Il giudice è garante della dignità umana?
di Stefano Petitti[i]
Il libro di Roberto Conti rappresenta un importante contributo allo studio e alla sistematizzazione di tematiche di grande rilievo e di grande complessità. Il pregio maggiore, a me sembra, sia il tentativo, più ancora che di dare soluzioni a questioni quali quelle evocate nel titolo (questioni di vita e di morte), di individuare un metodo per porre in condizioni il giudice di orientarsi e pervenire alla decisione auspicabilmente più giusta e più aderente al caso della vita sottoposto alla sua attenzione.
E questo metodo mi pare sia caratterizzato, in primo luogo, dal principio di collaborazione, declinato sia nel rapporto tra giudice e legislatore, quale espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica di cui all’art. 54 Cost., sia all’interno delle diverse giurisdizioni, nazionali e sovranazionali; in secondo luogo, dal ricorso alla comparazione quale criterio per la soluzione di casi nuovi.
Il tutto ispirato dalla esigenza di orientare le soluzioni di volta in volta necessarie alla tutela della dignità umana.
Indubbiamente, il nostro ordinamento, da ultimo con l’approvazione della legge n. 219 del 2017, alla quale risulta in gran parte dedicato il libro, ha espressamente accomunato la dignità al livello dei diritti fondamentali alla vita alla salute e all'auto-determinazione della persona (art. 1, comma 1) e poi esplicitando la necessità del rispetto alla dignità nella fase finale della vita (art. 2), ed ancora affermando che le manifestazioni di volontà relative ai trattamenti sanitari dei minori e degli incapaci, siano finalizzate al rispetto della dignità degli stessi.
Con tale legge, ricorda Conti, il nostro ordinamento ha sostanzialmente normativizzato alcune soluzioni giurisprudenziali adottate nella seconda metà del decennio scorso in tema di interruzione di terapie salvavita. Soluzioni giurisprudenziali intervenute in una situazione di carenza normativa, rispetto alla quale i giudici si sono fatti carico di individuare, sulla base dei principi e attraverso il metodo di cui si è detto, la soluzione al caso della vita sottoposto alla loro attenzione. Quale fosse la portata innovativa e di quelle decisioni risulta del resto evidente anche nella vicenda più recente, e cioè quella alla quale si riferisce l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale.
In tale vicenda, infatti, viene dato per acquisito in fatto che alla parte interessata, prima ancora della approvazione e della entrata in vigore della legge n. 219, è stata prospettata la possibilità della interruzione dei trattamenti terapeutici in atto; pratica, questa, ritenuta ammissibile, in quel momento, solo sulla base dei principi giurisprudenziali.
Orbene, che quei principi e quelle soluzioni fossero finalizzati alla tutela della dignità della persona interessata a sospendere i trattamenti sanitari, oltre ad emergere in modo chiaro dalle decisioni stesse, è oggi una realtà normativa.
Come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 293 del 2000), la tutela della dignità della persona umana è un valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque orientare sia l'interpretazione delle disposizioni esistenti, ove la loro applicazione sia suscettibile di incidere su quel valore, sia la individuazione della soluzione più adeguata al caso concreto, ove l’ordinamento presenti una lacuna nella disciplina della fattispecie.
Quanto al tentativo di definire il concetto di dignità, Conti afferma essere “insito nel concetto di dignità ed, anzi, ne rappresenta la forza vivificante, il carattere composito, al cui interno convivono la dignità come valore intrinseco di ciascun essere umano, che impedisce ogni attentato alla libertà, identità ed integrità della persona, ma anche la dignità come merito sociale e ancora la dignità come diritto all’autodeterminazione o come statura morale di una persona rispetto a determinati comportamenti di rilievo morale o come autopercezione del proprio valore”, evidenziando, ad un tempo, per un verso la difficoltà di enucleare dal concetto “dei connotati oggettivi e standardizzati e, per l’altro verso, la necessità di usare estrema accortezza nell’utilizzare il canone della dignità come risolutivo rispetto ai vari casi che si possono presentare innanzi al giudice”.
In realtà, nelle interpretazioni giurisprudenziali, ma anche nella ricostruzione del valore “dignità” espresse dalla dottrina, possono individuarsi due diverse prospettive della rilevanza giuridica della dignità. Per un verso, la dignità coincide sostanzialmente con l’attributo primo e irrinunciabile della persona: si tratta di un concetto che discende dal principio personalista che ispira il nostro ordinamento e in forza del quale la persona merita assoluto rispetto di per sé. Per altro verso, essa, pur configurandosi come un presupposto del riconoscimento del valore della persona in quanto tale, opera anche con riferimento all’essere umano nella sua vita di relazione e più in generale, all’essere umano come soggetto della società in cui vive, in una dimensione che supera quella della tutela dell’individuo, per cogliere quest’ultimo nei suoi rapporti con gli altri.
L’applicazione del valore della dignità della persona umana, proprio per la sua qualificazione come valore costituzionale, investe sia il giudice comune che la Corte costituzionale e nel rapporto tra tali organi si cerca di pervenire alla individuazione della soluzione più appropriata al caso; soluzione che può essere quella della interpretazione costituzionalmente conforme o, venendo in rilevo diritti fondamentali, convenzionalmente e comunitariamente conforme, ovvero attraverso la proposizione di questioni di legittimità costituzionale e, in questo secondo caso, attraverso la adozione di soluzioni interpretative di rigetto o di accoglimento.
Nel considerare il rapporto tra giudice comune e corte costituzionale, vengono qui alla mente le questioni concernenti l'art. 1 della l. n. 164 del 1982, e il successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, in relazione alle quali la Corte di cassazione ha affermato, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata, che per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale. Qui la dignità umana opera in modo prevalentemente soggettivo, valorizzandosi in termini assoluti la volontà e la concezione che la persona ha di se stessa, ritenendosi prevalente tale profilo sul concorrente interesse pubblico alla stabilità dello status. Tale connotazione risulta ancor più evidente ove si consideri che la soluzione affermata dalla Corte di cassazione è stata assunta dalla Corte costituzionale a fondamento della decisione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, che pure era stata sollevata in proposito, nella quale si rileva che il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato individuato affidando al giudice, nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l'entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l'identità personale e di genere.
Sotto altro profilo, invece, per una diversa colorazione del valore della dignità umana, assumono rilievo le decisioni in tema di riconoscimento di sentenze straniere di attribuzione dello status di filiazione in assenza di rapporto biologico tra il genitore intenzionale e il minore. Il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari. E qui, giocano un ruolo assai significativo le decisioni della Corte costituzionale, nelle quali si esplicita “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”.
Ecco, quindi, che la previsione di una sanzione penale per una determinata condotta sembrerebbe precludere la possibilità di ritenere la stessa espressione di dignità umana e quindi di consentirne una comparazione e un bilanciamento con altri valori che si ritengano a loro volta espressione della dignità della persona.
Un simile approccio è però contraddetto dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, la quale, pur in presenza di una disposizione che sanziona penalmente l’aiuto al suicidio, ha enucleato alcuni elementi del fatto che possono essere ritenuti, da un lato, espressivi della particolare rilevanza del principio personalista che ispira il nostro ordinamento e, quindi, del principio di autodeterminazione, da tutelare ora in via tendenzialmente assoluta anche per disposizione di legge ordinaria; dall’altro, ha dubitato – anzi, ha accertato ancorché non dichiarandola - la non conformità a costituzione della sanzione penale prevista nei confronti di chi agevoli il suicidio nel caso in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
A tale accertamento, ancora non dichiarato, la Corte perviene valorizzando in termini assai espansivi il valore della dignità della persona umana, ritenendo che sia meritevole di tutela anche la percezione soggettiva e personale della propria dignità da parte di un malato che venga a trovarsi in quelle condizioni (non consentendo al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte - si afferma -, “si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”).
La prestazione di aiuto nei confronti del malato, quindi, non integrerebbe la violazione del precetto penale allorquando quell’aiuto sia strettamente strumentale alla realizzazione di un proposito consapevolmente maturato da parte del soggetto o al momento della formulazione della richiesta ovvero in anticipo, secondo le modalità di cui alla legge n. 219 del 2017.
Ciò che viene in rilievo è, dunque, la percezione che ciascun individuo ha di se stesso e tale percezione è a tal punto significativa da poter escludere dall’ambito del penalmente rilevante una condotta che quella convinzione di sé concorra a realizzare.
In proposito, mi pare assumano un rilievo del tutto particolare alcune affermazioni contenute in una sentenza della Corte costituzionale (n. 467 del 1991) che, pur se formulate in relazione alla obiezione di coscienza al servizio militare per motivi religiosi o filosofici, assumono una portata di carattere generale, tanto da consentire di individuare in esse la esplicitazione del concetto di dignità umana. Afferma la Corte nella citata decisione che “a livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.
Di qui deriva che - quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell'uomo, (…) - la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell'idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale (…), la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall'assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”.
La valorizzazione della coscienza individuale quale fondamento della dignità umana può operare, dunque, come causa di esclusione della illiceità penale allorquando la stessa si collochi in un contesto di concorrente sussistenza di interessi meritevoli di tutela in quanto espressivi di valori costituzionali. E così, nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare, la Corte ha ritenuto che il valore della coscienza individuale dovesse essere dal legislatore posto in bilanciamento con altri interessi pure costituzionalmente tutelati, ed ha ritenuto prevalente la tutela del valore individuale. Una simile opera di bilanciamento pare indispensabile allorquando la coscienza individuale venga opposta all’adempimento di un dovere penalmente sanzionato.
Nel caso dell’art. 580 c.p., invece – e limitando per ovvie ragioni di rilevanza le considerazioni alla sola ipotesi di agevolazione del suicidio in favore di un soggetto consapevolmente determinatosi a togliersi la vita e tuttavia impossibilitato a perseguire il proprio proposito autonomamente – ciò che viene in rilievo ai fini della affermazione del valore della coscienza individuale non è l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente: la legge n. 219 del 2017, invero, ha consacrato l’inesistenza di un dovere di vivere.
E’ questo un dato che la stessa Corte costituzionale ha rilevato, affermando nella ordinanza n. 207 che “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (…) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. “Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce quindi per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.
Se così è, allora, l’agevolazione nella realizzazione della consapevole scelta di interrompere la propria vita da parte di un soggetto che si trovi nelle descritte condizioni si risolve nell’affermazione più piena della dignità della persona, intesa quale coscienza che quella persona ha di se stessa. Né in ipotesi siffatte potrebbe opporsi la sussistenza della condizione che giustifica, nella impostazione prescelta dalla Corte costituzionale, la persistente validità della previsione di una sanzione penale per la condotta di aiuto nei confronti del suicida, e cioè la vulnerabilità di quest’ultimo. Nelle ipotesi delineate, infatti, ciò che certamente non fa difetto alla persona che invoca la realizzazione della propria dignità attraverso un ausilio nella morte, sono proprio quelle condizioni la cui mancanza potrebbe far ipotizzare una scelta non sufficientemente consapevole, e segnatamente l’assistenza familiare e le cure.
Certo, la stessa Corte costituzionale ha ritenuto di non poter dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nei termini prima indicati, rilevando la indispensabilità di un intervento del legislatore. Tale intervento non si è verificato, sicché, tra pochi giorni, la Corte costituzionale sarà nuovamente investita della questione.
Molto si è scritto sulla vicenda, sia quanto alla tipologia della decisione adottata sia quanto alla efficacia della stessa, se cioè in essa sia contenuta un’anticipazione di una decisione già assunta ovvero se la formula adottata – rinvio della trattazione delle questioni sollevate – implichi la piena disponibilità, da parte del Collegio della decisione, che potrebbe in ipotesi non comportare una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Tuttavia, quale che sia la decisione che la Corte adotterà, credo si possa sin d’ora affermare che la stessa non potrà essere risolutiva, rimanendo sempre affidato al giudice comune il compito di assicurare la tutela della dignità umana. E’ infatti possibile ipotizzare – e in molti commenti già lo si è fatto – che la resecazione della ipotetica illegittimità costituzionale possa creare un deficit di tutela della dignità di quelle persone che, pur trovandosi nella medesime condizioni patologiche in cui si è trovato l’Antoniani, non sono tuttavia tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.
Così come suscettibile di valutazione in ambito giudiziario sarà sempre e comunque l’accertamento della consapevolezza e libertà della scelta praticata dalla persona e del suo convincimento della possibilità di affermare la propria dignità attraverso l’abbandono della vita.
Ciò che conta è che il giudice comune chiamato a dare soluzione a tali nuovi casi si accosti alla decisione con la metodologia ampiamente evidenziata nel libro di Conti, in uno spirito di fedeltà e di leale collaborazione sia rispetto agli altri organi giurisdizionali, sia rispetto alle determinazioni del legislatore ove queste dovessero intervenire.
Ed è questo credo il messaggio più forte che si trae dalla lettura del libro di Roberto: il giudice è certamente garante della dignità umana.
Intervento svolto al convegno svoltosi presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione il 10 settembre 2019 sul tema “Il giudice è garante della dignità umana?”