ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
IL DRAFTING NORMATIVO: lingua e diritto nella Biblioteca di Babele
di Katia Laffusa
La qualità della scrittura delle norme non è questione tecnica o puramente stilistica, ma pone un reale problema di democrazia.
Occorre riconoscere che la chiarezza del diritto, la comprensibilità e la fruibilità dei testi legislativi sono un imprescindibile valore, uno dei pilastri del vivere democratico.
L’ accessibilità alle norme per i cittadini è sinonimo di certezza del diritto, di effettività ed efficienza dell’impianto normativo: una norma chiara è meglio compresa, dunque meglio interiorizzata e percepita nella sua obbligatorietà.
Del resto, una disposizione normativa acquista senso solo se incontra i suoi destinatari: solo la recezione getta luce su un testo che diversamente rimarrebbe lettera morta.
Il linguaggio giuridico ha in effetti una capacità poietica dirompente: orienta la vita quotidiana di ciascuno, creando una trama di possibilità e divieti, indirizzando l’agire del singolo cittadino e il suo essere nel mondo in una dimensione comunitaria.
E’ innegabile che in questo arcaico meccanismo ci sia qualcosa di straordinario: si tratta probabilmente della più remota forma di fictio collettiva, che nasce e si nutre di linguaggio.
Questa caratteristica è palese in circostanze ordinarie ma in circostanze straordinarie -come una pandemia- è ancor più evidente.
Per c.d. drafting normativo si intende quel complesso di strumenti e tecniche di redazione dei testi legislativi.
Si tratta - perlomeno nel panorama italiano - di un profilo controverso e spesso sottovalutato: in primis perché percepito come attinente ad un ambito tecnico-formale piuttosto che contenutistico-sostanziale e, in secondo luogo, perché non sembra esserci una piena consapevolezza delle implicazioni del tema soprattutto a livello politico-istituzionale.
A questa percezione distorta consegue una sorta di sciatteria della parola che, in un contesto emergenziale, oltre ad essere estremizzata è ancor più insopportabile: il legislatore riversa in Gazzetta Ufficiale fiumi di parole, decine di articoli, commi, rinvii, allegati cui si aggiungono copiose informazioni sui siti istituzionali, FAQ.
Vocaboli ambigui, barocchismi, formulazioni lunghe e periodi joyciani caratterizzano il nostro legislatore che da tempo persegue una coerente tecnica normativa che genera un’autentica fatica di lettura anche su temi e argomenti su cui si imporrebbe immediata chiarezza di contenuto.
Non fa purtroppo eccezione la recente legislazione emergenziale, dove l’uso reiterato di intricati rinvii risulta dominante: basti pensare che il c.d. decreto Cura Italia contiene un numero preoccupante di rinvii circa 194, tra cui uno addiritutra al Regio Decreto 14 aprile 1910, n. 639).
Da ultimo, si veda il d.p.c.m del 17 maggio 2020 che consta di 11 articoli ma di commi composti da periodi lunghi e dalla scarna punteggiatura, interi alfabeti di lettere e una struttura confusionaria.
Alle difficoltà di comprensione dovute alle ambiguità nella redazione delle norme (sia in riferimento all’uso delle parole che alla struttura del testo) si aggiunge - ad aggravare il quadro - una difficoltà in tema di fonti normative: un mare magnum di decreti, ordinanze, linee guida, protocolli. Un vero e proprio epitaffio del diritto.
«Dunque, l’odierno drafting legislativo suscita grida di dolore, invettive, sberleffi, rimpianti»[1].
Tuttavia, occorre evidenziare come, malgrado l’attuale ed evidente patologia, il tema della buona scrittura delle leggi sia presente da lungo tempo nel dibattito giuridico internazionale ed italiano.
Già alla fine degli anni Ottanta tre circolari emanate dai Presidenti di Camera e Senato, d’intesa con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno affrontato il tema della chiarezza e comprensibilità dei testi legislativi.
Negli anni successivi sono state pubblicate dal Presidente del Senato due Circolari: la prima concernente regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi del 20 aprile 2001[2] e la seconda del 1997 in tema di istruttoria legislativa nelle Commissioni.
Frutto di una certa sensibilità nei riguardi del drafting è poi il c.d. Codice di Stile delle comunicazioni scritte ad uso delle Pubbliche Amministrazioni del 1997, in cui si rinvengono una serie di raccomandazioni in tema di stile e stesura dei testi amministrativi. Le indicazioni contenute nel Codice mirano, ad esempio, a ridurre gli arcaismi, ad utilizzare espressioni di linguaggio corrente, ad evitare latinismi, a preferire l’indicativo piuttosto che il congiuntivo.
Ancora, nella Circolare del 2 maggio 2001 della Presidenza del Consiglio del Ministri ‘Guida alla redazione dei testi normativi’ si legge: «la corretta formulazione della disposizione normativa evita qualsiasi ambiguità semantica e sintattica e persegue gli obiettivi della semplicità espositiva e della precisione di contenuto»[3].
Si aggiungano le suggestioni contenute ad esempio nel Manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome del 2007 laddove si legge: «scrivere una buona legge non è cosa poi troppo diversa dal costruire un ponte»[4].
Ulteriore interessante riferimento è poi la l. n. 69 del 18 giugno 2009 che all’art. 3 detta una disciplina in tema di chiarezza dei testi normativi[5] e di semplificazione.
In ambito giurisprudenziale è poi opportuno ricordare come, a partire dalla storica sentenza n. 364 del 1988 sulla illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. (nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile), si sia fatto strada il tema della conoscenza e della conoscibilità delle norme (in tal caso in ambito penale) come principio fondamentale cui ispirare i rapporti tra norma e destinatari della stessa.
Del resto, soltanto una norma formulata in maniera chiara e comprensibile può pretendere la sua obbligatorietà.
Una particolare attenzione alla chiarezza e alla qualità della normazione deriva inoltre dal prezioso contributo della c.d. Better Regulation di derivazione europea. Le Better Regulation Guidelines si occupano di Better Drafting of Legal Acts, evidenziando il nesso tra scrittura degli atti normativi ed effettività delle norme: «If legislation is clear it can be implemented effectively, citizens and economic actors can know their rights and obligations and the courts can enforce them»[6].
In una prospettiva storica e internazionale è poi doveroso citare alcuni preziosi contributi: di drafting si occupò infatti già nel 1940 Sir Winston Churchill con un memorandum di una sola pagina dal titolo ‘Brevity’, un invito alla redazione dei documenti governativi in modo chiaro e conciso: «But the saving in time will be great, while the discipline of setting out the real points concisely will prove an aid to clearer thiking»[7].
In tempi recenti poi il Presidente Barack Obama ha siglato un importante documento in tema di drafting e qualità della produzione normativa a livello federale, ossia il c.d. Plain Writing Act del 2010, la cui finalità è espressa chiaramente dalle seguenti parole: «citizens deserve clear communications from government»[8].
La buona scrittura delle norme è dunque un tema delicato, presente nella sensibilità del mondo giuridico sia nei sistemi di Civil Law che di Common Law.
Procedendo ad un’analisi in chiave comparativa, ad esempio, è possibile evidenziare come l’approccio al tema del drafting sia diversamente declinato e affrontato per ragioni sia storiche che culturali[9]: nei Paesi di Common Law la redazione dei testi normativi è centralizzata (in genere affidata ad un unico ufficio il c.d. Central Drafting Unit), di competenza di redattori professionisti che nella scrittura dei testi seguono istruzioni dettagliate e standardizzate; i Paesi di Civil Law usano un approccio meno omogeneo, laddove sovente il testo legislativo è oggetto di plurime stesure e revisioni da parte di più autori. La versione finale del testo è pertanto frutto di un lavoro a più mani.
Attenta dottrina[10] ha messo in luce come una caratteristica dirimente tra i due sistemi attenga al rapporto tra drafting legislativo e politica: mentre i sistemi di Common Law concepiscono il drafting come pura forma e pura tecnica [11] , cioè come un’operazione di scrittura avulsa dalla politica, nei Paesi di Civil Law - con maggiore avvedutezza - la scrittura della norma è fortemente connessa alla volontà degli organi rappresentativi, alla circostanza che la legge è soprattutto traduzione di una visione politica in parole.
Il linguaggio del diritto ha dunque una portata programmatica e necessita per tale ragione, più che di altri registri linguistici, di un forte grado di consapevolezza: «poiché non vi è pensiero giuridico se non in quanto sia chiaro, tutto ciò che è oscuro può appartenere forse ad altre scienze, ma non al diritto!»[12].
Il giurista ha cioè per vocazione una predilezione per la parola ed è innegabile la necessità di un tecnicismo e di una specializzazione del linguaggio giuridico. Diversamente, se la soddisfazione di tale esigenza diventa occasione di ambiguità, allora da caratteristica saliente ne diviene il vulnus.
Se da una parte dunque il linguaggio tecnico sembra un ostacolo alla comprensibilità del testo, in qualche misura foriero di ambiguità e ‘distanziamento sociale’, di contro non è auspicabile nemmeno l’opposto, ossia un linguaggio giuridico avulso da tecnicismi: la lingua italiana è una lingua ricca, le cui parole hanno numerose sfumature di significato. Il tecnicismo risponde all’esigenza di arginare l’ambiguità derivante dall’essere una parola di linguaggio comune gravida di polisemia.
Occorrerebbe comprendere semplicemente che legiferare significa primariamente comunicare, senza scomodare Jakobson e lagnarsi con Amleto delle «cabale della legge».
Appare dunque auspicabile impostare il problema in chiave costituzionale, pensare alla scrittura e alla comprensione del diritto come un valore che permea il nostro ordinamento e che fa da humus ai principi costituzionali e ai diritti fondamentali.
La libertà passa cioè attraverso la realizzazione di un dialogo tra cittadini ed istituzioni fondato su correttezza e franchezza comunicativa.
Pertanto, l’attenzione nei riguardi della buona scrittura delle norme dovrebbe essere un obiettivo condiviso da tutti coloro che si occupano di diritto. A tal fine, sarebbe auspicabile una rinnovata sensibilità nei riguardi del drafting anche nella fase di formazione dei giuristi.
Lo studio delle tecniche di redazione dei diversi tipi di testi giuridici- magari abbinato ad esercizi di scrittura- appare oggi indispensabile, non solo per la professionalizzazione di un buon giurista ma anche per stimolare una maggiore consapevolezza nei riguardi di un tema ancora troppo nell’ombra.
[1] V. Roppo, Note minime in tema di drafting legislativo e revisione del codice in Drafting legislativo (per una revisione del Codice civile) intervento tenuto presso l’Università di Roma Tre, 25 gennaio 2019.
[2] https://www.senato.it/application/xmanager/projects/senato/file/repository/istituzione/regole_testi_legislativi.pdf
[3] ‘Guida alla redazione dei testi normativi’, Circolare del 2 maggio 2001 della Presidenza del Consiglio del Ministri.
[4] Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, Terza edizione dicembre 2007, adottato dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia con deliberazione n. 11 del 20 maggio 2008 p.21.
[5] Art. 3. (Chiarezza dei testi normativi)
1. Al capo III della legge 23 agosto 1988, n. 400, prima dell'articolo 14 e' inserito il seguente: "Art. 13-bis. - (Chiarezza dei testi normativi). - 1. Il Governo, nell'ambito delle proprie competenze, provvede a che:
a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate;
b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonche' in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo ovvero la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento o il principio,
contenuto nelle norme cui si rinvia, che esse intendono richiamare.
2. Le disposizioni della presente legge in materia di chiarezza dei testi normativi costituiscono principi generali per la produzione normativa e non possono essere derogate, modificate o abrogate se non in modo esplicito.
[6] Better Regulation Guidelines- Brussels, 7 July 2017 SWD (2017) 350 COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT, p.36
[7] W. Churchill, ‘Brevity’, Memorandum, 9th August, 1940.
[8] Federal Plain Language Guidelines, March 2011, Introduction, p.1 https://www.plainlanguage.gov/media/FederalPLGuidelines.pdf
[9] Cfr. Constantin Stefanou’ Comparative Legislative Drafting -Comparing across Legal Systems in European Journal of Law Reform, 2016
[10] Idem
[11] “The central drafting office considers neither policy nor substance, just form” , Ivi, p. 129
[12] V. Scialoja, Diritto pratico e diritto teorico, in «Rivista del diritto commerciale», IX (1911), I, p. 942;
L’ufficio del massimario tra mito e leggenda
di Donatella Salari
Dice bene Vladimiro Zagrebelsky [1] che “l’idea illuministica del giudice bocca della legge, proclamata dai Montesquieu, dai Robespierre, dai Beccaria è tramontata, almeno da quando il magistrato interprete della legge deve orientarne la lettura in modo da renderla compatibile con la Costituzione e le Carte europee e internazionali dei diritti fondamentali, per renderla capace di concretizzarne principi e valori. L’idea che le varie interpretazioni della legge da applicare alle controversie da decidere comprendano una interpretazione esatta, distinta da interpretazioni sbagliate è ormai priva di fondamento”.
Mi pare, perciò, che ciascuno di noi non possa che sottoscrivere queste parole, perché esse presidiano, innanzitutto, l’indipendenza della giurisdizione, ossia quel valore fondante che, più di tutti, è oggi insidiato da forme di populismo che impediscono qualsiasi ragionamento di una minima complessità e che favoriscono autoreferenzialità e ripiegamenti verso un arcadico “diritto oggettivo” che il giudice si limiterebbe a celebrare scevro da ogni interpretazione che lo coinvolga in un confronto con la realtà circostante e con i cambiamenti perenni che la plasmano
Tutti sappiamo, rispetto a questo scenario, quale sia la funzione fondante della Corte di Cassazione.
Essa, infatti, assicura l'esatta osservanza delle leggi nelle decisioni dei giudici per mezzo del sindacato di legittimità esercitato nel tempo. Infatti, attraverso il “precedente” delle decisioni osservato, registrato e catalogato la Corte crea la nomofilachia, ossia presidia la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge e dell’unità del diritto oggettivo nazionale verificando se un determinato assetto interpretativo che riveli una tendenziale stabilizzazione, possa costituire “diritto vivente”, nel senso che ogni esegesi stabilizzata ed aggiornata possa intendersi come recupero di certezza del diritto davanti ad una produzione legislativa alluvionale, restituendo sistematicità e chiarezza all’ordinamento normativo al momento della sua applicazione.
Ora, questo meccanismo non ha solo un valore di pura tenuta del sistema, ma riveste anche un ruolo giuridico fondante perché, come tutti sanno, se il precedente si è stabilizzato, né la Corte a sezioni semplici, né il giudice di merito possono sconfessarlo in assenza di una motivazione stringente.
La nomofilachia ha, del resto, anche un ruolo decisivo nella deflazione del contenzioso giudiziario nel momento in cui essa restituisce all’ordinamento la prevedibilità della decisione, ossia quella qualità essenziale che rappresenta uno strumento forte di controllo di una domanda di giustizia che stenta a ritrovarsi in una visione compiuta, organica ed unitaria di un apparato normativo che non eccelle in chiarezza e uniformità di visioni.
Che cosa fa dunque il Massimario?
Non è questa una domanda defatigatoria perché l’impressione è che all’esterno non vi sia una percezione chiara dei compiti di questo Ufficio. Invece, il suo ruolo “E’ semplicissimo” ! Come esordiva Luciano Berio in una nota trasmissione dedicata alla musica classica quando cercava di spiegare entusiasticamente che cosa è la musica, tonale e non alla televisione.
Basterà, allora, dire che il Massimario, quale organo della Corte di Cassazione, in posizione di indipendenza rispetto ai collegi, estrae e forma i precedenti giurisprudenziali del giudice di legittimità fornendo il contributo essenziale alla sedimentazione della nomofilachia (art. 68 del R.D. n. 12 del 1941).
Come lo fa?
Anche qui è semplicissimo: esamina sentenze e ordinanze e, in tale ambito, enuclea il principio di diritto depurato da affermazioni ed argomenti incidentali ed occasionali.[2]
In questo modo con le massime di giurisprudenza si forma il tessuto connettivo dei precedenti i quali costituiscono, a loro volta, la struttura portante della nomofilachia sulla quale riposa la ragion d’essere della Corte di cassazione secondo l’art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 ossia quella di assicurare , come già detto: "l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni".
La creazione della nuova figura degli assistenti di studio [3] non ha mutato la natura dell’Ufficio del Massimario.
Come forse non tutti sanno, infatti, gli assistenti di studio oltre a formare i ruoli di udienza, classificare i ricorsi, redigono progetti di decisione, svolgono opera di orientamento su questioni di carattere generale (come i massimatori puri) che interessano la sezione cui sono assegnati etc…
Nonostante queste brevi premesse una certa misteriosa vulgata, forse di tradizione orale, un po’ come l’Iliade, vorrebbe porre i magistrati componenti dell’ufficio del Massimario lontani dalla giurisdizione attiva.
Difficile essere d’accordo e non mi riferisco solo agli assistenti di studio i cui compiti ho appena elencato perché la giurisdizione attiva è anche quella che consente a ciascun magistrato, attraverso lo studio e la ricerca dei precedenti elaborati dall’Ufficio del Massimario, di affrontare i compiti del lavoro quotidiano forte di quell’elaborazione culturale e di quel presidio scientifico.
La massima, infatti, con le sue indicazioni di “difformità” conformità” e con i suoi “vedi” enuncia il principio di diritto e ne restituisce il contenuto, indicando, l’iter logico che lo ha generato orientando anche il Foro.
Siamo quindi vicini o no alla giurisdizione attiva? Io direi che siamo vicinissimi a meno di non pensare che del diritto vivente non vi sia bisogno perché il giudice è solo il medium che evoca le parole della legge come un oracolo, mentre, come abbiamo appena detto, così non è perché il diritto dei precedenti è una cosa viva necessaria allo ius dicere e strumento di deflazione.
Di tutto le cose fin qui dette il previdente legislatore è ben consapevole nel momento in cui fissa il principio di cui all’art. 12 (Requisiti e criteri per il conferimento delle funzioni), comma 13, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 modificato dal comma 13 dell’art. 1 della legge 30 luglio 2007 n.111 «Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6 [funzioni giudicanti e requirenti di legittimità], oltre al requisito di cui al comma 5 [quarta valutazione di professionalità] del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme; tale requisito è [4]oggetto di valutazione da parte di una apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura.
Vi è una specificità in questa previsione – stabilita solo per l’attribuzione delle funzioni di magistrato della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la Corte di cassazione - perché essa va collegata alla funzione tipica della Corte di Cassazione, vale a dire alla nomofilachia, cioè all’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale» di cui al già citato art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.
A mio parere questa scelta, in un sistema che costituzionalmente vuole il giudice soggetto alla sola legge (art. 101, secondo comma, Cost.) in ragione della primazia di essa nello Stato di diritto, impone che la selezione, ai fini del reclutamento dei magistrati destinati alle funzioni di legittimità, avvenga secondo criteri rigorosamente tecnici e specifici. Ne consegue che il parere espresso dall’apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura acquisti nel concorso un ruolo centrale. Ne consegue che la motivazione di un eventuale discostamento da quel parere ad opera della Commissione consiliare competente, e dunque del Plenum del CSM debba essere particolarmente rigorosa ed argomentata in base a valutazioni di ordine anch’esse prettamente tecniche.
Pertanto, l’art. 12, comma 16, d.lgs. n. 160 del 2006, nell’affermare che «La commissione del Consiglio superiore della magistratura competente per il conferimento delle funzioni di legittimità, se intende discostarsi dal parere espresso dalla commissione di cui al comma 13, è tenuta a motivare la sua decisione» impone un onere di motivazione particolarmente stringente ed analitico che la legge pretende per prevenire qualsivoglia prevaricazione, sia pure surrettizia rispetto alle espresse valutazioni tecniche della nominata Commissione, di considerazioni spurie o, comunque, di diversa natura.
Secondo la giurisprudenza amministrativa un tale stringente obbligo motivazionale diventa irrinunciabile rispetto alla salvaguardia[5] dell’essenziale funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la Corte e, dunque, del ruolo uniformatore e chiarificatore della giurisdizione di legittimità nello Stato di diritto. E’ semplicissimo!
Dunque che cosa rimane? Forse solo un pregiudizio da sfatare secondo il quale gli addetti all’Ufficio del Massimario e del ruolo sarebbero dei privilegiati che brillano sulla cuspide di un ordine gerarchico che pone la Corte su di un’ideale e forse antistorica piramide che va scalata per gradi fino al perentorio motto “Micat in vertice”.
[1] Vladimiro Zagrebelesky in Giustizia insieme, La resa dei conti e la reazione della magistratura.
[2] Vedi anche l’art. 26 del d.m. 30 settembre 1989, n. 334.
[3] (d.l . n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, art. 64)
[4] 13. Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6, oltre al requisito di cui al comma 5 del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme; tale requisito e' oggetto di valutazione da parte di una apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura. La commissione e' composta da cinque membri, di cui tre scelti tra magistrati che hanno conseguito almeno la quarta valutazione di professionalità e che esercitano o hanno esercitato funzioni di legittimità per almeno due anni, un professore universitario ordinario designato dal Consiglio universitario nazionale ed un avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle magistrature superiori designato dal Consiglio nazionale forense. I componenti della commissione durano in carica due anni e non possono essere immediatamente confermati nell'incarico.
[5] Consiglio di Stato 4166 del 2018
Revoca di finanziamenti pubblici per la realizzazione di progetti di accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo:
la giurisdizione è del giudice amministrativo (nota a Cons. Stato, Sez. III, 28 maggio 2020, n. 3375)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’organizzazione del sistema di accoglienza della popolazione immigrata in Italia. – 3. La tesi (respinta) dell’inquadramento del modello di finanziamento dei progetti di accoglienza in una dinamica di tipo contrattuale. – 4. La duplice ratio del riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo: la riconducibilità della fattispecie nell’ambito degli accordi ex art. 15, l. n. 241/1990 e la natura discrezionale del potere esercitato.
1. La vicenda. Nel 2016 un’amministrazione comunale – dopo aver positivamente portato a compimento un progetto triennale di accoglienza nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) – otteneva un nuovo finanziamento da parte del Ministero dell’Interno per un ulteriore triennio (2017/2019). Le modalità di accesso da parte degli enti locali ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo, disciplinate nel Decreto del Ministero dell’Interno del 10 agosto 2016 e nelle relative Linee Guida, individuano, tra l’altro, alcuni requisiti organizzativi e funzionali che i progetti presentati devono soddisfare e la cui permanenza deve essere garantita per l’intero periodo di realizzazione delle attività proposte, pena la revoca del finanziamento stesso.
Ebbene, mentre nel corso del triennio precedente (2014/2016) il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno non aveva rilevato alcuna specifica criticità relativamente alle azioni di accoglienza poste in essere dal Comune in questione, a seguito del secondo finanziamento l’attività di monitoraggio aveva invece fatto emergere diverse (presunte) inosservanze. In particolare, i rilievi effettuati all’esito di numerose ispezioni riguardavano: l’individuazione di strutture di accoglienza inadeguate, il mancato rispetto di alcune prescrizioni relative ai requisiti dei soggetti beneficiari, il mancato svolgimento di procedure di evidenza pubblica per l’individuazione degli enti attuatori del progetto, la non integrale attivazione dei servizi previsti, nonché alcune incongruenze nel reperimento degli appartamenti presso i quali alloggiare la popolazione immigrata e nella determinazione dei relativi canoni di locazione.
Tutte le criticità rilevate venivano puntualmente riscontrate dall’amministrazione comunale, contestandone la fondatezza. Ciò nonostante, il Ministero – ritenendo evidentemente non esaustive le osservazioni presentate dall’ente locale – emanava un provvedimento con il quale disponeva la revoca parziale del finanziamento originariamente riconosciuto.
Il Consiglio di Stato – aderendo alle conclusioni cui era già giunto il T.A.R. Reggio Calabria in primo grado, e dopo aver dichiarato la sussistenza della propria giurisdizione – ha rilevato la sussistenza di comportamenti contraddittori da parte del Ministero, nonché di alcuni vizi procedurali tali da comportare la violazione del principio di leale collaborazione tra amministrazioni e, pertanto, ha confermato l’annullamento del provvedimento di revoca impugnato. Le riflessioni che seguono avranno specificamente ad oggetto il primo dei motivi di appello presentati dal Ministero, ovvero il presunto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
2. L’organizzazione del sistema di accoglienza della popolazione immigrata in Italia. Prima di esaminare le ragioni che hanno condotto il Consiglio di Stato a dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo, appare utile soffermarsi sui caratteri del sistema di accoglienza della popolazione immigrata operante nel nostro Paese. Esso è fondato sostanzialmente su un duplice livello di intervento. Il primo di questi, configurante la c.d. prima accoglienza, è rappresentato dagli hotspot[1] e dai centri di prima accoglienza, luoghi nei quali si svolgono attività di primo soccorso e di identificazione. All’interno dei suddetti centri – gestiti direttamente dal Ministero dell’Interno – si dà avvio anche alle pratiche amministrative per la domanda di protezione internazionale o, al contrario, in mancanza dei presupposti di legge, si procede al trasferimento presso un Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR).
In altri termini, è previsto che l’immigrato, entro 48 ore dal suo arrivo (almeno in linea teorica)[2], venga indirizzato presso un centro di seconda accoglienza, al fine di avviare l’istruttoria finalizzata alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti per ottenere protezione internazionale, o presso un CPR, in attesa di essere rimpatriato. In questa seconda ipotesi, lo straniero irregolare si viene a trovare in una condizione di “detenzione amministrativa” (della durata massima di 180 giorni), che poco si discosta da un vero e proprio carcere[3] e che ha fatto registrare negli ultimi anni numerosi episodi di violazione di diritti fondamentali[4]. Tuttavia, con il c.d. decreto Minniti, d.l. n. 13 del 17 febbraio 2017 (convertito con legge 13 aprile 2017, n. 46), sono state introdotte alcune modifiche, di carattere organizzativo e procedimentale, volte a riconoscere anche nei confronti dell’immigrato irregolare quella dimensione di dignità della persona che non può che prescindere dallo status – regolare o irregolare – della stessa[5].
Per quanto maggiormente rileva in questa sede, i migranti richiedenti protezione internazionale – una volta identificati negli hotspot e nei centri di prima accoglienza – vengono accolti nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), ovvero, solo in assenza di posti sufficienti, nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Il sistema SPRAR, a cui afferisce il progetto di accoglienza oggetto della pronuncia in commento, è stato introdotto con l’art. 32, co.1-sexies della l. n. 189/2002 e configura un modello di intervento che coinvolge contemporaneamente più livelli di amministrazione (Ministero, ANCI, Enti locali), ciascuno con una propria specifica funzione, a carattere programmatorio, gestionale o attuativo. I soggetti che partecipano in forma stabile sono il Ministero dell’Interno e l’ANCI (a cui è affidata con convenzione la struttura di coordinamento del sistema), mentre il coinvolgimento degli enti locali – individuati quali veri attori della realizzazione degli interventi di accoglienza e integrazione – si fonda sulla loro adesione volontaria: in altri termini, partecipano alla rete SPRAR unicamente quelle amministrazioni locali che scelgono di mettere a disposizione aree e risorse per l’accoglienza di nuovi migranti[6]. L’idea ispiratrice è quella di non limitarsi a fornire una mera accoglienza allo straniero, bensì di facilitarne nel contempo l’integrazione nella comunità ricevente, attraverso: a) l’attribuzione temporanea di alloggi diffusi sul territorio (meno impattanti dei centri di accoglienza collettiva); b) l’offerta di servizi di mediazione linguistica e culturale, orientamento e accompagnamento al lavoro per un periodo di 6 mesi, prorogabile al massimo di altri 6, in modo tale da far si che – dopo al più un anno – il migrante abbia tutti gli strumenti per potersi inserire autonomamente nella comunità[7].
Negli anni si sono registrate numerose esperienze di successo di progetti SPRAR, specialmente in comuni economicamente depressi, con forte deficit demografico, che hanno iniziato a “rinascere” proprio grazie alla presenza di un numero sostenibile di migranti, non ghettizzati, bensì fin da subito integrati nelle dinamiche sociali e civili dell’ente locale[8]. Tuttavia, il sistema ha complessivamente evidenziato non poche criticità, rappresentate principalmente dalla scarsa adesione allo stesso da parte delle amministrazioni locali: a fine 2018 la rete SPRAR, pur rappresentando in linea teorica il modello di accoglienza ordinario, copriva solo il 20% dei migranti, mentre l’80% fruiva di quella che era stata immaginata dal legislatore come un’ipotesi eccezionale, ovvero i Centri di Accoglienza Straordinaria[9]. L’esiguo numero di adesioni spontanee alla rete SPRAR ha indotto il legislatore ad intervenire: non, però, individuando strumenti in grado di incentivare i comuni a presentare progetti di accoglienza diffusa, quanto piuttosto riducendo la portata applicativa di tale modello di intervento. Nello specifico, il c.d. decreto sicurezza (d.l. n. 113/2018) ha sostituito la rete SPRAR con il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori non accompagnati (SIPROIMI), incidendo sul profilo soggettivo dei beneficiari del modello di accoglienza integrata e diffusa[10]: quest’ultimo è oggi destinato unicamente a coloro che sono già riconosciuti titolari di protezione, escludendo invece coloro che sono ancora in attesa di ricevere risposta alla loro istanza[11]. I richiedenti asilo, pertanto, sono oggi regolarmente destinati ai centri di seconda accoglienza originariamente individuati come eccezionali, ovvero nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), profondamente distanti dal modello SPRAR: da un lato, essi sono gestiti dalle Prefetture e non dagli enti locali (in un’ottica securitaria); dall’altro lato, essi hanno come obiettivo primario, anziché l’integrazione dei migranti, la loro mera “gestione” temporanea. Con la paradossale conseguenza che – sebbene una parte dei soggetti ivi ospitati sia destinata ad ottenere il permesso di soggiorno – nessuno di loro beneficerà di processi di integrazione, se non all’esito (positivo) della loro istanza[12].
Ciò premesso, al fine di inquadrare correttamente le conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, occorre sottolineare che il sistema di accoglienza ex SPRAR/SIPROIMI – sebbene abbia visto ridursi il proprio ambito di applicazione[13] – si conferma un modello di intervento espressione di una multilevel governance, imposto, del resto, dalla complessità stessa del fenomeno[14]. In particolare, al Ministero dell’Interno è affidato il ruolo di coordinare tale tipologia di intervento con gli ulteriori modelli di accoglienza operanti in Italia, nonché di monitorare la gestione economica dei progetti finanziati; il Servizio Centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico, affidato con convenzione all’ANCI, svolge il compito di coordinare e supportare sul piano tecnico/operativo le amministrazioni locali nella realizzazione dei progetti territoriali; gli enti locali, in ultimo, gestiscono in via diretta – avvalendosi di enti del terzo settore – le attività di accoglienza e di integrazione della popolazione immigrata.
3. La tesi (respinta) dell’inquadramento del modello di finanziamento dei progetti di accoglienza in una dinamica di tipo contrattuale. Una volta delineati i caratteri essenziali del sistema di c.d. seconda accoglienza, è possibile esaminare più specificamente il modello di finanziamento dei relativi progetti che gli enti locali sono chiamati a realizzare.
Ai sensi dell’art. 32, 1-sexies della l. n. 189/2002, il Ministro dell’interno provvede al sostegno finanziario dei servizi di accoglienza diffusa afferenti alla rete SPRAR, attraverso l’emanazione di un decreto contenente le modalità di presentazione delle domande di contributo, i criteri per la verifica della corretta gestione dello stesso e le modalità per la sua eventuale revoca. Il successivo art. 32, 1-septies istituisce, a tali fini, un apposito Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Gli enti locali interessati, in forma singola o associata, presentano le istanze per accedere al contributo – allegando il progetto di accoglienza ed il relativo piano finanziario – istanze che sono valutate da una commissione ministeriale e, ove ritenute ammissibili, inserite in apposite graduatorie, per poi essere finanziate progressivamente in base alla disponibilità del Fondo.
In tale contesto assume notevole rilevanza il d.m. 10 agosto 2016, con il quale si è provveduto, tra l’altro, a disciplinare l’accesso degli enti locali ai finanziamenti di cui al suddetto Fondo ministeriale[15]. Gli elementi maggiormente significativi ivi previsti sono rappresentati: dal superamento del sistema dei bandi periodici, essendo stabilito che le domande di contributo possono essere presentate in qualsiasi momento; dalla deroga alla originaria soglia massima di finanziamento ministeriale dell’80% del valore del progetto (fortemente disincentivante), il che ha consentito di giungere all’attuale assetto in base al quale il Ministero dell’Interno eroga il 95% delle risorse economiche necessarie per la realizzazione delle misure di accoglienza[16]. In ultimo, per quanto maggiormente rileva in questa sede, occorre precisare che ai sensi dell’art. 27 dell’allegato al d.m. 10 agosto 2016, all’atto dell’assegnazione del contributo viene attribuito un punteggio di 20 punti a ciascun progetto, suscettibile di subire decurtazioni in ipotesi di inosservanze degli obblighi connessi all’erogazione dei servizi di accoglienza, decurtazioni che possono condurre anche alla revoca, parziale o totale, del contributo.
Stante il modello di finanziamento descritto, nella vicenda in esame la difesa del Ministero dell’Interno ha sostenuto di poter qualificare la revoca parziale del finanziamento ministeriale in termini di atto negoziale, rientrante in una dinamica di tipo contrattuale. In tale ottica è stata richiamata quella giurisprudenza consolidata che – in relazione a fattispecie concernenti l’erogazione di sovvenzioni o contributi pubblici nei confronti di operatori economici – afferma la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario “in ordine alle controversie originate dalla revoca di un contributo statale, sia, in generale, quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge ed alla pubblica amministrazione è demandato il solo compito di verificare l'effettiva esistenza dei presupposti per la sua concessione, senza alcuno spazio discrezionale in ordine all'an, al quid ed al quomodo dell’erogazione, sia, in particolare, quando la revoca discenda dall'accertamento di un inadempimento (da parte del fruitore) delle condizioni stabilite in sede di erogazione o comunque dalla legge stessa”[17].
Secondo la prospettazione del Ministero, nella fattispecie oggetto della sentenza in commento la giurisdizione del giudice ordinario discenderebbe dalla circostanza che la revoca adottata dal Ministero dell’Interno sarebbe stata disposta non nell’esercizio di un potere discrezionale di autotutela, bensì sulla base della oggettiva rilevazione di taluni inadempimenti di specifici obblighi individuati in sede di erogazione del contributo. Si tratterebbe, in altri termini, di un atto che – ancorché formalmente qualificato provvedimento di “revoca” – configurerebbe in realtà un atto avente natura paritetica, con la conseguenza che la posizione giuridica del privato che risulta lesa avrebbe la natura di diritto soggettivo.
4. La duplice ratio del riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo: la riconducibilità della fattispecie nell’ambito degli accordi ex art. 15, l. n. 241/1990 e la natura discrezionale del potere esercitato. Sulla base di un duplice percorso argomentativo, il Consiglio di Stato ha ritenuto di non poter aderire a quanto prospettato dalla difesa Ministeriale, concludendo per la sussistenza della propria giurisdizione in ordine alla fattispecie de qua. In particolare, i giudici di Palazzo Spada inquadrano il rapporto tra ente erogatore del finanziamento (Ministero) ed ente beneficiario del contributo (ente locale) nell’ambito di un più ampio contesto di esercizio coordinato di funzioni, che comprende anche l’ANCI. A supporto della ricostruzione offerta, la pronuncia in commento ricorda che il sistema di accoglienza e integrazione dei richiedenti protezione internazionale rinviene la sua origine in un atto di tipo convenzionale, ovvero in un protocollo di intesa siglato nel 2001 tra il Ministero dell’Interno, l’ANCI e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) per la realizzazione del PNA (Programma Nazionale Asilo), protocollo che già prevedeva il coinvolgimento degli enti locali, secondo un modello di condivisione di responsabilità tra questi ultimi ed il Ministero dell’Interno.
In tale ottica, invero, potrebbe richiamarsi anche il d.lgs. n. 142/2015 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonchè della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), il cui art. 8 rileva la necessità che il sistema di accoglienza sia fondato sulla leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, sin dal momento della programmazione, prevedendo a tal fine Tavoli di coordinamento sia a livello nazionale che regionale (art. 16). In particolare, a livello nazionale, il Tavolo è chiamato ad individuare le linee di indirizzo del sistema di accoglienza, nonché i criteri di ripartizione regionale dei posti, d’intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali. I Tavoli regionali si occupano, invece, di individuare i criteri di ripartizione dei posti all’interno di ciascuna Regione nell’ambito del Sistema SPRAR.
Il “momento” del finanziamento governativo, pertanto, rappresenta semplicemente il tassello di un più ampio sistema di governance multilivello[18], che presuppone a monte un percorso di concertazione interistituzionale a carattere programmatorio, ed a valle la concreta realizzazione degli interventi da parte degli enti locali. A questi ultimi, come detto, è affidato il compito di progettare e porre in essere (coadiuvati da organizzazioni del terzo settore) le azioni di accoglienza diffusa ed i servizi di integrazione. Per un corretto inquadramento della funzione esercitata dalle amministrazioni locali giova richiamare il Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria[19], ove si chiarisce che “lo SPRAR – per sua stessa natura, a partire dalla titolarità degli enti locali – è e deve essere percepito come parte integrante del welfare locale […] non è altro rispetto al welfare, […] deve poter essere considerato come valore aggiunto sul territorio, capace di apportare cambiamenti e rafforzare la rete dei servizi, di cui possa avvalersi tutta la comunità dei cittadini, autoctoni o migranti che siano”.
L’intervento degli enti locali viene pertanto a configurarsi, nel contempo, come espressione di funzioni proprie (welfare locale) e come ultima fase (attuativa) di un articolato (ma unitario) esercizio di funzioni coordinate, tutte finalizzate al perseguimento di un fine comune. Nell’ambito di tale complesso sistema di intervento, in altri termini, gli enti locali non si pongono affatto come meri beneficiari di contributi finanziari governativi al pari di operatori economici ai quali è occasionalmente affidato l’esercizio di un’attività di interesse pubblico. Il rapporto tra enti locali e Ministero non può ridursi a mero rapporto di tipo sinallagmatico, configurando, piuttosto, una relazione di tipo convenzionale attraverso cui due o più pubbliche amministrazioni, mediante azioni coordinate ispirate al principio di leale collaborazione, perseguono obiettivi di interesse comune. Anche il ruolo di controllo esercitato dal Ministero (art. 20 d.l. n. 113/2018 e artt. 25 e 27 dell’allegato al d.m. 10 agosto 2016), idoneo a sfociare – nel caso – nella emanazione di provvedimenti di revoca quale quello oggetto di impugnazione, viene a configurarsi quale espressione di un rapporto di tipo convenzionale, le cui esigenze di efficienza ed efficacia impongono che, come in un cerchio, l’azione abbia inizio (finanziamento) e fine (verifica della qualità dei servizi di accoglienza offerti) in capo al medesimo soggetto istituzionale.
Si viene a configurare, in altri termini, un accordo riconducibile alla fattispecie disciplinata in termini generali dall’art. 15 della l.n. 241/1990, ai sensi del quale “Le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di comune interesse”[20]. Sul punto, del resto, la giurisprudenza è chiara nell’affermare che i protocolli di intesa quali quello de quo, rappresentano uno dei moduli convenzionali, sussumibili nel genus dell’accordo ex art. 15 cit., atti a disciplinare l’esercizio coordinato di funzioni nell’ambito di un sistema di multilevel governance[21].
Una volta ricondotto l’atto di revoca impugnato nell’ambito dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, ne discende conseguentemente la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, sub specie di giurisdizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. a) n. 2 del d.lgs. n. 104/2010 (Codice del processo amministrativo). Si tratta, come noto, di una peculiare fattispecie di giurisdizione esclusiva, in quanto non propriamente collegata ad una “materia”, bensì ad una modalità di esercizio del potere (l’accordo), con la conseguenza che – a prescindere dagli interessi pubblici perseguiti – è riservata alla giurisdizione del g.a. qualsiasi controversia che abbia origine dalla formazione, conclusione o esecuzione di un accordo fra pubbliche amministrazioni[22]. Nel caso di specie, appare evidente come il provvedimento con il quale il Ministero dell’Interno ha revocato parzialmente il contributo originariamente concesso all’ente locale rappresenti un atto di esecuzione del protocollo di intesa tra Stato e enti locali sul quale si fonda l’intero sistema di protezione dei richiedenti asilo in Italia[23]. Ad avvalorare la correttezza di tale ricostruzione può richiamarsi, infine, una recente pronuncia del T.A.R. Toscana, avente ad oggetto una fattispecie analoga, nella quale si afferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ipotesi di impugnazione di un provvedimento di revoca di un contributo pubblico concesso dalla Regione ad un Comune nell’ambito di un patto territoriale (ulteriore schema convenzionale riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 15, l. n. 241/1990) in sede esecutiva del rapporto di contribuzione[24].
Trattandosi di giurisdizione esclusiva del g.a., non assume evidentemente alcuna rilevanza il profilo circa la natura giuridica (diritto soggettivo o interesse legittimo) della situazione giuridica soggettiva di cui si chiede tutela[25]. Ciò nonostante, il Consiglio di Stato afferma condivisibilmente che – se anche dovesse applicarsi alla fattispecie de qua il generale criterio di riparto del petitum sostanziale – la giurisdizione sarebbe comunque da attribuire al giudice amministrativo. All’ente locale beneficiario del finanziamento, infatti, non è possibile riconoscere la titolarità di un diritto soggettivo all’ottenimento ed alla conservazione del contributo finanziario, tale da radicare la giurisdizione del giudice ordinario. Come dimostrato dalla ricostruzione della vicenda, il provvedimento di revoca in questione non è scaturito dalla semplice verifica oggettiva di specifici inadempimenti da parte dell’ente locale (espressione di un potere vincolato), bensì da un complesso procedimento di monitoraggio nell’ambito del quale gli uffici ispettivi del Governo sono stati chiamati ad effettuare valutazioni a carattere discrezionale tese a determinare se i rilievi emersi nel corso dei controlli potessero o meno comportare la decurtazione del punteggio originariamente riconosciuto al progetto di accoglienza. Il Ministero dell’Interno, in altri termini – secondo la logica del contrarius actus – ha riesercitato il medesimo potere autoritativo discrezionale di cui si era valso in sede di valutazione del progetto e di attribuzione del punteggio, il che comporta, da un lato, che la posizione giuridica soggettiva da riconoscere in capo all’ente locale è di interesse legittimo, e dall’altro lato, che la giurisdizione (quand’anche non si volesse ritenere sussistente la giurisdizione esclusiva del g.a.) spetta al giudice amministrativo.
La stessa giurisprudenza della Cassazione richiamata dal Ministero al fine di supportare la tesi della sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, del resto, ha chiarito che la regola dell’attribuzione delle fattispecie di revoca di contributi pubblici alla giurisdizione del g.o. subisce delle specifiche deroghe, nei casi in cui la mancata erogazione (o il ritiro/revoca di essa) consegua all’esercizio di poteri di carattere autoritativo, espressione di autotutela della pubblica amministrazione, sia per vizi di legittimità, sia per contrasto, originario o sopravvenuto, con l’interesse pubblico[26]. Come ribadito anche da recentissima giurisprudenza[27], allorquando la revoca di un provvedimento non consegua all’esercizio di un potere vincolato, essa incontra precisi limiti di carattere motivazionale e procedurale, connessi al necessario rispetto dei principi di correttezza, ragionevolezza, e proporzionalità dell’azione amministrativa, in una prospettiva di valorizzazione della stabilità degli effetti dei provvedimenti amministrativi[28].
[1] C. Leone, La disciplina degli hotspot nel nuovo art. 10-ter del d.lgs. n. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2/2017, 1 ss. Ad oggi risultano operativi cinque hotspot presso Lampedusa, Taranto, Pozzallo, Messina e Trapani (cfr. la Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale per l’anno 2019, in www.garantenazionaleprivatiliberta.it).
[2] Nella realtà, purtroppo, la permanenza nei centri di prima accoglienza può durare settimane, anche per le difficoltà che spesso si incontrano nell’attività di identificazione, nonché nella individuazione di una idonea destinazione presso un centro di seconda accoglienza. Cfr. G.G. Nucera, La disciplina del trattenimento dei migranti in Italia e la sua conformità agli obblighi internazionali di tutela dei diritti umani, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 52 ss.
[3] G. Colavecchio, L’impatto del Decreto sicurezza sugli istituti di trattenimento dei migranti e dei richiedenti asilo alla luce del Diritto internazionale e dell’Unione europea, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 89 ss.; M. Calabrò, C. Frettoloso, R. Franchino, A. Violano, Legal, technological and environmental aspects of refugee camps, in Migration and the built environment in the Mediterranean and the middle east, Ariccia, 2016, 311 ss.
[4] S. Mirate, Gestione dei flussi migratori e responsabilità statali: riflessioni problematiche tra normative interne, prassi amministrative e giurisprudenza CEDU, in Resp. civ. e previdenza, 2017, 43 ss. In ordine a tale profilo, è nota la pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso Khlaifia e altri c. Italia (15 dicembre 2016), nella quale la CEDU ha condannato l’Italia per violazione di alcuni diritti fondamentali nella gestione dei centri di prima accoglienza, in ragione dell’assenza di una chiara regolamentazione delle modalità di trattenimento degli immigrati, nonchè della mancanza di adeguate forme di comunicazione circa i loro diritti, le ragioni e la durata della loro detenzione (cfr. M. Savino, L’"amministrativizzazione" della libertà personale e del "due process" dei migranti: il caso Khlaifia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2015, 50 ss.). Diverse pronunce della Corte Costituzionale hanno, inoltre, avuto modo di pronunciarsi sul tema della tutela dei diritti fondamentali dei migranti, a prescindere dal loro status (cfr. Corte Cost., n. 2/2013; Corte Cost., n. 306/2008).
[5] L’art. 19, l.n. 46/2017, dispone che nella individuazione di nuovi CPR debba tenersi conto «della necessità di realizzare strutture di capienza limitata idonee a garantire condizioni di trattenimento che assicurino l'assoluto rispetto della dignità della persona». La medesima norma richiama anche il diritto di visita, nonché i poteri di verifica e di accesso del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
[6] P. Bonetti, Le nuove norme italiane sul diritto di asilo: trattenimento, identificazione e accoglienza dei richiedenti asilo, in Studium iuris, 2016, 708 ss.
[7] F. Manganaro, Politiche e strutture di accoglienza delle persone migranti, in www.federalismi.it, 21/2019, 24.
[8] D. Ferretti, Il welfare locale alla prova delle migrazioni. Un’analisi dei progetti Sprar nelle città medie italiane, in Autonomie locali e servizi sociali, 2017, 95 ss. Per una rassegna delle esperienze più significative si rinvia alla pagina web https://www.sprar.it/buone-prassi.
[9] L’Atlante SPRAR 2017, presentato a novembre 2018, fotografava un sistema di accoglienza per i migranti che contava complessivamente 165.773 posti, dei quali 129.904 erano nei Cas e solo 35.881 nei centri appartenenti alla rete SPRAR (https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2018/11/Atlante-Sprar-2017_Light.pdf).
[10] C. Sbailò, Immigrazione: il fallimentare approccio europeo e i limiti della risposta neo-sovranista, in www.federalismi.it, 3/2019.
[11] A ciò si aggiunga che si è contestualmente abolita la c.d. “protezione umanitaria”, il che comporta che coloro che sono titolari di tale protezione “residuale” in Italia (ad oggi più di 10.000 persone) sono destinati ad essere espulsi sia dalla rete SPRAR che dai CAS alla scadenza del periodo loro concesso. Per un commento critico a tale modifica normativa si rinvia a S. Agosta, Dalla certezza del diritto all’incertezza dei diritti (costituzionali) degli stranieri vulnerabili: il rischio della singolare nemesi delle Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale ed immigrazione, Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 24 ss.
[12] “La scelta normativa risponde evidentemente all’idea che garantire percorsi di integrazione “in via preventiva” a tutti i richiedenti asilo, prima di conoscere quali di essi abbiano effettivamente diritto a ricevere protezione internazionale, sarebbe contrario ai principi di economicità e ragionevolezza. Tale posizione, tuttavia, non tiene in debito conto i “costi indiretti” derivanti dalla mancata offerta ab initio di servizi di integrazione nei confronti di coloro che, all’esito dell’iter procedimentale, otterranno il permesso di soggiorno e – pur trovandosi sul territorio italiano da diversi mesi – non avranno beneficiato sino ad allora di alcuna politica inclusiva, con evidenti conseguenze su tempi e efficacia della loro integrazione” (M. Calabrò, La possibile rimodulazione del ruolo degli enti locali nella gestione dei flussi migratori, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 121).
[13] Secondo quanto emerge dall’analisi degli ultimi dati pubblicati (febbraio 2020), attualmente si registrano 688 enti locali titolari di progetto, per un numero complessivo di 808 progetti, destinati ad accogliere complessivamente 31.264 immigrati (cfr. https://www.siproimi.it/i-numeri-dello-sprar).
[14] M. Savino, Le libertà degli altri. La regolazione amministrativa dei flussi migratori, Milano, 2012.
[15] S. Penasa, L’accoglienza dei richiedenti asilo: sistema unico o mondi paralleli?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2017, 14-23.
[16] Da quanto appena osservato, sia detto per inciso, emerge tra l’altro come il citato fenomeno della modesta adesione da parte degli enti locali alla rete SPRAR non possa trovare una giustificazione di tipo finanziario in quanto, come visto, quasi l’intera operazione grava sul bilancio statale. “La suddetta criticità di sistema può spiegarsi, piuttosto, con il timore degli amministratori locali di “inimicarsi” i propri elettori aderendo spontaneamente ad un programma destinato a condurre nuovi migranti sul territorio” (M. Calabrò, La possibile rimodulazione del ruolo degli enti locali nella gestione dei flussi migratori, cit., 122).
[17] Cass. civ., Sez. Un., 9 agosto 2018, n.20683. In termini cfr. Cass. civ., Sez. Un., 5 novembre 2019, n. 28332; Cass. civ., Sez. Un., 20 luglio 2011, n. 15867; T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 31 marzo 2020, n. 224; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 febbraio 2020, n. 1397; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 2019, n. 7136.
[18] F. Campomori, La governance multilivello delle politiche di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia, in Istituzioni del federalismo, I, 2019, 5 ss.
[19] Pubblicato dal Ministero dell’interno nell’agosto del 2018 e reperibile al seguente link: https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2018/08/SPRAR-Manuale-Operativo-2018-08.pdf.
[20] R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in M.A. Sandulli, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 779 ss.; G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale, Milano, 1996.
[21] Cons. Stato, Sez. II, 14 novembre 2019, n. 7825; Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2017, n. 18985; Cons. Stato, Sez. III, 24 giugno 2014, n. 3194; Cons. Stato, Sez. VI, 2 settembre 2013, n. 4345; Cass. civ., Sez. Un., ord. 13 luglio 2006, n. 15893.
[22] Cass. civ., Sez. Un., ord. 12 aprile 2019, n. 10377; Cass. civ., Sez. Un., 24 gennaio 2019, n. 2082; Cass. civ., Sez. Un., 23 marzo 2009 n. 6960. In dottrina, F.A. Giordanengo, La giurisdizione esclusiva sugli accordi ex art. 15 L. n. 241/1990, in Urbanistica e appalti, 2015, 933 ss.; M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazioni e privati, ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 4/2019, 674 e ss., ove si legge che “il legislatore fin da subito ha inteso introdurre un'ipotesi di giurisdizione esclusiva per tutte le controversie in materia non solo di formazione e di conclusione, ma anche di esecuzione del rapporto, in cui dovrebbe essere meno marcato l'esercizio di un potere discrezionale della pubblica amministrazione”.
[23] In senso analogo cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2011, n. 741; Cons. Stato, Sez. V, 18 aprile 2012, n. 2244; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. IV, 17 aprile 2012, n. 1023.
[24] T.A.R. Toscana, Sez. I, 26 febbraio 2020, n. 256.
[25] Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2017, n. 18985; Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1405.
[26] Cass. civ., Sez. Un., 8 giugno 2016, n. 11710.
[27] Cons. Giust. Amm. reg. Sicilia, Sez. I, 26 maggio 2020, n. 325.
[28] Da ultima si sofferma sui presupposti necessari per procedere alla revoca di benefici pubblici erogati M.A. Sandulli, nel suo La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in questa Rivista, 2020. L’Autrice, occupandosi nello specifico della revoca prevista in caso di benefici ottenuti in base ad una dichiarazione non veritiera, dimostra come ciò che il testo normativo qualifica in termini di “revoca” rappresenti in realtà una vera e propria misura a carattere sanzionatorio, priva, tuttavia, della “soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo tipici di queste ultime”, 7.
SALUS REI PUBLICAE SUPREMA LEX ESTO
di Licia Giannone e Marina Albisinni
Sommario: 1. Premessa - 2. Le misure adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria - 3. L’esigenza di bilanciamento tra i valori costituzionali - 4. Il problema dello strumento normativo - 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid19 – come noto – ormai da molte settimane, ha invaso le vite dei cittadini di diversi paesi del mondo, costringendoli a cambiare radicalmente le proprie abitudini di vita, e allo stesso tempo, abituandoli a vivere in un tempo sospeso.
L’amplissima diffusione del virus, contrassegnata dall’elevato numero di contagi e decessi, ha comportato l’adozione per la maggior parte degli Stati di misure restrittive dei diritti individuali, ritenute necessarie al fine di garantire il contenimento del rischio epidemiologico.
In assenza di cure valide e specifiche, il mondo scientifico ha ritenuto che fosse indispensabile ridurre il più possibile i contatti sociali tra i cittadini, in considerazione dell’elevato rischio di essere portatori positivi asintomatici, ovvero portatori di lievi sintomi, senza esserne consapevoli.
Il repentino sviluppo dell’emergenza sanitaria sul territorio nazionale ha inevitabilmente messo a dura prova l’ordinamento giuridico italiano, in quanto Stato liberal-democratico; non concedendo il tempo di poter costituire un sistema normativo idoneo a disciplinarla.
In tal senso sono emerse talune criticità con riguardo all’assetto delle fonti del diritto; per cui – a parere di alcuni autori – tanto la “costituzione dei poteri” quanto la “costituzione dei diritti” avrebbero mostrato le proprie debolezze[1].
Ad oggi, con la diminuzione del numero dei contagi e il progressivo svuotamento dei reparti Covid19, appositamente creati in tutte le regioni – alcuni dei quali sono stati già chiusi – al fine di garantire la ripresa economica del Paese, si è provveduto alla graduale riapertura delle diverse attività commerciali, e da ultimo, all’eliminazione del divieto di spostamento tra le regioni. Ciò ha consentito agli italiani, nelle ultime settimane, di potersi riappropriare delle strade, delle piazze e degli spazi verdi.
Pian piano si cerca quindi di riconquistare una cauta “normalità”, tenendo ben presenti gli immensi sforzi che tutta la Nazione ha compiuto; in particolare la categoria dei medici, degli infermieri e di tutti coloro che hanno prestato assistenza con abnegazione e professionalità durante la fase centrale dell’emergenza sanitaria.
Nei cuori degli italiani, all’indomani delle riaperture, rimarranno fermamente impresse le immagini dei numerosi carri armati dell’esercito che conducono le salme dei defunti fuori dalla città di Bergamo, verso altri cimiteri limitrofi, a causa dell’impossibilità di provvedere alla cremazione in loco per tutti.
Nella speranza di esserci lasciati alle spalle questa triste parentesi emergenziale, si guarda con fiducia alla ormai giunta stagione estiva; pur continuando a far appello al senso di responsabilità individuale, nel rispetto di se stessi e degli altri.
2. Le misure adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria
Volgendo lo sguardo alle misure adottate dal Governo, nel corso della Fase 1, per far fronte all’emergenza sanitaria e contenere il rischio di contagio, si annoverano – come noto – i numerosi interventi volti alla compressione delle libertà civili e sospensione dei diritti fondamentali, in funzione della tutela del diritto alla salute individuale e collettiva (art. 32 Cost.).
Ne sono esempio, la predisposizione delle c.d. “zone rosse” dapprima in taluni comuni della Lombardia e del Veneto, poi estese a tutto il territorio nazionale, che rappresentavano una limitazione della libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.). Allo stesso modo, le disposizioni volte ad imporre la quarantena obbligatoria per coloro che risultino positivi al Coronavirus, ovvero siano stati a contatto con persone infette, quale compressione della libertà personale (art. 13 Cost.).
Il divieto di assembramenti, di riunioni ed eventi pubblici - nei diversi ambiti, quali ad esempio, quello culturale, scolastico, ludico – sportivo – pone un limite alla libertà di riunione e il diritto di associazione, rispettivamente previsti dagli artt. 17 e 18 Cost.
L’affievolimento di talune libertà e diritti costituzionalmente garantiti, è avvenuto con molta frequenza, attraverso una produzione normativa multilivello, che segue la linea della decretazione d’urgenza; in tal senso, sono stati adottati plurimi provvedimenti di rango primario, quali: il d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, il d.l. 17 marzo 2020 n. 18, il d.l. 25 marzo 2020 n. 19, il d.l. 30 aprile 2020 n. 28, il d.l. 10 maggio 2020 n. 30, il d.l. 16 maggio 2020 n. 33 e il d.l. 19 maggio 2020 n.34, insieme ad altrettanti numerosi provvedimenti di rango secondario, quali i DPCM.
Tra i diversi studiosi del diritto costituzionale e amministrativo è andato via via sviluppandosi un vivace dibattito dettato da perplessità concernenti la legittimità costituzionale delle misure di contenimento finora introdotte – rivolte per lo più nei confronti della generalità dei cittadini – nonché in relazione agli strumenti attraverso cui le stesse sono state disposte; in particolare è apparsa certamente inedita la concentrazione dei poteri in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri, cui è affidata l’adozione dei principali provvedimenti di regolazione dell’emergenza, i DPCM, preferiti rispetto alla legge parlamentare.
3. L’esigenza di bilanciamento tra i valori costituzionali
Il sacrificio di molte libertà costituzionali nell’ottica di tutela del diritto alla salute, ha riportato all’attenzione il dibattito relativo al rapporto intercorrente tra contrapposti valori costituzionali e la conseguente necessità di provvedere al bilanciamento tra gli stessi[2].
In particolare, le misure adottate dal Governo nei mesi scorsi, hanno posto in evidenza la risalente tematica relativa all’esistenza o meno di una gerarchia tra valori costituzionali che consenta l’individuazione dell’interesse prevalente, e quindi il raggiungimento del punto di equilibrio[3].
A tal riguardo, la dottrina negli anni ‘70 riteneva sussistente un ordine gerarchico statico tra i diritti costituzionalmente protetti, al cui vertice si collocavano i diritti c.d. inviolabili[4].
La successiva giurisprudenza costituzionale, intervenendo sul caso Ilva di Taranto[5] – in merito alla necessaria esigenza di bilanciamento tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro – ha sottolineato l’esistenza di un rapporto di integrazione reciproca tra i diritti, tale per cui non sarebbe possibile individuare un diritto che abbia prevalenza assoluta sugli altri.
Invero, i giudici delle leggi, sottolineando l’inesistenza di diritti assoluti nell’ambito dei valori costituzionali, ossia di una gerarchia predeterminata, ammettono una tutela c.d. dinamica che consenta il contemperamento tra interessi contrapposti. L’individuazione del punto di equilibrio sarebbe quindi rimessa in primis al legislatore e in seguito al giudice, non potendo lo stesso essere determinato preventivamente[6].
Tale orientamento ha trovato altresì conferma nella successiva sentenza sul caso Ilva, n. 58 del 2018, secondo cui “il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e ragionevolezza, in modo tale da non consentire, né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuni di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati”.[7]
La disamina relativa al bilanciamento operato dalla Corte nella vicenda dell’Ilva di Taranto, definito dalla dottrina come “bilanciamento ineguale[8]”, si inserisce nella tutt’oggi controversa discussione circa l’esistenza o meno di una gerarchia tra principi costituzionali.
Taluni autori sostengono che il bilanciamento tra interessi contrapposti rappresenti essenzialmente un problema di politica costituzionale[9], talaltri invece affermano la necessità che si individui all’interno della Carta Costituzionale un ordine gerarchico tra i diversi valori, che ponga al vertice la tutela dei diritti inviolabili; consentendo in tal modo al legislatore di potersi orientare[10].
Nel panorama internazionale, è invalso il riconoscimento di una gerarchia di valori, al cui vertice si colloca il diritto alla dignità umana, insuscettibile di bilanciamento con differenti diritti[11].
La giurisprudenza costituzionale, in diverse pronunce, ha chiaramente affermato che esistono dei valori c.d. primari – tra cui il diritto alla salute e quello alla vita – che in nessun modo posso subire modifiche al loro contenuto intrinseco, ossia nella loro essenza; riconoscendo in tal senso l’importanza e la prevalenza degli stessi[12].
Volendo quindi calare le osservazioni sin qui svolte nel contesto dell’emergenza sanitaria da Covid19, ne emerge che il necessario bilanciamento tra i differenti valori costituzionali in contrapposizione non possa e non debba considerarsi di carattere libero[13] – quindi del tutto rimesso alle scelte del legislatore.
Come affermato da diversi autori, il parametro dettato dall’art. 32 della Costituzione evidenzia la tutela della salute non solo come diritto fondamentale del singolo, bensì quale interesse della collettività[14] (facendo riferimento, sul punto, alla giurisprudenza costituzionale in merito a trattamenti sanitari non assistiti dal consenso del paziente[15]).
La dottrina ha altresì posto l’attenzione sul bilanciamento intercorrente tra gli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione, in punto di disuguaglianza sociale.
In particolare, taluni autori[16], hanno evidenziato come i plurimi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria si ispirino all’esigenza di tutela dell’eguaglianza sostanziale. Difatti l’epidemia si è diffusa in modo paritario tra tutta la popolazione, pur colpendo con maggior virulenza alcune categorie sociali, come gli anziani e gli immunodepressi.
Partendo da una condizione diseguale, emerge come le misure adottate per prevenire il rischio epidemiologico siano finalizzate al riequilibrio delle iniziali condizioni[17].
In tale contesto, come noto, ha un ruolo determinante il servizio sanitario nazionale, che a differenza di altri paesi del mondo, è pubblico; la tutela dello stesso soddisfa il valore dell’eguaglianza sostanziale.
La necessità di ridurre i contatti sociali, così come è stata prevista, da parte di taluni è apparsa in collisione con la previsione contenuta all’art. 2 della Costituzione, in riferimento alle formazioni sociali nelle quali il cittadino svolge la sua personalità; ciò richiama all’attenzione la disposta sospensione della frequenza scolastica e universitaria (pur garantita dalla c.d. didattica a distanza), ovvero del diritto di riunione, di associazione, quali valori costituzionalmente tutelati[18].
Pertanto, altresì la riduzione dei contatti sociali necessitava di essere bilanciata, nell’ottica della tutela della salute, quale interesse della collettività.
A tal proposito, si richiama un recente intervento del Consiglio di Stato[19] sul rapporto intercorrente tra il diritto alla salute e le ragioni economico finanziarie. In particolare, i ricorrenti lamentavano la violazione delle disposizioni previste dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, nonché la violazione dell’art. 38 della Costituzione e dell’art. 1 della L. 104/1992.
Sicché il Consiglio di Stato, affermando che il nucleo essenziale del diritto alla salute debba essere salvaguardato, esclude l’operatività del principio di equilibrio di bilancio in materia sanitaria, allorquando la disabilità riguardi esigenze terapeutiche ritenute indifferibili. In tal senso, ponendo l’accento sull’essenzialità della tutela del diritto alla salute e alla dignità delle persone disabili, si è aggiunto un ulteriore tassello all’orientamento giurisprudenziale volto a riconoscere l’inalienabilità di tali valori, a fronte degli interessi economico – finanziari[20].
Ciascuna limitazione, seppur in tutela della salute, necessita altresì di essere temporanea.
Il caos normativo dettato dalla complessità delle vicende umane e sociali che necessitano di essere regolamentate, comporta talvolta una sempre maggiore difficoltà nell’individuazione del punto di equilibrio, in danno all’esigenza di certezza del diritto[21].
Questa esperienza emergenziale potrebbe dimostrarsi quale utile occasione per riconsiderare la gerarchia dei valori, ponendo al vertice della stessa i diritti che concernono la persona umana, quali il diritto alla salute e il diritto alla vita. Non sfruttare questa possibilità per dettare un nuovo assetto nella regolazione delle disposizioni costituzionali dei diritti, vorrebbe dire consentire la svalutazione degli stessi.
In un ordinamento definito dalla dottrina come sempre più liquido[22], è necessario che nella gerarchia costituzionale si riconosca il ruolo predominante dei valori c.d. primari, e che non si permetta la loro concreta relativizzazione[23], per dar prevalenza ad altri valori costituzionalmente garantiti, in relazione allo specifico contesto sociale in cui si trovino ad operare.
È allo stesso modo doveroso sottolineare come il bilanciamento non equivalga alla sintesi dei valori contrapposti[24]. Associando la funzione del bilanciamento all’immagine della bilancia[25], quale simbolo della giustizia, si auspica nel raggiungimento di un punto di equilibrio non ineguale, bensì equo, preciso, proporzionale e dunque ispirato al principio di legalità.
4. Il problema dello strumento normativo
Si pone in un rapporto di stretta consequenzialità rispetto alla possibilità di limitare alcuni diritti fondamentali in costanza di un conflitto con altri, il problema dello strumento normativo tramite il quale possa avvenire la “cessione del passo” di uno o più di tali diritti per tutelarne efficacemente un altro.
Proprio su questo punto si sono incentrate le maggiori critiche alle scelte dell’Esecutivo.
Con la dichiarazione dello stato di emergenza, avvenuta con delibera del Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020, ha preso avvio l’adozione dei plurimi decreti – legge, che hanno particolarmente inciso sulle libertà costituzionalmente garantite.
Taluni autori[26] hanno posto in luce delle criticità concernenti l’assetto costituzionale, e la conseguente necessità di provvedere ad una riforma, volta a conformarlo ai tempi moderni.
In particolare, il punto centrale si rinverrebbe nell’assunto per cui la nostra Costituzione del 1948, a differenza delle carte costituzionali di molti paesi europei, non contemplerebbe lo “stato di emergenza”.
Interrogandosi sulle ragioni di tale assenza, ne è emersa la ratio, inquadrabile in un preciso intento dei padri costituenti, che avrebbero deciso di non includere nella carta costituzionale un diritto speciale per lo stato di emergenza, al fine di scongiurare il pericolo che attraverso la dichiarazione dello stesso, si potesse procurare un vulnus per l’ordinamento costituzionale democratico, con la conseguente limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.
A tal proposito, è stato altresì posto in evidenza come lo “stato di guerra”, disciplinato dall’art. 78 Cost., non possa sopperire all’assenza della specifica previsione dello “stato di emergenza”; ciò in quanto la disciplina concernente lo stato di guerra presenta un carattere speciale che non ne consente l’applicazione analogica alle ipotesi emergenziali.
Sicché, lo stato di emergenza, pur non essendo oggetto di una precisa disposizione costituzionale, appare disciplinato dalla legge ordinaria; il riferimento è rivolto alla legge n. 225 del 1992, istitutiva del Servizio Nazionale di Protezione civile, la quale è stata successivamente riformata con il Codice della Protezione Civile, introdotto dal d. lgs. n. 1 del 2018.
Pertanto, la dottrina ha affermato come nonostante l’assenza di una disposizione costituzionale che disciplini lo “stato di emergenza”, la Costituzione ugualmente disponga di strumenti idonei a far fronte a tale emergenza sanitaria.
In primo luogo si annovera il decreto – legge, previsto dall’art. 77 Cost., che consente al Governo, in condizioni di necessità e d’urgenza, di adottare dei provvedimenti provvisori con forza di legge, presentandoli nel medesimo giorno alle Camere per provvedere alla conversione. In passato, più volte, la Corte Costituzionale ha evidenziato la pratica distorta dettata dal frequente utilizzo dei decreti – legge per disciplinare diverse situazioni, altresì prive dei caratteri di necessità ed urgenza.
In tale contesto emergenziale, difatti, le più incisive misure di contenimento del contagio che hanno determinato la compressione delle libertà personali sono state apportate attraverso l’uso di strumenti normativi di rango secondario, come i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) che si sono susseguiti dall’inizio dell’emergenza sino ad oggi.
Tuttavia, da più parti è stato evidenziato che, a fronte della limitazione delle libertà dei cittadini attraverso lo strumento del DPCM in ossequio alla finalità di garantire la salute contenendo il contagio da Covid-19, non siano state sostanzialmente osservate le garanzie costituzionali a tutela dei diritti di libertà.
Sotto questo punto di vista, viene maggiormente in considerazione il problema della riserva di legge.
Il principio di riserva di legge contemplato dalle norme costituzionali che riconoscono e tutelano i diritti fondamentali dei cittadini implica che qualsiasi limitazione di detti diritti di libertà possa avvenire nei “soli casi e modi previsti dalla legge” (parlandosi in questo caso di riserva di legge assoluta, che non ammette una fonte secondaria ad intervenire nella compressione); la Costituzione può anche prevedere direttamente i casi in cui può avvenire una siffatta limitazione (come nel caso della previsione delle limitazioni alla libertà di circolazione per motivi di sanità e sicurezza ex art. 16 Cost.), parlandosi in tali casi di riserva di legge rinforzata.
Ora, è ormai noto che i DPCM apportano, in concreto, i divieti che di fatto vanno a comprimere diritti di libertà costituzionalmente tutelati.
Ci si è chiesti se, ancorché dotate di una base legale, possano considerarsi legittime le previsioni limitative dei diritti dei cittadini adottate in maniera puntuale e specifica da fonti di rango secondario, o se ciò violi la riserva di legge prevista in Costituzione.
Per ragionare sulla risposta, è necessario dividere il piano che potremmo definire “formale” da quello, per così dire, “sostanziale” (non che le garanzie costituzionali, sia chiaro, possano conoscere una discrasia tra piano formale e piano sostanziale nella tutela dei diritti fondamentali, ma questa distinzione riguardo gli interventi e gli effetti può essere apprezzata al solo fine di comprendere l’esigenza di scindere tra forma delle limitazioni e contenuto sostanziale del quadro normativo entro cui si inseriscono).
Dal punto di vista della forma, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto atti amministrativi, costituiscono fonte secondaria: essi si inseriscono tra gli atti governativi disciplinati dalla legge n. 400 del 23 agosto 1988, e, in quanto tali, non sono ammessi a derogare alla legge ordinaria e, a fortiori, alle norme costituzionali, né a disciplinare materie coperte da riserva di legge; per questa ragione alcuni ritengono che limitare sensibilmente numerosi dei diritti costituzionalmente garantiti (quali la libertà di circolazione e soggiorno, di riunione e associazione, di professione del culto religioso, di iniziativa economica privata, fino alla stessa libertà personale) attraverso una fonte secondaria quale il DPCM, anche se dotato di “copertura” legale, non sia stato del tutto, o affatto, rispettoso dei dettami costituzionali.
E avendo riguardo al piano meramente “formale” della questione, non sbaglierebbero quelle voci, anche autorevolissime, che sottolineano che, seppur dotati di copertura costituita da legge primaria, lo strumento del DPCM non sarebbe comunque idoneo ad affievolire talune libertà costituzionalmente garantite, in quanto ciò equivarrebbe in un aggiramento della riserva di legge prevista dalla Costituzione in materia di limitazione delle libertà.
Sempre su un piano formale, tuttavia, pare potersi fare una duplice considerazione.
Innanzitutto, il decreto-legge è pacificamente ascrivibile tra le fonti primarie (è un atto con forza di legge), ed è altresì pacifico che quando la Carta fondamentale riservi una materia alla legge includa, accanto alla legge c.d. “formale” (approvata dal Parlamento secondo il procedimento previsto dagli art. 70 ss. Cost.), si riferisca anche alla legge in senso “sostanziale”, ovvero contenuta in atti avente forza di legge, quali decreti-legge e decreti legislativi (ex artt. 76 e 77 Cost.).
Il decreto-legge n. 19/2020 disciplina specificamente le ipotesi di limitazione di determinate libertà: infatti, l’art. 1, comma 2 di detto atto legislativo elenca abbastanza specificamente, in 29 punti (lettere a) – hh), tutte le tipologie di misure che, secondo il disposto del successivo articolo 2, possono essere adottate con uno o più decreti del Presidente del Consiglio al fine di contenere e contrastare il rischio sanitario, e “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso”.
I numerosissimi decreti che si sono susseguiti in questo periodo di estrema emergenza sono tutti adottati in attuazione di decreto-legge (dapprima del d.l. n. 6 del 23 febbraio, convertito in legge n. 13 del 5 marzo 2020, e successivamente del n. 19 del 25 marzo 2020, che ha sostituito il primo).
Tra l’altro, inizialmente si era evidenziata una patente illegittimità dei DPCM adottati in attuazione del d.l. 6/2020, il quale disciplinava le ipotesi di adozione di specifiche misure di contenimento (tra le quali quelle limitative delle libertà costituzionalmente garantite) prevedendone la delimitazione a zone circoscritte, utilizzato invece come base per estendere le misure a tutto il territorio nazionale (a partire dal DPCM del 9 marzo 2020).
Inoltre, taluni avevano denunciato l’illegittimità di detto decreto nella parte in cui prevedeva una sorta di “norma in bianco” che autorizzava l’Esecutivo ad adottare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica”, conferendo di fatto un potere senza la previsione di alcun limite al suo esercizio, se non quello del rispetto dei criteri di proporzionalità e adeguatezza.
Tali vizi di forma risultano sanati dal decreto-legge 19/2020, emanato il 25 marzo, salutato col plauso di molti nella parte in cui “regolarizza” l’ambito di applicazione delle misure, prevedendo che esse possano interessare sia specifiche parti del territorio nazionale, sia la totalità di esso, e che ha puntualmente elencato, all’art. 1, tutte le tipologie di misure che possono essere adottate a fini di contenimento del contagio epidemiologico, che devono essere di volta in volta disposte tramite DPCM secondo il già citato art. 2.
Occorre concentrarsi su tale ultimo atto normativo per affrontare la questione, avendo riguardo al piano sostanziale della stessa.
Infatti, i DPCM non apportano autonomamente misure limitative di libertà costituzionalmente garantite, nel senso che non le decidono indipendentemente dallo strumento normativo di rango primario che funge da loro base: le tipologie di misure limitative contenute in tali atti secondari sono comunque “attinte” dall’elenco contenuto nel decreto-legge.
Così, il DPCM è diventato lo strumento per adattare alle situazioni che via via si sono presentate, al passo con l’evolversi dell’emergenza sanitaria, le prescrizioni necessarie (in quanto adeguate e proporzionate) ai fini di contenere l’avanzata del virus e del contagio, ma pur sempre nel quadro delle tipologie di interventi elencati e predisposti dai decreti-legge.
Di conseguenza, non pare sostenibile che le compressioni ai sacrosanti diritti fondamentali dei cittadini siano sfuggite ad una disciplina legislativa, nonché al controllo ed all’approvazione parlamentare (seppur successivi, da espletarsi in sede di conversione in legge) e al vaglio di conformità costituzionale attribuito al Presidente della Repubblica, deputato alla loro emanazione secondo l’art. 87 della Costituzione.
Inoltre, sempre avendo riguardo al “piano sostanziale”, tenuto conto delle esigenze specifiche del caso cui si ricollega l’utilizzo di tale strumento normativo, si può richiamare la caratterizzazione dei DPCM quali atti amministrativi: con essi, spesso (come per numerosissime tipologie di atti amministrativi) si è chiamati a disciplinare e regolamentare situazioni che involgono determinate valutazioni di carattere strettamente tecnico. In una situazione come quella che il nostro Paese sta attraversando, in cui vi sono in gioco decisioni da ponderare sulla base di dati scientifici e statistici altamente complessi, che monitorano l’andamento del contagio, le vie di diffusione del virus e l’efficacia delle misure di contenimento adottabili, la scelta tra le misure più adeguate e proporzionate da applicare in base all’evolversi della situazione epidemiologica non può non fare i conti con tali valutazioni (che la Presidenza del Consiglio ha ritenuto dover affidare ad un Comitato tecnico-scientifico costituito da esperti).
A fronte di tali scelte, che dato l’incalzante ed imprevedibile evolversi degli eventi richiedono una certa celerità nella traduzione in regole e nell’adozione, lo strumento del DPCM è apparso come il più flessibile da un lato per garantire tale celerità, e dall’altro per compendiare l’apporto, oltre che dell’organo politico costituito dai Ministri di volta in volta interessati, sotto la responsabilità del capo dell’Esecutivo, anche della “task force” di esperti designata per valutare l’impatto e gli effetti delle misure rispetto alla corsa del virus.
5. Conclusioni
Pertanto, dalla disamina del testo costituzionale, emerge l’assunto per cui vi sono strumenti costituzionali idonei a far fronte all’emergenza sanitaria; tuttavia gli stessi necessitano di essere esercitati nel rispetto dei principi costituzionali di necessità, proporzionalità, temporaneità, chiarezza e soprattutto leale collaborazione[27].
Alla fine di questa riflessione condotta sugli aspetti “giuridici” delle misure adottate per fronteggiare l’emergenza da Covid-19 che hanno costituito punto di maggior dibattito, occorre tirare le somme circa l’insegnamento di questa situazione eccezionale.
Ad oggi, è possibile osservare come tali misure abbiano raggiunto il loro scopo, ovvero far calare il trend del contagio e far rientrare l’emergenza sanitaria: di pari passo con il calo della curva del contagio, nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza al fine di contenimento del rischio epidemiologico così come enunciato nei decreti-legge, sono decadute la maggior parte delle limitazioni dei diritti che sono state “sofferte” dalla popolazione nei mesi passati.
E ciò a riprova del fatto che, sostanzialmente, tutti i provvedimenti che nel corso di questi mesi così difficili per la nostra comunità hanno introdotto misure molto stringenti rispetto alle libertà costituzionali, hanno risposto ad un fine concreto, enunciato dagli strumenti normativi di rango primario, e una volta raggiunto il loro scopo, con il venire meno della gravità della situazione epidemiologica e dunque della necessità del loro mantenimento in vigore, sono state caducate, determinando la riespansione delle nostre preziosissime libertà costituzionali.
In base a tali circostanze, non pare potersi dire che durante l’emergenza sia stato posta in essere un’inosservanza, se non addirittura un “calpestamento”, della Costituzione.
Il dibattito sulla legittimità costituzionale o meno di tali provvedimenti può essere sicuramente utile pro futuro, perché possa prevedersi una disciplina puntuale di casi di tal genere, pur sperando di non averne mai più bisogno, come richiesto da più voci.
Sotto altro aspetto, esso pare utile a evitare, in futuro, che situazioni emergenziali, anche meno gravi della presente, possano divenire una scappatoia dalle stringenti previsioni per limitare i diritti fondamentali: occorre, al di fuori di ipotesi assolutamente e drammaticamente anomale come quella attuale, avere sempre come baluardo la tutela e la salvaguardia dei diritti fondamentali dei singoli, che hanno come corollario l’incomprimibilità e il rispetto di stringenti limiti e previsioni puntuali circa la possibilità di momentanea compressione di essi.
Limiti che, in questo caso, appaiono comunque rispettati, nonostante l’incisività delle misure: infatti, all’esito di tale riflessione, pare potersi concludere che siano stati utilizzati tutti gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione per far fronte a questo non meglio specificato stato di emergenza, ma che è sicuramente integrato da una pandemia che ha colpito in maniera così imprevedibile e crudele la nostra Nazione.
[1] Così M. OLIVETTI, Le misure di contenimento del Coronavirus, fra Stato e Regioni, in Il Quotidiano Giuridico, pag.1.
[2] Sul punto, il bilanciamento viene equiparato all’attività “armoniosa, precisa e oggettiva”, nell’ottica della realizzazione di una c.d. “relazione di peso”, così E. VIVALDI, “Il caso Ilva: la “tensione” tra poteri dello Stato ed il bilanciamento dei principi costituzionali, intervenuto al Convegno “Il caso Ilva: nel dilemma tra protezione dell’ambiente, tutela della salute e salvaguardia del lavoro, il diritto ci offre soluzioni?”, 15 marzo 2013, Istituto Dirpolis della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, in federalismi.it, n.15/2013, pag. 18 e ss.
[3] Così, A. G. DATO, Il bilanciamento tra principi costituzionali e la nuova dialettica tra interessi alla luce della riforma Madia. Riflessioni in margine al “caso Ilva”, in federalismi.it, n. 12/2019, pag. 16 e ss.
[4] Ibidem
[5] Corte Cost., 9 aprile 2013, n. 85, in www.cortecostituzionale.it.
[6] Così, A. G. DATO, op. cit.,pag. 17 e ss.
[7] Corte Cost., 7 febbraio 2018 n. 58, in www.cortecostituzionale.it.
[8] Sul punto, si evidenzia come il bilanciamento operato nel caso Ilva di Taranto, secondo una parte della dottrina, non avrebbe seguito i precedenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale; altra parte della dottrina invece individua taluni precedenti in cui si sarebbe giunti alla medesima soluzione, così A.G. DATO, op. cit., pag. 17.
[9] Sul punto, E. VIVALDI, op. cit., pag. 20
[10] Ibidem.
[11] Sul punto si richiama la Corte costituzionale tedesca, che pone al vertice dell’ordine oggettivo di valori, il diritto alla dignità umana e allo stesso modo, la dottrina americana che riconosce la c.d. “preferred position”. Così, A.G. DATO, op. cit., pag. 19.
[12] Sul punto, A. G. DATO, op. cit., pag. 19.
[13] Così A. G. DATO, op. cit., pag. 20.
[14] In tal senso, G. BATTARINO, Decreto legge “Covid 19”, sistemi di risposta all’emergenza, equilibrio costituzionale, in questionegiustizia.it. L’autore evidenzia come la norma costituzionale di cui all’art. 32, tuteli la salute non solo come diritto del singolo, bensì come interesse collettivo; in tal modo troverebbero giustificazione le misure restrittive imposte dal Governo.
[15] Corte Cost., sentenza n. 268 del 22 novembre 2017, in giurcost.org; e sentenza n. 5 del 22 novembre 2017, in www.cortecostituzionale.it.
[16] Così, G. BATTARINO, Decreto legge “Covid19”, op. cit.
[17] Ibidem, L’autore punta l’attenzione sul confronto intercorrente tra l’art. 2 e 3, comma 2, della Costituzione, sottolineando come le misure adottate rilevino al fine di tutelare l’eguaglianza sostanziale ed in particolare, consentano il riequilibrio di una iniziale condizione di disuguaglianza.
[18] Così, G. BATTARINO, Decreto legge “Covid19”, op. cit.
[19] Cons. St., sentenza n. 1 del 2 gennaio 2020, in neldiritto.it.
[20] In tale orientamento, si inquadra altresì Cass., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 8254 in ambito di responsabilità medica. In particolare, i giudici di legittimità evidenziano l’assoluta prevalenza del diritto alla salute del paziente, senza condizionamenti dettati da esigenze di diversa natura. Invero, si pone in evidenza come “Il sistema sanitario, nella sua complessiva organizzazione, è chiamato a garantire il rispetto dei richiamati principi, di guisa che a nessuno è consentito anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute”. Così, E. MIDOLO, Nota a Corte di Cassazione, Sez. IV Pen., sentenza 2 marzo 2011, in materia di responsabilità medica, in ildirittoamministrativo.it.
[21] Così, A. G. DATO, op. cit., pag. 20 e 21.
[22] Così, A.G. DATO, Il bilanciamento tra principi costituzionali e la nuova dialettica tra interessi alla luce della riforma Madia, op. cit., pag. 23.
[23] Ibidem.
[24] Il confronto tra sintesi e bilanciamento degli interessi contrapposti è stato analizzato con riguardo al caso Ilva di Taranto, sul punto, E. VIVALDI, Il caso Ilva, op. cit., pag. 29.
[25] Ibidem.
[26] Sul punto, in particolare, L. M. TONELLI, Diritti fondamentali, Emergenza e Costituzione ai tempi del Covid – 19. Alcune brevi riflessioni e prospettive di (necessaria) riforma della Costituzione, in Judicum, il processo civile in Italia e in Europa, pag. 1 e ss.
[27] L’appello alla leale collaborazione si rinviene in particolare nella Relazione della Presidente Marta Cartabia, op. cit., pag.26, in particolare si evidenzia la necessità che “l’azione e le energie di tutta la comunità nazionale convergano verso un unico condiviso obiettivo”.
Araldica e nomodinamica: Recensione a Gli ordini cavallereschi “non nazionali” nella legge 3 marzo 1951 n. 178 -ed, Jouvence Historica, Roma, 2020- di Maurizio Reina de Jancour
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. L’Ordine al Merito della Repubblica e altri Ordini - 2. Il libro di Maurizio Reina de Jancour - 3. Il mutevole valore dei valori nella società acefala.
1. L’Ordine al Merito della Repubblica e altri Ordini
Anche quest’anno, in occasione della Festa della Repubblica, il Capo dello Stato ha nominato nuovi cavalieri della Repubblica.
In realtà, caduta (da tempo) la monarchia, disconosciuti i titoli nobiliari (XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione), non è venuto meno il desiderio di un riconoscimento sociale formalizzato anche nella Repubblica.
Soprattutto nel dopoguerra, molti cittadini mostrarono interesse per i titoli onorifici fino a acquistarli da principi e sovrani spodestati (a volte veri, a volte falsi). Questo convinse il legislatore che anche lo Stato repubblicano doveva conferire riconoscimenti onorifici a coloro che meritavano di essere ricompensati per le “benemerenze acquistate verso la Nazione nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell'economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte ai fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari».
Lo dispose con l’art. 1 della legge 3 marzo 1951 n. 178 che ha istituito l'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana". Il Capo dell'Ordine è il Presidente della Repubblica che nomina su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, i suoi appartenenti divisi in cinque classi: Cavalieri di Gran Croce, Grandi Ufficiali, Commendatori, Ufficiali e Cavalieri. Per altissime benemerenze può essere eccezionalmente conferita ai Cavalieri di Gran Croce la decorazione di Gran Cordone. Invece, perde l’onorificenza l'insignito che se ne renda indegno.
L’art. 488, comma 2, cod. pen. punisce l’usurpazione di titoli e onori e l'art. 8 della legge del 1951 stabilisce che "salvo quanto è disposto dall'art. 7, è vietato il conferimento di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche, con qualsiasi forma e denominazione, da parte di enti, associazioni o privati: il conferimento, non consentito di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche, include non solo l'atto unilaterale di assegnazione del titolo ma anche la cerimonia di investitura quale modalità con cui il conferimento si attua (Cass. pen. Sez. 3, n. 9737 del 16/06/1999, Mariano, Rv. 214615).
2. Il libro di Maurizio Reina de Jancour
La legge n. 178 del 1951 attua un precetto costituzionale (art. 87 ultimo comma Cost.) potenzialmente derogatorio del principio di uguaglianza, sicché il legislatore nel dettare le norme ha voluto attribuire alle onorificenze conferite dalla Repubblica Italiana, fondata sul lavoro, un significato eminentemente morale e, per questa ragione, ha ridotto al massimo la possibilità di utilizzarne altre subordinando l'uso di quelle "non nazionali" a un'autorizzazione.
In questo quadro, il libro di Maurizio Reina de Jancour Gli ordini cavallereschi “non nazionali” nella legge 3 marzo 1951 n. 178 illustra la genesi e l’evoluzione del concetto di “ordini cavallereschi non nazionali” espresso nella legge n. 178 del 1951 e – utilizzando, con un accurato lavoro di ricerca, anche molto documenti inediti – l’incremento degli ordini cavallereschi “indipendenti”.
Lo studio esamina doviziosamente: la situazione anteriore al 2 giugno 1946 e il diritto dinastico, le vicende della legge speciale, il ruolo del Presidente della Repubblica, gli interventi del Consiglio di Stato, le posizioni del giudice Aldo Pezzana, l’operato delle Commissioni istituite presso il Ministero degli Affari Esteri.
Il lavoro apre anche alcuni spiragli interessanti (sociologicamente) sull’ambiente dei “nobili militanti” e sul loro rapporto con il “sentire collettivo della Nazione” (p.377).
Reina de Jancour (già autore di: Plebei e altri animali. Il razzismo segreto della nobiltà cattolica contemporanea, 2017) osserva che ancora oggi il Ministero degli Affari Esteri autorizza il porto delle insegne di alcuni Ordini cavallereschi “dinastici” conferite dai discendenti di famiglie ex regnanti italiane in base a una nozione di “sovranità affievolita” che egli ritiene, a conclusione di puntuali argomentazioni, priva di riscontro nel diritto internazione e nel diritto delle altre Nazioni europee (p. 345 ss.).
La tesi dell’Autore - sviluppata richiamando la dottrina e la giurisprudenza (ampiamente citata nel volume) degli anni successivi alla legge del 1951 - è che si è affermato un “orientamento interpretativo eversivo del monopolio statale delle onorificenze voluto dal legislatore” (pp.374 ss.).
A questo proposito viene opportunamente richiamata l’opinione di Arturo Carlo Jemolo: “un sovrano spodestato non dà onorificenze se non in quanto affermi di continuare a essere il Re legittimo ed il suo intento di riprendere il potere; e lo Stato che lo ha deposto non può considerare che come un atto di ribellione quello di chi accetti tali onerificenze”.
3. Il mutevole valore dei valori nella società acefala
Libertà, ricchezza, uguaglianza, sicurezza, piacere, obbedienza sono valori individuali e sociali. La valutazione della loro importanza è fondata su premesse eterogenee ma diventa necessaria quando accade di dovere stabilire una gerarchia fra i valori veicolati dai dati normativi.
Gli studi sulle motivazioni sociali individuano i prototipi dei sistemi di valori[1]. Alcuni valori focalizzano la dimensione sociale (quella considerata dalle onorificenze al merito della Repubblica): le tendenze all’universalismo (comprensione, tolleranza, rispetto e protezione del benessere di tutte le persone e della natura) inclinano verso la autotrascendenza e la benevolenza (mantenimento e miglioramento del benessere delle persone direttamente conosciute). Altri valori focalizzano la dimensione personale: sicurezza e conformismo, successo, potere, autoaffermazione, edonismo, individualismo. Poiché i valori non possono mutare radicalmente da una generazione all’altra, è ragionevole supporre che quando, per le condizioni contestuali, un valore non può essere adeguatamente attuato, se ne cerchi il soddisfacimento con forme complementari o surrogate. Se i valori che focalizzano la dimensione sociale devono scontare il declino dell’universalismo, allora è prevedibile un rafforzamento di forme scarsamente istituzionalizzate di benevolenza. Se i valori che focalizzano la dimensione personale non trovano sbocco nella possibilità di una sua effettiva soddisfazione, allora è prevedibile che della stessa si coltivino immagini del tutto estrinseche.
A quali specifiche esigenze psicologiche (ma non possono escludersi anche interessi pratici) si colleghi la ricerca di riconoscimenti formali scollegati da reali tradizioni familiari (che possono spiegare il desiderio di ricostruire una continuità storica) o da effettivi meriti personali non è semplice dire.
In ogni caso, non stupisce che, in alcune subculture, fra le molteplici che compongono la variegata società italiana, dell’onore - che (occorre pur dirlo) appare al momento un valore recessivo - si cerchino implausibili surrogati (il fenomeno, infatti, non riguarda solo i titoli nobiliari e ognuno può trovarne esemplificazioni variegate e, a volte, inattese).
Di tutto questo certamente non beneficia l’araldica, disciplina (non priva di pregi estetici) che, quando analizza e interpreta gli stemmi, fornisce concreti strumenti per ricostruire le vicende dei loro possessori e così contribuisce alle ricerche storiche: alla sigillografia, alla numismatica, alla genealogia, alla bibliografia, favorendo la datazione o la provenienza geografica di reperti, l’attribuzione di beni e la individuazione dei committenti di opere d’arte.
[1] S.H.Schwartz-W.Bilsky,Toward a universal psychological structure of human values, in: Journal of Personality and Social Psychology, 1987, 53, 550-562; S.H. Schwartz, Universals in the content and structure of values: Theory and empirical tests in 20 countries, in M.Zanna (ed.), Advances in experimental social psychology vol.25,1-65. NewYork, Academic Press. 1992; S.H.Schwartz, Are there universal aspects in the content and structure of values, in: Journal of Social Issues, 1994. 50, 19-45. C.Capanna- M.Vecchione-S.H.Schwartz, La misura dei valori: un contributo alla validazione del Portrait Values Questionnaire su un campione italiano. In: “Bollettino di Psicologia Applicata”, 2005.
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