Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza. (note a Consiglio di Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5485) di Esper Tedeschi
Sommario: 1. Il giudice dell’ottemperanza ex art. 113 c.p.a.; 2. La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5485 del 2020 e la soluzione ivi adottata; 3. Il contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
1. Il giudice dell’ottemperanza ex art. 113 c.p.a.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5485/2020 offre l’occasione di riflettere in ordine alla corretta interpretazione e applicazione dell’art. 113, co. 1, c.p.a.
Come noto, la disposizione in parola individua il giudice dell’ottemperanza, attribuendone la competenza funzionale all’autorità giurisdizionale che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, con la precisazione, tuttavia, nel secondo periodo, che “la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Nella pronuncia in commento, il Consiglio di Stato ha fatto applicazione della regola processuale da ultimo richiamata, declinando la propria competenza a decidere, per avere individuato nel T.A.R. che aveva pronunciato la sentenza di primo grado il giudice competente, in quanto la sentenza di appello non ne aveva modificato il contenuto dispositivo e conformativo, sebbene avesse motivato in modo parzialmente diverso su un aspetto della controversia.
La vicenda deve essere inquadrata nell’ambito della regola processuale della quale è stata fatta applicazione.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. non introduce novità nel panorama processuale amministrativo.
Già l’art. 37 della legge T.A.R. – che per la prima volta ha normato l’assoggettabilità a giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice amministrativo[1] – aveva individuato, quale giudice dell’ottemperanza, l’organo della giustizia amministrativa che ha emesso la decisione di cui si chiedeva l’adempimento e, del pari, aveva introdotto una disposizione apparentemente derogatoria (rispetto alla appellabilità delle sentenze T.A.R., emesse nei giudizi di ottemperanza ex art. 37, co. 1) sostanzialmente coincidente con la disposizione ora contenuta nel co. 1, secondo periodo, dell’art. 113, c.p.a.[2].
Tuttavia – mentre l’art. 37 della legge T.A.R., si limitava a dire, al co. 4, che “la competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello” – l’art. 113, co. 1, secondo periodo, c.p.a. si esprime precisando che, affinché la competenza resti radicata nel primo giudice, occorre anche che la pronuncia confermativa del giudice di appello “abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Quella che potrebbe apparire soltanto una precisazione grammaticale, costituisce, invero, il “valore aggiunto” della disposizione codicistica (corrispondente alle indicazioni interpretative nel frattempo formatesi in materia[3]), in quanto chiarisce la volontà del legislatore, di modellare la ripartizione della competenza funzionale, fra Tribunali Amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato (nella rispettiva veste di giudici di primo e di secondo grado), sulla “paternità” del contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento giurisdizionale della cui ottemperanza si tratta, incardinandola nel Consiglio di Stato ogni qual volta, ancorché confermato il contenuto dispositivo della sentenza di accoglimento di primo grado, ne diverga il contenuto conformativo[4].
Quest’ultimo, si concreta in quel vincolo comportamentale che, sulla base delle argomentazioni che sorreggono il contenuto dispositivo, incombe sull’Amministrazione soccombente, la quale – come sarà chiarito da recente giurisprudenza[5] – finisce con l’esserne astretta anche oltre i limiti temporali e processuali di esecutibilità della pronuncia giurisdizionale, nel senso che “il suddetto effetto conformativo incide anche, nei sensi indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto”. Il che è quanto dire che il provvedimento che l’Amministrazione adotta in contrasto con la pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata resta operante alla stregua di “misura ideale” del corretto e legittimo uso del potere discrezionale tipico, così che la sua violazione è idonea ad emergere sub specie di “eccesso di potere”, quale vizio del successivo provvedimento, in qualunque ragionevole tempo.
La correlazione della competenza funzionale alla paternità del contenuto “dispositivo” e “conformativo” delle pronunce giurisdizionali affonda le proprie radici nel coessenziale “pre-giudizio” legislativo che, nelle materie appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo, nessuno meglio del giudice al quale deve farsi risalire lo iussus conformativo è in condizione di individuarne il significato e la portata, nell’esercizio di quella particolare cognizione estesa al merito che è propria del giudizio di ottemperanza e alla quale si correla anche il potere sostitutivo, esercitabile, se occorre, mediante la nomina di un commissario ad acta (art. 114, co. 4. lett. d)) quale ausiliario del giudice (art. 21) che tenga le veci dell’amministrazione reiteratamente inottemperante[6].
Riflettendo su tale aspetto, ci si avvede che il criterio adoperato dal codice del processo si muove nell’ottica della valorizzazione la nozione di “giudice naturale”[7] e le esigenze di tutela che vi sono sottese, e che hanno fatto dire, ai costituenti, che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”[8].
Peraltro, è stata rinvenuta, in tale opzione, una deroga alla regola del doppio grado[9], ora espressamente fissata, per il giudizio di ottemperanza, in linea generale, dall’art. 114, co. 8 e 9, c.p.a., idonea a ingenerare, per tale profilo, disparità di trattamento fra quanti possono avvalersi del doppio grado e quanti, invece, sono costretti a subire l’inappellabilità delle pronunce del Consiglio di Stato, operante, nel caso, in qualità di giudice di unico grado[10].
La questione non è di poco momento.
Se pure è vero, infatti che la garanzia del doppio grado della giurisdizione fissata nell’art. 125 Cost. opera soltanto nel senso della appellabilità delle sentenze T.A.R.[11] – senza che dall’anzidetta disposizione, o dagli artt. 100 e 111, o da altra disposizione della Carta fondamentale possa desumersi che (nell’ambito della funzione giurisdizionale propria) il Consiglio di Stato non possa mai essere investito di competenza di unico grado – altri principi, altrettanto vincolanti, operano nel senso che, anche in tale ipotesi, l’ordinamento debba individuare misure idonee a garantire l’effettività della tutela della parte soccombente, attuativa di diritti costituzionali (artt.24, 111 e 113 Cost.) e di principi sovranazionali[12].
Tuttavia, l’osservanza di tali principi, ora scolpiti positivamente nell’art. 1 c.p.a., non vincola il legislatore nazionale nella individuazione dello strumento processuale con il quale perseguirli, purché esso sussista e si riveli efficace[13].
2. La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5485 del 2020 e la soluzione ivi adottata.
Venendo, ora, all’esame della sentenza in commento, occorre muovere dal “caso”, che, sebbene non scevro di complessità, può essere sintetizzato come segue.
Il T.A.R. per il Molise, con sentenza n. 448 del 2016, ha accolto il ricorso per risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, instaurato dall’ex presidente del comitato dei revisori dei conti di un I.A.C.P. molisano, con ricorso notificato alla Regione Molise e all’I.A.C.P. entro il quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza del medesimo T.A.R.
Nell’accogliere la domanda risarcitoria (con condanna in solido delle amministrazione intimate sulla base di puntuali criteri di liquidazione anche relativi alle spettanze accessorie), il T.A.R. molisano ha, previamente, dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione dell’azione, proposta dall’I.A.C.P., in quanto tardiva, e ha respinto la coincidente eccezione della Regione Molise, basando il proprio convincimento sull’assunto che il termine quinquennale opposto dalla Regione a fondamento della propria deduzione, dovesse farsi decorrere dalla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, al quale il suddetto giudice ha fatto risalire la giuridica azionabilità, in sede giurisdizionale, dell’autonoma pretesa risarcitoria da lesione di interessi legittimi.
La Sez. V del Consiglio di Stato – investita dell’appello principale dello I.A.C.P. e di quello incidentale autonomo della Regione Molise, entrambi volti a sindacare le conclusioni alle quali era pervenuto il T.A.R. in ordine alla decorrenza del termine per la proposizione l’azione risarcitoria (mentre il solo appello principale dello lo I.A.C.P. era anche volto caducare la condanna in solido a suo carico, sull’assunto della esclusiva responsabilità della Regione per il danno provocato all’interessato dai provvedimenti illegittimi del Commissario straordinario dell’Istituto) – ha respinto entrambi gli appelli con sentenza n. 1496 del 2018, nel cui contesto era, peraltro, precisato che “la sentenza di primo grado deve […] essere confermata, sia pure sulla base di una motivazione in parte diversa da quella contenuta nella sentenza appellata”.
Per la precisone, il giudice di appello, esaminando la riproposta eccezione di prescrizione (ed espressamente prescindendo dalla tardività riguardante la sola deduzione dell’I.A.C.P.), ha ritenuto erroneo il procedimento logico-giuridico attraverso cui il T.A.R. era pervenuto al convincimento della tempestività della proposizione dell’azione, sulla considerazione che “l’azione risarcitoria autonoma era già esperibile [prima dell’entrata in vigore del c.p.a.] e ad essa si applicava il termine di prescrizione quinquennale (come definitivamente chiarito anche da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3/2011)”. Ciò malgrado, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sostanziale irrilevanza dell’errore del primo giudice, nella individuazione della norma applicabile nella specie, stante, di fatto, la tempestività dell’azione risarcitoria alla stregua del principio in forza del quale “la domanda, proposta al giudice amministrativo, di annullamento del provvedimento lesivo è idonea, per la durata del processo amministrativo, ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, con la conseguenza che la prescrizione già interrotta può iniziare a decorrere nel giudizio risarcitorio dal passaggio in giudicato della statuizione del giudice amministrativo (cfr., ex multis, Cass. 10395/2012; Cass. 4874/2011”.
Nelle specie, e sulla base dell’intervallo temporale fra passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dei provvedimenti lesivi e la proposizione della domanda risarcitoria (con riferimento alla notificazione del ricorso, poi successivamente ritualmente e tempestivamente depositato), doveva comunque escludersi il compimento del temine prescrizionale.
Successivamente al deposito della sentenza in parola e alla sua notificazione a cura dell’interessato, persistendo l’inerzia dei coobbligati in solido, quest’ultimo ha proposto ricorso per l’ottemperanza dell’anzidetta sentenza del medesimo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1496 del 2018, nel convincimento che il giudice di appello – pur avendo lasciato invariato il contenuto dispositivo del provvedimento decisorio del primo giudice – ne avesse modificato, ampliandolo, il decisum sostanziale, dichiarandosi confortato, in tale convincimento, dalla statuizione con la quale, in appello, il Consiglio di Stato aveva compensato le spese del giudizio.
Con la sentenza n. 5485 del 2020 in discorso, la Sez. V del Consiglio di Stato (fra l’altro espressamente accogliendo, sul punto, l’eccezione della Regione Molise, costituitasi in giudizio) ha declinato la propria competenza in favore del T.A.R. per il Molise, con concisa, ma lodevole esposizione delle conclusioni esegetiche in tema di individuazione del giudice funzionalmente competente alla stregua del disposto dell’art. 113, co. 1, del codice del processo amministrativo.
Osserva sostanzialmente il Consiglio – nell’indicare le tappe del percorso interpretativo da compiere per l’individuare il giudice competente in materia – che la giurisprudenza ha ormai sviscerato (da tempo, in un decennio dalla entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, e della operatività del suo art. 113, co. 1) le linee guida da seguire, ovvero:
a) esame del “contenuto dispositivo” (o anche dell’“indice testuale (reso) nel dispositivo della sentenza “, per usare una espressione adoperata dallo stesso Consiglio, nella sentenza della Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612);
b) ciò fatto, l’approccio successivo sarebbe nel senso che “la competenza funzionale è del Tribunale amministrativo regionale” ove vi si ravvisi “identità di contenuto tra i provvedimenti di primo e secondo grado”, il che si verifica nell’ipotesi di “dispositivo di mero rigetto dell’appello principale o incidentale (così Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489)”;
c) operare – peraltro – il confronto richiesto dallo stesso art. 113, co. 1, del “contenuto conformativo” dei provvedimenti giurisdizionali di primo e di secondo grado, rinvenendone la sede nella motivazione, e dal cui esame può conseguire che:
c.1) la competenza del Consiglio di Stato se la motivazione della sentenza d’appello rechi una modificazione sostanziale del dictum giudiziario quale ricavabile dalla sentenza di primo grado, in senso (variamente) ampliativo o restrittivo della condotta richiesta per dar attuazione alla pretesa, così da incidere sull’obbligo conformativo dell’Amministrazione soccombente (Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 871) o, anche, quando si ravvisi “un quid novi sul piano del giudicato” (Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2051);
c.2) (oppure, al contrario) la competenza resta radicata nel primo giudice (il T.A.R. di provenienza), nel caso in cui la differente motivazione si concreti nel “mero arricchimento della motivazione a supporto di un medesimo decisum”.
L’avvertimento che la sentenza in esame sente, a questo punto, di dover dare all’interprete (nel caso, la parte vittoriosa dell’esecutando provvedimento giurisdizionale) è nel senso di una particolare cautela nella individuazione del “contenuto conformativo”, nelle maglie della motivazione della sentenza d’appello e nel confrontarlo con il dictum di prime cure, in quanto una sentenza di appello non può mai riproporre un percorso motivazionale identico (ovvero addirittura ripetitivo) a quello della sentenza impugnata, “non foss’altro per la necessità di confrontarsi con censure differenti da quelle proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (in tal senso già Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2183)”.
La controprova è nella constatazione che un differente modo di procedere finirebbe a riconoscere sempre competenza funzionale del giudice di appello, perché si finirebbe per attribuire al differente percorso argomentativo “(sempre) un contenuto conformativo diverso”.
Il vero, per i fini che interessano il corretto confronto dei “contenuti conformativi” dei due provvedimenti appartenenti a giudici di differente grado è nel modus operandi che si richiede all’Amministrazione per dare effettiva e concreta attuazione al comando giuridico, cosicché, in conclusione, al cospetto di un identico contenuto dispositivo, l’indagine sul contenuto conformativo consiste nel chiedersi se le due pronunce (di primo e di secondo grado) abbiano posto all’Amministrazione vincoli operativi identici o differenti.
Per venire al caso concreto, la sostanza della vicenda sulla quale è intervenuta la differente motivazione della sentenza di appello (inoperatività della prescrizione opposta) era del tutto “pre-giudiziale” rispetto alla questione di merito, da cui doveva farsi dipendere (con l’effetto dispositivo), l’effetto conformativo della pronuncia giurisdizionale. Sicché, una volta accertato che il termine prescrizionale non era decorso al tempo della proposizione della domanda risarcitoria e che, dunque, il giudice era legittimato a “entrare nel merito” della pretesa risarcitoria, era da ritenere del tutto irrilevante il differente percorso normativo attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alle medesime conclusioni del primo giudice, in ordine alla inoperatività della prescrizione.
Infatti, la correzione, sul punto, della motivazione della sentenza di primo grado non ha minimamente intaccato il decisum sul merito della domanda risarcitoria, né in ordine alla sussistenza del danno, alla taxatio o alla aestimazio dell’obbligazione relativa, né per ciò che riguarda le indicazioni operative espressamente rivolte alle Amministrazioni soccombenti, né, infine, circa gli impliciti e residui doveri conformativi (quali, in ipotesi, quello di correttamente attenersi ai criteri di liquidazione indicati dal primo giudice, di adoperarsi per rendere disponibili i fondi necessari per l’erogazione degli importi dovuti e, infine, di emettere, il mandato di pagamento necessario alla riscossione del dovuto). Ciò in quanto, fra l’altro, è stato respinto l’appello proposto dall’I.A.C.P. avverso la condanna in solido, con totale conferma, sul punto, della sentenza T.A.R.
In conclusione, la sentenza in commento appare apprezzabile per aver messo a fuoco orientamenti consolidati con costruzione logica chiarificatrice (ancorché sintetica), così da fornire anche un input di tipo didattico per la comprensione della materia.
Probabilmente, uno sforzo ulteriore poteva essere compiuto, per chiarire, anche brevemente, l’ininfluenza della statuizione sulle spese del giudizio, posto che, per espressa ammissione dell’interessato, l’equivoco del ricorrente era stato alimentato proprio dalla suddetta compensazione[14].
3. Il contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
Ciò detto, un qualche chiarimento richiedono ancora la nozione di “contenuto dispositivo” e “contenuto conformativo” (la legge propriamente parla di “effetti”, dispositivo e conformativo) il più delle volte non espressamente enunciato, che dalla sentenza del giudice amministrativo deriva (o può derivare) in capo all’Amministrazione soccombente.
L’idea di un “contenuto conformativo”, ulteriore rispetto a quello dispositivo, afferisce alla sentenza amministrativa di accoglimento di un ricorso giurisdizionale proposto per l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e lesivo della sfera giuridica del ricorrente[15].
È, d’altronde, manualistico l’insegnamento secondo cui l’effetto (o contenuto) conformativo costituirebbe un elemento “tipico” di tali decisioni (ancorché eventuale), in quanto presuppone che, dopo l’annullamento giurisdizionale residuerebbe, in capo all’Amministrazione soccombente “il potere” (o, a seconda dei casi e sulla base di quanto dispone il diritto sostanziale, “il dovere”) di provvedere in ordine alla fattispecie che ha costituito oggetto del giudizio,, con un nuovo atto[16].
L’effetto conformativo si concreterebbe nell’obbligo, per l’Amministrazione soccombente, di tenere conto, nella sua azione, delle indicazioni e dei limiti desumibili dall’accertamento giurisdizionale, come esplicitati nella motivazione del provvedimento giurisdizionale del quale di stratta[17].
In tale ottica, l’effetto conformativo rinverrebbe la sua tipicità nel meccanismo impugnatorio, che definisce anche i limiti del contenuto conformativo della pronuncia giurisdizionale, in quanto esige la specificazione dei motivi di impugnazione da parte del ricorrente e non consente al giudice di spingere il suo potere di controllo giurisdizionale oltre i limiti delle censure dedotte.
Una recente sentenza del Consiglio di Stato[18] ha, pressocché testualmente, ribadito i superiori concetti[19].
Se ne potrebbe dedurre che di contenuto conformativo possa, ancora oggi, parlarsi soltanto con riguardo alle sentenze di merito emesse nel tipico giudizio di legittimità e che, solo con riferimento alle anzidette sentenze di accoglimento, esso debba ricercarsi nelle maglie della motivazione, della pronuncia favorevole,
Sennonché, rispetto al suo atto di nascita, potrebbe dirsi, oggi, che il giudizio di ottemperanza ha cambiato pelle.
Già l’art. 33, della l. n. 1034 del 1071, con il comma 4 (aggiunto dall’art. 10, l. 21 luglio 2000 n. 205), ne ha ammesso l’esperibilità per le sentenze T.A.R. non ancora passate in cosa giudicata e non sospese dal Consiglio di Stato; sulla base del combinato disposto degli artt. 112, co. 5 e 114, co.7, il giudizio di ottemperanza può essere proposto per fornire chiarimenti sulle modalità di esecuzione, anche da parte dello stesso commissario ad acta; l’art. 112. co. 1 e 2, c.p.a, ha notevolmente ampliato l’ambito di esperibilità del giudizio di ottemperanza, in correlazione anche alla pluralità di azioni che possono essere proposte davanti al giudice amministrativo e il successivo co. 3 dello stesso articolo, modificato dal primo correttivo di cui al d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, ha reso possibile la proposizione “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza” dell’azione “di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza”, oltre che di quella “di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”[20].
Inoltre, il “nuovo” codice del processo amministrativo (con le modificazioni apportate, all’originario d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, dai correttivi di cui ai d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e 14 settembre 2012, n. 160, ma anche per effetto di successivi aggiustamenti e modificazioni, fino ai nostri giorni) sembra propendere, non soltanto verso una più puntuale ed esplicita enunciazione del contenuto conformativo dei provvedimenti giurisdizionali, anche con riferimento a pronunce con oggetto differente dal tipico sindacato di legittimità[21].
In tale contesto, la formula dell’art. 113, comma 1, c.p.a., in tema di giudizio di ottemperanza, induce a interrogarsi sulla possibilità che il legislatore abbia anche intenzionalmente ritenuto di dover accedere a una nozione di “contenuto conformativo” non rigorosamente ancorata ai soli effetti ulteriori della pronuncia definitiva di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, nella parte in cui, nel recepire interamente il riparto di competenza funzionale fra T.A.R. e Consiglio di Stato (nella funzione giurisdizionale di giudice di appello) già fissata nell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971 (istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali), ha valorizzato la rilevanza processuale del “contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”, senza tenere in alcun conto la pluralità di azioni previste dal codice e dell’altrettanto variegata tipologia di “provvedimenti” giurisdizionali finali, suscettibili di ottemperanza.
Tale convincimento è avvalorato dal comma 1 dell’art. 112 c.p.a.
Il contenuto conformativo delle pronunce amministrative, che aveva fatto dire “il sindacato di legittimità diventa una misura di giustizia in senso distributivo nei rapporti intersoggettivi”[22], nel nuovo assetto del processo amministrativo, sembra dunque emergere, a tutto tondo, nella generalità delle statuizioni di merito del giudice amministrativo, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, co. 1, Cost.[23].
Esso è da considerarsi di tale rilevanza che, secondo l’orientamento recentemente messo a fuoco dal Consiglio di Stato[24], l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Verrebbero così a scindersi, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’Amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri.
Detto questo, deve darsi atto che, ai fini e per gli effetti del giudizio di cui all’art. 113 c.p.a. - al cospetto di una decisione di appello che confermi il contenuto dispositivo della sentenza di primo grado con motivazione non del tutto conforme alla pronuncia di prime cure - l’individuazione del giudice al quale fare risalire la paternità del contenuto conformativo può essere complicato dallo sviluppo argomentativo della pronuncia, la cui complessità affonda le proprie radici nelle connotazioni stessa del giudizio di appello, nel contempo impugnatorio e devolutivo (nei limiti di quanto dedotto nel giudizio di primo grado ed oggetto di gravame in appello).
La vicenda che è alla base della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3485/2020 (oggetto di esame nel paragrafo che precede) costituisce un esempio tipico di “equivoco”, nel quale non sarebbe dato incorrere, se soltanto si tenesse conto che il differente percorso argomentativo - che si sostanzi in un approfondimento e/o ampliamento e/o arricchimento della motivazione di accoglimento del motivo o dei motivi già positivamente vagliati ed accolti dal giudice di primo grado - non modifica, di per sé, né il contenuto dispositivo né quello conformativo della sentenza di primo grado[25], per di più nel caso in cui investa un profilo pregiudiziale (di rito o di merito) rivelatosi poi ininfluente sulla cognizione di merito richiesta al giudice dell’ottemperanza, in ordine alla pronuncia favorevole.
Altra cosa è che il giudice di appello ampli il contenuto conformativo della pronuncia di primo grado o vi imprima una differente portata: è solo in tal caso che può parlarsi di un contenuto conformativo proprio della sentenza di appello, idoneo a incardinare nel Consiglio di Stato la competenza funzionale ai fini del giudizio di ottemperanza, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, c.p.a., che individua nel giudice che ha posto l’obbligo conformativo, quello naturalmente idoneo a garantire il corretto collegamento tra cognizione ed esecuzione, attraverso l’interpretazione della portata effettiva del proprio dictum[26].
La conclusione parrebbe semplice, se non fosse che su tale argomento sono scorsi fiumi di inchiostro[27].
* * *
[1] Quasi sottovoce – con la l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali – il legislatore nazionale ha implicitamente conferito dignità normativa all’applicazione pretoria dell’istituto processuale di cui all’art. 27 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa. Ciò ha fatto con disposizioni (contenute nell’art. 37, co. 3 e 4, della legge citata) aventi a oggetto la distribuzione della competenza funzionale fra giudice di primo e di secondo grado (rispettivamente i T.A.R. di nuova istituzione e il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale) che, implicitamente, danno per acquisito all’ordinamento l’istituto processuale, con l’anzidetta funzione espansiva (rispetto alla formula contenuta nel T.U.). E invece – sebbene al tempo della emanazione del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, fosse superata (anche a livello legislativo) la vexata questio della natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato sui ricorsi proposti dagli interessati per l’annullamento dei provvedimenti definitivi viziati da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere – nell’art. 27 del T.U. fu trasfuso l’originario art. 4, co. 4 della c.d. legge Crispi, senza ampliarne la portata applicativa. O. Quarta, Discorso del procuratore generale della Corte di cassazione di Roma, del 4 gennaio 1910, nel quale si rinviene (pp. 46 e ss.) un’ampia ed argomentata prolusione a sostegno della natura giurisdizionale delle decisioni della Sez. IV del Consiglio di Stato, dà conto di quanto fosse sentito, al tempo, il problema. Alla fine fu la storica sentenza del Consiglio di Stato, n. 181 del 2 marzo 1928, che per la prima volta estese il rimedio di cui all’art. 27 del T.U., anche alle sentenze amministrative, dando avvio a quella che – a distanza di anni – fu tacciata di essere una “bruta normazione giurisprudenziale” (M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Milano 1983, p. 65).
[2] Art. 37, co. 4. l. n. 1034 del 1971.
[3] Fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2005, n. 6767; sez. VI, 20 luglio 2009, n. 4554, nelle quali si rinviene il principio (poi confermato da Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2011, n. 3316) secondo cui la competenza del T.A.R., in sede di ottemperanza al giudicato, resta sempre preclusa quando la pronuncia del Giudice di appello ha diversamente definito una questione di natura cognitoria, ovvero ha diversamente connotato l’esatto significato e la portata della sentenza da eseguire, modificando quindi l’assetto degli interessi definiti in primo grado.
[4] Il che si verifica, come sarà meglio precisato oltre, quando il percorso decisionale attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alla conferma del contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale di primo grado, sulla base di un di percorso argomentativo che si discosta significativamente da quello seguito dal giudice di primo grado. Si veda sul punto Cons. di Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489, citata nella sentenza in commento.
[5] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[6] Per un approfondimento in ordine alla figura del commissario ad acta, V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Milano, 2002, Agg. VI, pp. 284 ss.; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001, pp. 1 e ss.; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell'ottemperanza, in I Tar, Roma, 2001, Fasc. 1, II, pp. 1 e ss.
[7] V. Cass., SS.UU., 28 febbraio 2017, n. 5058, punto 2.5 del “diritto”, in cui si afferma che il giudice amministrativo in sede di ottemperanza è il “giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”; nello stesso senso, Cass., SS.UU., 6 novembre 2017, n. 26259, ma, ancor prima, Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, punto 2 del “diritto”. Sul punto si veda l’approfondimento di F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, in particolare pp. 208 e ss.
[8] Art. 25, co. 1, Cost.
[9] Il problema era emerso già in vigenza della l. n. 1034 del 1971 in assenza, ivi, di regole procedurali sul giudizio di ottemperanza. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 23 del 14 luglio 1978 (su ordinanza di remissione del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana), aveva affermato il principio della inappellabilità dei “provvedimenti” emessi dal T.A.R. nell’ipotesi di cui all’art. 37, co. 1, l. n. 1034, desunto, oltre che dalla coordinata lettura delle regole procedimentali di cui all’art. 90 del regolamento di procedura approvato con r.d. 17 agosto 1907 n. 642, dalle finalità proprie della misura e dal criterio di ripartizione funzionale della giurisdizione fra T.A.R. e Consiglio di Stato, che vedeva, appunto quest’ultimo giudice operare come giudice unico nei giudizi attribuiti alla sua competenza in base ai commi 3 e 4 del medesimo art. 37. Tale rigida impostazione incontrò critiche della dottrina (per tutti, F.G. Scoca, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, pp. 4 e ss. e, più recentemente, C. E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1264) e ripensamenti giurisprudenziali. Il medesimo Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 2 del 1980, ebbe a precisare che le sentenze dei T.A.R. emesse ai sensi dell’art. 37 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 non sono appellabili là dove contengono mere misure attuative del preesistente giudicato, sempre che queste ultime non si sostanzino in statuizioni aberranti o comunque estranee all’ambito ed alla funzione propria del giudizio di ottemperanza; mentre l’appello contro le dette sentenze è consentito là dove il T.A.R. abbia pronunciato – ovvero abbia illegittimamente omesso di pronunciarsi – sulla regolarità del giudizio di ottemperanza, sulla ammissibilità dell’azione esperita, nonché sulla fondatezza della pretesa azionata: dunque, l’appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza del T.A.R. era ammissibile, ma solo quando questa non si limitava a disporre mere misure applicative, ma risolva questioni giuridiche in rito e in merito, pronunciandosi sulla regolarità del rito instaurato, sulle condizioni oggettive e soggettive dell’azione e sulla fondatezza della pretesa azionata. A sua volta le S.U. della Suprema Corte di Cassazione, con sent. 24 novembre 1986, n. 6895 – ribadito l’orientamento espresso nelle sent. nn. 175 del 1984 e 648 del 1982 – ha alfine sciolto ogni dubbio, con articolata motivazione che ha valorizzato, innanzitutto, la natura pienamente giurisdizionale delle sentenze emesse in sede di giudizio di ottemperanza e l’applicazione alle medesime della ordinaria appellabilità contemplata per le sentenze T.A.R., indipendentemente dalla circostanza che l’art. 37 della l. T.A.R. demandasse il giudizio di ottemperanza ai T.A.R. solo per talune specifiche ipotesi, affidando le altre ipotesi direttamente al Consiglio di Stato, in unico grado.
[10] È il caso di ricordare, al riguardo, che la Corte Costituzionale, con sentenza 31 dicembre 1986 n. 301, ha affermato che “le garanzie del doppio grado di giurisdizione assurgono ad oggetto di norma costituzionale soltanto nell'area dell'art. 125 Cost. riflettente l’appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze dei tribunali amministrativi di primo grado”.
[11] V. nota che precede.
[12] Ci si riferisce ai principi euro-unitari e a quelli CEDU e alla loro vincolatività nell’ordinamento interno. Sul tema, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. V, 6 ottobre 2015, e Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 17 novembre 2015, n. 35532, sulle quali pone anche l’accento C. Deodato, I possibili rimedi avverso la sentenza di ottemperanza contrastante con il giudicato, in giustizia-amministrativa.it, 2017, note 8 e 9. Ma è di chiovendiana provenienza il principio della effettività della tutela giurisdizionale, dovuto proprio ai lungimiranti insegnamenti di cui siamo debitori all’illustre Maestro della processualistica italiana, che l’elaborò, ben prima che divenisse “valore” di portata costituzionale. Sul punto, G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1930, Vol. I, pp.101 ss.; Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, ora Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 81, dove si legge che “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire”.
[13] Il pensiero sembra condiviso da C. Deodato, (op. cit. nella nota che precede, pp. 7 e ss.), nell’individuare “i possibili rimedi” avverso le sentenze pronunciate dal Consiglio di Stato, in unico grado, implicante anche il convincimento della sostanziale equivalenza di tali rimedi. Per la precisone, pur non nascondendo l’esistenza di criticità, l’Autore individua come utilizzabili nella fattispecie considerata il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione e la revocazione per contrasto con un precedente giudicato, fornendone poi illustrazione sufficientemente convincente.
[14] Soltanto incidentalmente, si ricordano in questa sede gli interessanti contributi, in tema di spese del giudizio, di M. A. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto di difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, (commento alla normativa) e A. Russo, Spese compensabili solo dopo la specifica descrizione di un contrasto giurisprudenziale in materia, nota a Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2016, n. 10917, in Fisco, 2016, n. 26, p. 2574; nonché, Corte Cost. sent. n. 77 del 2018.
[15] G. Barbagallo, Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano, 1998, p. 233 fa un dettagliato excursus su stile e funzioni delle decisioni del Consiglio di Stato italiano, indicando (come connotazione tipica delle argomentazioni contenute nella “sentenza amministrativa” la funzione “di conformare il futuro comportamento della Pubblica Amministrazione”, con evidente riferimento alle decisioni di accoglimento dei ricorsi giurisdizionali volti all’annullamento del provvedimento lesivo.
[16] C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), VII, Torino, 2017, p. 611.
[17] Vd. nota che precede.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[19] Testualmente, la sentenza citata nella nota che precede precisa che “il giudicato di annullamento di atti amministrativi produce, normalmente, effetti, oltre che di accertamento, di eliminazione, di ripristinazione e conformativi. In particolare, il vincolo conformativo assume una valenza differente a seconda che oggetto di sindacato sia un’attività amministrativa vincolata o discrezionale: i) nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; ii) nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione”.
[20] Per una visione panoramica dei processi evolutivi, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2018, in particolare pp. 287 e ss.; F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, pp. 171 e ss.; Id., Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, pp. 52 e ss.; A. Travi, Il giudizio di ottemperanza ed il termine per l’esecuzione del giudicato, in Giorn. dir. amm., 1995, pp. 976 e ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, pp. 226 e ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, pp. 369 e ss.
[21] Vd., al riguardo, art. 34, c.p.a.
[22] A. Police, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. Amm., 2003, p. 757, con particolare riferimento alla nota n. 63.
[23] Al riguardo, su tutti, si veda M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, pp. 280 e ss.
Una singolare corrente di pensiero, sostenuta dalla Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana (pareristica a cura dell'Avvocatura generale dello Stato), ha propugnato la necessità di codificare una sorta di c.d. “schema conformativo” delle pronunce giurisdizionali di merito, corrispondente a quello inaugurato dal T.A.R. Piemonte, nel periodo 2010/2011 (si vedano le sentt. T.A.R. Piemonte, Sez. I, nn. 1488/2010, 385/2011,785/2011). Eloquente, al riguardo, E. Michetti, Una nuova prospettiva per la giustizia amministrativa – Lo schema conformativo, Montecompatri, 2012, nel cui ambito in particolare si segnalano, F. Bianchi, Prefazione, pp. 2 e ss.; del medesimo Autore, E. Michetti, Prefazione, pp. 6 e sss, nonché, nel volume, Conclusioni – Sperimentazione schema conformativo: obiettivi e finalità per una giustizia “misura”, pp. 151 e ss.
[24] Cons. Stato, Sez. V, 11marzo 2020, n. 1738, cit.
[25] In questo senso, si vedano, fra i più recenti precedenti giurisprudenziali, Cons. di Stato, Sez. IV, 24 novembre 2017 e Sez. IV, 1° febbraio 2017, n. 409 e 2 luglio 2014, n. 3331.
[26] Oltre le sentenze citate nella nota che precede, e la stessa sentenza Cons. di Stato, Sez. VI, n. 5485 del 2020 che ha ispirato il presente contributo, v. anche Cons. di Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612 e A.P., 6 maggio 2013, n. 9.
[27] Vanno infatti ad intersecarsi, con la questione in esame, problematiche di più ampio respiro, quali derivanti dalla natura mista del giudizio di ottemperanza, di cognizione ed esecuzione, che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva. Il giudizio di ottemperanza si caratterizza in modo diverso a seconda della tipologia di provvedimento di cui si chiede l’attuazione e del peculiare contenuto dello stesso. Ad esempio, ove il contenuto conformativo investa il comportamento che l’amministrazione dovrà tenere in seguito ad una sentenza emessa sul silenzio serbato dall’amministrazione in relazione a un’istanza sulla quale il giudice amministrativo ha riconosciuta la sussistenza dell’obbligo di provvedere, lo iussus conformativo deve essere relazionato al tipo di azione e di tutela che l’ordinamento ha consentito di apprestare con tale azione con necessario adattamento degli insegnamenti dottrinali in ordine alla funzione tipica del giudizio di ottemperanza, come. d es., fra gli altri, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, pp. 1025 e ss.