ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Salvaguardia del diritto dell’Unione Europea ed efficacia esterna del giudicato: oltre la sentenza Olimpiclub?
di Laura Castaldi
Sommario: 1. Il giudizio a quo - 2. La posizione della Corte di Giustizia - 3. Primi rilievi - 3.1. Il quesito sostanziale: considerazioni e perplessità - 3.2. Il quesito processuale: giudicato esterno e sua contrarietà al diritto dell’Unione - 4. Il contesto giurisprudenziale interno: prospettive - 5. I tratti distintivi del caso di specie - 6. Riserve sull’iter argomentativo della Corte di Giustizia - 7. (Segue). Possibili scenari ricostruttivi - 8. Alcuni ulteriori spunti di riflessione.
1. Il giudizio a quo
Per comprendere appieno le implicazioni legate alla sentenza della Corte di Giustizia in rassegna[1] conviene muovere dai fatti di causa. Che – seppur ricostruibili sommariamente stanti talune (peraltro gravi) lacunosità dei dati da essa evincibili – ci mettono di sicuro davanti ad una vicenda processuale dai tratti a dir poco singolari.
In estrema sintesi, nel 2015 uno studio professionale di avvocati avanzava istanza di cancellazione della propria partita IVA a far data dall’anno 2002[2] con contestuale richiesta di rimborso dell’IVA versata nel periodo 1 gennaio 2010 - 31 dicembre 2014 in ragione della propria (pretesa) carenza di soggettività passiva IVA.
Perso il primo grado del giudizio radicato avverso il silenzio rifiuto opposto dall’Ufficio finanziario alla richiesta, la parte contribuente - nell’impugnare l’avversa pronuncia di prime cure avanti la Corte d’Appello di Bucarest – invocava a proprio favore l’autorità di cosa giudicata di una sentenza, medio tempore resasi definitiva inter partes, nella quale, per giunta dalla medesima Corte d’Appello di Bucarest, era stato accertato e dichiarato, con riferimento al periodo temporale 1 gennaio 2011 - 30 novembre 2014[3], che la libera pratica della professione di avvocato svolta dall’associazione professionale in questione non era qualificabile come esercizio di attività economica: essa mettendo capo a – non meglio precisati - rapporti di “assistenza legale”[4].
L’autorità di cosa giudicata veniva fatta valere dalla parte contribuente in forza di quanto disposto dall’art. 431 comma 2 del codice di procedura civile rumeno alla cui stregua “ciascuna parte può far valere l’autorità di cosa giudicata in un’altra causa, qualora esista un nesso con la definizione di quest’ultima”.
Questo essendo il quadro di causa, la Corte d’appello rumena si risolveva a formulare (o, meglio, come si dirà poi, si trovava costretta a sollevare) domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia circa:
a) La riconducibilità alla nozione di “esercizio di un’attività economica”, ex art. 9 della direttiva IVA 2006/112/UE, dell’esercizio della professione forense;
b) L’essere il diritto dell’Unione ostativo a che l’autorità di cosa giudicata spieghi effetto in altro giudizio pendente in materia di IVA laddove ciò comporti, altrimenti, per il giudice una pronuncia in violazione del diritto dell’Unione.[5]
2. La posizione della Corte di Giustizia
A fronte delle due questioni interpretative sottopostele, la Corte - seguendo il suo solito (per noi un po’ pedante ma ben collaudato) cliché motivazionale[6] - se ne esce con una sentenza inaspettatamente scabra.
Ed invero, dopo aver sbrigativamente risolto in termini positivi la questione sostanziale sottopostale - semplicemente ricordando l’ampiezza di latitudine non solo letterale ma anche interpretativo/concettuale che la sua ultradecennale giurisprudenza ha sempre attribuito ai termini utilizzati dalla Direttiva nel descrivere il requisito oggettivo dell’ “esercizio di un’attività economica” la cui imputabilità ad un soggetto qualsivoglia ne comporta, per ciò solo, la soggettività passiva d’imposta ai fini IVA[7] - il Collegio si inoltra sul ben più impervio e scivoloso terreno del rapporto tra autorità di cosa giudicata e piena applicazione del diritto dell’Unione[8].
Ma - ed è qui la sorpresa - anche l’approccio a questo secondo quesito vede l’atteggiamento della Corte improntato ad una qual certa frettolosità: quasi che per il Collegio giudicante – analogamente a quanto (ritenuto) con riferimento al quesito precedente – tutto sia già stato scritto e nient’altro debba aggiungersi in argomento.
Del resto, che la Corte abbia ritenuto la propria pregressa giurisprudenza tale da metterla in grado, per ciò solo, di risolvere la questione sottopostale dal giudice rumeno senza particolari aggravi di riflessione lo confermano svariati elementi: la relativa brevità del testo della pronuncia; i ripetuti richiami della Corte a propri (peraltro pochi) precedenti in tutti i passaggi che ne compongono l’articolazione motivazionale[9]; soprattutto, la decisione della Corte di giudicare la causa senza l’ausilio delle conclusioni dell’Avvocato Generale[10].
E così:
a) ricordata l’assoluta centralità spiegata dal principio di autorità di cosa giudicata nel contesto del diritto dell’Unione europea come presidio della certezza e della stabilità dei rapporti giuridici e della buona amministrazione della giustizia[11];
b) ribadito altresì che è, sì, riservata alla competenza e all’autonomia dei singoli Stati membri la scelta delle modalità con cui dare riconoscimento e presidio al principio di autorità della cosa giudicata all’interno del proprio distinto ordinamento giuridico, ma nel rispetto del principio di equivalenza e di quello di effettività, entrambi riconducibili al principio di leale collaborazione verticale tra Unione Europea e singoli Stati membri nel dare piena attuazione al diritto dell’Unione;
c) rilevata (rectius sostenuta) in fatto la diversità di lasso temporale e di domanda formante oggetto del giudizio a quo rispetto a quelli coperti dalla decisione invocata nel suo effetto di res iudicata;[12]
d) constatato, accertato e dichiarato, in diritto, l’incompatibilità con il diritto dell’Unione dell’interpretazione della normativa IVA recata nella sentenza la cui res iudicata era invocata nel giudizio a quo[13];
la Corte ci sembra concluda, in sintesi, che delle due l’una:
- o il giudice a quo, in base alle proprie regole di diritto interno, può prescindere dal giudicato esterno invocato da parte contribuente[14]: nel qual caso sarà suo obbligo risolvere la causa in conformità al diritto dell’Unione nei termini di quanto stabilito dalla Corte in risposta al primo quesito, sebbene e anche laddove ciò comporti per costui contravvenire al proprio precedente[15];
- ovvero, in caso contrario, l’autorità di cosa giudicata spiegata dalla precedente pronuncia definitiva non potrà comunque impedire al giudice a quo di rimettere in discussione le affermazioni ivi contenute contrarie al diritto dell’Unione, con riferimento ad esercizi fiscali distinti da quello rispetto a cui il giudicato si è formato[16].
Alternativa che, sia detto per inciso, tale non ci sembra più di tanto se non da un punto di vista squisitamente formale: nell’un caso l’effetto preclusivo del giudicato non si verificherebbe per estraneità della fattispecie alla sfera di applicazione dell’art. 431 co. 2 c.p.c. rumeno; nell’altro, l’effetto preclusivo del giudicato (ovvero, se si vuole, la sua valenza normativa del caso concreto) ex art. 431 co. 2 c.p.c. sarebbe impedito dalla sua contrarietà sostanziale rispetto al diritto dell’Unione europea. In un caso l’autorità di cosa giudicata non sarebbe invocabile per ragioni di diritto interno; nell’altro caso l’autorità di cosa giudicata non sarebbe invocabile per incompatibilità con il diritto dell’Unione europea.
3. Primi rilievi
Insomma l’impressione prima facie è che la pronuncia: con riferimento alla risoluzione del primo quesito, rasenti l’ovvietà; mentre, quanto al secondo si collochi in quello che potremmo definire il fisiologico alveo della giurisprudenza della Corte di Giustizia in ordine al grado di resistenza del giudicato formale rispetto alla sua contrarietà sostanziale al diritto dell’Unione Europea.
Ma è solo un’impressione.
In realtà se si presta maggiore attenzione al contenuto della sentenza ci si accorge che la stessa, forse addirittura oltre le sue intenzioni, dice molto di più di quanto appare a prima vista, sollevando qualche curioso interrogativo oltre a sollecitare talune riflessioni a nostro sommesso parere rimaste in nuce in merito ai risvolti che potrebbero discenderne quanto all’assetto stesso del nostro sistema processuale: essa ponendosi e proponendosi come ulteriore tassello di quel già complesso e sfuggente mosaico di elementi che pungolano e tormentano in particolare la Suprema Corte laddove questa – nonostante la, e anzi proprio in ragione della, posizione assunta sulla c.d. efficacia esterna del giudicato con la sent. 13916/06 resa a SS.UU. – si trova impegnata nel difficile compito di circoscrivere i confini oggettivi e temporali del giudicato (per quanto qui interessa[17]) tributario[18]: con una significativa produzione giurisprudenziale[19] che è parsa a taluno - non a noi - incerta, oscillante e poco condivisibile[20].
Ma entriamo in medias res.
3.1. Il quesito sostanziale: considerazioni e perplessità
In primo luogo, non può che sorprendere l’apparente bizzarria nel merito della vicenda processuale a quo: tale da far pensare ad una lite patentemente pretestuosa e temeraria.
E’ davvero difficoltoso, infatti, dubitare della soggettività passiva IVA di uno studio professionale di avvocati per giunta – da quanto è dato arguire - esercente la propria attività dal lontano 2002. Verrebbe da pensare che, se la questione oggetto del contendere fosse stata sottoposta, mutatis mutandis, dallo studio UR all’Agenzia delle entrate italiana sotto forma di interpello interpretativo ex art. 11 lett. a) lg. 212/2000, forse avremmo potuto additare il caso quale esempio gigliato di interpello inammissibile per carenza del requisito di obiettiva condizione di incertezza.
Eppure soffermarsi a riflettere e porsi qualche interrogativo in argomento è più che legittimo nel caso di specie: per due ordini di ragioni.
Perché, comunque sia, è un dato di fatto che inter partes era intervenuta una pronuncia giudiziale - per giunta adesivo-confirmativa della sentenza di prime cure [21] - di segno esattamente contrario alle nostre attese: due distinti collegi giudicanti, insomma, avevano accertato e dichiarato che lo studio professionale di avvocati UR era da considerarsi come non esercente un’attività economica ai sensi della disciplina IVA[22].
Perché siffatta pronuncia di merito era divenuta definitiva: più precisamente, trattandosi di sentenza d’appello, era stata fatta passare in giudicato dall’ufficio finanziario che, risultato soccombente in entrambi i gradi di giudizio di merito, aveva ritenuto di non esercitare gli strumenti giuridici messigli a disposizione dall’ordinamento per contestarla. Con ciò – aggiungiamo noi, riservandoci qualche ulteriore riflessione nella parte conclusiva della presente nota - assumendosene le conseguenti responsabilità.
Orbene, il contenuto della sentenza in commento non adduce informazioni utili per gettare luce sugli elementi che erano stati spesi dallo Studio UR a sostegno dei propri assunti difensivi in siffatto parallelo giudizio dipoi definitosi positivamente per la parte contribuente con il passaggio in giudicato della sent. 30 aprile 2018: nessun aiuto si ritrae neppure dal passaggio argomentativo in cui se ne richiama la motivazione, riportata in termini tanto criptici quanto tautologici.
Ci permettiamo così una fantasia: sollecitata da una apparente stonatura argomentativa della sentenza in commento, laddove la Corte di Giustizia, a sostegno motivazionale del proprio ragionamento, va a richiamare, per l’appunto, un proprio precedente concernente l’aliquota IVA applicabile alle prestazioni di servizi fornite dagli avvocati quando indennizzati totalmente o parzialmente dallo Stato nell’ambito del gratuito patrocinio[23].
Si tratta all’evidenza di un argomento ultroneo e fuori contesto, una vera superfetazione di fronte alla eclatante ovvietà delle considerazioni, dai rigorosi fondamenti normativi, precedentemente svolte dalla Corte a sostegno della soggettività passiva IVA degli esercenti la professione di avvocati: c’è bisogno di scomodare il gratuito patrocinio per sostenere che lo studio legale UR esercitando professionalmente l’attività forense svolgeva un’attività economica ai fini IVA ed era da considerarsene dunque soggetto passivo? Certamente no. A meno che la gratuità/non corrispettività delle prestazioni legali dello studio UR non fosse proprio il tratto caratterizzante i contratti di assistenza legale da questo stipulati con i propri clienti.
Perché se così fosse il richiamo della Corte di Giustizia al proprio precedente giurisprudenziale avrebbe un certo qual significato e, forse, il giudicato favorevole (formatosi all’esito di un doppio grado di merito di segno concorde) ottenuto dallo Studio UR sarebbe meno sorprendente di quanto possa apparire: richiamandoci alla mente la nota vicenda del sig. Tolsma, suonatore ambulante dell’organo di Barberia per le strade di Monaco di Baviera, cui l’amministrazione finanziaria tedesca pretendeva attribuire la partita IVA con connesso assoggettamento a imposizione IVA delle relative prestazioni: salvo poi, la Corte di Giustizia[24], sancirne l’estraneità dall’area di applicabilità IVA proprio in ragione della non onerosità/ corrispettività delle prestazioni in cui si estrinsecava la sua attività.
Si tratta di mere illazioni che tali rimangono: ma che portano a chiederci se il quesito proposto dalla Corte d’appello rumena alla Corte di Giustizia fosse stato formulato in modo adeguato (ovvero in termini aderenti e pertinenti rispetto alla specificità della controversia oggetto di causa): quest’ultima dovendo pronunciarsi attenendosi ai termini della domanda proposta e in ragione degli elementi fattuali prospettati e sottoposti alla sua attenzione dal giudice a quo.
3.2. Il quesito processuale: giudicato esterno e sua contrarietà al diritto dell’Unione
L’osservazione non è fine a sé stessa perché – al di là e a prescindere da quanto andremo ad osservare subito di seguito nel testo - offre il fianco per esprimere delle riserve altresì nei confronti del secondo quesito oggetto della pronuncia in rassegna. La cui curiosa formulazione da parte del giudice rumeno si dimostra in tutta la sua evidenza, a maggior ragione, se si confronta con quello proposto dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza di rinvio relativa alla causa Olimpiclub[25].
Ed invero, nel diritto rumeno – per quanto è dato desumere dalla sentenza in commento – l’efficacia esterna della res iudicata è sancita per legge: precisamente dall’art. 431 co. 2 c.p.c. E, ai sensi dell’art. 432 c.p.c., può essere rilevata sia ex officio che per eccezione di parte in ogni stato e grado del giudizio.
Niente di tutto questo è riscontrabile nel nostro ordinamento: possiamo dire che a risultati simili si era (e si è) arrivati in chiave interpretativa attraverso una, non certo facile, elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte in ordine alla portata da riconoscere all’art. 2909 c.c. - proprio nell’imminenza dell’ordinanza di rinvio Olimpiclub - con la già menzionata sent. 13916/06 delle SS.UU.
Eppure, mentre nella vicenda Olimpiclub il quesito alla Corte di Giustizia in ordine alla vincolatività del giudicato esterno nonostante la sua suscettibilità di condurre il giudice a quo ad un pronunciamento contrario al diritto dell’Unione viene formulato dalla Cassazione avendo specifico riguardo all’art. 2909 c.c. nell’interpretazione datane dalle sue Sezioni Unite, nel caso di specie il quesito della Corte d’appello di Bucarest viene proposto in forma generale e astratta senza alcuna menzione né dell’art. 431 co. 2 c.p.c., né dell’art. 432 c.p.c.[26]
Con il risultato che escono rafforzati la portata generale e di principio degli assunti ivi spesi dalla Corte di Giustizia in punto di (in)efficacia esterna del giudicato (interno) sostanzialmente contrario al diritto dell’Unione. Assunti che, peraltro, sembrano essere già stati compiutamente elaborati dalla Corte di Giustizia nei suoi precedenti come menzionati nel corpo motivazionale della sentenza in rassegna: in particolare, e come già ricordato, nella sent. 3 settembre 2009 (causa C-2/08 Olimpiclub) e, più di recente, nella sent. 4 marzo 2020 (causa C-34/19 Telecom Italia SpA).
E allora, cosa aggiunge di nuovo questa sentenza in argomento? Soprattutto, quali spunti di riflessione può offrire al relativo dibattito interno ed europeo?
Apparentemente nessuno: se non, appunto, realizzare quell’effetto di rafforzamento dei principi già in precedenza enunciati dalla Corte di Giustizia per ciò che ribaditi con riferimento ad un quadro normativo interno (quello rumeno) dove (sembrerebbe) l’efficacia esterna della res iudicata è sancita espressamente dalla legge.
Tant’è che, per parte sua, la Suprema Corte di Cassazione, nella costante opera di cesello che la occupa (e preoccupa) nel delineare i confini di invocabilità del giudicato esterno, sembra averne addirittura anticipato i contenuti. Laddove, in tempi relativamente recenti, essa ha stabilito che “Nel processo tributario il vincolo oggettivo derivante dal giudicato, in relazione alle imposte periodiche deve essere riconosciuto nei casi in cui vengono in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi d’imposta o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione del rapporto, salvo che, in materia di IVA, ciò comporti l’estensione ad altri periodi d’imposta di un giudicato in contrasto con la disciplina comunitaria, avente carattere imperativo, compromettendone l’effettività”.[27]
Col che potremmo chiudere la presente nota di commento semplicemente rilevando con una certa preoccupazione il pericoloso rinnovato profilarsi di quella significativa divaricazione di regole procedurali-processuali applicabili nell’ordinamento interno con riferimento, rispettivamente, ai tributi armonizzati e non armonizzati: situazione che - già registratasi riguardo all’esistenza o meno di un obbligo generalizzato di instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale a pena di nullità dell’atto di accertamento successivamente emanato, così come plasticamente fotografata dalla sent. 9 dicembre 2015 n. 24823 delle SS.UU. della Corte di Cassazione[28]-[29] laddove venisse a radicarsi sul ben diverso terreno della res iudicata rischierebbe davvero di gettare lo scompiglio nel nostro sistema processuale tributario.
4. Il contesto giurisprudenziale interno: prospettive
In realtà a noi sembra che la sentenza della Corte di Giustizia in commento abbia riguardo e si pronunci con riferimento ad un contesto processuale significativamente diverso rispetto a quelli da cui hanno tratto origine i precedenti dalla stessa citati e che proprio questa sua particolarità distintiva possa consentire di individuare una direttrice di comportamento per il giudice domestico estremamente interessante ai fini della salvaguardia dell’elaborazione teorico-sistematica della giurisprudenza interna in tema di efficacia esterna del giudicato: sia per quanto attiene ai presupposti logico-giuridici su cui si fonda sia per i valori che la Suprema Corte ha inteso perseguire e garantire per il tramite della sua elaborazione[30]. Passibili, altrimenti, di essere messi a repentaglio da un acritico e non adeguatamente ponderato recepimento della giurisprudenza europea di cui qui ci si occupa[31].
Occorre infatti ricordare che, con la sent. 13916/2006, le Sezioni Unite non solo hanno correttamente evidenziato come, devoluto alla cognizione del giudice tributario, sia non già l’atto impugnato quanto piuttosto il modo di essere e/o la qualificazione giuridica degli elementi costitutivi della fattispecie tributaria generativa del rapporto impositivo così come ivi rappresentati e per suo tramite partecipati dall’amministrazione finanziaria al contribuente, ma, soprattutto, che il loro conseguente accertamento giudiziale come compiuto ai fini della decisione, quando venga ad assumere i crismi della definitività e dunque l’autorità di res iudicata, è destinato a spiegare i suoi effetti (preclusivi di nuovi accertamenti giudiziali, ovvero, se si preferisce, normativi del caso concreto) temporalmente dipendenti dalla rilevanza temporale del fatto accertato (e/o della sua qualificazione giuridica) dal punto di vista sostanziale (ovvero normativo)[32].
Con ulteriori successive pronunce la stessa Suprema Corte ha avuto poi modo di opportunamente precisare i contorni dei propri enunciati[33], con ciò pervenendo ad approdi interpretativi in ordine all’estensione oggettiva e temporale del giudicato tributario pienamente condivisibili sul piano sistematico[34]: sia in termini di ottimale funzionalizzazione dello strumento processuale rispetto alla conformazione sostanziale dei rapporti che ne formano oggetto di cognizione e accertamento (e dunque, in ultima analisi a salvaguardia dell’effetto utile del processo), ma soprattutto in chiave di tutela della certezza del diritto. Valore quest’ultimo che, nel diritto tributario, comporta una connaturata intollerabilità, sotto il versante prima di tutto costituzionale, verso la formazione di giudicati (anche solo logicamente) contrastanti[35] in ordine: a) al modo di essere di fattispecie imponibili uniche ma generativa di più rapporti soggettivamente distinti[36] b) ovvero, appunto, al modo di essere di fatti che per legge hanno efficacia permanente o pluriennale oppure alla qualificazione giuridica di rapporti ad esecuzione prolungata, e che si correla all’esigenza di garantire la stabilità dei rapporti impositivi[37] oltre che, al contribuente (e di riflesso all’amministrazione finanziaria), l’affidabilità/prevedibilità circa le conseguenze fiscali delle proprie condotte (il che consente di apprezzarne un, non sempre adeguatamente valorizzato, terreno comune che il diritto tributario condivide con il diritto penale).
5. I tratti distintivi del caso di specie
Ebbene, se poniamo attenzione alle sentenze della Corte di Giustizia richiamate nella pronuncia in commento ci rendiamo presto conto di un elemento comune che, seppur con sfumature diverse, le accomuna. Più precisamente, la contrarietà al diritto dell’Unione del giudicato esterno di cui si invocano gli effetti nel giudizio a quo:
a) risulta già aliunde accertata ed è quindi dato che assurge quale elemento fattuale pacifico nella stessa ordinanza di rimessione del giudice a quo e, del pari, nel pronunciamento della Corte di Giustizia: il tema da risolvere si esaurisce nello stabilirne, nonostante ciò, la vincolatività;[38]
b) ovvero, viene messa in dubbio dal giudice a quo (e, dipoi, esclusa dalla Corte) in ragione di una sopravvenuta modifica del quadro normativo europeo rilevante in causa (cui il giudice interno è chiamato ad attenersi) rispetto al momento in cui il giudicato esterno invocato si è formato: come accade precipuamente nel caso Olimpiclub [39] dove, si può dire, il giudice a quo si pone (e pone alla Corte) un problema di limite alla vincolatività dell’efficacia del giudicato rebus sic stantibus.[40]
Nella vicenda sottesa alla sentenza che andiamo commentando, invece, il panorama è fondamentalmente e profondamente diverso: tant’è che l’ordinanza di rinvio è altrettanto (e a nostro parere, correttamente) diversa da quella che – ad esempio – riscontriamo nella causa Olimpiclub.
Nel caso di specie, invero, il giudice rumeno:
a) si trova a che fare con una res iudicata che, a suo parere in base al diritto interno ex artt. 431 e 432 c.p.c. rumeno, lo vincolerebbe nel pronunciarsi rispetto alla causa sottoposta al suo esame;
b) dubita che siffatta res iudicata sia conforme al diritto dell’Unione
Insomma, la contrarietà al diritto dell’Unione del giudicato esterno non è un dato che si pone come fattuale (perché aliunde accertato) per il giudice a quo ma è solo da costui sospettato.
Ed è per questo che nell’ordinanza di rinvio il giudice rumeno molto saggiamente:
a) pone innanzitutto alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale sostanziale (è esercente un’attività economica e dunque soggetto passivo IVA chi svolge la professione di avvocato?)
b) e solo successivamente la questione pregiudiziale procedurale-processuale (se la res iudicata di cui si invoca l’efficacia esterna è contraria al diritto dell’Unione, il giudice può discostarsene?)
6. Riserve sull’iter argomentativo della Corte di Giustizia
Ebbene, questo sottile cordone ombelicale che lega i due quesiti, ci sembra non venga opportunamente apprezzato nell’argomentare della Corte nella sentenza in commento: da qui il senso di insoddisfazione che genera il dispositivo cui essa mette capo.
Nell’iter argomentativo della Corte – si vedano in particolare i §§ 31 e 32 – il venir meno dell’efficacia esterna dell’autorità della causa giudicata è collegato inscindibilmente alla sua indiscussa contrarietà sostanziale al diritto dell’Unione.[41] Contrarietà che però e per l’appunto, nel caso di specie, si disvela “indiscussa” in ragione della risposta al primo quesito da parte della Corte medesima.
Col che rimane però aleggiante e irriducibilmente irrisolta una domanda: in regime – diciamo così – ordinario, chi stabilisce la contrarietà al diritto dell’Unione del giudicato esterno invocato così che il giudice possa consideralo non vincolante nella causa sottoposta alla sua cognizione?
E ancora. Ammettiamo pure che la Corte, nella sentenza in questione, abbia escluso a priori (dunque indipendentemente da una valutazione di sua contrarietà al diritto dell’Unione) l’effetto vincolante del giudicato esterno nelle controversie in materia di IVA così da lasciare libero il giudice da ostacoli di sorta nel prendere in considerazione e applicare la normativa dell’Unione in materia di IVA[42]: verrebbe da chiedersi, chi garantisce che la successiva decisione, emessa a prescindere ovvero in contrasto con il precedente giudicato, sia davvero quella rispettosa e correttamente applicativa del diritto dell’Unione?
Ora, a noi sembra che proprio la mancata messa a fuoco e risoluzione di questi snodi problematici conduca la Corte di Giustizia ad una affermazione di principio – quella delineata nel §34 - per un verso, spiazzante e preoccupante nella sua assolutezza, per l’altro, parzialmente eccentrica rispetto a tutta l’impostazione della sentenza.
Quello che ci sembra certo emerga è che in nome di un (preteso) omaggio al primato del diritto dell’Unione, la Corte sia disposta a sacrificare il principio dell’autorità della cosa giudicata nella latitudine correttamente individuata dalla nostra giurisprudenza di legittimità in chiave interpretativa dell’art. 2909 c.c. e finisca così con l’ammettere – almeno nel settore IVA - il ritorno a possibili conflitti teorici di giudicati: con buona pace delle esigenze di certezza e stabilità di cui abbisogna più di altre proprio la platea eletta di operatività del tributo in questione: ossia il mercato.
7. (Segue). Possibili scenari ricostruttivi
Orbene, anche per scongiurare un simile pericolo, è nostro convincimento che il giusto contemperamento dei due valori in gioco (la certezza del diritto, la stabilità dei rapporti giuridici, l’esigenza sistematica di evitare il formarsi di giudicati contrastanti in ordine ad elementi della fattispecie impositiva a valenza pluriennale, per un verso, e la necessità di garantire l’effettività di corretta interpretazione e applicazione delle norme dell’Unione in materia di IVA, dall’altro) dovrebbe condurre invece l’interprete a spingersi oltre in chiave evolutiva rispetto alla sentenza della Corte di Giustizia per trarne tutte le potenziali conseguenze in chiave sistematica.
E con ciò - anche traendo insegnamento dal percorso seguito dal giudice a quo rumeno - ritenere che, in caso di invocata efficacia esterna di un giudicato rispetto al quale il giudice sospetti la contrarietà con il diritto dell’Unione[43], costui non possa per ciò solo disattenderlo ma debba essere piuttosto sempre obbligato (a prescindere dal suo essere giudice di ultima istanza) a sollevare la questione pregiudiziale sostanziale rispetto al profilo contenutistico del giudicato invocato di cui dubita, davanti alla Corte di Giustizia: con ciò l’autorità della cosa giudicata verrebbe meno solo se e a patto che l’organo giurisdizionale cui è istituzionalmente demandata in via esclusiva l’interpretazione (a garanzia di corretta applicazione) del diritto dell’Unione, ne verifichi l’effettiva contrarietà o meno al diritto dell’Unione e dunque la sua suscettibilità o meno a spiegare efficacia esterna nel giudizio a quo.
8. Alcuni ulteriori spunti di riflessione
Ci accingiamo così a concludere questa nostra nota di commento con due spunti di riflessione, che tali rimangono per non tediare ulteriormente il lettore.
La prima riguarda la comune singolarità che contrassegna le vicende processuali sottese ai pronunciamenti della Corte che qui a vario titolo sono venute in considerazione: in tutti i casi ci troviamo davanti ad una inspiegabile frammentazione di vicende giudiziali sostanzialmente unitarie, spesso ad una dilatazione abnorme dei tempi processuali[44], talvolta ad una incomprensibile inversione delle tempistiche di decisione di cause che paiono astrette da vincoli di pregiudizialità/dipendenza[45]: l’ambiente ottimale insomma per il proliferare di giudicati e perché possa porsi un problema di efficacia esterna del giudicato. C’è da interrogarsi dunque – per quanto ci riguarda - sul grado di utilizzo (e di accortezza di utilizzo) degli strumenti che la disciplina processuale interna – segnatamente il d.l.vo 546/1992 in combinato con il c.p.c. - appronta a disposizione del giudice e delle parti per evitare simili fenomeni: e la mente corre alle disposizioni in tema di riunione dei ricorsi ex art. 29, di sospensione necessaria del processo ex art. 39 co. 1bis; a tutto il controverso panorama degli interventi e delle chiamate in causa la cui piena operatività nel giudizio tributario sembra essere stata significativamente compromessa dalla non felice fattura, per non dire cripticità, dell’art. 14.
L’altra invece è una riflessione di sistema e si traduce nell’interrogarci sul ruolo che la Corte di Giustizia ascrive alla figura del giudice rispetto al processo tributario e alla gestione del processo ad opera delle parti: che potrebbe condurre ad un ripensamento radicale degli assetti di principio che lo governano e lo modellano.
Com’è noto, la disciplina del processo tributario, soprattutto dopo la riforma del 1992, è improntata al principio della domanda. Ciò che è devoluto alla cognizione giudiziale dipende dall’esercizio dell’azione e della difesa delle parti; come nella disponibilità delle parti è l’istruttoria giudiziale: il pieno rinvio al codice di procedura civile, il progressivo elidersi dei poteri istruttori in capo al giudice di cui all’art. 7 d.l.vo 546/1992 depongono tutti per un netto regresso dei profili originariamente di matrice inquisitoria presenti nel modello di processo tributario delineato dal d.p.r. 636/1972 a favore di un modello di processo nella piena disponibilità delle parti (di stampo giusprivatistico). In una logica di questo tipo assume particolare rilievo il profilo della responsabilità che le parti si assumono sulle scelte di conduzione del processo e sulle conseguenze che ne discendono. Nessuno può dolersi delle conseguenze che processualmente e sostanzialmente scaturiscono in esito al processo laddove condotto nel rispetto delle regole che lo governano.
L’efficacia esterna del giudicato (soprattutto quando non formatosi su una pronuncia di ultima istanza) si coniuga perfettamente ad un simile assetto di principio: la parte che – a seguito di libera e consapevole valutazione – decida di non fruire, pur potendolo, degli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento per sindacare una pronuncia, dimostra col proprio comportamento di accettarne i contenuti e di condividerli in tutta la loro ampiezza di efficacia ai sensi dell’art. 2909 c.c. Ma il discorso sostanzialmente vale anche in caso di giudicato formatosi su decisione di ultima istanza: la parte fruisce o subisce le conseguenze (rispettivamente favorevoli o sfavorevoli) che formano il risultato definitivo del processo anche come conseguenza delle proprie scelte processuali, degli elementi dedotti e deducibili in causa, degli elementi probatori prodotti, delle tempistiche più o meno rispettate ecc.
Orbene a noi sembra che il pronunciamento della Corte in rassegna, irrompa in questo scenario alterandone l’equilibrio: il giudice – nella logica della sentenza che qui si commenta - non è più solo l’arbitro della lite ma anche e soprattutto il guardiano posto a garanzia della effettività di corretta applicazione del diritto dell’Unione nell’ordinamento interno, di un interesse generale e di sistema che sopravanza le scelte processuali delle parti.
Si tratta di una prospettiva di indisponibilità del diritto e/o del rapporto che, affiancandosi e assommandosi a ulteriori spunti sulla valenza pubblicistica degli interessi coinvolti nel processo tributario che la Suprema Corte di Cassazione non ha mancato di evidenziare in questi ultimi anni, dovrebbe indurci a riflettere: soprattutto di questi tempi in cui si parla di una (più o meno imminente) riforma del processo tributario. Potrebbe essere l’occasione per discutere sull’adeguatezza del modello processuale adottato rispetto ai diritti, agli interessi generali e doveri costituzionali e agli obiettivi sovranazionali che è chiamato a tutelare e realizzare.
[1] Si tratta della sent. 16 luglio 2020 C-424/19 (Cabinet de avocat UR) con riferimento alla quale - per un primo immediato commento - cfr., in questa stessa rivista, MARCHESELLI, Giudicato esterno, diritto eurounitario e fattispecie pluriennali.
[2] Probabilmente anno di sua costituzione.
[3] Dunque diverso ma integralmente intercluso nello periodo temporale interessato dalla causa principale.
[4] Così si legge al § 11 della sentenza in commento.
[5] Per maggiore chiarezza, così risultano riportate le questioni pregiudiziali formulate dal giudice rumeno nella G.U. dell’Unione europea 26 agosto 2019, C 288:
1) Se nell’ambito di applicazione dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio (relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) la nozione di «soggetto passivo» comprenda anche chi esercita la professione di avvocato.
2) Se il principio del primato del diritto dell’Unione consenta di derogare, in un procedimento successivo, all’autorità di cosa giudicata di cui gode una decisione giurisdizionale definitiva la quale ha stabilito in sostanza che, nell’applicare e interpretare la normativa nazionale in materia di imposta sul valore aggiunto, l’avvocato non cede beni, non esercita un’attività economica e non conclude contratti di prestazione di servizi, bensì contratti di assistenza legale.
[6] Così lontano dalla nostra tradizione e sensibilità giuridico-argomentativa nella sua quasi maniacale ripetitività metodologica, consistente nell’enucleare una serie di affermazioni di principio ricavabili dai propri precedenti interpretativi nel loro rapporto di connessione/consequenzialità logica ovvero di reciproca esclusione che – come tanti tasselli – convergono nel condurre la Corte a enunciare la soluzione interpretativa richiesta dal giudice a quo.
[7] Così concludendo che “una persona che esercita la professione di avvocato deve essere considerata un “soggetto passivo” ai sensi di tale disposizione” (§20): ci si riferisce ovviamente all’art. 9 della direttiva 2006/112.
[8] Questione sulla quale la Corte di Giustizia si è intrattenuta più volte con note sentenze che hanno sollevato ampio dibattito in dottrina. In argomento vd. infra nt. 19
[9] Si tratta in buona sostanza di tre precedenti: sent. 3 settembre 2009 causa C-2/08 (Fallimento Olimpiclub); sent. 11 settembre 2019 causa C-676/17 (Oana Madalina Calin); sent. 4 marzo 2020 causa C-34/19 (Telecom Italia Spa).
[10] Segno inequivocabile, quest’ultimo, della ritenuta inesistenza di nuove questioni di diritto da risolvere ad opera del Collegio giudicante.
[11] Tale per cui il diritto dell’Unione non impone ad un organo giurisdizionale nazionale l’obbligo di riesaminare una sua decisione che goda dell’autorità di cosa giudicata anche se ciò permetterebbe di porre rimedio ad una situazione nazionale contrastante con tale diritto
[12] E’ questo è un passaggio alquanto oscuro della sentenza della Corte di Giustizia: ed invero, non v’è chi non veda che i periodi temporali interessati dai due giudizi non sono affatto distinti bensì, parzialmente sovrapposti: quello coperto dal giudicato essendo integralmente intercluso in quello, più ampio, interessato dal giudizio a quo; quanto poi a quale fosse l’oggetto del contendere nel giudizio la cui sentenza era passata in giudicato, non è dato sapere ed è addirittura difficile provare a immaginare: ci viene solo da escludere che potesse riguardare pretese impositive relative a tributi diversi dall’IVA, in specie imposte sui redditi, giacché l’argomento dell’alterità del settore impositivo interessato dalla res iudicata (per giunta, non rientrante tra quelli armonizzati) altrimenti, per la sua forza dirimente, sarebbe sicuramente emerso con maggior forza ed evidenza nell’economia della pronuncia in commento.
[13] Inequivocabilmente in questi termini il § 30 della sentenza: consequenziale alla risoluzione interpretativa del primo quesito posto alla Corte.
[14] Si ipotizza cioè che il giudice a quo, sulla scorta della diversità di oggetto e di periodo temporale del giudizio definitosi, possa pervenire a ritenere la relativa res iudicata estranea all’oggetto della controversia pendente e dunque tale da non vincolarlo rispetto alla decisione di quest’ultima. Si tratterebbe perciò di una valutazione, rimessa al giudice del rinvio, che involgerebbe il portato interpretativo dell’art. 431 co. 2 c.p.c. rumeno laddove ricollega l’efficacia esterna del giudicato al fatto che la causa pendente rispetto a cui tale effetto è invocato presenti “un nesso” con la prima.
[15] Nella sent. 4 marzo 2020 causa C- 34/19 (Telecom Italia SpA) richiamata nella sentenza in commento la Corte è ancora più circostanziata: al § 60 precisando che l’obbligo di interpretazione conforme include quello per i giudici nazionali, ivi compresi i giudici di ultima istanza, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione
[16]Affermazione, quest’ultima, fondata dalla Corte su un richiamo secco alla sentenza Olimpiclub §§ 30-31 e giustificata dalla Corte per ciò che, altrimenti, l’errata applicazione del diritto dell’Unione si protrarrebbe negli esercizi impositivi futuri senza rimedio alcuno (cfr.§ 32 della sentenza in commento)
[17] L’economia della presente nota non ci consente troppe (seppur interessantissime) divagazioni: accenniamo solo – per ragioni che riprenderemo in prosieguo - agli sviluppi registratisi negli ultimi tempi nel settore processuale amministrativo in ordine alla cd. formazione progressiva del giudicato su cui vd. C.d.St. Ad. Plen. sent. 9 giugno 2016, n. 11.
[18] Ed invero – quella dell’efficacia oggettiva esterna (e/o della cd. ultrattività temporale) del giudicato tributario – è questione su cui da tempo è in corso un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Venutosi da ultimo a complicare (e non poco) per ciò che – a mo’ di crocevia – la diatriba ha finito per intercettare (e in parte a intersecarsi) con altre distinte - e in buona misura concettualmente autonome – problematiche. Fra le tante, quella che concerne il rapporto intercorrente tra il cd. principio di autonomia dei periodi impositivi e la (invocata) stabilità nel tempo di quei profili dell’obbligazione tributaria destinati a spiegare i loro effetti conformanti anche con riferimento agli esercizi impositivi successivi a quello di loro emergenza: rispetto al quale siano rimasti incontestati ad opera dell’Amministrazione finanziaria (Cass. sent. 24 aprile 2018 n. 9993 con commento di SCHIAVOLIN, Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista in Riv. dir. trib. 2018, II, 280 ss. nonché, se si vuole, CASTALDI, Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib. 2019, 191 ss.). Vicenda che ha visto, da ultimo, la Suprema Corte rimettere gli atti al Primo Presidente per una valutazione di pronunciamento da parte delle Sezioni Unite con un’ordinanza dal contenuto, ci sia consentito, tanto articolato quanto - per quel che ci riguarda - opinabile (vd. Cass. ord. 5 giugno 2020 n. 10701).
[19] Con profili di analisi che investono anche altre e altrettanto problematiche questioni connesse al giudicato. Vd. da ultimo per l’efficacia riflessa ultrasoggettiva del giudicato, Cass. 4.8.2020 n. 16640 secondo cui il giudicato formatosi in capo al sostituito, in cui il giudice ha sancito il carattere non imponibile del provento, fa stato nel processo, sull'omessa esecuzione della ritenuta, instaurato dal sostituto. Sulla conflittualità tra giudicati successivi in merito a rapporti con vincolo di pregiudizialità/dipendenza intercorrenti tra le stesse parti vd. ord. 31 maggio 2018 n. 13804.
[20] Si veda da ultimo, DALLA BONTA’, Giudicato esterno tributario, tra nuovi temperamenti e persistenti incertezze, in GT 2019, 342 ss., alla quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici relativi a quella parte della dottrina, fondamentalmente di matrice costitutivista, critica verso la posizione assunta da Cass. SS.UU. sent. 13916/2006 (in specie, sin da subito, GLENDI, Giuste aperture al ne bis in idem in Cassazione ma discutibili estensioni del giudicato tributario extra moenia, in GT 2006, 557 ss.).
[21] Si tratta della sent. 30 aprile 2018 cui fa menzione la CdGUE al § 11 della pronuncia in commento. Dal contenuto del §11 cit. si evince che siffatta sentenza d’appello risultava confirmativa della sentenza di primo grado resa dal Tribunale superiore di Bucarest.
[22]Al §11 si legge infatti che “la sentenza 30 aprile 2018, divenuta definitiva, (…) confermando una sentenza del 21 settembre 2016 del Tribunale Superiore di Bucarest, ha dichiarato che un contribuente, come l’UR, che pratica la libera professione di avvocato, non esercita alcuna attività economica e, di conseguenza, non può essere considerato effettuare operazioni di consegna di beni o di prestazioni di servizi”.
[23] Richiamo tanto più ridondante e fuori luogo se si considera che la Corte di Giustizia lo utilizza per trarne un argomento ab implicito: aver disquisito sull’aliquota IVA da applicare alle prestazioni forensi rese nell’ambito del patrocinio a spese dello Stato presuppone in ogni caso la soggettività IVA degli avvocati.
[24] CDGUE sent. 3 marzo 1994 causa C-16/93 (Tolsma).
[25] Cass. ord. 10 ottobre 2007 n. 26996.
[26] Ciò sebbene su di essi il giudice a quo faccia leva per affermare il dispiegamento dell’effetto dell’autorità della cosa giudicata nella lite pendente in base al diritto interno.
[27] Così Cass. ord. 19 aprile 2018 n. 9710. Va detto peraltro che in argomento è tornata più di recente, Cass. sent. 28 novembre 2019 n. 31084 che merita menzione per la motivazione: particolarmente apprezzabile per il rigore argomentativo.
In essa la Suprema Corte, ripercorso l’iter giurisprudenziale che ha progressivamente precisato i confini di invocabilità/efficacia del giudicato esterno nel processo tributario dopo il principio enunciato dalle SS.UU. con sent. 13916/2006, ha concluso che “il diritto dell’Unione europea, così come costantemente interpretato dalla Corte di Giustizia, non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, con riguardo al medesimo tributo, in relazione ad un diverso periodo d’imposta, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione di diritto comunitario da parte di tale decisione, salvo le ipotesi, assolutamente eccezionali [di incompatibilità con il diritto comunitario]”: circostanza di eccezionalità condivisibilmente ritenuta, dai giudici di legittimità, non ricorrente nella fattispecie oggetto di causa ove si discuteva dell’applicazione dell’aliquota IVA, se ordinaria o agevolata, alle prestazioni rese da un’impresa nell’ambito di un rapporto ad esecuzione prolungata, avente ad oggetto la realizzazione in più anni di una medesima opera pubblica, e dove il giudicato esterno invocato (formatosi, si badi bene, sulla sentenza di appello relativa all’annualità successiva a quella oggetto del contendere: e dunque in ragione di una precisa determinazione volitiva dell’Ufficio finanziario soccombente di non ulteriormente coltivare il contenzioso) aveva definitivamente accertato la natura dei lavori in questione quali opere di urbanizzazione primaria e secondaria, come tali soggetti all’aliquota IVA agevolata.
[28] In termini altresì ex pluribus Cass. ord. 7 settembre 2018 n. 21767; Cass. ord. 22.5.2020 n. 9496.
[29] Divaricazione di regole di così difficile e imbarazzante coesistenza nel nostro sistema - stante anche la fisiologica contiguità tra imposte sui redditi e IVA - da indurre alla fine il legislatore a estendere l’obbligatorietà dell’attivazione del cd. contraddittorio endoprocedimentale anche al settore delle imposte sui redditi mediante introduzione dell’art. 5ter D.L.vo 218/1997Art. 4 octies D.L. 34/2019 a valere per gli avvisi di accertamento emessi dal 1° luglio 2020.
[30] In argomento cfr. MANZON, I limiti oggettivi del giudicato tributario nell’ottica del “giusto processo”: lo swing-over della cassazione, in Corr. Giur. 2006, 1694 ss.
[31] Ciò in linea con il valore fondante che la stessa Corte di Giustizia riserva al principio dell’autorità del giudicato ai fini della tenuta e della coerenza dei singoli ordinamenti interni e di quello europeo (vd. Conclusioni dell’Avvocato generale del 24 marzo 2009 causa C-2/08 Olimpiclub §50 “le norme di diritto interno che, nell’interesse della certezza del diritto, conferiscono carattere definitivo alle decisioni possono essere messe in discussione, tenuto conto della forza e dell’efficacia del diritto comunitario, solo in via eccezionale e a condizioni molto restrittive”).
[32] L’efficacia preclusiva/normativizzante del giudicato opera “fino a quando quella qualificazione (…) non sia venuta meno fattualmente o normativamente” (così da ultimo Cass. 15 settembre 2017 n. 21935; Cass. 28 settembre 2018 n. 23495).
[33] Soprattutto correggendo il riferimento (invero infelice, anche in termini esemplificativi) alla stabilità nel tempo del giudicato formatosi avuto riguardo alla qualificazione giuridico-fiscale di situazioni fattuali "tendenzialmente" permanenti (residenza/non residenza; commercialità/non commercialità dell'ente) che svariate critiche avevano sollevato, giustamente, in dottrina.
Sul punto si rinvia alle condivisibili considerazioni di Cass. 11settembre 2015 n. 4832; Cass. 5 dicembre 2014 n. 25762 ove correttamente si osserva che "L'effetto preclusivo del giudicato esterno formatosi sulla sentenza della Commissione tributaria regionale (...) non viene, pertanto, in questione sotto il profilo della diretta applicazione del principio del "ne bis in idem", (...) ma viene a formarsi per "espansione dell'efficacia oggettiva giudicato esterno" nella diversa causa, in considerazione dell'identità dell'accertamento, in entrambe le cause pur se relative a diversi periodi di imposta, del medesimo ed invariato presupposto necessario del rapporto sanzionatorio (la qualificazione giuridica delle prestazioni oggetto del contratto (...) cui è indissolubilmente condizionato, in entrambi i giudizi, l'accertamento delle violazioni tributarie".
Sotto questo profilo non altrettanto condivisibile – nella sua assolutezza - ci sembra la posizione della Suprema Corte laddove ha escluso l’efficacia esterna del giudicato laddove i giudizi vertano su tributi distinti (cfr. Cass. 2438/2007, Cass. 25200/2009; Cass. 235/2014; Cass. 25798/2017). Anche in questo caso infatti ci sembra doveroso distinguere: se infatti i concetti giuridici assumono tendenzialmente connotazioni e latitudini diverse a seconda del settore impositivo in cui si trovano richiamati (si pensi al concetto di “impresa” nelle imposte sui redditi e nell’IVA) è anche vero che in altri casi le norme relative alla disciplina di un tributo richiamano espressamente concetti/classificazioni come descritti ai fini di altro settore impositivo (si pensi al caso della soggettività passiva degli enti non commerciali e al relativo regime di rilevazione della base imponibile ai fini IRAP delineati dall’art. 3 lett. e) e dall’art. 10 d.l.vo 446/1997 dove il richiamo è espressamente formulato con riguardo ai soggetti di cui all’art. 87 comma 1, lett. c) t.u.i.r. (ora art. 73 comma 1, lett. c) t.u.i.r.): in quest’ultimo caso ci sembra che se il giudicato copre proprio la qualificazione giuridica che in altro settore impositivo viene determinata mediante rinvio, non ci siano ostacoli di sorta all’efficacia esterna del giudicato: ovviamente a parità di annualità oggetto del contendere.
[34] La letteratura in argomento è sterminata. Ci limitiamo ad un’unica citazione per la compiutezza del suo contenuto anche dal punto di vista del corredo bibliografico: RUSSO-FRANSONI, I limiti oggettivi del giudicato nel processo tributario, in Rass. trib. 2012, 858 ss.
[35] A loro volta patologici risultati di un altrettanto patologico fenomeno di parcellizzazione dei contenziosi tributari che la Suprema Corte di Cassazione ha più volte mostrato di avversare e, nei limiti di quanto previsto dal legislatore, di combattere. Sul punto per qualche ulteriore riflessione mi permetto di rinviare a CASTALDI, L’ansia del conflitto logico di giudicati nel prisma dell’equo riparto dei carichi fiscali tra i consociati, in Riv. trim. dir. trib. 2012, 863 ss.
[36]Su cui vd. da ultimo FEDELE, Pluralità di obbligati al pagamento dell’imposta in relazione a fattispecie imponibili sostanzialmente unitarie: l’attualità del contributo di Augusto Fantozzi, (in corso di pubblicazione: dattiloscritto consultato per gentile concessione dell’Autore).
[37]Da cui – come è noto - il disseminarsi nel nostro settore di termini decadenziali quanto all’esercizio di diritti o poteri suscettibili di incidere sulla definitiva cristallizzazione del modo di essere della fattispecie impositiva.
[38] E’ quanto si rileva nel recentissimo precedente Telecom Italia spa (CdGUE sent. 4 marzo 2020 causa C-34/19), ma anche, mutatis mutandis, nel caso Lucchini (CdGUE sent. 18 luglio2007 causa C-119/05)- come assai acutamente osserva Cass. 31084/2019 al §3.2.-; ma omologhe considerazioni valgono per il caso Kuhne &Heinz (CdGUE sent. 13 gennaio 2004 causa C-453/00 §§ 26 e 27) laddove la Corte riconosce come una delle condizioni essenziali perché un organo amministrativo possa tornare su una propria decisione divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che ha statuito in via definitiva, è che tale sentenza, alla luce della giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale. Sull’importanza di siffatti assunti vd. infra nel testo.
[39] Possiamo parlare a buon diritto di modifica del quadro normativo di diritto europeo (stante la medio tempore intervenuta CdGUE sent. 21 febbraio 2006 causa C-255/02 Halifax), tenuto conto che – come ha precisato l’Ad. Plen. Cons. di St. sent. 11/2016 (Pizzarotti) - l’intervento della sentenza della Corte di Giustizia equivale a una norma sopravvenuta per cui il fenomeno va considerato alla stregua di una successione cronologica di norme.
[40] Va infatti ricordato che - relativamente alla vicenda Olimpiclub - nel giudizio a quo (in cui si discuteva di recuperi impositivi ricollegati al preteso carattere fiscalmente elusivo di un contratto di comodato intercorso tra una società commerciale e un’associazione sportivo dilettantistica ai fini dell’imposizione reddituale) era stata invocata la res iudicata (in punto di accertata non elusività del contratto di comodato) discendente da sentenze (peraltro, anche queste, di merito) pronunciate e divenute definitive antecedentemente alla pronuncia della Corte di Giustizia in tema di divieto di abuso del diritto nel caso Halifax: si trattava infatti di CTR Lazio sent. 138/43/2000 e CTR Lazio sent. 67/01/2003 (cfr. CdGUE sent. 3 settembre 2009 causa C-2/08 (Olimpiclub) § 10). La preoccupazione del Giudice italiano nei termini di cui al testo emerge molto chiaramente nella sintesi contenuta nelle Conclusioni dell’Avvocato generale Mazak del 24 marzo 2009 causa C-2/08 §§ 58, 59 e 71.
[41] Si veda in specie §§30, 31, 32.
[42] In questi terminì §34.
[43] Così evidenziando altresì una manchevolezza nell’operato del precedente giudice laddove quest’ultimo non ha ritenuto sollevare la questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia.
[44] Esemplare il caso Olimpiclub dove la Corte di Giustizia si pronuncia nel 2009 con riferimento ad una pregiudiziale sollevata dal giudice italiano nel 2008 nel contesto di un giudizio che aveva ad oggetto avvisi di accertamento relativi alle annualità 1988-1991 (!!) Non si sa come né perché, nonostante l’identità di questione oggetto del contendere, le annualità 1987 e 1992 sono trattate invece distintamente e autonomamente l’una dall’altra e approdano al giudicato nel 2000 e nel 2003.
[45] Ci sembra il caso sotteso alla sentenza in commento.
Remembering Ruth Bader Ginsburg*
di Guido Calabresi
*traduzione a cura di Gery Ferrara
Guido Calabresi ci regala un ricordo personale di Ruth Bader Ginsburg (aggiungere anche una sola parola nuocerebbe allo straordinario peso della sua memoria), dopo che nei mesi scorsi ha offerto il suo impulso decisivo ad alcuni approfondimenti sui temi delle scelte tragiche nel tempo del Covid - Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia - e della condizione degli afroamericani negli USA -Le lacerazioni razziali negli Stati Uniti: la comprensione del fenomeno di Tom Tyler (Yale University) -. In questo si coglie il Suo desiderio di tenersi unito alla sua terra d'origine e che abbia scelto i lettori di Giustizia Insieme per mantenere il legame ci onora.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza Gery Ferrara che ringraziamo con grande stima.
Guido Calabresi gives us a personal remembrance of Ruth Bader Ginsburg (adding even a single word would harm the extraordinary weight of his memory) after he offered us, in the last months, his decisive input in deepening on the subject of tragic choices over covid-time - Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia – and on the conditions of African Americans in the USA - Le lacerazioni razziali negli Stati Uniti: la comprensione del fenomeno di Tom Tyler (Yale University) -. In this, we figure out his desire to be close to his homeland and the choose and we are honored he has chosen Giustizia Insieme readers to maintain this link.
All of this would not be possible without Gery Ferrara whom we thank with great esteem.
***
Ruth Bader Ginsburg era mia amica. Avevamo quasi la stessa età. E siamo diventati giudici nello stesso periodo, lei alla Corte Suprema degli Stati Uniti e io alla Corte d'Appello degli Stati Uniti. Entrambi abbiamo iniziato la nostra carriera nel mondo accademico. E nei nostri scritti abbiamo espresso opinioni simili su molte delle questioni chiave del momento. Ad esempio, siamo stati entrambi critici nei confronti del ragionamento giuridico alla base della sentenza Roe v. Wade (il caso che ha stabilito il diritto costituzionale di una donna all'aborto) senza, per questo, essere in disaccordo rispetto alla decisione finale.
È interessante notare che quella posizione aveva originariamente fatto sorgere delle preoccupazioni, soprattutto in certi ambienti di sinistra, sul tipo di giudici che saremmo stati. Tuttavia, il presidente Clinton era determinato a nominarci entrambi. Ed entrambi siamo stati confermati dal Senato praticamente all'unanimità. Durante il suo periodo in Corte, più di una volta R.B.G. ha citato favorevolmente decisioni del mio tribunale, seppure di grado inferiore, e ha citato il ragionamento da me seguito nelle sue opinioni. E spesso ha assunto i miei assistenti quando questi avevano finito il loro periodo presso il mio ufficio, per farli diventare suoi assistenti. Non dovrebbe, dunque, sorprendere che io scriva di lei con grande affetto e senta profondamente la sua perdita.
Ma c'erano anche delle differenze importanti tra noi, specialmente nel modo in cui ognuno di noi ha reagito alle discriminazioni di fondo che hanno fatto parte della storia dell'America, tanto quanto o forse in misura maggiore che in altri paesi.
Quando eravamo giovani, siamo stati entrambi oggetto di discriminazione da parte di alcuni, ma siamo stati anche fortemente aiutati da parte di altri; lei molto più di me è stata ostacolata da maggiori pregiudizi. Io ho reagito ai pregiudizi nei miei scritti accademici; lei diventando un grande avvocato dedito alla causa dell'uguaglianza.
E che avvocato era. Seguendo il modello di Thurgood Marshall, e di coloro che avevano guidato la lotta contro la segregazione razziale, ha costruito, caso per caso, la struttura che nel tempo avrebbe abbattuto la maggior parte delle discriminazioni legali contro le donne.
Eppure, ed e questa è la sua grandezza, lei non si è fermata a questo, perché l'uguaglianza e la dignità di ogni essere umano erano il fulcro del suo credo.
E così, mentre iniziava a combattere per il riconoscimento della dignità delle donne, ampliava la sua lotta a tutela degli uomini, a coloro il cui orientamento sessuale era diverso dal suo, alle persone di colore - agli studenti bisognosi di una educazione speciale - ai detenuti - agli immigrati e ai rifugiati - e ai poveri.
Ruth Bader Ginsburg era tradizionale, si potrebbe dire conservatrice, nella sua vita personale. Era immensamente devota a suo marito, ai suoi figli e ai suoi nipoti, i quali la adoravano. Sembrava una radicale solo perché combatteva per la giustizia - per le persone e non per il potere. E per questo motivo, questa minuscola, piccola e fragile persona ha finito per sembrare enorme.
Il Vangelo della domenica successiva alla sua morte raccontava dei lavoratori che arrivavano alla vigna presto o tardi durante la giornata. Ruth è arrivata presto alla vigna e si è guadagnata abbondantemente la sua paga. Ma ha accolto con gioia anche tutti coloro che sono arrivati in ritardo.
***
Ruth Bader Ginsburg was my friend. We were nearly the same age. And we became judges at about the same time, she on the Supreme Court of the United States and I on the United States Court of Appeals. We both began our careers in the academy. And in our writings, we expressed similar views on many of the key issues of the day. For example, we both were critical of the reasoning in Roe v. Wade (the case that established a woman’s constitutional right to an abortion) without, for that, disagreeing with the result. Interestingly, that position originally led to concern among some of those on the left as to the kind of judges we would be. Nevertheless, President Clinton was determined to appoint each of us. And we were each confirmed by the Senate virtually unanimously. On the Court she, more than once cited favorably my lower court opinions and my reasoning in her own opinions. And she frequently hired my law clerks when they had finished their time with me, to become law clerks with her. It should be no surprise that I write of her with great affection and feel her loss profoundly.
But there were also important differences, and especially in how we each reacted to the underlying discriminations that have been a part of America, as much or more as of other countries. When we were young, we both were the objects of discrimination by some, and of great help from others; she much more than I was hampered by greater biases. I reacted to bias by scholarly writings; she by becoming a great lawyer dedicated to the cause of equality. And what a lawyer she was. Following the model of Thurgood Marshall, and of those that had led the fight against racial segregation, she built, case by case, the structure that would in time bring down most legal discriminations against women.
Yet, and this is her greatness, she did not stop there, for equality and human dignity of every human being framed the core of her belief. And so while she began fighting for the recognition of the dignity of women, she expanded this to men, to those whose sexual orientation was different from hers to people of color – to students in special education – to prisoners – to immigrants and refugees – and to the poor.
Ruth Bader Ginsburg was traditional, conservative one might say, in her personal life. She was immensely devoted to her husband, her children, and her grandchildren, all of whom adored her. She seemed like a radical only because she fought for justice – for people not for power. And for this reason, this tiny, tiny frail person came to seem enormous. The gospel of the Sunday after she died told of workers coming to the vineyard early and late in the day. Ruth came to the vineyard early and earned her pay mightily. But she happily welcomed all those who came late.
Il ruolo della magistratura a 30 anni dall’omicidio di Rosario Livatino*
di Luigi Patronaggio
Due importanti convegni di studi, alla presenza delle più importanti cariche istituzionali dello Stato - quasi a farsi perdonare l’ancora non spento eco dell’epiteto di “giudice ragazzino” lanciato dall’ex Presidente delle Repubblica Cossiga all’indirizzo di quei giovani magistrati, come Rosario Livatino, su cui non riponeva alcuna fiducia neppure per affidare loro la gestione di una “casa terrena” - sono stati indetti in occasione del trentennale della barbara uccisione del Giudice Rosario Livatino, avvenuta per mano mafiosa il 21.9.90 in c.da Gasena di Agrigento.
Non è un caso che tema di entrambi i convegni sia una riflessione sul ruolo, la professionalità e la deontologia del magistrato a 30 anni dall’uccisione di Rosario Livatino.
E’ a tutti noto, infatti, che la magistratura italiana sta vivendo una crisi profonda, una crisi che è di sostanza, ma anche di forma se è vero che secondo un recente sondaggio IPSOS solo un italiano su tre ha fiducia nella magistratura come istituzione.
I recenti scandali, dal caso Saguto fino al caso Palamara, hanno inciso un solco profondo nelle coscienze degli italiani, li hanno lasciati sbigottiti, perché da una istituzione posta dalla Costituzione a garanzia del gioco democratico ci si attende alta professionalità e altissimo senso morale.
Eppure non può dirsi che Il CSM non abbia preso provvedimenti severi, al pari di altre istituzioni attraversate da crisi di credibilità analoghe, atteso che il Giudice Saguto è stata destituita prima della affermazione definitiva in sede penale della sua colpevolezza e che ugualmente il Sostituto Palamara è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, per non dire dei consiglieri del CSM, a vario titolo implicati nel caso Palamara, costretti alle dimissioni e sottoposti a procedimento disciplinare.
Evidentemente tali provvedimenti non sono bastati per rigenerare il rapporto fra magistratura ed opinione pubblica.
Ed invero, il rapporto fra magistratura, politica e opinione pubblica è stato in quest’ultimo trentennio di vita democratica sempre piuttosto critico e caratterizzato da un andamento ciclico.
Va ricordato, infatti, che fino agli ’80, per quel che riguarda la lotta alla mafia, la magistratura non godeva di fiducia nell’opinione pubblica, i capi degli Uffici Giudiziari erano spesso espressione del partito di maggioranza relativa, a sua volta in alcune sue articolazioni, strettamente legato a Cosa Nostra. Non per nulla negli anni ‘60 e ‘70 buona parte dei processi contro la mafia si concludevano con imbarazzanti assoluzioni “per insufficienze di prove”.
La strage Chinnici del 29.7.83 è stato forse il momento di svolta della lotta alla mafia. Si ricordi infatti che Chinnici fu sostituito alla guida dell’allora Ufficio Istruzione di Palermo da un grande uomo, dal tratto mite ma dal coraggio infinto, Antonio Caponnetto. Fu proprio Caponnetto che diede vita al primo pool antimafia, valorizzò la grande professionalità di Giovanni Falcone e in poco meno di tre anni permise di portate a dibattimento il primo maxi processo a Cosa Nostra.
La storia è poi nota: la sentenza del maxi processo e l’impostazione accusatoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono confermate in Corte di Cassazione; per ritorsione per il mancato “aggiustamento” del processo furono uccisi Salvo Lima e Ignazio Salvo e alla fine Giovanni Falcone e Paolo Borsellino persero la vita negli attentati terroristici del 1992, rei di avere combattuto frontalmente e a testa alta Cosa Nostra.
Dopo i tragici eventi del ’92 in Sicilia si respirò una aria nuova, la società civile era tutta con la magistratura, si viveva una nuova stagione di speranze e di entusiasmo.
E tuttavia occorre ricordare che la stagione antimafia della magistratura non è mai stata una strada facile, anzi tutt’altro: vanno qui ricordati i magistrati che lavorarono e morirono nell’isolamento della Provincia siciliana. Due esempi per tutti, il nostro Rosario Livatino ad Agrigento e i Giudici Ciaccio Montalto e Alberto Giacomelli a Trapani, a cui va aggiunto il tragico attentato al sostituto Carlo Palermo.
Analoghi crediti di consenso, peraltro, aveva vantato la magistratura nella lotta al terrorismo (1976/1983) e alla corruzione con la stagione di “mani pulite” (1991/1994).
Nella lotta al terrorismo la magistratura aveva avuto il merito di inventarsi un metodo di indagine ( i primi pool e i primi coordinamenti di indagine nascono proprio durante la lotta al terrorismo) e di avere garantito una giustizia senza Tribunali e leggi speciali così permettendo alla Prima Repubblica di continuare a vivere nella libertà e nella democrazia .
La stagione di “mani pulite” è stata una stagione controversa che, se da un lato ha fatto emergere la corruzione sistemica in cui versava ( e ancora versa ) il Paese accelerandone il cambiamento politico; dall’altro, ha registrato eccessi non sempre condivisi dalla società. Si ricordi infatti come si è passati nel giro di soli tre anni dal grido di “Milano ladrone, Di Pietro non perdona” fino alla sequela di falsi dossier e processi imbastiti contro lo stesso Di Pietro avanti l’Autorità Giudiziaria di Brescia e dai quali, va ricordato, venne sempre assolto.
Voglio quindi ricordare come lo sforzo della magistratura non si sia esaurito nella stagione successiva alle stragi ma abbia registrato la capacità della stessa magistratura - ma sarebbe più corretto dire di alcuni illuminati e coraggiosi magistrati, spesso isolati - di leggere una realtà criminale complessa, fatta di depistaggi, di apparati deviati, di trattative innominabili fra Stato e mafia, di un antistato occulto che pretende di reggere le fila delle istituzioni democraticamente elette.
Negli ultimi anni, tuttavia, sono scoppiati, com’è noto, due fatti che hanno stravolto il rapporto fra la magistratura, la politica e l’opinione pubblica: il caso Saguto e il caso Palamara.
In verità ci sarebbe da annotare anche la recentissima difficile stagione vissuta da una parte della magistratura nel complesso controllo di legalità sulle azioni di contrasto del governo all’immigrazione clandestina, alla luce dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia e delle indicazioni della Corte EDU, ma essendo materia ancora sub iudice e fortemente divisiva appare opportuno rinviare ad altri tempi e ad altra sede un esame critico della stessa.
Il caso Saguto, ma per certi versi anche il caso Montante, ha realizzato purtroppo la profezia di Leonardo Sciascia nel famoso articolo comparso sul Corriere della Sera il 10.1.87 sui “professionisti dell’antimafia”, mettendo a nudo una magistratura assetata di potere e di soldi che piega ai suoi personali interessi la sua altissima funzione istituzionale.
Peggio ancora il caso Palamara, vittima di un sofisticato congegno elettronico che ne ha spiato per mesi i più rilevanti momenti della sua vita pubblica (ma purtroppo anche privata), ha messo in luce come nomine, promozioni, iniziative giudiziarie e disciplinari rispondessero a logiche di parte anziché a logiche di terzietà ed imparzialità come richiesto dall’Ordinamento Giudiziario e dalla deontologia professionale.
Da questi scandali è uscita una immagine della magistratura votata al rafforzamento delle proprie posizioni personali ed istituzionali, disinteressata alla corretta amministrazione della giustizia, sorda alle vicende di umane di vittime ed imputati.
Quali le cause e quali i rimedi?
Le cause - a parte gli appetiti di denaro e di potere che albergano in ogni animo umano in modo più o meno carsico - vanno ricercate nell’essersi la magistratura allontanata dal modello costituzionale secondo cui “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, per andare verso un modello di magistratura votata al carrierismo più sfrenato e alla ricerca del potere. In ciò facilitata da norme che hanno accresciuto il potere gerarchico dei Procuratori ( il riferimento è alla riforma dell’Ordinamento Giudiziario del 2006) e dal turn over dei capi degli uffici all’esito dei pensionamenti anticipati e della regola della temporaneità degli incarichi direttivi.
Si ricordi, infatti, che il CSM ove sedeva il Dott. Palamara, nel quadriennio 2014/2018, ha proceduto alla nomina di 428 capi di uffici giudiziari e 617 fra presidenti di sezione e procuratori aggiunti, per un totale mai raggiunto in precedenza di 1045 incarichi. Numeri così elevati, in posti di assoluta rilevanza, non potevano non accendere insani appetiti e creare cordate di potere dove magistrati e politici di turno hanno annodato raffinate e complesse reti relazionali.
Il CSM, ma anche l’ANM, sono diventati da luogo di confronto, di garanzia del corretto esercizio dell’alta funzione del giudicare, una sorta di parasindacato corporativo che si occupa delle vicende dei magistrati esclusivamente sulla base di logiche di appartenenza.
Ricordava, in un suo recente articolo il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Gaetano Silvestri, che durante il suo mandato al CSM “c’erano due file di magistrati che si formavano a Palazzo dei Marescialli: quella di coloro che venivano a chiedere ascolto e sostegno nella loro quotidiana azione per la legalità, specie in terra di mafia, talvolta non ricevendo ne’ l’uno ne’ l’altro, e quella di coloro che venivano a raccomandarsi per trasferimenti, uffici direttivi e quant’altro; la prima fila era piuttosto esigua e andava accorciandosi, la seconda si allungava progressivamente”.
Il rimedio sta forse nel ritornare ad un magistratura dove non ci sia più spazio per il carrierismo fine a se stesso, dove i magistrati si distinguano solo per diversità di funzioni, e dove non esista una gerarchia ma solo funzioni diverse e concorrenti verso l’unico fine che è quello poi di rendere un servizio ai cittadini e al Paese tutto.
Occorre quindi riaffermare l’indipendenza esterna ed interna della magistratura, intesa la prima come indipendenza dal potere politico ed economico, e la seconda come indipendenza ed autonomia di giudizio del singolo magistrato nei confronti dei suoi capi.
Occorre evitare che poteri esterni, mossi da volontà punitiva, dettino regole per il governo della magistratura, peraltro spesso improvvisate e contraddittore, come la ventilata elezione per sorteggio dei componenti togati del CSM che buffamente ricorda il metodo del Giudice Brigliadoca di Rabelais. Così come occorre evitare che l’attuale calo di credibilità e di moralità della magistratura dia spazio a chi vuole “tagliare le unghie” ad un potere dello Stato che è gradito alla politica quando combatte i propri avversari e scomodo quando doverosamente esercita il controllo di legalità su tutte le attività di tutte le componenti la società nessuna esclusa.
Si possono, in fondo, dettare ai magistrati regole di comportamento sempre più stringenti e pesantemente sanzionate, imporre cause di incompatibilità e di ineleggibilità, introdurre responsabilità e decadenze, ma la vera riforma resta una riforma di tipo morale che deve provenire proprio dall’interno della magistratura la quale deve recuperare l’orgoglio del proprio ruolo fondato su autorevolezza e professionalità.
Ed in questa ricercata dimensione etica della giustizia si staglia la luce dell’insegnamento del giovane giudice Rosario Livatino, il quale nei suoi scritti, tutti vergati sotto la sigla STD, “sub tutela Dei”, si preoccupava, già più di 30 anni addietro, di indicare ai colleghi la strada da percorrere per onorare la figura del magistrato: “ … un giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire … se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato”
Un magistrato profondamente religioso ma anche profondamente rispettoso della laicità dello Stato secondo cui: “… il compito del magistrato è quello di decidere … una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare … in questo scegliere per decidere il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale senso spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia …”
Rosario Livatino, era lontanissimo da sms ammiccanti, accordi sottobanco, conventicole, cene eleganti, palazzi e corridoi di ministeri, lui era ed operava solo con la sua coscienza e con la sua scienza giuridica, con a destra i codici e a sinistra il Vangelo, ed oggi, a trent’anni dalla sua uccisone, ci appare come un fulgido ineguagliato simbolo di verità e giustizia.
Che i nuovi magistrati ne siano degni.
*Articolo tratto dall’intervento tenuto al convegno indetto dalla Sottosezione dell’ANM di Agrigento il 19.9.2020 dal titolo Il ruolo della magistratura a 30 anni dall’omicidio di Rosario Livatino
Dalla Grecia fascista alla Turchia di Erdogan: quali risposte dall’Europa libera?
di Pier Virgilio Dastoli
La storia ci ha drammaticamente insegnato che il passaggio dalla democrazia alla dittatura è avvenuto negli ultimi cento anni “a nome del popolo sovrano” e cioè giustificando la soppressione delle libertà costituzionali e dunque democratiche per difendere la sovranità del popolo con una contrapposizione grottesca fra il potere che appartiene al popolo (demos-crazia) e la sua apparente sovranità intesa – per dirla con Jean Bodin – come “quel potere assoluto e perpetuo che appartiene allo Stato”.
La soppressione delle libertà costituzionali, che sono alla base dello stato di diritto (legalità, uguaglianza, certezza del diritto, indipendenza della magistratura, protezione dei diritti umani), è stata talvolta giustificata per reagire al rischio della perdita dell’indipendenza per l’intervento di potenze esterne o per salvaguardare gli interessi e l’identità del popolo sovrano da poteri interni.
Per limitarsi al nostro continente, è stato così per tutti i regimi fascisti che si sono formati in Europa dal 1922 in poi, per i regimi comunisti che si sono formati nell’area di influenza sovietica dal 1945 in poi, per la dittatura dei colonnelli greci dal 1967 al 1974 ed ora nel passaggio dalla democrazia parlamentare al regime autoritario e islamico di Erdogan in Turchia.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Europa – quella occidentale fino al 1989 e quella continentale dal 1989 in poi – ha creato dei vaccini per evitare che il virus dell’autoritarismo contagiasse i paesi europei come era avvenuto fra le due guerre.
Il Consiglio d’Europa, concepito all’Aja nel 1948 e nato a Londra nel 1949, si è dotato di due vaccini: il primo di natura politica che consente all’Assemblea parlamentare e/o al Comitato dei Ministri di sospendere la partecipazione di uno Stato membro che violi i diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali così come definiti nella Convenzione firmata a Roma nel 1950 e il secondo di natura giurisdizionale che consente alla Corte europea dei diritti dell’Uomo di sanzionare la violazione puntuale di un articolo della Convenzione da parte di uno Stato membro.
Lo statuto del Consiglio d’Europa consente di giungere fino al punto di spingere uno Stato membro ad uscire dall’organizzazione (articolo 9) ma non si è mai giunti fino a questo punto sia perché ciò avrebbe fatto perdere ai cittadini di quello stato la protezione giurisdizionale garantita dall’accesso alla Corte - a cui si aggiunge il monitoraggio di altri organi del Consiglio d’Europa fra cui il commissariato per i diritti umani e il comitato per la prevenzione della tortura – sia perché il Consiglio d’Europa avrebbe perso i contributi finanziari dello Stato costretto al recesso.
Sulla base di queste regole, il Consiglio d’Europa – su proposta del presidente del Consiglio italiano Aldo Moro e del suo ministro degli esteri Pietro Nenni, quest’ultimo ispirato dal suo consigliere Altiero Spinelli - ha sospeso nel dicembre 1969 la Grecia dall’Assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri due anni e mezzo dopo il colpo di Stato dei colonnelli proclamato per “difendere il paese dall’occupazione comunista” reintegrandola nel 1975 dopo la caduta della dittatura. Vale la pena di ricordare il rischio del contagio greco nell’Italia attraversata dai servizi deviati e l’appello del leader della giunta greca Papadopoulos agli “anticomunisti italiani” perché seguissero l’esempio della Grecia.
Le Comunità europee, nate a Roma nel 1957, non erano allora dotate di strumenti politici e giurisdizionali per proteggere i diritti dell’Uomo e salvaguardare lo stato di diritto né al loro interno né nei rapporti con i paesi associati anche se la Corte di Giustizia aveva affermato che i valori legati ai diritti fondamentali facevano parte di fatto della sua ragion d’essere.
Nonostante questa grave lacuna nei trattati, le Comunità europee decisero di congelare l’accordo di associazione con la Grecia dei colonnelli con una scelta politica e giuridica che ebbe un innegabile effetto sull’indebolimento interno della dittatura e sulla sua caduta nel 1974 e che vale la pena di raccontare.
Dopo la decisione del Consiglio d’Europa era nato un dibattito all’interno della Commissione europea (allora presieduta dall’italiano Malfatti con Spinelli commissario all’industria e alla ricerca), del Consiglio dei Ministri e del Parlamento europeo sulle relazioni con la Grecia fascista.
Il dossier era di competenza del commissario tedesco Ralf Dahrendorf che, con apparente puntigliosità giuridica, sostenne il principio pacta sunt servanda suscitando inizialmente una reazione pilatesca dei suoi colleghi commissari e del Presidente Malfatti con l’eccezione di Altiero Spinelli che aveva mantenuto rapporti con la resistenza greca (oltre che con le opposizioni antifasciste nella Spagna di Franco e nel Portogallo di Salazar).
Aiutato dall’esule giurista greco Yankos Siotis, Spinelli smontò la tesi di Dahrendorf sostenendo il principio rebus sic stantibus e convincendo la Commissione a chiedere al Consiglio il congelamento dell’accordo di associazione con la Grecia fino alla caduta del regime e al ripristino della democrazia.
Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea si trovano oggi di fronte alla Turchia, membro quasi fondatore del primo (ha aderito nel 1950) e associato all’altra con lo status di paese candidato da vent’anni all’adesione, le cui libertà costituzionali sono state annullate e in cui lo stato di diritto è costantemente violato a cominciare dalla indipendenza della magistratura con la conseguenza di rendere di fatto impossibili i ricorsi dei cittadini turchi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea hanno fino ad ora usato nei confronti della Turchia il bastone e la carota – secondo l’espressione usata dalla diplomazia europea - dando la prevalenza alla seconda con effetti praticamente nulli sulla progressiva evaporazione della democrazia giustificando le loro reticenze per mantenere aperti i canali di dialogo con la società civile turca ma essendo prigionieri nel primo caso del sostanzioso contributo finanziario della Turchia al bilancio dell’organizzazione e nel secondo caso alla presenza in Turchia di due milioni e mezzo di rifugiati siriani secondo i dati ufficiali (o cinque milioni secondo le stime non ufficiali) dopo l’accordo firmato nel marzo 2016 su proposta della Germania.
Più in generale i governi europei sono paralizzati dal ruolo della Turchia in tutta la regione medio-orientale e dalle sue mutevoli alleanze, una paralisi aggravata dall’inesistenza di una politica estera e della sicurezza comune dell’Unione europea nel suo insieme.
Paralizzati dal ruolo della Turchia in tutta la regione, i governi si sono limitati a sollecitare un dialogo costruttivo auspicando il mantenimento della stabilità e della sicurezza in particolare con la Grecia e Cipro di cui sottolineano la sovranità e i diritti sovrani.
Nulla viene detto invece dai governi sulle violazioni delle libertà costituzionali ignorando il fatto che dal cosiddetto colpo di Stato nel 2016 oltre cinquantamila detenuti politici sono finiti nelle carceri turche in violazione degli articoli 2 e 10 della Costituzione nonché dell’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e della libertà fondamentali in una situazione che si è aggravata a causa della pandemia.
Nessuna parola è stata spesa dal Consiglio europeo del 1° e del 2 ottobre per condannare le ripetute violazioni dei diritti fondamentali in Turchia, al contrario della denuncia di tali violazioni in Cina e in Bielorussia.
Di fronte al regime autoritario e islamizzato imposto con la violenza da Erdogan, è arrivato il momento di abbandonare la politica della carota e scegliere quella del bastone sospendendo la partecipazione della Turchia dalla assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e congelando l’accordo di associazione fra l’UE e la Turchia a cominciare dai suoi aspetti economici e dall’Unione doganale ma mantenendo attivi politiche comuni che vanno a vantaggio dei cittadini turchi come Erasmus Plus o gli aiuti alle organizzazioni non governative e alle associazioni rappresentative della società civile.
Il Parlamento europeo ha adottato in marzo e in settembre risoluzioni senza equivoci di condanna dell’autoritarismo interno e dell’escalation nelle relazioni con i paesi vicini da parte della Turchia suscitando ogni volta dure reazioni del governo di Istanbul che ha contestato il diritto dell’assemblea europea di esprimersi sulle relazioni con paesi terzi.
Il governo turco contesta così un potere del Parlamento europeo che è stato rafforzato con il Trattato di Lisbona in cui è stato esteso il suo diritto di parere conforme (in sostanza un potere di ratifica) in tutti gli accordi ai quali si applica nelle politiche interne la procedura legislativa ordinaria. Cosicché il Parlamento europeo è chiamato a dare la sua approvazione negli accordi di associazione sulla base dell’art. 218 TFUE mentre deve essere “immediatamente e pienamente informato” nel caso in cui il Consiglio – su proposta della Commissione o dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e della politica di sicurezza – adotti la decisione di sospendere l’applicazione di un accordo di associazione come quello sottoscritto a suo tempo dalle Comunità europee e dalla Turchia.
Uno Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione posso chiedere inoltre il parere della Corte di Giustizia sulla compatibilità di un accordo con i trattati pur tenendo conto che tale richiesta riguarderebbe strettamente gli accordi in corso di negoziato.
Tutto ciò ci porta a concludere che l’iniziativa di mettere in discussione le relazioni con la Turchia potrebbe venire dal Parlamento quando dovrà esaminare i risultati del Consiglio europeo e/o dalla Commissione e/o dall’Alto Rappresentante degli affari esteri e della politica di sicurezza. L’occasione immediata di un’azione sanzionatoria dovrebbe essere legata ai processi avviati il 21 settembre contro decine di avvocati turchi accusati di terrorismo.
Ancora su figli maggiorenni e diritto al mantenimento
di Gianfranco Gilardi
Sommario:1. L’indirizzo della Corte di cassazione e l’ordinanza 14 agosto 2020, n. 17183 - 2. Funzioni di “nomofilachia” e critiche all’ordinanza - 3. Il sistema positivo e la lettura dell’art. 337-septies c.c. - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’indirizzo della Corte di cassazione e l’ordinanza 14 agosto 2020, n. 17183
Con una sorprendente decisione, emessa in pieno periodo feriale, la Prima sezione della Corte di cassazione ha compiuto una brusca sterzata rispetto al pluridecennale orientamento (peraltro confermato in una decisione di appena qualche mese anteriore rispetto a quella che adesso si annota: Cass., n. 7555/2020, ord., in tema di revisione delle condizioni economiche del divorzio riguardanti l'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni ma non autosufficienti) secondo cui l'obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio a norma degli artt. 147 e 148 c.c. (v., oggi, gli artt. 315-bis c.c., introdotto dalla legge n. 219/2012 e 316-bis c.c. introdotto dal d.lgs. n.154/2013) non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta (cfr., ex multis, Cass. n. 32529/2018, ord.; n. 5088/2018, ord.; n. 12952 /2016; n. 18076/2014; n. 1773/2012; n. 19589/2011; n. 1830/2011; n. 16612/2010; n. 407//2007; n. 22491/2006 ; n. 12477/2004 n. 1353/1999; n. 24498/2006; n. 4765/2002; n. 9109/1999; n. 7195/1997; n. 496/1996; n. 12952/1993); ed il raggiungimento della maggiore età del figlio minore non può determinare nel coniuge separato o divorziato, tenuto a contribuire al suo mantenimento, il diritto a procedere unilateralmente alla riduzione od eliminazione del contributo o a far valere tale condizione in sede di opposizione all'esecuzione, essendo necessario, a tal fine, procedere all'instaurazione di un giudizio volto alla modifica delle condizioni di separazione o divorzio (Cass. n. 13184/2011).
Riassuntivamente, secondo il precedente e consolidato orientamento l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia o di rifiuto ingiustificato da parte del figlio; ed il corrispondente accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione: con la conseguenza di doversi escludere, in via generale, che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio il quale rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia (Cass. n. 18076/2014 e n. 4765/2002, citate)[1].
Tale indirizzo si era mantenuto costante così nel vigore dell’art. 155-quinquies c.c., introdotto con la riforma di cui alla legge n. 54/2006, come dopo le modifiche al c.c. apportate dal d.lgs. n. 154/2013, modifiche che, peraltro, hanno lasciato immutato il contenuto dell’art. 155-quinquies anteriormente vigente. E nell’ambito di tale orientamento si era precisato di volta in volta che la prova della mancanza di indipendenza economica del figlio divenuto maggiorenne deve essere fondata su un accertamento di fatto avente riguardo “all'età, all'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, da parte dell'avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età” (così, ad es. Cass. n. 12952 /2016, n. 19589/2011 e n. 15756/2006, citate); che l'onere della prova incombente sul genitore interessato alla declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento può essere assolto anche in via presuntiva alla stregua di circostanze di fatto da cui desumere l'estinzione dell'obbligo, “con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all'età dei beneficiari, in guisa da escludere che la tutela della prole….possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe…..in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani" (Cass. n. 18076/2014, citata ed, ivi, i precedenti richiamati); che tra le circostanze presuntive possono essere annoverate l'avvenuto svolgimento, con rapporto di collaborazione continuativa, di un’attività di lavoro, anche se venuta successivamente a cessare (Cass. n. 24498/2006, n. 12477/2004 e n. 7195/1997, citate); la sopravvenuta adozione del figlio da parte del nuovo marito della madre, ove ne derivi il suo stabile inserimento nel contesto familiare così venutosi a creare (n. 7555/2020, cit.), mentre il raggiungimento dell'indipendenza economica non è dimostrato né dalla mera prestazione di lavoro da parte del figlio occupato come apprendista (n. 407//2007, citata), né dal conseguimento di una borsa di studio (nella specie, di 800 euro mensili: n. 2171/2012, citata) o di un titolo di studio universitario, né dalla mera celebrazione di un matrimonio cui non consegua la costituzione di una nuova entità familiare autonoma e finanziariamente indipendente (n. 1830/2011, citata).
All’improvviso revirement dell’ordinanza, riassumibile nella conclusione che con la maggiore età cessa il diritto al mantenimento del figlio salvo che non sia provata dal richiedente (il coniuge o lo stesso figlio divenuto maggiorenne) la condizione di non autosufficienza economica per cause al figlio non imputabili, la Corte è pervenuta sulla base delle seguenti considerazioni:
- la previsione dell’art. 337-septies c.c. introdotta con l’art 55 del d.lgs. n. 154/2013 che ha riprodotto integralmente il contenuto dell’art.155-quinquies c.c. subordina il diritto all’attribuzione dell’assegno di mantenimento al figlio divenuto maggiorenne - oltre che alla circostanza dell’essere quest’ultimo economicamente non indipendente - ad una valutazione discrezionale (il giudice “può”) delle circostanze relative al caso concreto (par.1 dell’ordinanza). In base a tale disposizione, con il raggiungimento della maggiore età il diritto al mantenimento non potrebbe più correlarsi ad un obbligo dei genitori discendente “direttamente ed automaticamente” dalla mancanza di indipendenza economica del figlio, ma costituirebbe l’effetto di una dichiarazione giudiziale attributiva di un diritto “prima di quel momento inesistente”, l'estinzione dell'obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni essendo collegata dalla legge “all'acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore età”, salva la prova “che il diritto permanga per l'esistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l'indipendenza economica” (par.4.4);
- nella giurisprudenza della Cassazione sono ormai acquisiti i principi relativi alla "funzione educativa del mantenimento" ed all’"autoresponsabilità", da coniugare tenendo conto correlativamente dei “doveri gravanti sui figli adulti: il riconoscimento in favore dei figli conviventi e “sedicenti non autonomi” di un diritto al mantenimento protratto oltre tali i limiti finirebbe per determinare una "disparità di trattamento ingiustificata ed ingiustificabile" nei confronti dei figli coetanei che, essendosi in precedenza resi autosufficienti, abbiano in seguito perduto tale condizione: solo i primi, infatti, si gioverebbero della normativa più favorevole del mantenimento, mentre per gli altri varrebbe unicamente il diritto agli alimenti[2] (par. da 4.2 a 4.2.2.);
- le mutate condizioni del mercato del lavoro e la non infrequente sopravvenuta mancanza di autonomia "di ritorno", a volte in capo allo stesso genitore, hanno indotto la giurisprudenza a sottolineare la rilevanza connessa all'avanzare dell'età, l'obbligo di mantenimento non potendo “essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un'occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto” e l'attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative potendo “costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli". La funzione educativa del mantenimento è invero “nozione idonea a circoscrivere la portata dell'obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società"; e si renderebbe dunque “esigibile l'utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell'auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni; non potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore”. Tenuto conto anche dell’indirizzo interpretativo che si è venuto affermando con riguardo al diritto all'assegnazione della casa familiare, ciò confermerebbe che - ogniqualvolta vengono in rilievo i concetti del dovere e dell’autoresponsabilità - “ e non solo quelli del "diritto ad ogni possibile diritto" - anche il nostro ordinamento procede “di pari passo con l'evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con l'applicazione razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2 Cost.” (par.4.2.3 dell’ordinanza, che nel par. successivo si produce in un’ampia esemplificazione della casistica in cui la cassazione nelle materie più diverse - come ad esempio nei contratti di investimento finanziario, nella compravendita, nella trascrizione, in materia di risarcimento del danno con riguardo all’art. 1227 c.c., in campo processuale - ha fatto applicazione del principio dell’autoresponsabilità “anche in presenza di un diritto che chieda di essere affermato, ed, anzi, proprio per rendere ragionevole e "sostenibile" qualsiasi diritto”, la pienezza della scelta esistenziale personale dovendo sempre “ fare i conti nel bilanciamento con le libertà e diritti altrui di pari dignità”;
- tale conclusione sarebbe coerente con gli artt. 1, 4 e 30 Cost. e costituirebbe applicazione del “principio dell’abuso del diritto” o - più precisamente - “della buona fede oggettiva”, il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non potendo “sorgere già "abusivo" o "di mala fede". Poiché la capacità lavorativa si acquista con la maggiore età, e cioè in quell’età in cui, secondo l'id quod plerumque accidit, “si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita” e la legge presuppone raggiunta un'autonomia che giustifica l’attribuzione della “capacità di agire (e di voto)”, al figlio maggiorenne - in ragione dello stretto collegamento tra doveri educativi e di istruzione, da un lato, ed obbligo di mantenimento, dall’altro - dovrebbe essere negato il diritto al mantenimento, salva la prova di circostanze tali da giustificare il permanere dell’obbligo in capo ai genitori (par.4.4 e 4.5.1);
- tra le evenienze determinanti il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, si porrebbero: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la prosecuzione diligente di studi ultraliceali, da cui poter desumere “l'esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini” da ritenere “ancora legittimamente in corso di svolgimento” se vengano dimostrati “effettivo impegno ed adeguati risultati” quali emergenti “dalla tempestività e l'adeguatezza dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso”; c) l'essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi che il figlio abbia reputato a sé idoneo; d) il mancato reperimento - nonostante tutti i possibili tentativi di ricerca cui il figlio si sia ”razionalmente ed attivamente adoperato” - di un qualsiasi lavoro, confacente o no alla propria specifica preparazione professionale” (par. da 4.5.2 a 4.5.4).
Corollario della tesi secondo cui con la maggiore età cessa il diritto al mantenimento - salva l’esistenza di circostanze tali da giustificare la permanenza del relativo obbligo in capo ai genitori - è che l'onere della prova della ricorrenza di tale condizione sia a carico del richiedente: una conclusione che, tra l’altro, sarebbe si porrebbe in armonia “con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell'onere probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all'art. 24 Cost, ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad essa compete l'onere della prova, pur negativa” (par. 4.6.).
2. Funzioni di “nomofilachia” e critiche all’ordinanza
L’ordinanza presta il fianco a diverse critiche[3], alcune delle quali sono state già sollevate in questa stessa Rivista[4].
Essa appare innanzi tutto criticabile sotto il profilo del metodo, l’improvvisa sterzata rispetto al precedente e consolidato orientamento essendo stata affidata non ad una sentenza, ma alla forma dell’ordinanza, in contrasto con la funzione di nomofilachia della cassazione e con la stessa formulazione delle norme positive.
Com’è noto, alla funzione di nomofilachia della Cassazione il legislatore è venuto attribuendo rilievo prioritario e crescente a partire dalle modifiche al codice di rito introdotte con il d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40[5] in attuazione della legge delega 14 maggio 2005 n. 35, proseguendo poi con la legge 18 giugno 2009 n. 69[6]; con la legge 7 agosto 2012 n. 134 di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83[7] e con il decreto legge 31 agosto 2016 n. 168, convertito dalla legge 25 ottobre 2016 n. 197 che, introducendo come regola la trattazione in camera di consiglio, conclusa con ordinanza, e come eccezione l’udienza pubblica, conclusa con sentenza da adottare nei (soli) casi in cui “sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale (la Corte) deve pronunciare” (art. 375, secondo comma)[8] ha dato origine a quella che è stata definita la sostanziale “cameralizzazione” del giudizio civile di cassazione”[9]. Il percorso legislativo si è poi concluso con la legge 23 giugno 2017, n. 103 che ha esteso al giudizio penale la regola già vigente per quello civile, secondo cui la sezione semplice ha l’obbligo di rimessione alle sezioni unite ogniqualvolta ritenga di non condividere il principio di diritto da queste enunciato (nuovo comma 1-bis dell’articolo 618 cpp).
Anche l’appropriata applicazione delle norme processuali costituisce un aspetto della “certezza del diritto” cui deve contribuire la funzione di nomofilachia, il processo essendo il luogo in cui più che mai deve essere garantita l’esigenza di certezza e stabilità delle regole del gioco[10]. E se è vero che la forma prescelta nel caso in esame (ordinanza anziché sentenza) non ha alcuna conseguenza rispetto alla fattispecie decisa, ciò non toglie che il provvedimento si ponga pur sempre come precedente, con potenziali effetti futuri anche sotto il profilo dell’incremento della litigiosità e del contenzioso[11].
Ora non sembra potersi affermare che, a fronte di un discostamento di tale rilevanza, l’ordinanza (forma propria dei provvedimenti che hanno caratterizzato numerosi precedenti allineati sull’orientamento consolidato) fosse lo strumento più adatto; né potrebbe sostenersi che si fosse in presenza di un caso di manifesta infondatezza del ricorso dal punto di vista del revirement interpretativo accolto nell’ordinanza,
Ugualmente sorprendente, non solo nel metodo, ma anche nel merito è che ai copiosi richiami ed all’ampio excursus sui precedenti giurisprudenziali contenuti nei paragrafi da 4.2.1.1 a 4,4. dell’ordinanza (in cui sono ribaditi principi alla stregua dei quali sarebbe stato probabilmente possibile - e questa volta proprio con la forma dell’ordinanza - pervenire al rigetto del ricorso o, prima ancora, alla declaratoria della sua inammissibilità senza dover aggiungere altri argomenti[12]) faccia seguito - quasi ne costituisse un corollario o uno sviluppo - quella che in realtà costituisce una repentina virata rispetto all’indirizzo espresso in tali precedenti, a tutti i quali è sotteso (o nei quali a volte è anche espressamente richiamato) quel concetto di “autoresponsabilità” cui l’ordinanza sembra affidare principalmente le ragioni della svolta: laddove l’”autoresponsabilità” altro non esprime che quel dovere di attivazione cui nelle precedenti decisioni si era fatto costante riferimento, senza con questo ricavarne la conseguenza che al raggiungimento della maggiore età venga a cessare, da un giorno all’atro, l’obbligo di mantenimento in capo al genitore con corrispondente estinzione del relativo diritto in capo al figlio.
E proprio perché a tale conclusione (peraltro formulata, almeno sul piano terminologico, con una ricorrente scambio del concetto di attribuzione ex art. 337-septies c.c. di un diritto prima inesistente, con quello di estinzione del diritto a causa della mancata prova in ordine all’incolpevole condizione di non indipendenza economica dopo il raggiungimento della maggiore età[13]) l’ordinanza è pervenuta con affermazioni implicanti una netta cesura rispetto a quanto anteriormente e costantemente affermato dalla medesima sezione della Corte, nel caso deciso veniva a profilarsi - in considerazione appunto di tale cesura – la particolare rilevanza della questione di diritto che avrebbe imposto la pronuncia con sentenza.
Anni di elaborazione e fiumi di inchiostro intorno al concetto di nomofilachia sembrano dunque dispersi nell’enunciazione di un principio di diritto che nel contesto dell’ordinanza affiora quasi come un obiter dictum; e si perde ogni significato del valore del precedente che - pur non avendo nel nostro ordinamento il carattere vincolante di una “regola juris” - “quando si traduca in un orientamento consolidato della Suprema corte, non ha soltanto una valenza persuasiva ma assume anche una più pregnante rilevanza giuridica”[14]; e “se non giunge mai ad intaccare il principio della soggezione del giudice solo alla legge”, restando pur sempre garantiti “il dissenso e l’evoluzione della giurisprudenza, la correzione, il ripensamento o l’innovazione dei suoi orientamenti”, si colloca in un quadro normativo in cui dissenso e cambiamento “devono essere motivati e fondati su elementi ..così convincenti da far prevalere le ragioni del cambiamento rispetto alla tutela dell’affidamento ed al diritto dei cittadini ad essere uguali dinanzi all’interpretazione della legge, ad avere un uguale trattamento giurisdizionale”[15].
3. Il sistema positivo e la lettura dell’art. 337-septies c.c.
Come s’è detto, la conclusione accolta nell’ordinanza in commento si fonda - quanto alle norme positive – sulla considerazione che il dovere di mantenimento dei figli avrebbe assunto connotati nuovi sin dalla riforma di cui alla legge n.54/2006, che mediante l'art. 155-quinquies c.c. (poi riprodotto nell’art. 337-septies c.c. nel corpo delle innovazioni di cui al d.lgs. n. 154/201) ha dettato una disposizione ad hoc in favore di figli maggiorenni. Fin da allora, pertanto, sussisterebbero modalità diverse per l'adempimento del dovere di mantenimento verso il figlio, a seconda che questi sia un minorenne (valendo in tal caso la disciplina dettata dagli artt. 147 - richiamato dall’art. 48, 2° comma, l. 4 maggio 1983, n. 184 - e 315-bis c.c) ovvero un maggiorenne economicamente non indipendente, per il quale la regolamentazione andrebbe rinvenuta nell’art. 337-septies c.c.in base al quale l’obbligo di mantenimento per il figlio divenuto maggiorenne “non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore”, ma sarebbe rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto. Affinché tale obbligo possa configurarsi, non sarebbe pertanto sufficiente – “pena la superfluità della norma di riserva alla decisione del giudice” – la mancanza di indipendenza economica del figlio maggiorenne, ma occorrerebbe una statuizione del giudice attributiva “del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente” (cfr. altresì il par. 4.5.4., in cui vengono indicate le evenienze che «comportano il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne»).
Questa lettura “innovativa” dell’art. 337-septies (già art. 155-quinquies) c.c. trascura di considerare che, nel sistema normativo, i doveri nei confronti dei figli scaturiscono dalla filiazione e prescindono sia dal rilievo che con il conseguimento della maggiore età il figlio acquista la piena capacità di agire (ivi compresa la possibilità di esercitare il diritto di voto, che l’ordinanza ha cura di richiamare senza che se ne intraveda l’utilità rispetto alla questione decisa), sia dalla circostanza che da quel momento vengono meno i poteri disciplinari e rappresentativi in capo ai genitori; lo stesso art. 337-septies c.c. sta anzi a dimostrare che per il legislatore un obbligo di mantenimento può sussistere anche quando la funzione educativa (ma anche quella di assistenza e di istruzione) “debba confrontarsi con il raggiungimento della maggiore età del figlio”, né la norma conosce distinzione alcuna, sotto il profilo dell’età dei figli, con riguardo alla “speculare materia dell’assegnazione della casa coniugale”[16].
Come è stato puntualmente osservato nelle note critiche degli autori più sopra ricordati, il dovere di mantenimento trova il proprio titolo nell’ art. 30 della Cost. e negli artt. 147 e 315 e segg. c.c che, nell’imporre ai genitori l’obbligo di “mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni”, non contengono alcuna distinzione con riguardo all’età dei figli, in tal modo configurando un regime unitario salve le eccezioni espressamente previste, come quella relativa alla norma dell’art. 315-bis, terzo comma c.c. applicabile ai soli figli minorenni. L’art. 337-septies (come già, prima, l’art. 155-quinquies) c.c., inserendosi nel contesto delle disposizioni di cui agli artt. 315 e segg. c.c., non ha il significato di prevedere la reviviscenza - subordinata alla prova della condizione di non autosufficienza economica - di un diritto venuto ad estinguersi per effetto del raggiungimento della maggiore età da parte del figlio ma, più semplicemente, quello di escludere che il raggiungimento della maggiore età sia incompatibile con il diritto al mantenimento, tanto che il giudice (nonostante il figlio sia diventato maggiorenne e sempre che, naturalmente, un assegno di mantenimento non sia già stato disposto in precedenza) può disporlo, ed favore dello stesso figlio direttamente, una volta valutate le circostanze del caso concreto: tra le quali deve essere annoverata, naturalmente, anche la situazione concreta dei genitori, fermo altresì restando - ciò di cui mai si è dubitato nella giurisprudenza, senza necessità di ricorrere alla categoria dell’”abuso del diritto” elaborata per altre situazioni[17] - che non può esservi spazio per “rendite parassitarie, escluse dal principio di responsabilità che investe qualunque soggetto adulto e capace” [18]. In altri termini, il campo di operatività dell’art. 337-septies c.c. è limitato alle modalità di esercizio dei diritti dei figli maggiorenni (economicamente non autosufficienti) e di adempimento dei doveri genitoriali in caso di separazione, divorzio, cessazione della convivenza; ed ha la sola funzione di specificare che l’obbligo di mantenimento può essere assolto mediante il versamento di un assegno periodico da corrispondere direttamente all’avente diritto, salvo diversa determinazione del giudice [19].
4. Considerazioni conclusive
Nell’affermazione secondo cui il raggiungimento dalla maggiore età comporta l’estinzione del diritto al mantenimento salvo prova della mancanza di autonomia economica del figlio divenuto maggiorenne, sembra in qualche modo disperdersi il senso dell’evoluzione che, sotto la spinta della dottrina, della giurisprudenza e della cultura giuridica e nella cornice delle più ampie sollecitazioni provenienti dalla carta costituzionale e dalle convenzioni internazionali, è venuta progressivamente adeguando il diritto di famiglia alle vecchie/nuove istanze ed ai nuovi bisogni di giustizia maturati all’interno della società: un’evoluzione di cui, ad esito di un processo ancora oggi lontano dall’essere compiuto, costituiscono tra le espressioni più significative la legge n. 219/2012 sull’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi' ed il d.lgs. n. 154/2013 volto a completare il percorso di equiparazione ed introducendo il principio dell’unicità dello stato di figlio, anche adottivo, in un solco in cui sono venute emergendo la figura e la soggettività non solo del minore ma, più in generale, dei figli quali titolari di aspettative e di diritti e, in particolare, di quel diritto al futuro che la Costituzione riconosce e garantisce, non solo nelle norme specifiche contemplanti la famiglia, il dovere di istruzione, educazione e mantenimento dei figli, la maternità, l'infanzia e la gioventù, la scuola e l'insegnamento, ma nel tessuto intero del suo impianto in cui si esprime, appunto, l'impegno di costruzione del presente anche come garanzia di tutela del futuro, in un continuum in cui le generazioni che oggi si affacciano al mondo siano viste come beneficiarie e, insieme, come artefici del progetto per cui il desiderio di vivere una vita serena e dignitosa, il bisogno di essere liberi dalla paura, a cui tutti giustamente aspiriamo, ed a cui occorre dare risposte concrete, siano perseguiti per tutti in nome dei diritti che ogni uomo ed ogni donna acquistano per il fatto stesso della nascita.
Nel quadro di questa evoluzione, il d.lgs. n. 154/2013 ha sostituito “l’obsoleto istituto della potestà genitoriale con quello della responsabilità genitoriale” eliminando la limitazione temporale originariamente collegata nell'art. 316 c.c. al compimento della maggiore età dei figli o alla loro emancipazione: con la conseguenza che, nell’assetto normativo vigente, la cura cui il genitore è tenuto nei confronti del figlio prosegue oltre il raggiungimento della maggiore età e fino al conseguimento della indipendenza economica[20].
Se l’evoluzione legislativa cui si è fatto accenno fosse stata tenuta in maggiore considerazione, forse la Corte sarebbe stata più cauta nell’affermare che la maggiore età, “tanto più quando è matura - perché sia raggiunta, secondo l'id quod plerumque accidit, quell'età in cui si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita," anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne” implica “l'insussistenza del diritto al mantenimento”; e, nel teorizzare l’estinzione del diritto (salvo reviviscenza per effetto di un provvedimento del giudice ex art. 337-septies c.c.), si sarebbe quanto meno preoccupata di dare una risposta al quesito su chi ricada, nel frattempo, il dovere di mantenimento di un figlio che - a dispetto del raggiungimento della maggiore età, nonostante che la Repubblica italiana sia “fondata sul lavoro” e benché con la maggiore età si acquisti per legge “piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro”[21] – si trovi nella condizione di non poter provvedere a se stesso. Forse la Corte si sarebbe prospettata l’evenienza che l’obbligato possa cessare - indipendentemente dalla propria condizione economica, e quindi anche quando la situazione patrimoniale gli permetterebbe tranquillamente di assolvere i il proprio obbligo[22] - la corresponsione di qualunque assegno al compimento del diciottesimo anno dì età del figlio, con l’effetto di trasferire su quest’ultimo o sull’altro genitore non soltanto l’onere della prova[23] ma, prima ancora, quello dell’iniziativa giudiziaria, anche solo per la conservazione della parte corrispondente al più ridotto importo alimentare che nell’ordinanza si riconosce comunque dovuta a prescindere dall’età[24]; e riflettendo sull’interpretazione accolta, non avrebbe mancato di porsi qualche dubbio in relazione al fatto che durante il tempo occorrente al conseguimento di una decisione giudiziaria, il figlio verrebbe a trovarsi privato dei mezzi necessari per fronteggiare esigenze che hanno bisogno di essere soddisfatte giorno per giorno e non in tempi differiti proprio negli anni più vicini, secondo quanto normalmente accade, al momento dei reali bisogni formativi[25], con inevitabili ricadute sul genitore convivente costretto a farsi interamente carico del suo mantenimento.
Prima ancora che il Covid 19 gettasse nell’angoscia l’intera umanità, la precarizzazione del mondo del lavoro costituiva già una piaga sociale che, non risparmiando i lavoratori adulti di entrambi i sessi, aveva investito soprattutto le fasce giovanili e, sovvertendo ciò che per alcuni decenni era stato il modello sociale europeo, aveva messo a nudo il volto di un mondo in cui alla perdita ed alla mancanza del lavoro facevano riscontro la povertà crescente e la perdita di senso individuale e collettivo. Termini come incertezza, rischio, disagio psicosociale, che connotavano ormai tanto il lavoro manuale e operaio, quanto il lavoro della conoscenza, costituivano aspetti di una dolorosa dimensione esistenziale.
Di fronte a ciò, affermazioni come quella che individua quale preciso dovere del figlio la ricerca dell'autosufficienza economica, ipotizzando che tale dovere sussista, sia ex ante,”sin dagli esordi del corso di studi, che il figlio ha l'onere di ponderare in comparazione con le proprie effettive capacità personali, di studio e di impegno, oltre che con le concrete offerte ed opportunità di prestazioni lavorative”, sia ex post, quando esso si atteggia quale dovere di ricercare “qualsiasi lavoro e di attivarsi in qualunque direzione”, in attesa “dell'auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni” hanno quasi il sapore di un abbandono a se stesse delle nuove generazioni, somigliano ad una sorta di invito ad “arrangiarsi” che finisce per cancellare ogni spazio a quelle legittime aspirazioni ed a quelle attitudini personali che - mai pretermesse dai precedenti giurisprudenziali richiamati nell’ordinanza - costituiscono parte specifica ed integrante del diritto positivo e presupposto per la realizzazione di quel valore della dignità della persona in cui è racchiuso il senso più profondo della carta costituzionale.
Si è dunque in presenza di un provvedimento che, pur non sussistendone alcuna necessità ai fini della decisione, si è discostato da quei “parametri di riferimento” e da quei principi che la Corte, in più di vent’anni di giurisprudenza, era venuta elaborando “in coerenza al proprio compito di nomofilachia ex art. 65 ord. giud..…ai fini di uniformità, uguaglianza e più corretta interpretazione ed applicazione della norma” (così l’ordinanza in commento, par. 4.1), tutti riassumibili nella massima secondo cui non è la maggiore età, ma il conseguimento dell'indipendenza economica (o il colpevole mancato raggiungimento di essa) il fatto estintivo della obbligazione di mantenimento gravante sui genitori, un fatto che - come tutti quelli estintivi del credito - deve essere provato dal debitore; e tale discostamento è avvenuto, in forma quasi incidentale, senza alcuna conseguenzialità con quei parametri e quei principi che pure l’ordinanza aveva mostrato di condividere.
Ma, com’è stato osservato, fermo il diritto-dovere di ogni giudice (sia di merito, sia di legittimità) di sottoporre a critica gli orientamenti giurisprudenziali pregressi che non gli appaiano convincenti, l’esigenza – per quanto attiene alla Corte di cassazione – “di tener conto dei propri stessi precedenti si radica nella istituzionale funzione di assicurare l’unità del diritto oggettivo nazionale” e “nella conseguente necessità di garantire (almeno tendenzialmente) i valori di coerenza ed uguaglianza insiti nell’ordinamento”; ed è sempre necessario “saper bilanciare l’etica della convinzione con l’etica della responsabilità”, anche perché - egli osserva – “ogni decisione è certo un unicum, in rapporto alla specifica controversia che risolve, ma nel medesimo tempo è il tassello di un più ampio tessuto giurisprudenziale in cui deve potersi armonizzare”.
[1] Cfr., per l’indirizzo della Cassazione sul tema dell’assegno di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti, G. Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Forum 2016, pag. 77 e segg., che alla formazione di tale indirizzo come a quella di altri fondamentali ed innovativi orientamenti della Corte di cassazione ha dato un contributo decisivo.
[2] Così la motivazione dell’ordinanza, in cui vengono richiamati diversi precedenti tra cui quello secondo cui l'obbligo dei genitori - a parte le situazioni di minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall'ordinamento - non può protrarsi “sine die”, trovando il suo limite logico e naturale nei casi in cui i figli si siano già avviati ad un'effettiva attività lavorativa tale da consentire loro una concreta prospettiva d'indipendenza economica, o siano stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo ad assicurare loro le normali esigenze di vita; quando abbiano conseguito la possibilità di ottenere un titolo sufficiente ad esercitare un'attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne; quando comunque abbiano raggiunto un'età tale da far presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a se stessi, o ancora si siano inseriti in un diverso nucleo familiare o di vita comune.
[3] Vedi, ad es. G. De Marzo, Figli maggiorenni e diritto al mantenimento. Le ragioni del dissenso dalla recente pronuncia della S.C. in Foro It., 24 agosto 2020.
[4] Cfr. R. Russo, Figli maggiorenni e mantenimento: la Cassazione cambia orientamento? Nota a Cass. Civ. (ord.) Sez. I, 16 luglio/14agosto2020, n. 17183, in GiustiziaInsieme,3settembre2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1289-figli-maggiorenni-e-mantenimento-la-cassazione-cambia-orientamento
[5] Con tale intervento l’art. 374 cpc è stato modificato prevedendo tra l’altro che “se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
[6] Che ha valorizzato i “precedenti” della Corte (art. 360-bis), prevedendo a tal fine l’istituzione di un’apposita sezione.
[7] Che ha ridotto i motivi di ricorso per cassazione concernenti l’accertamento di fatto del giudizio di merito, ripristinando il testo originario dell’art. 360 n. 5 ed escludendo, più radicalmente, la deducibilità di tale motivo in alcuni casi (art. 348-ter).
[8] Cfr. per un breve excursus sull’evoluzione legislativa in materia, La Cassazione civile vista dai suoi giudici - Recensione di Ernesto Lupo a “La Cassazione civile - Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana” (terza edizione, Bari 2020) a cura di Acierno, Curzio e Giusti in Giustizia insieme, 1 ottobre 2020, Intervista di F. De Stefano https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1318-la-cassazione-civile-vista-dai-suoi-giudici-recensione-di-ernesto-lupo-a-la-cassazione-civile-lezioni-dei-magistrati-della-corte-suprema-italiana-terza-edizione-bari-2020-a-cura-di-acierno-curzio-e-giusti
Come osserva E. Lupo nell’intervista citata, per effetto di questa evoluzione possono individuarsi due aspetti della Cassazione: quello relativo alla cassazione “dei casi singoli, che controlla la motivazione adottata dal giudice del merito” e quello attinente alla cassazione “dei principi di diritto”, che persegue l’unità della giurisprudenza e quindi la funzione di nomofilachia rivolta non al passato del caso singolo da decidere, ma essenzialmente al futuro dei casi analoghi da definire. La prima si esprime normalmente con ordinanze che decidono sui ricorsi che censurano la motivazione (degli accertamenti di fatto) o che pongono questioni di diritto la cui soluzione non implica l’esercizio della nomofilachia; la seconda pronunzia, invece, le sentenze attraverso le quali si esprime questa ultima funzione”.
L’obbligo di rimessione obbligatoria alle sezioni unite ogni qualvolta una sezione semplice ritenga di non condividere il principio di diritto da queste enunciato, è stato introdotto con le riforme del 2006 e del 2017 anche in considerazione delle difficoltà della Corte di cassazione (chiamata ad un tempo ad assicurare «l’esatta osservanza e l’uniformità dell’interpretazione della legge” in base all’art. 65 ord. giud., ed a svolgere il ruolo di giudice di terza istanza in base all’art. 111, comma 7, Cost.) ad assolvere alla funzione di “nomofilachia”. Cfr. al riguardo, anche per le conseguenze che ne sono derivate, E. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, fascicolo n. 4/2018 dal titolo Una giustizia (im)prevedibile? Il dovere della comunicazione
http://questionegiustizia.it/rivista/2018/4/introduzione-una-giustizia-imprevedibile-_572.php
Sulla nomofilachia cfr., tra gli altri, R. Rordorf, Magistratura Giustizia Società, Cacucci editore, Bari 2020, in particolare la parte IV dedicata “Corte di cassazione e nomofilachia”.
[9] Per rilievi critici sulla “cameralizzazione” cfr., tra gli altri, G. Costantino, Note sulle «misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, in Il nuovo procedimento in cassazione, a cura di D. Dalfino, Giappichelli, 2017.
Le critiche rivolte alle eccessive limitazioni del contraddittorio nelle procedure camerali, in cui il legislatore ha escluso ogni possibilità di intervento orale dei difensori, sono condivise anche da E, Lupo, op.cit. il quale osserva come la scelta molto restrittiva del legislatore del 2016 può accettarsi soltanto come modalità utile a fare percepire agli operatori (magistrati ed avvocati), in modo evidente, la diversità tra i ricorsi da trattare in udienza pubblica (perché implicano l’esercizio della nomofilachia) ed i ricorsi da definire con procedura camerale (che interessano soltanto il caso concreto)”.
[10] G. Costantino, Introduzione, in Atti del XXXI Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, svoltosi a Padova il 29-30 settembre 2017, sul tema La tutela dei diritti e le regole del processo.
[11] E vedi, infatti, il commento all’ordinanza apparso su Altalex (Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione) ove si osserva che “un'innovativa decisione della Suprema Corte smantella una quantità di stereotipi giurisprudenziali, restituendo ai figli centralità e riconoscendo loro piena affidabilità”.
[12] Cfr. per una ricostruzione della fattispecie sottostante al ricorso su cui si è pronunciata la Cassazione con l’ordinanza in esame, R. Russo, op. cit.
[13] Cfr., ad es. il passo in cui si parla di permanenza del diritto (in relazione all'esistenza di un percorso di studi o, più in generale, di un percorso formativo in fieri, ovvero in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione tale da assicurare l'indipendenza economica,) e l’altro passo in cui si afferma che, salva la prova di circostanze capaci di giustificare il permanere di un obbligo di mantenimento, il figlio maggiorenne non ne ha diritto, con ciò implicitamente ribadendosi che, allo scoccare della maggiore età, l’obbligo di mantenimento cessa fino a quando non sia data la prova dell’esistenza di circostanze idonee a farlo rivivere.
[14] Così R. Rordorf, op. cit., pag. 343.
Sul “peso” del precedente e sui modi in cui la giurisprudenza si pone rispetto ai precedenti propri cfr. lo stesso Autore, op. cit, pagg. 349-360, nonché - tra le altre - Cass. S.U. n. 23675/2014 e n. 13620/2012.
Con riguardo ai temi del valore del precedente, anche nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici nonché nell’ambito della giurisprudenza della Corte europea dei diritti; dell’overruling e della prevedibilità delle decisioni, della certezza del diritto; della giustizia “predittiva” ed altri temi connessi cfr. il fascicolo n. 4/2018 di Questione Giustizia, citato nonché tra gli altri, G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite penali della Corte di cassazione, in Diritto Penale Contemporaneo, 30 novembre 2018.
[15] P. Curzio, Il giudice e il precedente, in Questione Giustizia, fascicolo n. 4/2018, cit., il quale osserva come “il bilanciamento e il contemperamento di questi valori, è rimesso dal legislatore alla giurisprudenza, da intendersi, qui più che mai, come prudenza dei giudici”.
[16] Cr., per queste considerazioni, G. De Marzo, op. cit.
[17] Cfr., ad es. Cass. n. 30555/2019, ove si osserva come la figura dell'abuso del diritto possa reputarsi ormai “un principio immanente nel sistema”, volto “a fungere da adeguato strumento correttivo per le condotte giuridiche che - non confacendosi ai….principi di buona fede e correttezza, quali rivisitati alla luce dei principi costituzionali - tradiscono lo scopo e le finalità delle norme in virtù delle quali sono poste in essere”. Nel ricordare alcuni precedenti con i quali ha riaffermato l'operatività e l’esteso ambito di applicazione del principio, la Cassazione ha riassuntivamente osservato che si ha abuso del diritto “quando il titolare, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”.
[18] G.De Marzo, op, cit.
[19] R. Russo, op. cit .
[20] Così R. Russo, op. cit., ove viene richiamato il passo della relazione illustrativa al d.lgs. n. 154/2013 in cui si osserva che “il concetto di responsabilità genitoriale è necessariamente più ampio, in quanto nella sua "componente" economica vincola i genitori al mantenimento dei figli ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino cioè al raggiungimento della indipendenza economica, come ormai pacificamente affermato nel diritto vivente”.
[21] Così l’ordinanza in commento.
[22] Come si legge nell’ordinanza (par. 4.2.1) “nessun rilievo ha la situazione economico-patrimoniale del genitore”, posto che il diritto e l'obbligo di cui si sta discutendo “si fondano sulla situazione del figlio, non sulle capacità reddituali dell'obbligato”.
[23] Che l’ordinanza in commento presume più agevole in capo al figlio: vedi, in contrario, le osservazioni di R.Russo, op. cit.
[24]Cfr. De Marzo, op. cit.
Come osserva R. Rosa, op. cit., sarebbe anche difficile qualificare “richiedente” il figlio che nel giudizio di revisione delle condizioni di separazione e divorzio non abbia spiegato neppure un intervento, e ancora di più il figlio divenuto maggiorenne nel corso di un giudizio di separazione o divorzio già instaurato.
[25] Così ancora, testualmente, De Marzo, op. cit.
[26] Il precedente nella giurisprudenza, op. cit. pagg.356-357
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