Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana. I penalisti: Vincenzo Militello intervista Massimo Donini, Luciano Eusebi e Domenico Pulitanò

Con le tre interviste oggi pubblicate si chiude il ciclo di approfondimenti che Giustizia Insieme ha riservato al dialogo Habermas-Günter, tratto dal settimanale tedesco Die zeit. Si chiude, così come si era aperto, con le note introduttive di Vincenzo Militello, oggi nella veste di intervistatore di tre suoi illustri colleghi dell’accademia penalistica.
La sensazione è quella di avere offerto delle testimonianze che hanno saputo cogliere dai due pensatori tedeschi spunti, riflessioni, provocazioni e prospettive di altissimo livello che hanno arricchito i lettori della Rivista.
Agli Autori che hanno partecipato con entusiasmo a questa iniziativa va, idealmente, il grazie più sincero della Redazione per avere accompagnato un periodo ombroso e cupo dell’esistenza con momenti alti di cultura.
Sommario: 1. Un personale dietro le quinte - 2. Gli attori – 3. Lo scenario – 4. Il canovaccio – 5. Le interpretazioni: Massimo Donini - 6. Luciano Eusebi. Pandemia e diritti fondamentali – 7. Domenico Pulitanò. L’esperienza della pandemia e i problemi del penale - 7.1 L’esperienza della pandemia e del lock down - 7.2 La dimensione costituzionale - 7.3 Obblighi costituzionali di penalizzazione? - 7.4 Limiti del penale e rapporto giustizia/politica - 7.5 Condizioni dell’osservanza. Doveri di solidarietà.
1. Un personale dietro le quinte
Chi si fermasse ad osservare le molteplici discipline coinvolte dalle interviste intorno al dialogo fra i due teorici tedeschi in tema di pandemia e diritti fondamentali potrebbe legittimamente interrogarsi sulla presenza di un penalista come me in un tale dibattito, già dalla pur breve postilla al testo italiano che lo ha avviato. Mi sembra opportuno esplicitare che, se devo alla cortesia e alla fiducia della Direzione di “Giustizia insieme” il coinvolgimento iniziale (per contattare l’editore tedesco che ha pubblicato il contributo in originale), a livello personale la vera ragione del mio interesse si rinviene in un fatto del tutto causale oggettivamente, ma che mi è subito apparso espressione di una ragione immanente alle cose ed altrettanto oggettiva: la sua coincidenza temporale e problematica con un seminario svolto a Palermo proprio nello stesso giorno in cui in Germania appariva il dialogo fra Habermas e Günther.
Nel programmare – insieme ad Alessandro Spena – la discussione seminariale sulle necessità e sui rischi delle restrizioni di libertà connesse al contenimento della diffusione della pandemia è sembrato necessario incrociare prospettive diverse, anche extragiuridiche: all’intervento di un penalista come Massimo Donini si sono aggiunti quelli della sociologa Anna Fici e del psichiatra Daniele La Barbera ("Ritorno al futuro: risposte all'emergenza sanitaria o tappe verso una società autoritaria").
Quando pochi giorni dopo, sempre l’attivissima Direzione della Rivista ha “rilanciato” l’iniziativa, arricchendo il già gustoso piatto offerto dal dialogo di base con la sua apertura ad un confronto a tutto tondo con autorevoli voci della cultura giuridica italiana, non potevo che vedervi un innesto fruttuoso fra le due iniziative, nello spirito di quel “Giustizia insieme” alla base della rivista che ci ospita.
2. Gli attori
Se questo – piccolo e personale – retroscena collega la presenza di Massimo Donini, che aveva già animato il seminario suddetto con un intervento ricco di spunti ora in corso di pubblicazione, le richieste rivolte a Luciano Eusebi e a Domenico Pulitanò si riconducono - quantomeno - alla rispettiva attenzione nei confronti dei temi trattati nel dialogo di Habermas e Günther: il primo, tramite la partecipazione all’analoga iniziativa attivata dalla Rivista subito dopo i primi provvedimenti connessi alla pandemia (Scelte tragiche e Covid 19), il secondo che si è interrogato fra i primi sulle possibili lezioni dall’emergenza per il diritto e la giustizia penale (in Sistema penale, 28 aprile 2020). Tutti hanno accettato di rispondere alle domande predisposte, nello stile delle interviste di Giustizia insieme, più per stimolare l’avvio della discussione sul dialogo dei teorici tedeschi che per porre dei confini tematici ai rispettivi interventi. Il ringraziamento a ciascuno è sentito non solo per aver accettato l’invito, ma soprattutto per averlo declinato – da par loro - con assoluta libertà e autonomia sin dalla struttura dei rispettivi interventi, in un caso rispondendo direttamente alle domande poste, negli altri due trattando variamente e in modo incrociato i temi relativi, oltre ad inserire ampie premesse e collegamenti più generali, sempre attinenti al nucleo dei problemi posti dal dialogo di partenza e agli spunti più direttamente penalistici condensati nelle domande specificamente ad essi rivolte.
3. Lo scenario
Proprio la varietà delle rispettive prese di posizione non rende questa breve introduzione la sede adatta ad un commento adeguato alla portata dei problemi da ciascuno affrontati. Tuttavia, la lettura di esse, specie se incrociata alla luce di quelle precedenti e già numerose provenienti da studiosi di altre discipline, conferma il carattere centrale che ha assunto la questione posta nel dialogo tedesco: il ruolo del bilanciamento fra i beni in gioco e la difficoltà – comune ai vari ambiti - di ricevere da questo principio risposte adeguate di fronte alle scelte tragiche poste con cruda evidenza dalla pandemia. Per i penalisti non è certo una sorpresa: ben prima delle questioni poste dalla pandemia, la questione del bilanciamento si è posta al crocevia della stessa teoria generale del reato, assumendolo come principio che definisce il carattere antigiuridico di un fatto già offensivo del bene penalmente tutelato o piuttosto penetrando già nella delimitazione dell’offesa penalmente rilevante. Ma anche rispetto al dibattito suscitato dal dialogo tedesco sui provvedimenti anti-pandemia, negli interventi di non penalisti il bilanciamento ritorna come tema centrale delle rispettive riflessioni. Si afferma così il suo ruolo di principio teorico generale, benché questa vittoria risulti a ben vedere solo apparente, in quanto proprio il bilanciamento e le sue capacità di offrire risposte alle scelte da operare, per un verso di tutela e d’altra parte di libertà, segna la great division fra le varie risposte fornite alle interviste nei vari settori, e ciò non secondo linee verticali segnate dalle rispettive discipline toccate, ma trasversalmente a queste e in relazione ai singoli punti di vista individuali.
Fondamentalmente si stagliano due approcci differenti se non antitetici, a seconda che il bilanciamento sia ritenuto un principio regolativo necessario per una democrazia rispettosa dei diritti fondamentali, ancorché non risolutivo delle concrete decisioni da assumere in tutti i casi in quanto permane un margine valutativo da riservare alla responsabilità politica; o piuttosto si neghi che di fronte al bene fondativo della vita, altri beni o valori (per quanto più o meno nobili: dalla dignità dell’uomo alla libertà di movimento ed economica) possano avere anche una pur limitata incidenza per delegittimarne la meritevolezza di tutela.
Fra il disincanto realista di chi considera sempre necessario il bilanciamento e il rigore assiologico di chi lo nega in via di principio, per arrendersi solo alla finitudine dei mezzi necessari ad assicurarne la tutela assoluta, si apre però il vero problema. Che è quello posto dai criteri per determinare come operare il bilanciamento nelle molteplici situazioni che si possono dare e specificamente nella tragica concretezza di quelle poste dalla pandemia. Qui i riferimenti teorici, normativi e giurisprudenziali ricorrenti sono proporzione, adeguatezza (e aderenza al sapere scientifico), ragionevolezza: tutti sempre utili per limitare irrazionalità valutative e scelte tiranniche, ma in ultima analisi mai univoci nelle combinazioni reciproche e/o decisivi nelle scelte finali. Anche ad esito delle fertili indicazioni provenienti dal dibattito avviato da Habermas e Günther e sviluppato da tanti autorevoli giuristi italiani nelle interviste connesse si affaccia il rischio che il bilanciamento e le relative regole e discussioni si trasformino in quel “gioco delle perle di vetro”, al quale Hermann Hesse riservava pennellate impareggiabili:
“Queste regole, il linguaggio figurato e la grammatica del Giuoco sono una specie di linguaggio esoterico sommamente evoluto che comprende parecchie scienze e arti (…). Il Giuoco delle perle è dunque un modo di giocare con i valori e col contenuto della nostra civiltà. Esso giuoca con questi come, mettiamo, nei periodi aurei delle arti un pittore può aver giocato coi colori della sua tavolozza…”
4. Il canovaccio
1) Il dialogo fra Hebermas e Günther si incentra su possibilità e limiti in relazione alla pandemia del bilanciamento di beni fondamentali del singolo (vita, salute individuale e d'altra parte libertà individuali, di movimento, di attività economica ecc.), e sottolinea una generale esigenza di proporzionalità e di verifica sull'esistenza di alternative meno limitanti tali libertà, seppure senza pregiudizio del fine di tutelare contro l'infezione. Una prospettiva non dissimile da quella di una politica criminale razionale, che ricorre all' 'arma a doppio taglio' del diritto penale solo in via sussidiaria (extrema ratio) e proporzionata all'offesa che si intende prevenire. Se così è, le difficoltà indicate nel dibattito in merito all'univocità dei risultati che si possono attendere dal giudizio di proporzionalità (ad es. Günther richiama i "fattori di rilevanti insicurezze prognostiche") possono valere se riferite al ricorso al diritto penale?
2) Nella fase acuta della pandemia si è fatto ricorso anche al diritto penale per supportare le forti restrizioni imposte: alla luce del carattere decisamente contenuto dei tassi di disobbedienza rilevati rispetto alle prescrizioni governative, si può ritenere che ciò sia riconducibile all’efficacia general-preventiva dell’apparato sanzionatorio e di controllo, anche penale, o piuttosto – anche alla luce del livello bagatellare delle sanzioni penali inizialmente richiamate – si deve ritenere che l’adesione alle restrizioni imposte sia dovuta più alla presa di coscienza, veicolata capillarmente da vecchi e nuovi media, del carattere estremamente ubiquitario ed elevato del rischio pandemico nella fase della sua maggiore diffusione?
3) Nel confronto fra i riferimenti costituzionali tedeschi a dignità dell’uomo e tutela della vita come elementi da valutare nel bilanciamento con le altre libertà individuali per delineare il livello accettabile del “generale rischio di vita”, il dialogo richiama l’alto rango riconosciuto alla tutela della vita nella sentenza del Bundessverfassungsgericht del 1975 sull’aborto, che per i penalisti tedeschi ed italiani ha avviato il dibattito sugli obblighi costituzionali di penalizzazioni. Pur nella diversità dei riferimenti diretti nella nostra Costituzione rispetto all’art. 1 e all’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, l’incidenza tanto della CEDU quanto della Carta U.E. dei diritti fondamentali come incide oggi anche nel nostro ordinamento sulla questione degli obblighi di penalizzazione di fonte sovranazionale?
5. Le interpretazioni: Massimo Donini
1) I bilanciamenti si fanno sempre. Non esistono beni che si sottraggano al bilanciamento in ambito sociale, legislativo e anche penale. Ciò vale sicuramente anche per la vita, che è dunque “relativizzata” e per nulla assolutizzata nel discorso giuridico internazionale e nazionale. Già la dialettica tra vita dei singoli e della collettività esplicita il problema. Salute individuale e collettiva, o pubblica, sono beni che possono entrare in conflitto.
Quando qualcuno dice che esiste un bene non bilanciabile – rammento che per la cultura tedesca dopo il 1945 ha assunto spesso tale preteso carattere il valore della dignità umana consacrato nella legge fondamentale della RFT all’art. 1 – si dimentica di compiere un’analisi lucida della realtà normativa e dei valori in campo. Il carcere, per es., salvo immaginarselo come un hotel a molte stelle, è un luogo che avvilisce la dignità, ma spesso anche le caserme dove si resta in detenzione per varie ore o qualche giorno, lo stesso processo penale con la sua violenza morale, i rapporti con l’autoritarismo dei magistrati, l’esercizio della forza dello Stato contro qualche accusato o imputato, sono forme insuperabili di avvilimento della dignità. In alcuni Paesi i tratti della violenza di Stato sono meno forti, in vari altri sono terribili. Questi però non sono problemi di fatto, ma di diritto: in Germania si pensa che la dignità sia un valore assoluto, ma soprattutto quando si tratta di assicurarla all’interno dei confini nazionali. Non appena l’economia tedesca entra in conflitto con la dignità di altri soggetti di diritto esterni, i bilanciamenti si moltiplicano. Per non parlare della dignità del ladro a cui si può sparare per difendere la proprietà e l’ordinamento se il valore dei beni da proteggere è superiore a 50 euro[1].
Molti hanno pensato che nell’affrontare l’emergenza sanitaria covid-19 lo Stato italiano non avrebbe fatto bilanciamenti, perché ha assunto la salute collettiva come bene primario al quale subordinare tutti gli altri, almeno nella fase più rigorosa del lockdown nei mesi di febbraio-aprile 2020. Chi pensa questo non considera che anche se si sono sacrificati beni quali libertà, affetti, rapporti sentimentali, salute individuale psichica e a volte fisica, lavoro, economia etc. a favore della salute pubblica, un bilanciamento è stato fatto, soppesando come più meritevole, in quella fase ma non in assoluto, un bene rispetto ad altri. E tuttavia le sanzioni non sono state draconiane. Persino il diritto penale ha fatto un passo indietro.
Che poi la salute pubblica sia risultata in seguito del tutto bilanciabile, lo si è visto non appena tutti hanno capito quali sarebbero state le conseguenze economiche della prosecuzione di una segregazione più prolungata. E quando si è visto che il consenso sociale sarebbe venuto meno in caso di mancato allentamento delle misure di contenimento.
Non solo. Anche durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, la situazione nelle strutture ospedaliere più gravate di richieste di ricovero ha comportato ulteriori bilanciamenti ad esempio tra malati gravi e meno gravi, ovvero più anziani e a prognosi infausta e meno anziani o a progni più favorevole, così imponendosi bilanciamenti all’interno della stessa gestione della salute pubblica. In quei momenti si sono compiute scelte vicine a quelle della medicina di guerra, da campo militare.
In tale contesto, e più in generale, il profilo dell’incertezza prognostica è una componente inevitabile della valutazione del rischio.
Ciò accade sempre anche in ambito penale e si riflette nel bilanciamento tra i beni più o meno importanti. Un rischio privo di basi scientifiche collaudate, per es. di tipo puramente “precauzionale” – non: quello tipico di ogni normale regola “prudenziale” – non può sorreggere politiche repressive di beni fondamentali ma deve essere proporzionato a sanzioni più lievi, per es. amministrative.
Il rischio è precauzionale quando manca una base cognitiva ad evidenza scientifica della sua consistenza, misurabilità e predittibilità.
Considerato tale contesto, bisogna apprezzare come ragionevole la scelta legislativa di non ricorrere alla sanzione penale per le inosservanze più formali di contenimento, inizialmente minacciate con la pena dell’art. 650 c.p.
Purtroppo non sempre si registra questa ragionevolezza. La politica legislativa di criminalizzazione a tappeto contro il mercato delle droghe, soprattutto quelle leggere, a fronte della libertà di uccidere o fare ammalare decine di migliaia di persone per effetto del fumo di sigaretta, è una riprova evidente di come siano diverse le politiche in materia di salute pubblica e anche di diritto punitivo.
2) La prova dell’efficacia general-preventiva delle sanzioni penali è da sempre priva di evidenza scientifica. O meglio: la prova quantitativa, la dimostrazione scientifica, la spendibilità di leggi di copertura. È però di common sense la convinzione di una efficacia motivante della paura di pene criminali. Non è dissimile dal principio di precauzione cui abbiamo fatto cenno, salvo che qui la precauzione legittima ogni intervento criminalizzante. Ciò consente, in assenza di leggi – si noti bene – di utilizzare sempre politicamente lo strumento penalistico (il penale incute più timore, se non è penale si può commettere, o si potrebbe mettere nel ‘budget’ la sanzione extra-penale per “comprare” così la violazione) con l’argomento o con il pretesto che sarebbe sempre o più efficace o utilizzabile nel dubbio.
Nel caso della buona tenuta delle regole di isolamento e distanziamento sociale ritengo che siano stati convergenti il timore di sanzioni amministrative pecuniarie (più efficaci delle ammende oblazionabili della contravvenzione inizialmente messa in campo) e la persuasione dell’interesse collettivo al rispetto di regole cautelari che interessavano le famiglie nel loro complesso, gli anziani in primo luogo, ma a scendere proprio tutti: un interesse nazional-popolare vissuto a tratti anche con forte partecipazione massmediatica: una prevenzione generale “positiva”, dunque, che interiorizzava valori e regole, piuttosto che veicolare le paure sanzionatorie proprie della prevenzione generale negativa. La paura più forte è stata quella del virus.
3) Gli obblighi di tutela sono più importanti degli obblighi di penalizzazione. Infatti, la forza vincente degli obblighi di tutela non può affidarsi alle pene come strumento principale.
Anzi. Occorre dire apertamente che solo gli obblighi di tutela sono ciò che le Costituzioni veramente impongono, al di là di quanto opinato in alcune sentenze di organi politico-giurisdizionali come la Corte di Giustizia dell’UE.
Quanto al diritto penale i veri unici obblighi derivano dal rispetto di una doppia sussidiarietà: quella penale e quella europea.
La sussidiarietà penale (che è una declinazione a base empirica e non solo assiologica del principio di ultima ratio), esige che si privilegino strumenti meno invasivi e lesivi della sanzione penale, e che in concreto sia comunque applicata la sanzione penale meno afflittiva, se non necessario. La sussidiarietà europea è anch’essa un principio che va oltre la proporzione e si basa su una valutazione delle conseguenze delle leggi e su una valutazione ex ante ed ex post delle motivazioni delle leggi europee in ordine alla insufficienza delle sanzioni nazionali, se non armonizzate anche in termini punitivi a livello UE.
Qualunque Stato membro, invece di applicare pedissequamente tradizionali penalizzazioni a tappeto, può evitare la criminalizzazione se rispetta i principi ora detti.
Nel complesso devo dire che sino a ora si è avuta l’impressione che l’emergenza abbia rinsavito la fame penalistica dei governi e dei parlamenti, in nome della solidarietà nazionale e internazionale. Quando la bufera sarà passata, aspettiamo di verificare se la bulimia penalistica degli ultimi lustri abbia tratto giovamento da questa terapia d’urto imposta dal Corona Virus, e con essa anche una diversa capacità di dialogo con le competenze scientifiche.
6. Luciano Eusebi. Pandemia e diritti fondamentali
Ritengo necessario far precedere una serie di considerazioni, circa i quesiti proposti, ad alcune risposte sintetiche:
Il rilievo del tema – bilanciamento tra beni giuridici ed esigenze di contrasto della pandemia – è indubitabile. Eppure, riterrei siano da evitarsi, in proposito, eccessi di concettualizzazione giuridica suscettibili di trascurare lo stato dei fatti, offrendo immeritati inquadramenti teorici a scelte (personali o politiche) antisolidaristiche, le quali nulla hanno a che fare con la salvaguardia dei principi di libertà propri dell’ordinamento costituzionale democratico e, a fortiori, con il contrasto di potenziali involuzioni autoritarie dello Stato. Un’esigenza di salvaguardia, questa, che ha bisogno di ben altre battaglie, piuttosto che eluderle sparando cannonate contro obiettivi fittizi: con ciò offuscando, semmai, la percezione del rischio – esso sì effettivo – di perpetuare nel tempo prassi di minor tutela dei soggetti più deboli, non di rado accreditate, oggi, facendo leva su una nozione equivoca di necessità riferita alla fase dell’emergenza sanitaria, o sull’intento – davvero liberal? – di non poter chiedere troppo per esigenze di prevenzione (sovente, nemmeno l’inessenziale) a chi, salvo sorprese, ritenga di non aver molto da temere.
È una preoccupazione, questa, in qualche modo avallata dal fatto per cui si parla quasi sempre, nei dibattiti giuridici in corso, di bilanciamenti tra diritti, rimanendo con ciò nell’ombra che certe rimodulazioni nel loro esercizio sono da correlarsi a un altro termine di pertinenza giuridica esso pure riferibile ai singoli soggetti interessati, che è quello del dovere: non, dunque, all’esercizio di un odioso potere pubblico che – invertendo Robin Hood – toglie (diritti) a qualcuno per dare (diritti) a qualche altro, ma all’attuazione di ciò che costituisce il patto fondativo stesso della democrazia, quale risulta espresso, specie attraverso le sue parole finali, dall’art. 2 della Costituzione.
Si tratta di un termine, nel senso tedesco del sollen, che invero non pochi hanno praticato eroicamente, ben al di là dell’obbligo giuridico, proprio nel periodo della massima emergenza. Sebbene venga menzionato con circospezione in sede politica, quasi vi si veda, oggi, qualcosa di infido, perfino di un po’ totalitario, e, comunque, di poco produttivo sul piano elettorale. In controtendenza (fortunatamente) il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), che nel parere del 28 maggio 2020 su Salute pubblica, libertà individuale e solidarietà sociale argomenta per gran parte con riguardo, per l’appunto, al concetto di solidarietà.
Ammetto subito, peraltro, che non scrivo frigido pacatoque animo. Dalle mie parti i deceduti sono stati migliaia e migliaia, i tassi di mortalità sono schizzati all’insù rispetto allo scorso anno in modo impressionante e moltissimi ora fanno i conti con danni collaterali pesanti. Lo dico perché una certa contiguità, non solo mediatica, con la tragedia incide su alcuni punti di vista. E può non essere un male. Di qui alcune valutazioni generali, necessarie rispetto ai temi sollevati.
In certe zone a rischio di contagio diffuso le limitazioni e, in particolare, il restare a casa (beninteso, con tutti i problemi connessi, dalle diversità delle situazioni abitative, alla deprivazione dell’accesso scolastico, all’incidenza sui rapporti parentali o amicali, e così via), sebbene imposte per il bene comune, hanno rappresentato nel concreto – in primo luogo – un privilegio: vale a dire l’autorizzazione, di cui molti non hanno potuto usufruire (personale sanitario, pubblici amministratori e lavoratori del settore pubblico, soggetti impegnati in attività economiche essenziali, ecc.), a non correre rischi derivanti dall’esercizio delle attività lavorative, o di frequenza scolastica, ordinarie. Personalmente, mi annovero tra i fortunati. Con una certa vergogna per non aver dovuto rischiare, come altri, di più. Piuttosto, il problema – vi ritorneremo – è stato quello delle persone confinate in casa, o nelle residenze assistenziali, perché malate – o con sintomi tali, per utilizzare ritornelli giuridici, da esservi motivi (più che) ragionevoli per sospettare l’avvenuto contagio – e rimaste di fatto senza supporto medico nella più disperante solitudine, in moltissimi casi fino alla morte (con la beffa, se può passarsi il termine, di nemmeno essere annoverati, a quel punto, come deceduti per la pandemia covid-19, vale a dire di esser spariti nel nulla).
Ventilare il pensiero secondo cui, per far salva la vita (di alcuni), nel suo bios, si cadrebbe nel pericolo di compromettere (in ognuno) «tutto il resto della vita» – nodo, questo, richiamato da Massimo Donini (incontro su Ritorno al futuro: risposte all’emergenza sanitaria o tappe verso una società autoritaria?, e-club dell’Università di Palermo, 9 maggio 2020), in riferimento ad Agamben – mi parrebbe a sua volta, nel caso di specie, un’esasperazione. Non potremo certo esigere che taluno doni un rene per salvare un altro, ma qualcosa potremo pure chiedere a rischianti minori per la tutela di rischianti maggiori, a meno che soggiaccia il retropensiero che questi ultimi contino davvero molto poco. È ben vero, come afferma il Comitato etico tedesco richiamato nell’intervista in die Zeit, che «un rischio generale di vita» dovrebbe «essere accettato da ciascuno», altrimenti bisognerebbe vivere come il Kaspar Hauser di Feuerbach (sempre che poi, però, non si desti, rispetto a chi quel rischio verso altri non l’abbia eliso, il sempre famelico circuito penalistico: qualcuno ricorderà le preoccupazioni riferite da Claus Roxin, argomentando sul dolo eventuale, in merito alla prima escursione su un sentiero di montagna cui aveva condotto suo figlio). Per cui, trattandosi di arginare, nella mia città, un numero di morti divenuto presto assai superiore alle vittime civili, nonostante i bombardamenti, di tutta la seconda guerra mondiale, forse qualche limitazione, in effetti, ci poteva ben stare, e qualche cautela per non rinnovare l’esperienza può ben permanere. Senza troppi patemi circa la stadera da utilizzarsi per il giudizio di proporzionalità: tanto più perché le limitazioni oggi necessarie non appaiono davvero così invasive. Nessuno infatti, pone in dubbio che le attività ordinarie debbano riprendere, come in effetti sono, per gran parte, riprese (ma nella mia provincia, non certo secondaria in quel settore, ben più della metà della produzione industriale non s’è mai interrotta). Esse, tuttavia, vanno gestite secondo certe modalità, che non pongono, mi pare, vincoli di molto superiori a quelli che si richiedono circa ordinarie attività pericolose. Certo, si tratta di modalità in qualche caso nuove, come quelle riferite, soprattutto, alla riorganizzazione della attività scolastiche: comunque, non certo tali da rendere invivibile la vita. Così che il pericolo vero dipende dalla demagogia, cioè dall’intento (politicamente allettante) di non esigere più nemmeno il facilmente tollerabile, perché esigere, tanto più in democrazia, implica un’assunzione di responsabilità maggiore di quella (tutta liberale?) del lasciar fare. Non è cosa ignota: dinnanzi a nuove fonti di possibile rischio, si danno nuove esigenze precauzionali, che costano sempre, a tutti, un maggior impegno; e se rispetto a specifiche attività non potesse, ancora, tornarsi a parlare di un rischio (a certi condizioni) consentito, si dovrebbe intervenire con forme solidali di sostegno sul piano economico. Senza dubbio c’è, in proposito, un margine di apprezzamento da parte della politica (cfr. F. Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, in Sistema penale, 26 aprile 2020; D. Pulitanò, Lezioni dell'emergenza e riflessioni sul dopo. Su diritto e giustizia penale, ivi, 28 aprile 2020): purché non asservita alla ricerca facile del consenso hic et nunc, ‘poi si vedrà’, o ai gruppi di interesse economici di cui si parla all’inizio dell’intervista. Francamente, dover riascoltare in nome del diritto fondamentale a una movida incontrollata o ai festeggiamenti calcistici, o in nome delle esigenze immediate di mercato erette a paradigma univoco, i racconti drammatici delle nostre terapie intensive, dove s’è fatto (letteralmente) l’incredibile per cercare, senza potervi riuscire sempre, di far respirare tutti i malati che riuscivano a giungere in ospedale, non mi alletta. Anche perché se la cosa sfugge di mano (e i dati internazionali lasciano molta inquietudine, in un mondo sempre meno blindabile per aree), allora sì che può determinarsi una catastrofe economica devastante, in linea con certe decimazioni medioevali della popolazione a seguito degli eventi epidemici: ben oltre cadute reversibili, ancorché non banalizzabili, di una decina di punti nel PIL.
È riscontrabile, peraltro, un’evidente schizofrenia. E il diritto (ma non solo) penale, in ciò, non aiuta. Da un lato ci si chiede, a ragione, perché non siano state adottate, ab initio, misure restrittive più rigorose, specie per certe aree. Dall’altro lato, si ipotizzano illegittimità, perfino di carattere costituzionale, rispetto a liberalizzazioni non (ancora) attivate. Col rischio della paralisi decisionale, posto che ogni soluzione, giuridicamente, è a rischio. Se si prende una misura, e gli eventi lesivi che essa mira a evitare non si verificano, si porrà subito in dubbio che quella misura abbia avuto effetto causale impeditivo e, dunque, che fosse necessaria: col possibile addebito dei danni, o dei costi economici, che essa abbia comportato per alcuni, se non dell’eccesso di potere o dell’abuso d’ufficio. Se non la si prende, o la si prende male, sono in agguato i delitti contro la salute pubblica, i delitti colposi contro la persona o l’ineffabile sfera applicativa del reato omissivo improprio. Da cui facili atteggiamenti difensivi, intesi, per esempio, a non assumere una responsabilità se non nel quadro di una parcellizzazione pressoché inestricabile delle competenze o assecondando il sentire sociale corrente, se non gli stakeholders dominanti. Ma anche con l’effetto dell’indisponibilità ex post a qualsivoglia trasparenza, cioè all’ammissione, giuridicamente rischiosissima, del fatto che, forse, si sarebbe potuto agire meglio, in modo da farne tesoro per l’avvenire. Il che impone di considerare se davvero il fine prioritario dei processi penali debba essere quello, riconosciute determinate responsabilità, di condannare, e non, invece, quello di fare verità per migliorare, rispetto al futuro, gli stili comportamentali individuali e pubblici (subordinando a quel fine i modi, e la necessità stessa, delle condanne). Così che per esempio, rispetto alla querelle in atto circa la concessione della semilibertà in Germania ai principali responsabili della tragedia ThyssenKrupp, sarebbe interessante, piuttosto, un impegno veemente inteso a verificare se, dopo quella vicenda, sia davvero cambiato qualcosa circa lo stato di inefficienza dei controlli sul rispetto delle norme antinfortunistiche nelle aziende: evitando che la condanna funga da alibi per far sì che tutto resti così com’era). In merito alle carenze nella gestione della vicenda covid-19 la realtà, del resto, è che essa lascia emergere una gigantesca ipotesi di colpa d’organizzazione, la quale impone inversioni di rotta da non eludere attraverso qualche condanna esemplare e qualche capro espiatorio. È facile richiamarne alcuni aspetti: l’incredibile constatazione della (letterale) mancanza a inizio pandemia, non risultandone remunerativa la produzione in Italia, di presidi banali (mascherine, guanti, camici et similia) per l’approccio in sicurezza ai malati contagiosi (il che ha prodotto un numero del tutto inaccettabile di vittime tra il personale sanitario e ha fatto sì che molti ospedali divenissero nel medesimo tempo luoghi di possibile salvezza e di diffusione del contagio); la carenza, molto a lungo, di un numero di tamponi corrispondente alle necessità; il non aggiornamento e la non implementazione dei piani di contrasto delle pandemie virali predisposti in corrispondenza di meno diffuse vicende epidemiche pregresse; la marginalizzazione, in non pochi contesti, della rete socio-sanitaria territoriale; la tendenza diffusa a collocare per motivazioni politiche in ruoli di responsabilità nell’ambito socio-sanitario, per esempio con riguardo alle residenze per anziani, soggetti carenti di competenze professionali adeguate in tale ambito; l’assenza di linee guida accreditate circa la protezione da epidemie delle comunità di persone vulnerabili; la già menzionata difficoltà (e sovente l’impossibilità) delle persone confinate in quarantena di poter ricevere assistenza sanitaria almeno da remoto o di usufruire a domicilio delle bombole d’ossigeno, pur quando indispensabili; in genere, la progressiva riduzione da anni, sottotraccia, dell’impegno economico nel settore sanitario, con le conseguenti carenze di organico negli ospedali e la contemporanea impossibilità d’accesso, per moltissimi laureati in medicina, alle scuole di specializzazione; la contrazione, che ne è derivata, dei tassi per abitante delle postazioni di terapia intensiva e subintensiva (e per fortuna che almeno un importante produttore nazionale di respiratori lo avevamo). Ma si potrebbe proseguire. Tutto questo incide nello stabilire che cosa debba valutarsi come (doverosamente) proporzionato a fini di tutela della vita. Troppo facile sarebbe considerare certe morti inevitabili, riguardando solo l’ultimo anello della filiera. «A seconda di quanto una società abbia ben costruito e mantenuto efficiente il suo sistema», così osserva opportunamente Klaus Günther», «varia il confine tra conseguenze mortali inevitabili ed evitabili dei ‘rischi generali per la vita’».
Proprio da quest’ultimo punto di vista, il concetto di bilanciamento in quanto criterio dei giudizi di proporzione – oggi tra i più gettonati perché consente scelte di campo ben precise, tuttavia evocando l’idea suadente del diritto mite – si è rivelato tra i più equivoci (o, se si vuole, tra i più fluidi). Lo dice bene Jürgen Habermas: «Nel corso del processo di bilanciamento […] i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro. Ma, alla fine, la prevalenza resta di uno, il che significa che questo fa fuori tutti gli altri». Come altrettanto bene spiega Federico Consulich (Lo statuto penale delle scriminanti, Torino, 2018, pp. 41 ss.), a confutazione dell’autonomia di c.d. scriminanti (meramente) procedurali: esse sottendono, «dietro un’apparente neutralità, l’opzione pubblica per una delle due posizioni valoriali in campo», per cui «l’accento posto sul procedimento piuttosto che sul risultato autorizzatorio» «in realtà sancisce la prevalenza di un interesse o di un obiettivo di politica del diritto sull’altro». La logica del bilanciamento rimanda, in effetti (lo avevo sostenuto su Giustizia insieme, in un forum recente dal titolo Scelte tragiche e Covid-19), al criterio dell’aut-aut, che seleziona alcuni fattori rilevanti, considerandoli statici, nel contesto di un conflitto fra beni e, su tate base, decide che cosa tutelare e che cosa no. Mentre riterrei che la strada da percorrere debba essere, prioritariamente, quella dell’et-et, fin dove possibile. Com’è in larga misura avvenuto, nonostante i deficit iniziali sopra segnalati, nella gestione italiana della pandemia. Posto che da parte dei più, sul campo, non s’è affatto limitato a priori – tracciando sulla carta il limite del proporzionato rispetto alle criticità suddette – lo sforzo spendibile per la salvezza di altri, ma s’è cercato di dilatare enormemente quello sforzo, specie con riguardo agli strumenti sanitari disponibili ed anche con notevole rischio personale. Non escluso l’impegno posto in essere – altrimenti si sarebbe ingenerosi con chi s’è trovato a dover gestire responsabilità organizzative nei confronti dell’ignoto – pure nell’ambito politico-amministrativo. Così che, in particolare, il criterio di allocazione delle risorse sanitarie è potuto rimanere quello clinico, secondo l’indicazione dello stesso CNB: «ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età anagrafica, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, è ritenuto dal Comitato eticamente inaccettabile». Entro il quadro, ovviamente, di strategie complessive intese a garantire l’impiego proficuo più ampio possibile delle risorse sanitarie e sulla base di valutazioni, nel caso concreto, fondate sull’appropriatezza clinica, anche in rapporto alle esigenze di fruizione attuale delle risorse sanitarie: ma pur sempre escludendo «automatismi e scelte aprioristiche nell’accesso ai diversi percorsi di cura» (cfr. il parere Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del ‘triage in emergenza pandemica’, dell’8 aprile 2020, n. 3). Dovendosi evitare infingimenti, tuttavia, circa il fatto che l’obiettivo di assicurare tutela sanitaria adeguata a tutti i malati di covid-19 che ne avrebbero avuto bisogno, non è stato raggiunto, e non solo rispetto a un numero ridotto di casi sporadici: posto che, come s’è detto, molti di quei malati sono rimasti privi, addirittura, di qualsivoglia supporto sanitario, costituendo, quest’ultima, la sconfitta bioetica più cocente, finora, della vicenda covid-19 in Italia. Che del resto il rimando alla parola magica dei bilanciamenti non abbia consentito, in genere, una reale valorizzazione di tutti gli interessi comunque rilevanti in una data situazione concreta emerge in modo chiaro con riguardo alle normative, più volte evocate nell’intervista in die Zeit, sull’interruzione volontaria della gravidanza. S’è ben visto qual è stato, infatti, il livello reale dell’impegno di aiuto alla donna in termini di «rimozione delle cause» che la condurrebbero all’aborto, così come richiesto, in particolare, dall’art. 5 della l. n. 194/1978: vale a dire circa la prevenzione (primaria) di un fatto che, pure, recide una vita umana e incide pesantemente sul vissuto futuro di una donna. E ciò sebbene l’effettività di tale aiuto rappresenti un’esigenza basilare di valorizzazione della dignità stessa della donna, come efficacemente emerge nel parere su Aiuto alla donna in gravidanza e depressione post partum, approvato sulla base di un’amplissima convergenza pluralistica dal CNB nel dicembre 2005. Sei milioni di aborti legali, in Italia, nel quarantennio post 1978 non costituiscono un dato trascurabile. Né lo diventano in forza del ridursi, da tempo, dei tassi annuali, stante, fra l’altro, il minor numero delle donne in età fertile, ma altresì il diffondersi del ricorso alla pillola del giorno (o dei cinque giorni) dopo: che, a seconda del momento dell’assunzione durante il ciclo femminile, può agire anche impedendo l’annidamento in utero dell’embrione già formato, per cui quest’ultimo, con ciò, perde a priori ogni rilievo, nonostante il rango assegnatogli dalla Corte costituzionale ex art. 2 Cost. (è bastato, per rimuovere il problema, dilazionare la definizione di inizio della gestazione all’avvenuto annidamento). Come, del resto, quel rango si è rarefatto, con riguardo alle argomentazioni della medesima Corte sulla c.d. diagnosi preimpianto, nel mero diritto – davvero invidiabile – degli embrioni generati e poi scartati a essere posti in stato di congelamento, sine die né speranza. Trascurando, oltre a qualche norma non caducata della legge n. 40/2004, i rilievi dello stesso Habermas, che ravvisava già anni orsono nella generazione di embrioni «con riserva», essendosi già programmata la successiva selezione tra gli stessi, una logica di dominio radicale dell’esistenza altrui, antitetica rispetto al principio di uguaglianza (cfr. Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale [2001], trad. it. Torino, 2002).
Anche per quanto concerne le «insicurezze prognostiche» appare necessario distinguere: esse riguardano essenzialmente l’evolversi della patologia covid-19, le strategie mediche finalizzate a curarla e gli studi sperimentali in atto per addivenire a un vaccino efficace nei suoi confronti. Non riguardano invece, se non in modo secondario, le modalità necessarie per limitare il diffondersi del contagio, cioè i provvedimenti dei quali discutiamo in questa sede: posto che tali modalità sono largamente assodate e, laddove poste in essere, hanno dimostrato un’indubbia, ancorché non risolutiva, efficacia. Tanto che il dibattito ha avuto per oggetto, in merito, non l’utilità di quei provvedimenti, ma la loro estensione contenutistica e temporale in rapporto all’andamento della pandemia, vale a dire l’accettabilità di un certo livello del rischio (peraltro non facilmente identificabile) correlato a diverse graduazioni dell’intervento, col fine di non incidere troppo su esigenze di ordine esistenziale, economico e sociale. Quello che era da farsi, salvo deciderne il quantum, risultava piuttosto chiaro, una volta percepita la gamma degli effetti possibili del contagio in assenza di cure sicuramente efficaci e l’estensione del contagio a livello locale e nazionale. E lo stesso criterio cui ispirare gli interventi indiscutibilmente necessari era, e resta, piuttosto chiaro: far sì, cioè, che i tassi di rilevamento del virus indichino un trend di diminuzione del contagio, vale a dire, statisticamente, che il numero dei nuovi contagi non produca un numero eguale o maggiore di ulteriori nuovi contagi e si riduca, poi, in modo progressivo. Il che, inoltre, rende palese l’esigenza di un riferimento nazionale credibile sul piano scientifico, in grado di offrire alla responsabilità politica le informazioni sanitarie – in particolare, epidemiologiche – ineludibili onde operare scelte rispondenti ai criteri summenzionati.
L’informazione sulla pandemia è stata, riterrei, piuttosto capillare. Tanto da lasciar emergere chiaramente gli stessi limiti insiti nei dati disponibili e pubblicizzati: per esempio, con riguardo alla differenza, emersa rapidamente, tra l’aumento massiccio, in certe zone, dei tassi generali di mortalità e il numero, molto minore, dei deceduti dopo essere stati riconosciuti come affetti dal virus SARS-CoV-2. E di simile trasparenza è parte anche la non univocità dei pareri scientifici talora emersa su alcuni aspetti prognostici della pandemia e sulle prospettive del suo contrasto da parte della medicina: meglio un’informazione nitida circa la (riscoperta) non onnipotenza da ascriversi alle risorse scientifiche e circa la fatica dell’ottenere conoscenze affidabili, di un’informazione manipolata, che tolga paternalisticamente all’opinione pubblica, quale ne sia il fine, una percezione realistica e responsabilizzante dei problemi. Chi lo ha voluto, in effetti, un’idea circa lo status quaestionis la si è potuta fare. Piuttosto, ciò che può preoccupare è l’uso di una propria autorevolezza, sul piano politico, per formulare proposte o diffondere messaggi aventi fini (demagogici) diversi da quelli intesi a una gestione responsabile della pandemia, oppure, sul piano scientifico, per intenti di protagonismo suscettibili di minare la fiducia dell’opinione pubblica in una comunità dei competenti armonica, poiché impegnata, pur nel confronto delle opinioni e delle esperienze di ricerca, per il bene di tutti.
Desta, infine, non poca sorpresa la passione neo-garantista circa il ruolo del parlamento che in taluni sembra essersi risvegliata proprio nell’occasione dei provvedimenti adottati dal governo per il contrasto della pandemia: dopo che per anni il ruolo del potere legislativo è stato largamente delegittimato in più sedi, non senza ricorrenti giustificazioni di simile trend anche in quella accademica. Chi scrive ritiene di potersi trovare, in proposito, al di sopra di qualsiasi sospetto, avendo ribadito più volte e pure di recente (valga lo scritto Legalità, non oligarchie: profili penalistici, in disCrimen, 24 giugno 2020) il ruolo non surrogabile del parlamento, e dunque della divisione tra i poteri, nell’ambito dei sistemi democratici. Ma, francamente, quali provvedimenti diversi, nella sostanza, avrebbe dovuto prendere il parlamento rispetto a quelli, pressoché necessitati, adottati dal governo per arginare il diffondersi della pandemia? Si sarebbe dovuto, forse, perdere ancor più tempo a disquisire (visto che già alcuni ritardi iniziali hanno avuto conseguenze tragiche) prima di decidere? E se c’è un ruolo proprio del governo, dal punto di vista costituzionale, non è proprio quello di far fronte – fermo il rispetto della legislazione vigente e dei principi sanciti dalla Costituzione – a esigenze immediate di intervento? È proprio così deteriorato il sistema democratico italiano da non poter emergere, almeno in momenti particolari (come pure è avvenuto in certi momenti gravi della storia del nostro Paese), una solidarietà costituzionale di fondo fra le componenti politiche, pur nella strutturale articolazione delle medesime in forze di maggioranza e di minoranza? Vogliamo ricordare le parole – purché non le si legga a senso unico – rivolte in Portogallo dal capo dell’opposizione (Rui Rio) a quello del governo (Antonio Costa) quando andò inasprendosi la pandemia: «La minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà, senso di responsabilità. Per me, in questo momento, il governo non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione, ma di collaborazione. Signor primo ministro, conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna perché la sua fortuna è la nostra fortuna»? Un approccio che, pare, non sia rimasto affatto ininfluente sull’efficacia delle misure in quel Paese.
Venendo dunque specificamente, in breve, alle domande proposte:
1) In rapporto a quanto s’è detto, pare difficile stabilire parallelismi tra i giudizi di proporzionalità concernenti le misure di contrasto relative al diffondersi del virus SARS-CoV-2 e i giudizi inerenti alla proporzionalità dell’intervento penale in termini di extrema ratio, quale arma a doppio taglio, rispetto alle esigenze di prevenzione delle offese a determinati beni fondamentali.
Da un lato, infatti, l’ambito di efficacia preventiva connessa all’entità delle pene detentive tradizionalmente inflitte risulta assai più incerto rispetto all’ambito di efficacia delle misure anti pandemia covid-19 finora adottate.
Dall’altro lato, la limitazione nell’esercizio dei diritti fondamentali prodotta dalle suddette misure risulta, comunque, di molto inferiore a quella derivante dalla detenzione in carcere (e, per molti aspetti, anche dalla detenzione domiciliare), nonché assai meglio supportabile, per esempio con riguardo agli effetti sulle attività lavorative, attraverso provvedimenti di sostegno economico-sociale.
La gran parte dei diritti non sono stati cancellati, in realtà, dai provvedimenti connessi all’emergenza sanitaria, ma hanno dovuto ricercare e sperimentare modalità nuove della loro espressione (sul piano del lavoro, dell’istruzione, dell’espressione del pensiero, e così via).
Il problema di fondo, peraltro, è che ci si dovrebbe affrancare dall’idea che la proporzionalità dell’intervento penale vada intesa come riferita a una sorta di rapporto equilibrato (secondo quali parametri?) e, tuttavia, intimidativo – una sorta di ossimoro – tra la gravità del reato e il danno minacciato nei confronti del colpevole: in base a criteri di ‘razionalità’ politico-criminale indimostrati e anzi, per lo più, contraddetti.
La proporzionalità della pena non è da concepirsi nei termini di una deprivazione ritenuta tollerabile (proporzionata) di chance esistenziali rispetto al condannato, bensì in rapporto alla capacità credibile della pena stessa di promuovere pur sempre, secondo le caratteristiche del reato commesso, un’inclusione sociale del colpevole. Così che la pena assuma, fin dal momento della comminazione, un orientamento motivazionale, piuttosto che intimidativo.
Ed è proprio in questo, semmai, che può recuperarsi una corrispondenza tra il concetto di proporzionalità nel contesto penale e in quello delle misure anti covid-19: nel cercare, cioè, di perseguire, insieme, esigenze plurime, non necessariamente antitetiche. Quelle di carattere sociale (contrastare il diffondersi della pandemia – fare verità sul reato, impedire che il medesimo produca profitti, creare condizioni antitetiche rispetto a una possibile recidiva), e quelle attinenti ai diritti individuali (salvaguardare anche in emergenza sanitaria, rimodulandone i modi, le attività in cui quei diritti si esprimono – promuovere l’inclusione sociale del condannato e, con ciò, una ri-valorizzazione nella legalità della sua persona). Entro il quadro, ancora una volta, dell’et-et, piuttosto che dell’aut-aut.
2) Ritengo che le misure anti covid-19 siano state seguite, dai più, perché considerate ragionevoli e necessarie. Del resto, la stessa forza preventiva del sistema penale dipende, già lo si diceva, dalla capacità di motivare a scelte personali. Se si fosse trattato solo di intimidazione, avrebbe inciso in senso antitetico l’estensione inevitabile, tanto più rispetto a quel tipo di misure, della cifra oscura, come pure l’incertezza sulla celebrazione dei processi e sulla stessa punibilità, in concreto, delle trasgressioni.
Certamente il rilievo penale di una certa condotta illecita segnala il particolare disvalore che essa assume in merito al bene tutelato e sul piano delle relazioni sociali, così che tale rilievo può avere, in effetti, una forza particolare di orientamento dei comportamenti. Ma ciò deriva essenzialmente dal rango assegnato, anche nel sentire comune, all’illecito penale, il quale implica – secondo l’indicazione dell’art. 27, co. 3, Cost. – l’appello a una più o meno marcata revisione, nel suo autore, dello stile di vita (aspetto, questo, mancante nell’illecito amministrativo). Così come deriva, altresì, dalla competenza assegnata, per gli illeciti penali, all’autorità giudiziaria.
Non si tratta dunque, anche sotto questo profilo, di entità delle pene: in quanto la funzione prioritaria dei procedimenti penali, lo si richiamava in precedenza, è quella di fare verità – circa i fatti illeciti accaduti – per migliorare, vale a dire per creare condizioni (non solo rispetto al soggetto agente, ma anche con riguardo, per esempio, alla prevenzione primaria) onde far sì che qualcosa di simile non torni a verificarsi nel futuro. Il processo penale, ribadirei, non serve per condannare: è la stessa condanna, piuttosto, che deve risultare funzionale all’intento migliorativo (laddove, invece, la condanna finisce sovente per costituire il pretesto simbolico – si pensi ancora, in genere, ai reati colposi di evento – per lasciare le cose come stanno).
Semmai, si tratterebbe di riflettere, con riguardo alla pandemia, circa l’esigenza di poter assumere provvedimenti immediati che incidano hic et nunc sulla libertà di movimento di chi, in modo irresponsabile, crei le condizioni, risultando malato, per il prodursi di nuovi focolai del contagio. Purché venga assicurata, in questi casi, una presa in carico non fittizia delle condizioni di salute del soggetto coinvolto: stante, lo ricordo nuovamente, il gran numero delle persone che nei mesi passati sono state confinate fiduciariamente in casa, o in determinate residenze comunitarie, e poi, di fatto, abbandonate a sé stesse.
3) Quanto è da ritenersi essenziale rispetto a fatti lesivi di beni fondamentali dovrebbe essere una reale volontà di prevenzione degli stessi, al di là degli strumenti utilizzati. Per cui, in effetti, non può muoversi dall’assunto che la minaccia edittale di una pena detentiva sortisca in modo automatico, e per qualsiasi forma di offesa verso un certo bene, i risultati migliori sul piano preventivo.
Si tratterà dunque di definire anzitutto, a tal proposito, una strategia politico-criminale complessiva, che deve muovere dalla prevenzione primaria. Tenendo presente, poi, che gli stessi strumenti sanzionatori utilizzabili nei confronti delle condotte offensive possono essere diversi dal ricorso al carcere, siano essi gestiti sul piano amministrativo o su quello penale: rilievo, quest’ultimo, il quale lascia emergere un limite storico, che prima o poi dovrà ben superarsi, del diritto penale italiano, ancor oggi carcerocentrico.
Tuttavia, deve realisticamente segnalarsi che, non di rado, la rinuncia all’uso pregresso del diritto penale quale strumento di prevenzione non si è accompagnata a una solida assunzione dell’impegno preventivo attraverso altri mezzi, come pure richiedeva, nel 1975, la richiamata sentenza del Bundesverfassungsgericht sull’aborto: così che simili evoluzioni normative, non solo in quel settore, hanno operato, o comunque sono state percepite, come passaggio di fatto legittimante, al di là delle affermazioni di principio, una rinuncia alla prevenzione tout court, o per lo meno uno scarso interesse rispetto alla medesima.
Ciò a parte, non riterrei che (nuovi) obblighi di penalizzazione fatti valere sul piano sovranazionale e sulla base di fonti normative, a loro volta, sovranazionali, possano essere intesi come obblighi indiscutibili di ricorso, nell’ordinamento italiano, al diritto penale, se non addirittura alla deterrenza detentiva, invece che come obblighi di protezione effettiva di determinati beni o diritti. Posto che il ruolo della libertà personale non può essere estromesso dal novero dei beni fondamentalissimi di rango costituzionale, rilevanti perfino sul piano dei c.d. contro-limiti. E che, secondo la Costituzione, l’intervento restrittivo, per ragioni penali, circa il rilievo di quei beni nei confronti del cittadino è affidato al legislatore, cioè a una fonte parlamentare la quale non informa, o lo fa solo parzialmente, le realtà sovranazionali.
Come non riterrei che delicatissime, e comunque sempre discutibili, ponderazioni che s’intendessero effettuare rispetto al bene stesso consistente nella vita umana siano da presidiarsi attraverso norme penali (si ricordi S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, Bologna, 2015, sui temi del fine vita: «anche i giuristi dovrebbero avvertire la responsabilità di non alimentare una ‘contrapposizione agonistica’ – con le ‘armi pesanti’ del diritto penale – tra medico e paziente»).
Fuori dall’ambito di simili ponderazioni, deve semmai ammettersi che fin quando un diritto penale esista, a presidio di esigenze comportamentali valutate come irrinunciabili sul piano sociale, appare difficile escludere ex ante determinate condotte lesive di beni fondamentalissimi dalla sfera della rilevanza penalistica: sebbene non sia detto, come sopra si osservava, che ciò debba implicare il ricorso alla pena detentiva (l’extrema ratio non attiene tanto al diritto penale, ma all’utilizzo di tale forma sanzionatoria, che, comunque, non è da considerarsi automaticamente come la più efficace).
In questo quadro, peraltro, proprio il ruolo da riconoscersi alla tutela della vita umana manifesta un’insuperabile peculiarità. Quella tutela, infatti, costituisce presupposto cardine del principio di uguaglianza, vale a dire della democrazia. Poiché ogni flessibilizzazione di simile tutela finisce per implicare un giudizio sulle condizioni o sulle qualità di una data esistenza umana, fra l’altro recidendo la possibilità stessa di espressione dell’autonomia personale, di cui la vita costituisce presupposto. Con Habermas: «Il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non ha un effetto impeditivo di ogni arretramento, che gli altri diritti fondamentali non hanno?».
A conclusione. La pandemia, è probabile, ci accompagnerà per non poco tempo nel mondo, obbligando a riorganizzare secondo criteri di prudenza le modalità relazionali al pari delle attività economiche, e a provvedere affinché ci si trovi in grado di isolare, sul piano socio-sanitario, i focolai di contagio. Essa ha lasciato percepire a molti che la caducità della vita non è confinabile in una sua fase estrema, ma l’accompagna, con ciò segnalandone anche la preziosità. Una percezione, questa, familiare a molti poveri del mondo, e meno sperimentata dai benestanti. Ci si aspetta, dunque, il vaccino, perché tutto torni come prima. Così potrà dirsi che tutto è andato bene, dimenticando come la storia la scrivano sempre i sopravvissuti. No, non è andato tutto bene. E nel mondo non va tutto bene. Questa stessa pandemia sarebbe stata arginata meglio se il mondo non fosse dilaniato da contrapposizioni ormai sempre più estranee alla coscienza dei popoli, specie delle generazioni più giovani. Se le risorse per la vita non fossero dilapidate nella produzione delle armi. Se l’eguaglianza di principio dei diritti si fosse già trasformata nella cura del diritto di vivere, per tutti. Sarà benvenuto il vaccino. Ma sarebbe una sconfitta non cogliere il campanello d’allarme che questa pandemia ha suonato. Poiché quanto oggi, nel mondo, non va bene, può condurre, pur senza pandemie, alla distruzione dell’umanità: niente di meno. Il che impone anche ai giuristi di ergersi al di sopra della gestione tecnica, e remunerativa, dei contenziosi ordinari per tornare a svolgere una funzione culturale: quella di segnalare, essenzialmente, l’esigenza di voltare pagina, nel mondo e sul piano intersoggettivo, rispetto a logiche relazionali fondate sul conflitto. Ed è qui che si apre la vera sfida di una riprogettazione dei rapporti sociali e internazionali per gli stessi parlamenti, al di là delle disquisizioni minute sulle competenze circa l’adozione delle misure urgenti in tema di pandemia. Temo, infatti che l’alternativa sia severa: o si saprà urgentemente por mano a costruire una nozione globale della democrazia, o il futuro, alle generazioni che verranno, potrebbe essere sottratto.
7. Domenico Pulitanò. L’esperienza della pandemia e i problemi del penale
7.1 L’esperienza della pandemia e del lock down
La pandemia Covid-19, e le misure adottate in Italia e altrove per contrastarla, hanno posto problemi inquietanti, relativi al bilanciamento di beni fondamentali del singolo (vita, salute, libertà) e della comunità, con sacrificio di alcuni a favore di altri. Sono problemi che interpellano anche il diritto penale, arma a doppio taglio, finalizzata alla tutela di beni importanti e fattore di rischio per le libertà. Opportuna, dunque, la sollecitazione venuta da giustiziainsieme: ragionare sulle condizioni dell’osservanza di restrizioni pervasive, fino al lock down; su come il diritto possa e debba farsi carico dei problemi relativi al “generale rischio di vita”, nel bilanciamento con altri diritti (libertà e dignità), in condizioni di incertezza cognitiva o prognostica.
La pandemia è uno stato d’emergenza (purtroppo) reale, non uno stato d’eccezione stabilito dall’arbitrio soggettivo di un sovrano che proclama la sospensione della legge ordinaria. In tutto il mondo la pandemia di quest’anno 2020 ha distrutto vite, ha portato a restrizioni di libertà, ha messo in crisi l'economia. La potenza nascosta dell’invisibile virus ha sconvolto le cose umane, si è fatta gioco del potere dei reggitori delle società. “Usque adeo res humanas vis abdita quaedam / obterit, et pulchros fascis saevasquae secures / proculcare ac ludibrio sibi habere videtur” (Lucrezio, De rerum natura, V, v. 1233s).
Da metà marzo abbiamo vissuto per molte settimane in uno scenario di sospensione generalizzata e prolungata della normalità sociale, imposta da precetti che in situazioni non emergenziali rifiuteremmo come liberticidi. Restrizioni di diritti di libertà in senso forte: non solo la libertà di circolazione, direttamente bloccata, ma anche diritti e libertà che il blocco impedisce di esercitare. Le regole restrittive sono state via via attenuate, alcune restano ancora nei giorni in cui sto scrivendo (fine giugno).
7.2 La dimensione costituzionale
Sullo sfondo della vicenda Covid-19, la Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, nella relazione sull’attività nel 2019 presentata il 28 aprile 2020, ha osservato che la Costituzione non prevede un diritto speciale dell’emergenza, non la sospensione di diritti fondamentali; è però non insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di crisi o di straordinaria necessità e urgenza, per le quali è pensato come strumento il decreto legge (art. 77). “Necessità, proporzionalità, ragionevolezza, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui deve attuarsi la tutela sistemica e non frazionata dei principi e dei diritti fondamentali, ponderando la tutela di ciascuno con i relativi limiti, in base alle specifiche contingenze. È la Costituzione la bussola necessaria a navigare ‘per l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo-emergenza che ci attende”.
L’emergenza sanitaria ha posto la politica di fronte alla responsabilità di scelte tragiche. Le necessità di contenimento del contagio (tutela della vita e della salute) sono state ritenute idonee a giustificare, nel bilanciamento con le libertà, restrizioni di libertà eccezionalmente spinte, ma razionali rispetto allo scopo di preminente importanza. Il principio di giustiziabilità esige la possibilità di un controllo giurisdizionale, in sede di giustizia ordinaria o costituzionale.
Più la compressione di diritti è severa, più è necessario che sia circoscritta nel tempo[2]: il criterio della temporaneità ci dice che la compressione emergenziale di diritti dovrebbe essere rivedibile in ogni momento alla luce dei fatti e di esigenze mutate. La responsabilità di valutazione e decisione, che è propria della politica in via normale, in situazioni non normali è più forte.
In questo contesto si pone il problema delle basi cognitive delle valutazioni e decisioni: incertezza e incompletezza delle conoscenze a disposizione, e conseguenti insicurezze prognostiche. Valutare e decidere in condizioni d’incertezza è condizione normale della politica. Le pretese e i principi giuridici che chiedono certezze in diritto e in fatto (legalità/determinatezza; accertamento al di là del ragionevole dubbio) debbono fare i conti con la realtà. Con i limiti delle nostre conoscenze, di ciò che sappiamo progettare, di ciò che sappiamo tradurre in norme e in concreti comportamenti.
7.3 Obblighi costituzionali di penalizzazione?
Nella discussione fra Habermas e Gunther, alla quale fa riferimento la sollecitazione venuta da Giustizia Insieme, è stata richiamata la storica sentenza del Bundesverfassungsgericht del 1975, che ha posto limiti alla depenalizzazione dell’aborto e ha suscitato il dibattito su obblighi giuridici di tutela anche penale della vita umana. Anche per la riflessione in Italia quella sentenza è stata un riferimento importante. La strada imboccata dalla nostra Corte costituzionale è stata diversa[3].
Quando in Italia, sul finire degli anni ’70, sono state introdotte riforme legislative orientate verso modelli di disciplina non più integralmente né principalmente penalistici, sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale in malam partem, volte a riespandere l’area dell’illecito penale in nome della tutela di beni giuridici costituzionali. Le censure si sono appuntate sul ritrarsi dell’intervento penale: dalla rilevanza costituzionale di dati beni (la salute e l’ambiente, la vita del feto) è stato argomentato un obbligo di principio di tutela penale di quei beni, o quanto meno l’illegittimità del sopprimere una tutela penale già esistente.
La Corte costituzionale italiana, con giurisprudenza costante, ritiene inammissibili le questioni di legittimità costituzionale volte alla creazione o all’ampliamento di fattispecie di reato. Il principio di legalità dei reati e delle pene (art. 25 Cost.) comporta l’impossibilità per la Corte di “pronunciare alcuna decisione, dalla quale derivi la creazione – esclusivamente riservata al legislatore – di una nuova fattispecie penale”[4]. “Solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali”[5].
Dietro la soluzione processuale dell’inammissibilità affiora una ragione più sostanziale: di fronte a problemi di tutela il penale non è una risposta obbligata[6]. È una risposta possibile, di fatto può essere necessaria, per esigenze di tutela di beni importanti.
Un obbligo di penalizzazione è espressamente previsto nella Costituzione italiana: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13, 4° comma). Condizioni e limiti costituzionali sono posti alla previsione di cause di non punibilità (sentenza n. 148 del 1983). Nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale il rispetto per scelte legislative di tutela penale viene in rilievo anche in delimitazioni della portata della dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale di fattispecie di reato (vedi sentenza sull’aiuto al suicidio, n. 242 del 2019) o di istituti del sistema sanzionatorio (vedi sentenza n. 352 del 2019 sull’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario). Non si tratta di confini rigidi: non sono precluse future scelte legislative meno penalizzanti.
Obblighi di penalizzazione sono previsti dalla normativa europea. Nella giurisprudenza della Corte EDU sono affermati a difesa di diritti della persona, contro usi arbitrari di poteri dell’autorità. In quest’ottica sono stati valutati come scommessa sulla funzione espressivo-simbolica del diritto penale”[7] messa in crisi da scelte arbitrarie di non punibilità o da carenze d’attivazione della giustizia penale.
Come risposta a problemi di sicurezza del convivere e dei diritti delle persone, il diritto criminale/penale è un’opzione possibile, talora necessaria, sempre problematica nei modi. Un azzeramento non è pensabile. La tutela della vita da aggressioni dolose (non uccidere) è un nucleo irriducibile.
Ai suoi compiti di tutela, il Leviatano in versione liberaldemocratica può provvedere, ed è bene che provveda, innanzi tutto con altri mezzi, meno invasivi del penale. Diritto penale minimo è un’idea regolativa, non un principio in senso forte. Per le democrazie liberali, un’idea regolativa importante per le politiche del diritto penale.
7.4 Limiti del penale e rapporto giustizia/politica
Nelle riflessioni sulla ripresa dopo l’emergenza acuta, è stato segnalato da un autorevole politologo il problema del panpenalismo, “la debordante e soffocante presenza del diritto penale in tutti gli ambiti della vita sociale ed economica, a sua volta riflesso della peculiare posizione di forza assunta dalla magistratura inquirente in Italia”[8].
È una presa di posizione politica, ovviamente discutibile, da me condivisa: alla politica deve essere riconosciuto uno spazio non sottoposto a scrutinio diverso da quello culturale e politico, nella sfera pubblica (luogo centrale nella filosofia politica di Habermas). La macchina del law enforcemewnt penalistico non dovrebbe diventare un fattore di rischio e di turbamento per l’esercizio dei diritti dei consociati o di funzioni di governo politico.
Per una riflessione su diritto penale e situazioni d’emergenza è di particolare interesse l’indagine aperta dalla Procura di Bergamo sul ritardo nella costituzione di una zona rossa nei comuni della Val Seriana. “Il governo si difende davanti al pm”, è il titolo di prima pagina del Corriere della sera, 13 giugno 2020. Sono stati sentiti, come persone informate sui fatti, il Presidente del Consiglio e alcuni ministri. Nella discussione mediatica è stato sollevato il problema, se l’indagine giudiziaria penale possa avere ad oggetto valutazioni e decisioni di tale rilevanza politica. È stato inquadrato in un’ottica politica, senza andare a fondo dei problemi giuridici.
Sul piano penalistico, al confine con la politica si colloca la disciplina dei reati ministeriali, agganciata ai criteri della legge costituzionale n. 1 del 1989. Compete all’organo politico (Camera o Senato) debitamente investito dall’autorità giudiziaria, l’eventuale diniego dell’autorizzazione a procedere, con valutazione insindacabile, “ove reputi che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nella funzione di governo” (art. 9).
Il confine della legalità penale è tracciato in via generale dai normali criteri di attribuzione/delimitazione di responsabilità. Di particolare rilievo il tema della colpa, un tipo di responsabilità che nel campo del diritto penale hard (responsabilità per delitto) dovrebbe essere un’eccezione rigorosamente delimitata. La tutela della vita e dell’integrità fisica è il campo principale di applicazione. L’esperienza della pandemia ha mostrato la centralità del problema della colpa, quando si è posto il problema delle eventuali responsabilità e dei limiti di responsabilità di operatori chiamati ad agire in situazioni particolarmente esposte, nelle quali sono morte molte persone. Si sono contrapposte esigenze di responsabilizzazione ed esigenze che sono state formulate come richieste di scudo. La conciliazione dovrebbe essere cercata in criteri di ragionevole delimitazione di principio della responsabilità, avendo riguardo a condizioni di fatto che restringono il campo di ciò che è esigibile.
La penalizzazione della colpa mette in campo logiche difensive che portano al non riconoscimento di errori compiuti, dell’aver sbagliato che “comunque accompagna, in modo più o meno rilevante, l’esistenza di ciascuno”[9]. Anche l’incidenza deformante sul discorso pubblico è una ragione che invita alla massima cautela nell’imboccare la strada del penale.
Problemi non solo di garanzia, ma anche di opportunità, riguardano non solo la giustizia degli esiti, ma l’attivarsi della macchina fin dall’inizio: i presupposti dell’apertura di indagini, e l’esercizio dell’azione penale, la cui obbligatorietà non è un via libera per iniziative ad explorandum. Di fatto, i presupposti dell’obbligo sono affidati alla valutazione del PM (alla posizione di forza delle Procure) in assenza di controlli sulla sussistenza di una notizia di reato che fondi in concreto l’obbligo di verifica. La messa in moto della macchina giudiziaria, in condizioni d’incertezza, comporta costi e rischi certi; l’esito di giustizia è incerto.
La questione dei filtri processuali è presente nel disegno di legge delega n. 2435, presentata alla Camera il 13 marzo 2020. Per la tenuta dei diritti, tutti i problemi di filtro e di controllo sulla macchina investigativa e processuale meritano la massima attenzione. Indipendentemente dal merito delle singole iniziative, il trasferimento in sede giudiziaria di problemi di portata generale comporta il rischio di espansioni panpenalistiche sul terreno delle responsabilità politiche, o semplicemente su quello delle libertà delle persone coinvolte. Nel contesto difficile della post emergenza, un problema che sarebbe bene prevenire.
Sul piano della responsabilità politica, il problema si presenta in termini più generali, rispetto a una pluralità di interessi da soddisfare e da bilanciare, in situazioni d’incertezza fattuale e prognostica: scelte tragiche, nel senso letterale del termine, che comportano comunque il sacrificio di interessi importanti, anzi di diritti fondamentali. È in gioco la salute pubblica, la vita delle persone. Ha avuto eco anche in Italia l’intervista di Wolfgang Schauble, Presidente del Bundestag, che ha affermato la priorità della intoccabile (unantastbar: §. 1 della Costituzione tedesca) dignità della persona: sarebbe sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana.
In un editoriale ne Il foglio, 29 aprile, Giuliano Ferrara ha contrapposto a questa “sortita di un grande tedesco in vene di verità difficile” la scelta italiana: “abbiamo scelto per ora, con tentennamenti, retropensieri luterani, remore da etica capitalistica dispiegata, di non osare la grande scrematura di vecchi e malati, pagando un prezzo notevole per esclusive ragioni di pietà, di grazia e di amore che sono superiori a quelle della dignità”.
Vita, libertà, dignità, sono diritti delle persone. La critica politica (da me condivisa) alla posizione espressa da Schauble non può disconoscere le ragioni di chi ponga l’accento sulla dignità e sulle libertà.
Le scelte su ambiti, modi, tempi di restrizioni emergenziali di libertà (fino alla costituzione di zone rosse) sono scelte politiche particolarmente delicate. Abbisognano di solidi presupposti cognitivi, ma che spesso debbono essere prese in condizioni d’incertezza cognitiva e/o prognostica. Comportano valutazioni discrezionali, in ragione degli interessi coinvolti e di previsioni sui diversi possibili scenari.
Il carattere spiccatamente problematico delle scelte, sia con riguardo alle premesse cognitive sia con riguardo ai bilanciamenti d’interessi, è (mi pare) un argomento contro la trasposizione del problema sul terreno del diritto penale, e conseguentemente della giustizia penale. L’idea che restrizioni spinte delle normali libertà, sia pure a protezione dal contagio, possano essere valutate sul piano penalistico come un dovere imposto ai governanti da regole cautelari, mi sembra pericolosa per gli equilibri di una società aperta. Di fatto, le democrazie liberali della nostra Europa hanno dato, di fronte alla pandemia, risposte diverse.
7.5 Condizioni dell’osservanza. Doveri di solidarietà.
L’esperienza del lock down ha mostrato un soddisfacente livello di osservanza di precetti che in situazioni non emergenziali rifiuteremmo come liberticidi; decisamente contenuti i tassi di disobbedienza. Segno di efficacia generalpreventiva delle normative d’emergenza? Di paure legate alla presa di coscienza del rischio pandemico? O di altre ragioni, o di un mix di ragioni diverse? Sulle ragioni dell’ampia osservanza di restrizioni pesanti torneranno a indagare e a ragionare gli storici.
Una valutazione radicalmente negativa sull’acquiescenza a misure straordinariamente restrittive è stata formulata da un noto filosofo: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? ……. Abbiamo accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali, la nostra libertà di movimento …. i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio” (G. Agamben, Una domanda, in Quodlibet, 14 aprile 2020).
La domanda di Agamben merita considerazione, come provocazione a riflettere sul senso morale e politico dell’osservanza che ci è stata chiesta e che abbiamo accettato, sulla sospensione di libertà fondamentali.
La valutazione prevalente, da me condivisa, è del tutto opposta alla censura di crollo morale. Nell’osservanza delle restrizioni è leggibile la moralità di un sacrificio molto pesante, nell’interesse proprio e degli altri con cui conviviamo.
Nella duplice emergenza della pandemia e del lock down è apparso evidente che il contenimento del contagio e la tenuta della società (della convivenza) sono legati al positivo adempimento di doveri. Assunzioni di responsabilità delle istituzioni politiche, e osservanza dei doveri da parte di tutti: doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.)[10]. Per l’esercizio dei nostri diritti – inviolabili in via di principio, ma fragili di fronte a forze di varia natura – abbiamo bisogno della solidarietà, dell’osservanza di doveri reciproci.
Vengono in rilievo doveri generali gravanti su tutti, e doveri di adempimento di funzioni e di compiti di varia natura, da posizioni di garanzia di livello elevato (dirigenti ed operatori amministrativi, medici, infermieri) fino a compiti umili ma necessari. Nell’emergenza sanitaria possono avere una contingente ragion d’essere anche doveri che comportano restrizioni di normali libertà.
Per quanto concerne i problemi del penale, l’indicazione che può essere letta nell’esperienza della crisi è la preminente importanza della dimensione precettiva e dell’osservanza. Le parole d’ordine del garantismo liberale, così gratificanti per la nostra cultura, presuppongono un sistema precettivo che comporta limitazioni di libertà. Condizione minima della con-vivenza (il minimo etico) è l’osservanza dei divieti che costituiscono il nucleo duro del diritto criminale (articolazioni del decalogo biblico: non uccidere, non rubare, non ingannare).
Situazioni di crisi richiedono adempimenti più impegnativi, adempimenti di doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Nella gestione dell’emergenza, sanzionare i trasgressori delle normative speciali dell’emergenza è questione sostanzialmente irrilevante; può essere rimandata a tempi futuri, nei quali forse ci apparirà di scarso interesse.
Quando il lock down è stato allentato, la discussione in Italia si è appuntata su punti specifici della normativa sulla fase 2, criticati, talora irrisi per scarsa chiarezza (difetto di tassatività, nel gergo penalistico) o dubbia ragionevolezza del confine fra ciò che viene permesso e ciò che resta vietato. Chi sono i congiunti con cui si può incontrare? Perché non gli amici? La perdurante esigenza di cautele sanitarie può giustificare una delimitazione quantitativa dei contatti e degli spostamenti, ma non legittima l’autorità pubblica a decidere, sostituendosi alla libertà di ciascuno di noi, quali contatti personali siano preferibili.
Differenziare fra i possibili contatti personali, secondo criteri che non hanno alcun legame con questioni di sanità, ha mostrato un difetto grave di sensibilità liberale, un’impostazione non rispettosa della libertà e dignità personale, censurabile sul piano della legittimità costituzionale alla luce dei principi di necessità, proporzionalità, ragionevolezza.
La custodia dei principi liberali, cui ci siamo impegnati contro politiche centrate sul più penale, richiede la massima attenzione contro rischi di ‘normalizzazione’ di soluzioni emergenziali di compressione di diritti. Anche di questo ci ammonisce l’esperienza della pandemia e del lock down. “Un punto ci inquieta per il futuro. L’ideologia del controllo totale. L’allegra facilità nel rinunciare ad importanti libertà come prezzo da pagare al nuovo feticismo della sicurezza”[11]. La questione su cui continuare a interrogarci riguarda l’insieme dei diritti fondamentali, vita, libertà, dignità.
[1] C. Roxin, L. Greco, Strafrecht, AT, Bd. I, München, Beck, 2020, § 15/91 e amplius 15/84 ss., con tutti i riferimenti essenziali. I filosofi tedeschi che ragionano in astratto di diritti e valori dovrebbero confrontarsi con tali problemi concreti del loro ordinamento.
[2] Intervista alla Presidente Cartabia, Corriere della sera, 29 aprile.
[3] Anche in materia d’interruzione della gravidanza, cfr. Corte cost. n. 27/1975, che ha inciso sulla penalizzazione a tutto campo, aprendo la possibilità di aborto terapeutico. Cfr. anche Corte cost. n. 35 del 1997.
[4] Corte cost. n. 108 del 1981, con nota di M. Branca, Norme penali di favore: dall’irrilevanza al rifiuto della sentenza-legge in Giur. cost., 1981, I, p. 913 s.
[5] Così Corte cost. n. 447 del 1998, sulla riforma del 1997 dell’abuso d’ufficio, dove si ritrova una più ampia motivazione di un indirizzo consolidato e stabile. In epoca più recente Corte cost. n. 161 del 2005 (sulla riforma del reato di false comunicazioni sociali).
[6] È la tesi che ho sostenuto in D. Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 484 s.
[7] F. Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi Romano, p. 2643 s. (citazione da p. 2688).
[8] Angelo Panebianco, La ripresa e i suoi avversari”, in Corriere della sera, 15 aprile 2020 .
[9] L. Eusebi, Legalità, non oligarchie: profili penalistici, in DisCrimen, in corso di pubblicazione in Jus n. 1/2020.
[10] Ha sottolineato questo aspetto G. De Francesco, Dimensione giuridica ed implicazioni sociali nel quadro della vicenda epidemia, in Legislazione penale, 23 aprile 2020.
[11] P. Borgna, 25 aprile e stato d’eccezione, in Questione giustizia, 24 aprile 2020.