considerato una trincea del cattolicesimo e che oggi cede, quasi senza fare resistenza, alle prepotenti invasioni del laicismo.
Diversi i disegni di legge in discussione. Il testo predisposto dal Partito Socialista spagnolo oltre a depenalizzare l’aiuto al suicidio prevede che siano le strutture sanitarie pubbliche a praticarla come una cura normale e, per così dire, “all’ordine del giorno”. I casi in cui è consentita sono i più disparati ampi e sono aperti, oltre alle malattie gravi e incurabili con ridotta aspettativa di vita, anche la disabilità irreversibile quando è causa sofferenze psico-fisiche. D’altra parte, i moderati hanno presentato un parallelo disegno di legge sulle cure palliative, similmente all’Italia, subordinando l’appoggio o l’astensione sulla proposta socialista all’approvazione del loro testo, che non viene pertanto considerato alternativo all’altro.
PORTOGALLO
In Portogallo, l’eutanasia passiva è solo parzialmente accettata e limitatamente a trattamenti particolarmente aggressivi, non essendo consentita la sospensione di alimentazione e idratazione artificiale. Nel maggio 2018 sono stati bocciati quattro progetti di legge miranti a legalizzare l’eutanasia e il suicidio assistito. Un risultato che lascia sorpresi dinanzi alle predette aperture di numerosi paesi, e che nel panorama portoghese è stato interpretato come una vittoria schiacciante della vita, della democrazia e della medicina. La vittoria del No è stata ottenuta peraltro in Parlamento solo di misura, un risultato di non poco conto in un Paese che solo fino a pochi anni fa era considerato una roccaforte incrollabile del cattolicesimo.
Riferimenti bibliografici.
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Sitografia.
https://www.associazionelucacoscioni.it
https://www.glistatigenerali.com
Sommario: 1. Breve premessa. 2. La ratio decidendi. 3. Rapido excursus sulla nozione di profitto confiscabile secondo i dicta delle Sezioni Unite Penali. 4. L’attuale stato dell’arte nella giurisprudenza di legittimità. 5. Futuri scenari e conclusioni.
1. Breve premessa.
L’ordinanza del Tribunale del riesame di Siracusa – per la lucidità dell’analisi[1] articolata su un tema che registra, nonostante reiterati interventi delle Sezioni Unite, posizioni contrastanti in seno alla giurisprudenza di merito e di legittimità – offre lo spunto per svolgere alcune brevi riflessioni sulla misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei reati tributari nel caso in cui l’oggetto dell’ablazione sia costituito dal denaro.
2. La ratio decidendi.
Il caso scrutinato dal Tribunale di Siracusa è, in sintesi, il seguente.
Il legale rappresentante di una società di capitali non aveva versato all’erario, entro il termine previsto per la dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute (di importo pari ad euro 428.951,96) operate sulla base della stessa dichiarazione. Ritenuto integrato il fumus boni iuris del reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, emetteva un decreto di sequestro preventivo ordinando il vincolo, in via diretta, delle somme di denaro non versate a titolo di imposta se accreditate sui conti correnti intestati alla società e contestualmente disponeva il sequestro preventivo, per equivalente, ai sensi dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, fino all’importo corrispondente al totale delle imposte non versate, sui beni mobili, immobili registrati o altre utilità facenti parte del patrimonio personale dell’indagata. Eseguito il decreto di sequestro, venivano apprese presso la società somme di denaro pari ad euro 215.785,27. Tuttavia, le somme giacenti presso i conti correnti intestati alla predetta società sino al 31 ottobre 2017, data nella quale il versamento delle ritenute doveva essere eseguito, risultavano essere, come da documentazione bancaria prodotta dalla difesa, pari a complessivi euro 339,50. In sede di riesame del provvedimento, veniva pertanto eccepita l’illegittimità del sequestro preventivo disposto in via diretta delle somme eccedenti i saldi attivi esistenti sui conti correnti intestati alla società alla scadenza del termine per il versamento del tributo, sul rilievo che, consistendo il profitto del reato in un risparmio di spesa, non potevano essere oggetto di ablazione le disponibilità liquide maturate successivamente alla scadenza del termine previsto per il versamento (ossia al 31 ottobre 2017), perché tali disponibilità, derivando da rimesse fatte da terzi successive alla data di consumazione del reato, non potevano essere considerate come un “risparmio di spesa” quale conseguenza del mancato versamento delle imposte e quindi non potevano essere sottoposte a sequestro difettando in esse la caratteristica di profitto; in caso diverso, ammettendosi il sequestro anche delle somme maturate successivamente al 31 ottobre 2017, si sarebbe legittimata l’operatività di un sequestro per equivalente nei confronti della società, come tale illegittimo, salvo il caso in cui fosse stato dimostrato che la persona giuridica costituisse uno schermo fittizio, utilizzato dal reo per commettere reati, situazione, nella specie, non ravvisata.
Il Tribunale del riesame, dopo aver ampiamente riportato e commentato gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, ha respinto l’eccezione affermando, con estrema chiarezza, il principio secondo il quale, in tema di reati tributari, il profitto consiste in un qualsivoglia vantaggio patrimoniale e può risultare anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, risparmio che prescinde dalla data di consumazione del reato, cosicché, nel caso di sequestro del denaro, non rileva la materiale destinazione di esso che ne rappresenta la diretta estrinsecazione, né rileva il momento, successivo alla consumazione del reato, nel quale vengono percepite ulteriori somme, quantunque avulse da un diretto rapporto di pertinenzialità con il reato contestato. “Se infatti il denaro, quale bene fungibile, viene a perdere la propria autonomia e il legame pertinenziale con il reato contestato, ciò che rileva agli effetti della confisca, è l’esistenza del valore nominale comunque accresciuto di consistenza a rappresentare (…) l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario anche successivamente la data di consumazione”. Logica conseguenza di tale impostazione è che, prescindendo il risparmio di spesa dal momento consumativo del reato tributario, la fattispecie della confisca diretta deve ritenersi integrata, secondo il ragionamento del Tribunale, in presenza dell’ablazione di un bene fungibile, dovendo quest’ultimo ritenersi svincolato dal requisito della pertinenzialità, con la conseguenza che si viene a creare una confusione nel patrimonio dell’obbligato, perché il profitto permane sino a quando sussiste l’obbligazione tributaria, consistente appunto in un risparmio di spesa, risparmio che perciò resta tale a prescindere dalla scadenza temporale del versamento, atteso che il profitto del reato perdura fino a quando sia totalmente assolto l’onere tributario. In difetto di ciò, la somma sarà sempre assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato a confisca diretta in quanto indirettamente connessa, come profitto del reato, all’attività criminosa in virtù della quale si è accresciuta virtualmente la consistenza bancaria del conto intestato alla società beneficiaria del risparmio di spesa.
3. Rapido excursus sulla nozione di profitto confiscabile secondo i dicta delle Sezioni Unite Penali.
Più volte le Sezioni unite della Corte di cassazione si sono soffermate sulla nozione di “profitto confiscabile”, scrutinando la nozione sia sotto l’aspetto dell’individuazione delle componenti strutturali del profitto del reato e sia sotto l’aspetto attinente al nesso di derivazione causale del profitto dal reato[2]. In una prima pronuncia, affermarono, con specifico riferimento alla nozione di profitto declinata dall’art. 240 cod. pen., che il “profitto” consiste in qualsiasi “vantaggio economico” costituente un “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” che abbia una “diretta derivazione causale” dalla commissione del reato[3]. In continuità con l’orientamento di identificare il profitto nel “vantaggio di natura economica” o nel “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”, le Sezioni unite successivamente indicarono la necessità di una stretta derivazione causale del profitto dal reato[4] e, in una coeva decisione, affrontando nuovamente la questione della definizione del profitto confiscabile, affermarono che, nella formulazione dell’art. 240, comma 1, cod. pen., il “prodotto del reato” si identifica in quei beni che costituiscono il risultato empirico della condotta esecutiva criminosa quali immediate conseguenze materiali di essa; per “profitto del reato”, invece, si deve intendere il vantaggio di natura economica che deriva dall’illecito, precisando che per vantaggio economico non deve intendersi “utile netto” né “reddito” ma un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, che non deve essere necessariamente conseguito da colui che ha posto in essere l’attività delittuosa. Nel pervenire a tali conclusioni, le Sezioni unite tuttavia ammonirono come dovesse, in ogni caso, mantenersi ferma - per evitare un’estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato - l’esigenza di una diretta derivazione causale dall’attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita[5]. In un immediato e successivo arresto le Sezioni unite affermarono, senza ulteriori specificazioni in proposito, che, mentre il profitto corrisponde all’utile ottenuto in seguito alla commissione del reato, il prodotto corrisponde al risultato, cioè al frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita[6].
Una rielaborazione, in senso estensivo, del principio della diretta derivazione causale del profitto dal reato scaturì da una successiva pronuncia delle Sezioni unite che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., affermarono come costituisse “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro fosse, come nel caso di specie, causalmente collegabile al reato stesso e fosse soggettivamente attribuibile all’autore di quest'ultimo[7], chiarendosi che, nel concetto di profitto o provento di reato, vanno compresi non soltanto i beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità, che lo stesso realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa. Le Sezioni unite fecero conseguire da ciò l’affermazione secondo cui qualsiasi trasformazione che il danaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso deve essere considerata profitto allorquando sia collegabile causalmente al reato stesso ed al profitto immediato (il danaro) di esso che sia stato conseguito e sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto[8]. La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità, nella sua più autorevole espressione, ha fatto registrare, come si vedrà, una flessione della concezione causale[9] del profitto temperata, se non in alcuni casi surrogata, da una concezione di tipo strutturale, i cui confini non sembrano definitivamente tracciati e i cui contenuti, se non supportati da riforme normative dell’istituto, sembrano destinati ad essere posti in forte discussione dalla stessa giurisprudenza di legittimità, nei limiti che si riterranno consentiti dall’ordinamento, come sarà più chiaro in seguito[10]. Per il momento, va segnalato come, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, le Sezioni unite – in sostanziale continuità con i precedenti orientamenti ma con approccio metodologico tale da privilegiare nella nozione di profitto del reato non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale[11] – affermarono che il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, precisando tuttavia che, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone, questo perché, secondo le Sezioni unite, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico - quali ad esempio quelli del “profitto lordo” e del “profitto netto” ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un’irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l’ente, adempiendo al contratto, che pure aveva trovato la sua genesi nell’illecito, abbia posto in essere un’attività i cui risultati economici non possono essere messi in collegamento diretto ed immediato con il reato[12]. In quest’ottica le Sezioni unite ritennero che, in tema di responsabilità degli enti, qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, non può procedersi alla loro confisca nella forma per equivalente, ma solo in quella diretta, atteso che altrimenti l’espropriazione priverebbe il destinatario di un bene già nella sua disponibilità in ragione di una utilità invece non ancora concretamente realizzata dal medesimo[13].
Ciò che occorre ricordare, anche per quanto si dirà in seguito circa l’apporto fornito dai reati tributari alla nozione di profitto confiscabile, è che le Sezioni unite non hanno mai mancato di sottolineare l’importanza del nesso di pertinenzialità tra condotta illecita e conseguimento del profitto. In sintonia con i precedenti indirizzi, è stato infatti affermato, anche dopo la sentenza Fisiaimpianti[14] ed in linea con i suoi enunciati, come il profitto del reato presupponga l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente, con la conseguenza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo. E’ stato perciò ribadito come fosse necessaria una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito[15]. A questo proposito le Sezioni unite Caruso non hanno mancato di sottolineare come tale criterio di selezione non fosse scalfito da precedenti arresti[16] che, con riferimento alla confisca “diretta” (c.d. di proprietà) del profitto della concussione, aveva ricompreso nella nozione di profitto anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, avendo la pronuncia precisato che tale reimpiego doveva comunque essere “casualmente” ricollegabile al reato e al profitto “immediato” dello stesso.
Nondimeno è stato l’impatto della confisca con i reati tributari[17] che ha determinato una svolta particolarmente significativa nell’evoluzione giurisprudenziale del concetto di profitto. In questo tipo di incriminazioni, infatti, il vantaggio illecito conseguito dall’autore del reato consiste nella sottrazione a tassazione della ricchezza prodotta, cosicché, di regola, il profitto del reato si consegue attraverso l’inadempimento dell’obbligazione tributaria, inadempimento che solitamente si realizza con l’omesso versamento, in tutto o in parte, dell’imposta dovuta e, quindi, mediante un risparmio di spesa che non si risolve in un aumento della consistenza patrimoniale del soggetto (persona fisica o giuridica) tenuto al versamento dell’imposta ma si traduce in una mancata contrazione patrimoniale nel senso che, se l’obbligazione tributaria fosse stata assolta, sarebbe diminuita la consistenza patrimoniale dell’obbligato. In considerazione di questa particolare connotazione del profitto, ossia del mancato decremento del patrimonio e non già del conseguimento di un vantaggio in termini positivi di incremento dello stesso, le Sezioni unite[18] affermarono il principio secondo cui, in tema di reati tributari[19], il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario[20].
Sempre in tema di reati tributari, le Sezioni unite, nell’esaminare la questione circa la possibilità o meno di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa, scrutinarono anche la diversa e collegata questione sulla qualificazione come confisca diretta o per equivalente dell’ablazione di somme di denaro o beni fungibili, stabilendo il principio che la confisca del profitto, quando si tratti di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta[21]. Questa secca conclusione è stata supportata dalle Sezioni unite con il richiamo a diversi precedenti delle Sezioni semplici[22] nonché con il riferimento all’arresto delle Sezioni unite Miragliotta[23] segnalandosi che, in tutte le ipotesi richiamate, non si era in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto di reato, possibile ai sensi dell’art. 240 cod. pen. ed imposta dall’art. 322-ter cod. pen., secondo le cadenze descritte in tale ultima fattispecie. In questo modo, le Sezioni unite sono giunte non soltanto a qualificare estensivamente la nozione di profitto confiscabile, in quanto comprensivo di ogni utilità realizzata dal reo come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa, ma hanno fornito un indirizzo diretto a qualificare pro semper il sequestro del denaro come sequestro in forma specifica rendendo superfluo, in tal caso, il legame (cd. nesso di pertinenzialità) che deve sussistere tra la commissione del reato e il profitto.
Il percorso esegetico compiuto dalla sentenza Gubert è stato infine completato dalle Sezioni unite Lucci, che, nel ribadire che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[24], ha affermato che, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato[25].
4. L’attuale “stato dell’arte” nella giurisprudenza di legittimità.
Dopo la sentenza Gubert e prima della sentenza Lucci, la giurisprudenza di legittimità aveva osservato che, a proposito del sequestro in forma specifica del profitto per reati tributari commessi dal legale rappresentante nell’interesse della persona giuridica, il vincolo poteva essere disposto quando il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto fossero rimasti (e vi fosse la prova che fossero riconducibili al profitto e che fossero rimasti) nella disponibilità della persona giuridica[26]. Successivamente, dopo la sentenza Lucci, è stato affermato[27] che la natura fungibile del denaro, nel caso in cui il contribuente sia titolare di un rapporto di conto corrente che alla scadenza del debito tributario abbia un saldo negativo, non è sufficiente a qualificare di per sé come “profitto” l’oggetto del sequestro, essendo necessaria la prova che la disponibilità della somma successivamente sequestrata costituisca essa stessa risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta o che si tratti di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente per tutto il tempo che va dalla scadenza del termine (momento di perfezione del reato) alla data di esecuzione del sequestro. In altri termini, la somma di denaro prelevata, distratta o destinata ad altri fini dal contribuente prima della scadenza del termine, non può essere qualificata come profitto del reato, non potendovi essere “profitto” prima della consumazione del reato stesso. Sicché, per stabilire se il denaro costituisce profitto (e cioè risparmio di spesa) del reato di omesso versamento (e, dunque, che sia un bene aggredibile in via diretta) occorre aver riguardo esclusivamente alle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento, tenuto conto non alla loro identità fisica, ma al loro valore numerario che potrà essere oggetto di sequestro diretto solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il pagamento dell'imposta che a quello, successivo, del sequestro e non potrà mai essere considerato “diretto” per la parte eccedente il saldo al momento della scadenza, potendo essere concepito, in tal caso, solo “per equivalente”[28]. Cosicché è stato affermato il principio di diritto in forza del quale, in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (e di ritenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti), il profitto del reato consiste nel corrispondente risparmio di spesa e, in particolare, nelle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente alla data di scadenza del termine per il pagamento, disponibilità non versate all’erario. Ne consegue che il sequestro, per essere qualificato come finalizzato alla confisca diretta del danaro costituente il profitto del reato omissivo, non può mai essere disposto, né essere eseguito, per importi comunque superiori ai saldi attivi giacenti sui conti bancari e/o postali di cui il contribuente disponeva alla scadenza del termine per il pagamento. Sulla stessa linea si registra un successivo arresto della giurisprudenza di legittimità che, procedendo ad una rilettura della sentenza Lucci e richiamati i principi espressi dalle Sezioni unite, ha sostenuto che proprio l’affermazione, secondo la quale, per disporre la confisca in forma diretta, è necessario che le disponibilità monetarie del percipiente si siano corrispondentemente accresciute, consente di ritenere che, ove si abbia invece la prova che il denaro non possa in alcun modo derivare dal reato (come nel caso di specie, dove il conto, dopo essere sceso quasi a zero, era stato alimentato con rimesse di terzi, e quindi da nuova finanza, in virtù di un piano concordatario), le somme non possono rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte, non costituendo risparmio di imposta e, quindi, profitto, finanche mediato, del reato[29]. Si tratta di impostazioni, almeno in apparenza distoniche rispetto alle sentenze Gubert e Lucci, che non sono rimaste isolate. E’ stato infatti affermato che la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse, non derivando dal reato, non costituiscano profitto dell'illecito[30]. In un successivo arresto, è stato precisato nuovamente che, ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come “profitto” del reato l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta, conseguendo da ciò che, per accertare se il denaro costituisce profitto del reato tributario, e, cioè, un risparmio di spesa aggredibile in via diretta, è necessario avere riguardo non all’identità fisica delle somme, ma al valore numerario delle disponibilità giacenti sul conto dell’obbligato alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta, mentre il denaro versato successivamente a detto termine, che fosse stato sequestrato, non può essere ritenuto “profitto” del reato, ma rappresenta un’unità di misura equivalente al debito fiscale scaduto e non onorato, confiscabile se ricorrono i presupposti per la confisca per equivalente[31]. Recentemente, a proposito di un sequestro preventivo di una somma di denaro adottato, nei confronti di persona fisica e giuridica, quale profitto del reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 cod. pen.) e di gestione senza autorizzazione di presidi medico-sanitari (art. 193 R.D. n. 1265 del 1934), sono state chiaramente esposte[32] le coordinate ermeneutiche che fondano la distinzione tra sequestro “diretto” o “in forma specifica” e sequestro di “valore” o “per equivalente”. E’ stato ribadito, seguendo l’impostazione esegetica adottata in materia dalle Sezioni unite[33], che esiste una netta differenza tra la confisca diretta e la confisca di valore (o per equivalente), che risiede nel nesso di derivazione qualificata dal reato, nel senso che, nel primo caso, quel rapporto di derivazione esige che l’autore del reato venga privato del bene, fisicamente individuabile, che rappresenta il “beneficio” diretto dell’illecito, laddove nel secondo caso, non potendo essere disposta la confisca diretta, l’agente viene privato di beni nella sua disponibilità economica che, senza alcuna pertinenzialità con il reato, abbiano una consistenza equivalente al prezzo o al profitto dell’illecito. Tuttavia il profitto o il prezzo del reato può essere costituito da una somma di denaro, ossia da un bene che perde la sua identificabilità fisica e che, per la sua fungibilità, si confonde con le altre disponibilità economiche dell’agente. In tal caso, non potendosi, in genere, individuare nella sua materialità il bene destinato alla confisca diretta, è sufficiente constatare che il patrimonio dell’interessato si sia accresciuto in misura pari a quell’importo, con la conseguenza che in tali ipotesi l’ablazione di somme di denaro depositate su un conto corrente bancario deve sempre essere qualificata come confisca diretta, indipendentemente da una previa verifica di una diretta pertinenzialità con il reato e, quindi, prescindendo dalla prova che proprio quella somma di denaro sia stata versata sul conto e indipendentemente dai movimenti effettuati sul conto medesimo, in quanto ciò che rileva è che si sia accresciuto il numerario nella disponibilità economica del reo[34]. Date queste premesse, la sentenza[35] si fa carico di fornire una diversa esegesi applicativa del principio di diritto enucleabile dalla sentenza Lucci, affermando come la stessa, nel declinare i precedenti principi di diritto, richieda, nella sostanza, che, nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell’autore del reato, purché si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento: solo in tali ipotesi sarebbe, infatti, possibile ragionevolmente sostenere che il denaro sia sequestrabile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perché tale relazione sarebbe considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo. Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell’autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato - momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato stesso - si finirebbe per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro che, sebbene oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, solo con una inaccettabile “forzatura” possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito. D’altro canto, se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso. Su queste basi, è stato pertanto riaffermato il principio di diritto in forza del quale - laddove il profitto del reato sia costituito da denaro non più fisicamente identificabile - è sempre legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, senza che sia necessaria la dimostrazione del nesso di derivazione dal reato, delle somme di denaro di valore corrispondente che siano attribuibili all’indagato, cioè che siano presenti sui conti o sui depositi nella disponibilità diretta o indiretta dell’indagato al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento, con l’ulteriore precisazione che la medesima forma di sequestro deve ritenersi legittima anche sulle somme di valore corrispondente accreditate su quei conti o su quei depositi in epoca posteriore al momento della commissione o dell’accertamento del reato, purché si tratti di numerario che risulti dimostrato essere in qualche modo collegabile al reato, perciò allo stesso legato da un rapporto di derivazione anche indiretta[36].
Tuttavia occorre, a questo punto, dare conto del fatto che le ricadute interpretative scaturenti dalle sentenze delle Sezioni unite, in tema di confisca diretta o per equivalente del denaro, non siano state lette nel medesimo senso da una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità. L’ordinanza[37] in commento costituisce una chiara dimostrazione in tal senso ed anche la giurisprudenza di legittimità[38], invocando gli arresti delle Sezioni unite Gubert e Lucci, ha tracciato coordinate non in sintonia con i precedenti orientamenti. L’ordinanza del Tribunale di Siracusa si segnala, infatti, anche per il fatto di aver meritoriamente colto una contrapposizione negli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità, evidenziando un contrasto tanto esistente quanto inconsapevole. Le ragioni che costituiscono il fondamento del diverso indirizzo muovono dal presupposto[39] che la sequenza procedimentale, delineata nelle sentenze delle Sezioni Unite Lucci e Gubert, implica che, in caso di temporanea e reversibile infruttuosità del sequestro finalizzato alla confisca diretta, è possibile procedere al sequestro predisposto in vista della confisca per equivalente nei confronti dell’imputato ma ciò costituisce una facoltà per il pubblico ministero, facoltà che non preclude pertanto la possibilità di eseguire in qualsiasi tempo il sequestro in forma specifica, proprio perché il profitto del reato, in un primo momento non individuato, può essere successivamente scoperto. Secondo questa impostazione, le Sezioni unite Gubert e Lucci, con specifico riferimento al rapporto intercorrente tra confisca diretta nei confronti del soggetto percettore del profitto e confisca per equivalente nei confronti dei responsabili della commissione del reato, hanno chiarito che il sequestro in forma specifica ha natura di misura di sicurezza, mentre il sequestro di valore ha natura sanzionatoria[40] e che entrambe le misure vanno obbligatoriamente ordinate, ma che, in fase cautelare o in fase esecutiva, deve essere prioritariamente tentata l’apprensione del profitto del reato a carico della persona - fisica o giuridica che ne ha beneficiato, e che, solo in caso di incapienza, può essere aggredito, con la confisca per equivalente, il patrimonio dell’autore o degli autori del reato. In particolare, si sottolinea come le Sezioni Unite Gubert abbiano chiarito che in fase di esecuzione il rapporto tra i due provvedimenti ablatori è parallelo e progressivo, nel senso che è facoltà del pubblico ministero procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dei responsabili del reato anche in caso di impossibilità solo temporanea e transitoria di recuperare l’intero profitto a carico del soggetto che ne ha beneficiato, senza necessità di pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato, giacché, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela[41]. Da ciò si deduce che, se la ratio della deroga alla regola generale della prioritaria esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta coincide con l’esigenza cautelare di evitare la possibile dispersione e/o sottrazione dei beni suscettibili di sequestro per equivalente da parte degli imputati e tale deroga rappresenta una facoltà e non un obbligo per il pubblico ministero, sarebbe del tutto evidente che, una volta constatata la temporanea transitoria e parziale incapienza della persona percettrice del profitto del reato, il pubblico ministero non avrebbe altra possibilità che quella di aggredire, con il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il patrimonio dei soggetti responsabili del reato stesso, essendo preclusa la possibilità di continuare parallelamente e progressivamente l’esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, e quindi di sottoporre al vincolo cautelare anche le somme di denaro che in momenti successivi fossero entrati nella disponibilità del soggetto percettore del profitto del reato. Tuttavia, una volta stabilito che quando il profitto e il prezzo del reato è costituito da denaro, non occorre dimostrare il nesso di pertinenzialità tra le somme da sottoporre a sequestro e il reato, sicché non può evidentemente porsi un limite di carattere temporale all’esecuzione del sequestro, ma solo quello della concorrenza dell’importo complessivamente corrispondente al profitto o al prezzo del reato. Questa impostazione è stata sostanzialmente convalidata dalla Corte di cassazione[42] sul presupposto che le Sezioni unite Gubert e Lucci hanno affermato che, ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato. Si afferma come le Sezioni Unite Lucci abbiano sottolineato proprio la natura fungibile del bene, che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche del percipiente ed è tale da perdere - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, il che rende superfluo accertare, come si è in precedenza già evidenziato, se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del beneficiario del profitto del reato si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo. Cosicché è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario. Quindi, soltanto nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, perché, in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (non potendo l’oggetto della confisca diretta essere appreso, si legittima, così, l’ablazione di altro bene dell’imputato di pari valore). Da ciò l’ulteriore conseguenza che la confisca per equivalente, e prima ancora il sequestro finalizzato a detta confisca, ha funzione sussidiaria rispetto a quella tradizionale (confisca diretta) che ha connotati riparatori e finalità non repressive ma ripristinatorie dello status quo ante.
5. Futuri scenari e conclusioni.
Esaminate le ragioni che sono alla base dei segnalati orientamenti, la prima considerazione che se ne trae è che essi interpretano diversamente i dicta della sentenza Lucci. Inoltre, mentre per il primo indirizzo la sentenza Lucci sembrerebbe aver superato in parte qua alcune affermazioni contenute nella sentenza Gubert, per l’altro indirizzo le sentenze delle Sezioni unite disegnerebbero il medesimo percorso, impartendo principi complementari e, sulle medesime questioni, in perfetta sintonia tra loro. Ciò induce l’interprete ad interrogarsi su un problema di fondo, che è rimasto “sottotraccia” in seno alla giurisprudenza di legittimità, ossia sul se, in questa materia, le due sentenze delle Sezioni unite siano in consonanza tra loro, se e quali le eventuali differenze e quale il rapporto tra le Sezioni semplici e le Sezioni unite, qualora le prime affermino principi contrastanti con quelli declinati dal massimo organo di nomofilachia, tenuto conto della regula iuris di cui all’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.
Partendo da quest’ultimo argomento, che, in questa sede, può essere soltanto sfiorato, meritando un approfondimento a parte per i temi che esso richiede di affrontare[43], va immediatamente precisato che la disposizione pone un vincolo, la cui inosservanza è sfornita di sanzione processuale, nei confronti delle Sezioni semplici, vincolo che, indipendentemente dal fatto se sia ed in quale misura costituzionalmente legittimo, impone alle Sezioni semplici della Corte di rimettere alle Sezioni unite, con ordinanza, la decisione del ricorso quando le prime ritengano “di non condividere il principio di diritto enunciato” da queste ultime. Premesso che la disposizione mira ad assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie, attribuendo maggiore consistenza al “valore del precedente” declinato dalle Sezioni unite e premesso che la prevedibilità delle decisioni costituisce, in generale, un valore che va perseguito e che deve trovare forme che, all’interno dell’organizzazione giudiziaria, ne assicurino l’effettività, appare preferibile ritenere che il vincolo a carico della Sezione semplice sussista in stretta correlazione al principio di diritto enunciato, senza limiti temporali, dalle Sezioni unite ma per il quale la questione sia stata espressamente rimessa. Non è tuttavia chiaro se il vincolo sussiste in stretta relazione al principio così come espresso nella sua formulazione letterale o se si debba anche tenere conto dei passaggi motivazionali che sono stati posti a fondamento di esso. Appare preferibile la seconda soluzione e la problematica non è di poco momento se si considera che, qualora il vincolo si ritenga affrancato da limiti temporali, la questione rimessa alle Sezioni unite Lucci, per quanto qui interessa, fu così posta: “se, nel caso in cui il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario debba essere qualificata come confisca per equivalente ovvero come confisca diretta e, ove si ritenga che si tratti di confisca diretta, se, ed entro quali limiti, debba ricercarsi il nesso pertinenziale tra reato e denaro” e la soluzione fornita fu la seguente: “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”.
Passando ora al secondo argomento, circa la sovrapponibilità o meno delle affermazioni contenute nelle sentenze Gubert e Lucci, va detto che, mentre quest’ultima ritiene che il profitto del reato si identifichi con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[44], la Gubert, pur operando il riferimento a principi espressi dalle Sezioni semplici che evidentemente ha condiviso, sostiene che, nella nozione di profitto funzionale alla confisca, rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata dell’attività criminosa[45], pur avendo in precedenza riconosciuto che, quanto alla determinazione del profitto nei reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa come quello derivante dal mancato pagamento del tributo[46]. Quanto alla fungibilità di un bene della vita (es. denaro), sembra che la nozione di fungibilità sia intesa in senso diverso nelle due sentenze. Dice la Gubert[47]: “deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta” e, per rafforzare l’assunto, subito dopo afferma: “qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengono dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalenti all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare”, principio, quest’ultimo, ampiamente condivisibile ma che sembra funzionale alla confisca di valore e non alla confisca diretta. Sul punto, significativamente, la sentenza Lucci afferma che, quanto al denaro, bene fungibile per eccellenza e mezzo di pagamento, i “flussi possono essere, entro certi limiti, tracciabili e ricostruibili”, lasciando intendere che anche il denaro può essere oggetto di identificazione materiale o fisica e tuttavia afferma, in maniera perentoria, che, ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Successivamente, però, afferma che ciò che “rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma”, lasciando intendere che, ove ciò non si verifichi, non possono trarsi le auspicate conseguenze, ossia la legittimazione della confisca in forma diretta del relativo importo, aggiungendo tuttavia che “è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario” e concludendo che, “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”. In buona sostanza, la sentenza Lucci, da un lato, sembra che condivida i principi affermati dalla sentenza Gubert ma in tratti essenziali (concetto di fungibilità e tracciabilità del denaro, natura del profitto, accrescimento delle disponibilità monetarie) sembra tuttavia discostarsene.
Conclusivamente, quest’ultimo aspetto ed il fatto che la sentenza Lucci, in se stessa considerata, è stata fatta oggetto di diverse letture, entrambe plausibili, consente di ritenere che il tema sia ancora aperto e che la parola, che si auspica ultima, passi nuovamente alle Sezioni unite, indipendentemente dal principio espresso dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.
[1] L’importanza che la giurisprudenza di merito riveste nella materia dell’interpretazione della legge e
nella ricostruzione esegetica degli istituti giuridici potrebbe ritenersi scontata. Essa tuttavia meriterebbe una riflessione “a parte”. Si deve infatti registrare come i buoni principi, che i giudici di merito declinano nel quotidiano esercizio delle funzioni, spesso si disperdano, restando racchiusi nelle pandette delle Cancellerie che periodicamente li raccolgono, non essendo i provvedimenti, dopo la loro pubblicazione, sempre editi dalle riviste giuridiche, che pure si occupano talvolta di massimarli o di annotarli, con criteri di selezione peraltro non conosciuti. Sarebbe perciò auspicabile che l’organizzazione giudiziaria, rafforzando gli organici Massimario, si attrezzi per selezionare, secondo il protocollo adottato dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione o in altro trasparente modo, i contributi offerti dalla giurisprudenza di merito, anche rivitalizzando il canale “Merito” del CED, in passato esistente.
[2] Per un’analisi ex professo del tema, si rinvia alla relazione n. 41 del 17 giugno 2014 dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, redattore Piero Silvestri, dal titolo: La nozione di profitto confiscabile nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
[3] Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni, Rv. 205707, secondo cui “deve ritenersi pacifica in dottrina e giurisprudenza la definizione dei concetti di prodotto, profitto e prezzo del reato contenuti nell’art. 240 c.p. Il prodotto rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato”. In precedenza le Sezioni Unite avevano fondato la distinzione sulla dicotomia prezzo – provento, quest’ultimo costituito dal prodotto o dal profitto, affermando che, in tema di confisca, il “prezzo” del reato, oggetto di confisca obbligatoria ai sensi del secondo comma dell'art. 240 cod. pen., concerne le cose date o promesse per indurre l'agente a commettere il reato, mentre il “provento” dello stesso è invece riconducibile alla previsione normativa della confisca delle cose che siano “il prodotto o il profitto del reato”, contenuta nel primo comma del suddetto art. 240 (Sez. U, n. 1811 del 15/12/1992, dep. 1993, Bissoli, Rv. 192493).
[4] Sez. U , n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motiv.
[5] Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motiv.
[6] Sez. U, n. 41936 del 25/10/2005 , Muci, in motiv.
[7] Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700, Nel caso si specie, in tema di reato di concussione, il danaro era stato richiesto da un ufficiale di P.G. per l’acquisto di un immobile.
[8] Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, cit., in motiv.
[9] Si tratta di un aspetto opportunamente rimarcato nella relazione del massimario, cit,. dove si segnala come sia fondato ritenere, che, aderendo alla concezione causale, la giurisprudenza delle Sezioni unite per lungo tempo e in molteplici occasioni, da un lato, abbia richiesto, ai fini della confisca penale, un rapporto di pertinenzialità diretta del profitto con il reato, in forza del quale i beni da confiscare (anche per equivalente) sono stati determinati escludendo le maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e non essenziali alla commissione del reato medesimo e, dall’altro, abbia attribuito alla derivazione causale del provento dal reato una valenza definitoria e delimitativa del concetto: il “profitto del reato” è tale in quanto, e solo in quanto, derivi causalmente dal reato medesimo. In tale quadro di riferimento, si sottolinea come, invece, nell’ambito della disciplina del d.lgs. n. 231 del 2001 sia stata maggiormente avvertita la necessità di una differente approccio metodologico nella individuazione della nozione di profitto del reato, privilegiando non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale, come tale lecita.
[10] Il riferimento è all’articolo 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. in forza del quale se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso.
[11] v. sub nota 7.
[12] Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 Fisiaimpianti, Rv. 239924
[13] Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 cit., Rv. 239927
[14] In particolare, Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motiv.
[15] V. Sez. U. n. 920 del 19/01/2004, Montella, in motiv.)
[16] Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, Miragliotta, cit.
[17] Ciò è accaduto a seguito della previsione di cui all’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244 (ora art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000), rendendo applicabile l’art. 322-ter cod. pen. ai reati tributari.
[18] Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036
[19] A proposito del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000.
[20] cfr. Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Mazzieri, Rv. 253480; Sez. 3, n. 11836 del 04/07/2012, dep. 2013, Bardazzi, Rv. 254737.
[21] Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014. In dottrina cfr. L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. Pen. Cont., 13 novembre 2010; F. MUCCIARELLI, C. E. PALIERO, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Dir. Pen. Cont. Riv. Trim, 4, 2015, p. 255; M. ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir e Proc. Pen., 4, 2015, pag. 1674 e ss.
[22] Sez. 6, n. 30966 del 14/06/2007, Puliga, Rv. 236984 secondo cui, nel caso in cui il profitto del reato (di concussione) fosse costituito da denaro, il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art.322-ter, comma primo, cod. pen.; Sez. 3, n. 1261 del 25/09/2012, dep. 2013, Marseglia, Rv. 254175, secondo cui , in tema di reati tributari, qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare; Sez. 6, n. 23773 del 25/03/2003, Madaffari, Rv. 225757 secondo cui è ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi; Sez. 2, n. 45389 del 06/11/2008, Perino, Rv. 241973 secondo cui, in tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa; Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994, dep. 1995, Giacalone, Rv. 200855 secondo cui la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Secondo questa impostazione, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa.
[23] Come si è visto, le Sezioni unite avevano ritenuto che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., costituisse “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro fosse causalmente collegabile al reato e fosse soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, cit.).
[24] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436.
[25] Sez. U, n. 31617 del 26/06/20, Lucci, Rv. 264437.
[26] Sez. 3, n. 39177 del 08/05/2014, Civil Vigilanza, non mass. sul punto, in motiv.
[27] Sez. 3, n. 28223 del 09/02/2016, Scarpellini, non mass., in motiv.
[28] cfr. P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017, p. 1694 e ss.
[29] Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, dep. 2018, Barletta, Rv. 272353.
[30] Sez. 3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307. Nel caso di specie, si trattava del reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in cui è stato escluso che le somme di denaro depositate sul conto corrente dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione IVA potessero rappresentare il profitto derivante dall'evasione fiscale.
[31] Sez. 3, n. 6348 del 04/10/2018, dep. 2019, Torelli, Rv. 274859.
[32] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, Sena, in corso di massimazione.
[33] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, cit.
[34] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, cit.
[35] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, cit.
[36] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, cit.
[37] Trib. Riesame Siracusa, ord. 17/10-30/10/2018, v. sub §2.
[38] Ex multis, Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, Salvini, non mass.
[39] E’ il caso di precisare che il ragionamento è sviluppato tenendo conto del contenuto del motivo di ricorso sviluppato, con ineccepibile logica giuridica, dalla Procura della Repubblica di Genova nel procedimento definito con la sentenza Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit., in quanto in linea con le tesi recepite dall’indirizzo giurisprudenziale che si sta qui esaminando. Sul punto, v. Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit., nella parte relativa al ritenuto in fatto.
[40] In dottrina: P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017, p. 1694 e ss.; A. MACCHIA, Le diverse forme di confisca: personaggi (ancora) in cerca d’autore, in Cass. Pen., 7-8, 2016, pag. 2719 e ss.; G. BIONDI, La confisca per equivalente: pena principale, pena accessoria o tertium genus sanzionatorio? In Dir. Pen. Cont. Riv. Trim., 5, 2017, p. 51 e ss.; L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. Pen. Cont, 13 novembre 2010; P. AURIEMMA, La confisca per equivalente, in Archivio Penale, 1, 2014; F. PALAZZO, in Cass. Pen., 2, 2018, p. 461 e ss.; M. ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir e Proc. Pen., 4, 2015, pag. 1674 e ss.
[41] Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648.
[42] Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit.
[43]G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto in www.penalecontemporaneo.it, 2018; F. Paglionico, Il precedente vincolante e la rimessione obbligatoria alle Sezioni Unite: tra tradizioni giuridiche e spinte europeiste, in www.iusitinere.it, 2018, secondo cui si impone una necessaria analisi dei profili di compatibilità del precedente vincolante con i caratteri distintivi del nostro ordinamento giuridico, in cui l’adesione al precedente avviene in virtù della sua persuasività, determinata dall’autorevolezza riconosciuta alle decisioni dell’organo da cui promanano, e non perché la legge imponga un obbligo ai giudici, previsione che, peraltro, si porrebbe in contrasto con la regola costituzionale secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.); Nello stesso senso, C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione? in Giur.it., ottobre 2017, 2300, ove si sottolinea che «le modifiche legislative apportate nella direzione dell’affermazione della vincolatività del principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rischiano di erigere a fonte del diritto penale o del diritto processuale penale le stesse Sezioni Unite. Se da un lato vi è l’esigenza di garantire la prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali, dall’altro vi è la inderogabilità dei principi fondanti lo Stato di diritto: il bilanciamento presuppone che l’adesione ai dicta delle Sezioni Unite avvenga per convinzione e non per legge»; G. Civinini, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Questione Giustizia, 2018; A, Caligaris, Le modifiche all’art. 618 cpp: verso un effettivo ed auspicato potenziamento della funzione nomofilattica, in Legislazione penale, 2018; M. Giualuz, Alla ricerca di soluzioni per una crisi cronica: sezioni unite e nomofilachia dopo la "riforma Orlando", in processo penale e giustizia, 2018.
[44] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264436.
[45] Pagine 9 e 10 della motivazione.
[46] Pagina 8 della motivazione.
[47] Pagina 9 della motivazione.
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