ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari: archivio perché...archivio!
di Rosario Russo
Con il tacito consenso del Ministro della Giustizia, ogni anno il P.G. presso la Suprema Corte emette mediamente oltre 1200 provvedimenti d'archiviazione disciplinare, ma nessuno li può leggere
Lo scandalo delle Toghe Sporche è oggetto di procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Perugia. Inoltre, tutte le condotte dei magistrati inquisiti o coinvolti a diverso titolo dalle intercettazioni pubblicate dalla stampa sono – o saranno –oggetto di indagine disciplinare da parte del P.G. della Suprema Corte. Infatti chi deve garantire il rispetto della legge da parte dei cittadini è tenuto innanzi tutto ad osservare i doveri sommi impostigli dal proprio statuto professionale: «Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni» (art. 1 del D. lgs. n. 109 del 2006).
Per legge, il P.G. ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare, per prevenire che egli possa agire pro amico vel contra inimicum, mentre il Ministro della Giustizia ne ha soltanto la facoltà, che esercita in base a valutazioni sostanzialmente politiche.
In realtà, a fronte di una notizia disciplinare, con motivato provvedimento il P.G. può discrezionalmente archiviare se il Ministro non si opponga espressamente, giacché, per effetto della riforma Mastella risalente al 2006, è stata abrogata la disposizione che riservava al C.S.M. la declaratoria di non luogo a procedere richiesta dal P.G. Al C.S.M., titolare del potere sanzionatorio nei confronti dei magistrati ordinari, pervengono quindi soltanto le notizie disciplinari discrezionalmente non archiviate dal P.G. È tanto palese quanto cospicua, dunque, la differenza rispetto al procedimento penale, in cui il P.M., altrettanto obbligato all’esperimento dell’azione penale, può soltanto prospettare al Giudice l’archiviazione. Per altro, in sede disciplinare il P.G. può archiviare anche in fattispecie alquanto elastiche perché, per legge, «L'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza».
Non è l’unica grave anomalia del sevizio disciplinare: malis mala succedunt. Con sentenza 6 aprile 2020 n. 2309 - in netto contrasto con lo spirito della sentenza dell’Adunanza Plenaria 2 aprile 2020, n. 10 - il C.D.S. ha statuito che l’archiviazione del P.G. è accessibile soltanto al Ministro della Giustizia, restando perciò interamente opaca per l’autore della segnalazione disciplinare e perfino per il magistrato indagato e il C.S.M. Il Giudice amministrativo ha infatti considerato ostativo all’ostensione il decreto n. 115/1996 del Ministero della Giustizia, assumendo tra l’altro che tale provvedimento «si riferisce al rapporto di “dipendenza” lavorativa presso il Ministero, non anche ad un rapporto di dipendenza “gerarchica” del personale dall’amministrazione». È di tutta evidenza, tuttavia, che non solo il rapporto di servizio dei magistrati ordinari, ma anche il loro procedimento disciplinare sono regolati, per disposto costituzionale, da una normativa specifica, ben diversa da quella che regola i dipendenti ministeriali non investiti di funzioni giurisdizionali, sicché è quanto meno azzardato ventilare che il Magistrato ordinario ‘dipenda’ dal Ministro. D’altra parte, neppure il P.G. si adegua alla ricordata decisione del C.D.S., perché di regola egli, allorché l’autore dell’esposto disciplinare chieda di conoscerne l’esito, risponde che l’indagine è stata archiviata, rifiutando l’ostensione della sola motivazione. Talvolta inoltre, sfuggendo al proclamato segreto e alla decennale prassi, è dato leggere in articoli di dottrina giuridica interi stralci della motivazione dell’archiviazione disciplinare.
Perché sono importanti i predetti rilievi? Perché nel periodo 2012-2018 (sette anni) risultano iscritte mediamente ogni anno n. 1380 notizie d’illecito disciplinare (segnalazioni con cui avvocati o cittadini denunciano abusi dei magistrati). Ogni anno il 91,6% di tali notizie (cioè n. 1264) è stato archiviato dal P.G. e quindi soltanto per n. 116 di esse è stata esercitata l’azione disciplinare. Consegue che mediamente ogni anno oltre 1260 archiviazioni sono destinate al definitivo oblio, sebbene conoscerne la motivazione è tanto importante quanto apprendere le ragioni (a tutti accessibili) per cui le sanzioni vengono disposte dal C.S.M. La ‘casa’ della funzione disciplinare, pilastro e primo avamposto della legalità, è dunque velata senza alcuna concreta ragione. Non è così infatti per altre archiviazioni. In ambito penale, se sia stata emessa l’archiviazione, qualunque interessato (indagato, terzo, denunciante o querelante) normalmente ha diritto di averne copia (art. 116 c.p.p.), essendo venute meno le ragioni della segretezza. Le archiviazioni disciplinari nei confronti degli avvocati sono d’ufficio notificate al denunciante; anche quelle nei confronti dei magistrati amministrativi sono ostese a chiunque ne abbia interesse. La segretezza delle archiviazioni disciplinari del P.G. è quindi un inquietante unicum, specialmente a volere considerare che la Corte Costituzionale ha sancito da tempo «l'abbandono di schemi obsoleti, ereditati dalla legislazione anteriore e ancora attivi dopo l'entrata in vigore della Costituzione, imperniati sull'idea, che rimandava ad antichi pregiudizi corporativi, secondo cui la miglior tutela del prestigio dell'ordine giudiziario era racchiusa nel carattere di riservatezza del procedimento disciplinare» (sent. n. 497/ 2000). Anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha sposato il principio generale della trasparenza (delibera del 5.3.2014).
Le indagini penali nei confronti di taluni magistrati membri del C.S.M., coinvolti nello scandalo delle Toghe sporche, inevitabilmente hanno avuto - o avranno – anche un risvolto disciplinare. Se in qualche caso il P.G. archiviasse – com’è in suo potere - non ne sapremo mai la ragione; eventuali archiviazioni in sede penale sarebbero invece accessibili. Absurdissimum, se si considera che, in sede disciplinare (come in sede penale), per il magistrato indagato l’archiviazione rappresenta l’esito più fausto e ambito (una ... medaglia al valore giudiziario), anche rispetto alla sentenza di assoluzione emessa dal C.S.M. o dalle Sezioni Unite (a tutti accessibile).
Mai come in questo momento si rivela fondamentale il principio generale della trasparenza: «Dove un superiore, pubblico interesse non imponga un momentaneo segreto, la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro.» (Filippo Turati, in Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sess. 1904-1908, 17 giugno 1908, p. 22962). Dopo oltre un secolo, introdotta finalmente la legge sulla trasparenza (D. lgs. n. 33/2013), è tempo che, specialmente in questa grave contingenza storica, anche la casa dell’archiviazione disciplinare cessi di essere opaca senza alcuna plausibile ragione. Se la decisione amministrativa o giurisdizionale si distingue da «un pugno sul tavolo» soltanto in virtù della motivazione, non è ormai accettabile che, al cittadino che abbia segnalato qualche abuso dei magistrati, si risponda dicendo: archivio perché ...archivio!
La rinascita della magistratura, ‘disfatta’ dai recenti scandali, ne presuppone la più ampia, spontanea e convinta trasparenza[1].
[1] R. RUSSO, Giustizia è sfatta. Appunti per un accorato necrologio, 8 gennaio 2020, in Judicium.it, diretto dal prof. B. Sassani.
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana. I penalisti: Vincenzo Militello intervista Massimo Donini, Luciano Eusebi e Domenico Pulitanò
Con le tre interviste oggi pubblicate si chiude il ciclo di approfondimenti che Giustizia Insieme ha riservato al dialogo Habermas-Günter, tratto dal settimanale tedesco Die zeit. Si chiude, così come si era aperto, con le note introduttive di Vincenzo Militello, oggi nella veste di intervistatore di tre suoi illustri colleghi dell’accademia penalistica.
La sensazione è quella di avere offerto delle testimonianze che hanno saputo cogliere dai due pensatori tedeschi spunti, riflessioni, provocazioni e prospettive di altissimo livello che hanno arricchito i lettori della Rivista.
Agli Autori che hanno partecipato con entusiasmo a questa iniziativa va, idealmente, il grazie più sincero della Redazione per avere accompagnato un periodo ombroso e cupo dell’esistenza con momenti alti di cultura.
Sommario: 1. Un personale dietro le quinte - 2. Gli attori – 3. Lo scenario – 4. Il canovaccio – 5. Le interpretazioni: Massimo Donini - 6. Luciano Eusebi. Pandemia e diritti fondamentali – 7. Domenico Pulitanò. L’esperienza della pandemia e i problemi del penale - 7.1 L’esperienza della pandemia e del lock down - 7.2 La dimensione costituzionale - 7.3 Obblighi costituzionali di penalizzazione? - 7.4 Limiti del penale e rapporto giustizia/politica - 7.5 Condizioni dell’osservanza. Doveri di solidarietà.
1. Un personale dietro le quinte
Chi si fermasse ad osservare le molteplici discipline coinvolte dalle interviste intorno al dialogo fra i due teorici tedeschi in tema di pandemia e diritti fondamentali potrebbe legittimamente interrogarsi sulla presenza di un penalista come me in un tale dibattito, già dalla pur breve postilla al testo italiano che lo ha avviato. Mi sembra opportuno esplicitare che, se devo alla cortesia e alla fiducia della Direzione di “Giustizia insieme” il coinvolgimento iniziale (per contattare l’editore tedesco che ha pubblicato il contributo in originale), a livello personale la vera ragione del mio interesse si rinviene in un fatto del tutto causale oggettivamente, ma che mi è subito apparso espressione di una ragione immanente alle cose ed altrettanto oggettiva: la sua coincidenza temporale e problematica con un seminario svolto a Palermo proprio nello stesso giorno in cui in Germania appariva il dialogo fra Habermas e Günther.
Nel programmare – insieme ad Alessandro Spena – la discussione seminariale sulle necessità e sui rischi delle restrizioni di libertà connesse al contenimento della diffusione della pandemia è sembrato necessario incrociare prospettive diverse, anche extragiuridiche: all’intervento di un penalista come Massimo Donini si sono aggiunti quelli della sociologa Anna Fici e del psichiatra Daniele La Barbera ("Ritorno al futuro: risposte all'emergenza sanitaria o tappe verso una società autoritaria").
Quando pochi giorni dopo, sempre l’attivissima Direzione della Rivista ha “rilanciato” l’iniziativa, arricchendo il già gustoso piatto offerto dal dialogo di base con la sua apertura ad un confronto a tutto tondo con autorevoli voci della cultura giuridica italiana, non potevo che vedervi un innesto fruttuoso fra le due iniziative, nello spirito di quel “Giustizia insieme” alla base della rivista che ci ospita.
2. Gli attori
Se questo – piccolo e personale – retroscena collega la presenza di Massimo Donini, che aveva già animato il seminario suddetto con un intervento ricco di spunti ora in corso di pubblicazione, le richieste rivolte a Luciano Eusebi e a Domenico Pulitanò si riconducono - quantomeno - alla rispettiva attenzione nei confronti dei temi trattati nel dialogo di Habermas e Günther: il primo, tramite la partecipazione all’analoga iniziativa attivata dalla Rivista subito dopo i primi provvedimenti connessi alla pandemia (Scelte tragiche e Covid 19), il secondo che si è interrogato fra i primi sulle possibili lezioni dall’emergenza per il diritto e la giustizia penale (in Sistema penale, 28 aprile 2020). Tutti hanno accettato di rispondere alle domande predisposte, nello stile delle interviste di Giustizia insieme, più per stimolare l’avvio della discussione sul dialogo dei teorici tedeschi che per porre dei confini tematici ai rispettivi interventi. Il ringraziamento a ciascuno è sentito non solo per aver accettato l’invito, ma soprattutto per averlo declinato – da par loro - con assoluta libertà e autonomia sin dalla struttura dei rispettivi interventi, in un caso rispondendo direttamente alle domande poste, negli altri due trattando variamente e in modo incrociato i temi relativi, oltre ad inserire ampie premesse e collegamenti più generali, sempre attinenti al nucleo dei problemi posti dal dialogo di partenza e agli spunti più direttamente penalistici condensati nelle domande specificamente ad essi rivolte.
3. Lo scenario
Proprio la varietà delle rispettive prese di posizione non rende questa breve introduzione la sede adatta ad un commento adeguato alla portata dei problemi da ciascuno affrontati. Tuttavia, la lettura di esse, specie se incrociata alla luce di quelle precedenti e già numerose provenienti da studiosi di altre discipline, conferma il carattere centrale che ha assunto la questione posta nel dialogo tedesco: il ruolo del bilanciamento fra i beni in gioco e la difficoltà – comune ai vari ambiti - di ricevere da questo principio risposte adeguate di fronte alle scelte tragiche poste con cruda evidenza dalla pandemia. Per i penalisti non è certo una sorpresa: ben prima delle questioni poste dalla pandemia, la questione del bilanciamento si è posta al crocevia della stessa teoria generale del reato, assumendolo come principio che definisce il carattere antigiuridico di un fatto già offensivo del bene penalmente tutelato o piuttosto penetrando già nella delimitazione dell’offesa penalmente rilevante. Ma anche rispetto al dibattito suscitato dal dialogo tedesco sui provvedimenti anti-pandemia, negli interventi di non penalisti il bilanciamento ritorna come tema centrale delle rispettive riflessioni. Si afferma così il suo ruolo di principio teorico generale, benché questa vittoria risulti a ben vedere solo apparente, in quanto proprio il bilanciamento e le sue capacità di offrire risposte alle scelte da operare, per un verso di tutela e d’altra parte di libertà, segna la great division fra le varie risposte fornite alle interviste nei vari settori, e ciò non secondo linee verticali segnate dalle rispettive discipline toccate, ma trasversalmente a queste e in relazione ai singoli punti di vista individuali.
Fondamentalmente si stagliano due approcci differenti se non antitetici, a seconda che il bilanciamento sia ritenuto un principio regolativo necessario per una democrazia rispettosa dei diritti fondamentali, ancorché non risolutivo delle concrete decisioni da assumere in tutti i casi in quanto permane un margine valutativo da riservare alla responsabilità politica; o piuttosto si neghi che di fronte al bene fondativo della vita, altri beni o valori (per quanto più o meno nobili: dalla dignità dell’uomo alla libertà di movimento ed economica) possano avere anche una pur limitata incidenza per delegittimarne la meritevolezza di tutela.
Fra il disincanto realista di chi considera sempre necessario il bilanciamento e il rigore assiologico di chi lo nega in via di principio, per arrendersi solo alla finitudine dei mezzi necessari ad assicurarne la tutela assoluta, si apre però il vero problema. Che è quello posto dai criteri per determinare come operare il bilanciamento nelle molteplici situazioni che si possono dare e specificamente nella tragica concretezza di quelle poste dalla pandemia. Qui i riferimenti teorici, normativi e giurisprudenziali ricorrenti sono proporzione, adeguatezza (e aderenza al sapere scientifico), ragionevolezza: tutti sempre utili per limitare irrazionalità valutative e scelte tiranniche, ma in ultima analisi mai univoci nelle combinazioni reciproche e/o decisivi nelle scelte finali. Anche ad esito delle fertili indicazioni provenienti dal dibattito avviato da Habermas e Günther e sviluppato da tanti autorevoli giuristi italiani nelle interviste connesse si affaccia il rischio che il bilanciamento e le relative regole e discussioni si trasformino in quel “gioco delle perle di vetro”, al quale Hermann Hesse riservava pennellate impareggiabili:
“Queste regole, il linguaggio figurato e la grammatica del Giuoco sono una specie di linguaggio esoterico sommamente evoluto che comprende parecchie scienze e arti (…). Il Giuoco delle perle è dunque un modo di giocare con i valori e col contenuto della nostra civiltà. Esso giuoca con questi come, mettiamo, nei periodi aurei delle arti un pittore può aver giocato coi colori della sua tavolozza…”
4. Il canovaccio
1) Il dialogo fra Hebermas e Günther si incentra su possibilità e limiti in relazione alla pandemia del bilanciamento di beni fondamentali del singolo (vita, salute individuale e d'altra parte libertà individuali, di movimento, di attività economica ecc.), e sottolinea una generale esigenza di proporzionalità e di verifica sull'esistenza di alternative meno limitanti tali libertà, seppure senza pregiudizio del fine di tutelare contro l'infezione. Una prospettiva non dissimile da quella di una politica criminale razionale, che ricorre all' 'arma a doppio taglio' del diritto penale solo in via sussidiaria (extrema ratio) e proporzionata all'offesa che si intende prevenire. Se così è, le difficoltà indicate nel dibattito in merito all'univocità dei risultati che si possono attendere dal giudizio di proporzionalità (ad es. Günther richiama i "fattori di rilevanti insicurezze prognostiche") possono valere se riferite al ricorso al diritto penale?
2) Nella fase acuta della pandemia si è fatto ricorso anche al diritto penale per supportare le forti restrizioni imposte: alla luce del carattere decisamente contenuto dei tassi di disobbedienza rilevati rispetto alle prescrizioni governative, si può ritenere che ciò sia riconducibile all’efficacia general-preventiva dell’apparato sanzionatorio e di controllo, anche penale, o piuttosto – anche alla luce del livello bagatellare delle sanzioni penali inizialmente richiamate – si deve ritenere che l’adesione alle restrizioni imposte sia dovuta più alla presa di coscienza, veicolata capillarmente da vecchi e nuovi media, del carattere estremamente ubiquitario ed elevato del rischio pandemico nella fase della sua maggiore diffusione?
3) Nel confronto fra i riferimenti costituzionali tedeschi a dignità dell’uomo e tutela della vita come elementi da valutare nel bilanciamento con le altre libertà individuali per delineare il livello accettabile del “generale rischio di vita”, il dialogo richiama l’alto rango riconosciuto alla tutela della vita nella sentenza del Bundessverfassungsgericht del 1975 sull’aborto, che per i penalisti tedeschi ed italiani ha avviato il dibattito sugli obblighi costituzionali di penalizzazioni. Pur nella diversità dei riferimenti diretti nella nostra Costituzione rispetto all’art. 1 e all’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, l’incidenza tanto della CEDU quanto della Carta U.E. dei diritti fondamentali come incide oggi anche nel nostro ordinamento sulla questione degli obblighi di penalizzazione di fonte sovranazionale?
5. Le interpretazioni: Massimo Donini
1) I bilanciamenti si fanno sempre. Non esistono beni che si sottraggano al bilanciamento in ambito sociale, legislativo e anche penale. Ciò vale sicuramente anche per la vita, che è dunque “relativizzata” e per nulla assolutizzata nel discorso giuridico internazionale e nazionale. Già la dialettica tra vita dei singoli e della collettività esplicita il problema. Salute individuale e collettiva, o pubblica, sono beni che possono entrare in conflitto.
Quando qualcuno dice che esiste un bene non bilanciabile – rammento che per la cultura tedesca dopo il 1945 ha assunto spesso tale preteso carattere il valore della dignità umana consacrato nella legge fondamentale della RFT all’art. 1 – si dimentica di compiere un’analisi lucida della realtà normativa e dei valori in campo. Il carcere, per es., salvo immaginarselo come un hotel a molte stelle, è un luogo che avvilisce la dignità, ma spesso anche le caserme dove si resta in detenzione per varie ore o qualche giorno, lo stesso processo penale con la sua violenza morale, i rapporti con l’autoritarismo dei magistrati, l’esercizio della forza dello Stato contro qualche accusato o imputato, sono forme insuperabili di avvilimento della dignità. In alcuni Paesi i tratti della violenza di Stato sono meno forti, in vari altri sono terribili. Questi però non sono problemi di fatto, ma di diritto: in Germania si pensa che la dignità sia un valore assoluto, ma soprattutto quando si tratta di assicurarla all’interno dei confini nazionali. Non appena l’economia tedesca entra in conflitto con la dignità di altri soggetti di diritto esterni, i bilanciamenti si moltiplicano. Per non parlare della dignità del ladro a cui si può sparare per difendere la proprietà e l’ordinamento se il valore dei beni da proteggere è superiore a 50 euro[1].
Molti hanno pensato che nell’affrontare l’emergenza sanitaria covid-19 lo Stato italiano non avrebbe fatto bilanciamenti, perché ha assunto la salute collettiva come bene primario al quale subordinare tutti gli altri, almeno nella fase più rigorosa del lockdown nei mesi di febbraio-aprile 2020. Chi pensa questo non considera che anche se si sono sacrificati beni quali libertà, affetti, rapporti sentimentali, salute individuale psichica e a volte fisica, lavoro, economia etc. a favore della salute pubblica, un bilanciamento è stato fatto, soppesando come più meritevole, in quella fase ma non in assoluto, un bene rispetto ad altri. E tuttavia le sanzioni non sono state draconiane. Persino il diritto penale ha fatto un passo indietro.
Che poi la salute pubblica sia risultata in seguito del tutto bilanciabile, lo si è visto non appena tutti hanno capito quali sarebbero state le conseguenze economiche della prosecuzione di una segregazione più prolungata. E quando si è visto che il consenso sociale sarebbe venuto meno in caso di mancato allentamento delle misure di contenimento.
Non solo. Anche durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, la situazione nelle strutture ospedaliere più gravate di richieste di ricovero ha comportato ulteriori bilanciamenti ad esempio tra malati gravi e meno gravi, ovvero più anziani e a prognosi infausta e meno anziani o a progni più favorevole, così imponendosi bilanciamenti all’interno della stessa gestione della salute pubblica. In quei momenti si sono compiute scelte vicine a quelle della medicina di guerra, da campo militare.
In tale contesto, e più in generale, il profilo dell’incertezza prognostica è una componente inevitabile della valutazione del rischio.
Ciò accade sempre anche in ambito penale e si riflette nel bilanciamento tra i beni più o meno importanti. Un rischio privo di basi scientifiche collaudate, per es. di tipo puramente “precauzionale” – non: quello tipico di ogni normale regola “prudenziale” – non può sorreggere politiche repressive di beni fondamentali ma deve essere proporzionato a sanzioni più lievi, per es. amministrative.
Il rischio è precauzionale quando manca una base cognitiva ad evidenza scientifica della sua consistenza, misurabilità e predittibilità.
Considerato tale contesto, bisogna apprezzare come ragionevole la scelta legislativa di non ricorrere alla sanzione penale per le inosservanze più formali di contenimento, inizialmente minacciate con la pena dell’art. 650 c.p.
Purtroppo non sempre si registra questa ragionevolezza. La politica legislativa di criminalizzazione a tappeto contro il mercato delle droghe, soprattutto quelle leggere, a fronte della libertà di uccidere o fare ammalare decine di migliaia di persone per effetto del fumo di sigaretta, è una riprova evidente di come siano diverse le politiche in materia di salute pubblica e anche di diritto punitivo.
2) La prova dell’efficacia general-preventiva delle sanzioni penali è da sempre priva di evidenza scientifica. O meglio: la prova quantitativa, la dimostrazione scientifica, la spendibilità di leggi di copertura. È però di common sense la convinzione di una efficacia motivante della paura di pene criminali. Non è dissimile dal principio di precauzione cui abbiamo fatto cenno, salvo che qui la precauzione legittima ogni intervento criminalizzante. Ciò consente, in assenza di leggi – si noti bene – di utilizzare sempre politicamente lo strumento penalistico (il penale incute più timore, se non è penale si può commettere, o si potrebbe mettere nel ‘budget’ la sanzione extra-penale per “comprare” così la violazione) con l’argomento o con il pretesto che sarebbe sempre o più efficace o utilizzabile nel dubbio.
Nel caso della buona tenuta delle regole di isolamento e distanziamento sociale ritengo che siano stati convergenti il timore di sanzioni amministrative pecuniarie (più efficaci delle ammende oblazionabili della contravvenzione inizialmente messa in campo) e la persuasione dell’interesse collettivo al rispetto di regole cautelari che interessavano le famiglie nel loro complesso, gli anziani in primo luogo, ma a scendere proprio tutti: un interesse nazional-popolare vissuto a tratti anche con forte partecipazione massmediatica: una prevenzione generale “positiva”, dunque, che interiorizzava valori e regole, piuttosto che veicolare le paure sanzionatorie proprie della prevenzione generale negativa. La paura più forte è stata quella del virus.
3) Gli obblighi di tutela sono più importanti degli obblighi di penalizzazione. Infatti, la forza vincente degli obblighi di tutela non può affidarsi alle pene come strumento principale.
Anzi. Occorre dire apertamente che solo gli obblighi di tutela sono ciò che le Costituzioni veramente impongono, al di là di quanto opinato in alcune sentenze di organi politico-giurisdizionali come la Corte di Giustizia dell’UE.
Quanto al diritto penale i veri unici obblighi derivano dal rispetto di una doppia sussidiarietà: quella penale e quella europea.
La sussidiarietà penale (che è una declinazione a base empirica e non solo assiologica del principio di ultima ratio), esige che si privilegino strumenti meno invasivi e lesivi della sanzione penale, e che in concreto sia comunque applicata la sanzione penale meno afflittiva, se non necessario. La sussidiarietà europea è anch’essa un principio che va oltre la proporzione e si basa su una valutazione delle conseguenze delle leggi e su una valutazione ex ante ed ex post delle motivazioni delle leggi europee in ordine alla insufficienza delle sanzioni nazionali, se non armonizzate anche in termini punitivi a livello UE.
Qualunque Stato membro, invece di applicare pedissequamente tradizionali penalizzazioni a tappeto, può evitare la criminalizzazione se rispetta i principi ora detti.
Nel complesso devo dire che sino a ora si è avuta l’impressione che l’emergenza abbia rinsavito la fame penalistica dei governi e dei parlamenti, in nome della solidarietà nazionale e internazionale. Quando la bufera sarà passata, aspettiamo di verificare se la bulimia penalistica degli ultimi lustri abbia tratto giovamento da questa terapia d’urto imposta dal Corona Virus, e con essa anche una diversa capacità di dialogo con le competenze scientifiche.
6. Luciano Eusebi. Pandemia e diritti fondamentali
Ritengo necessario far precedere una serie di considerazioni, circa i quesiti proposti, ad alcune risposte sintetiche:
Il rilievo del tema – bilanciamento tra beni giuridici ed esigenze di contrasto della pandemia – è indubitabile. Eppure, riterrei siano da evitarsi, in proposito, eccessi di concettualizzazione giuridica suscettibili di trascurare lo stato dei fatti, offrendo immeritati inquadramenti teorici a scelte (personali o politiche) antisolidaristiche, le quali nulla hanno a che fare con la salvaguardia dei principi di libertà propri dell’ordinamento costituzionale democratico e, a fortiori, con il contrasto di potenziali involuzioni autoritarie dello Stato. Un’esigenza di salvaguardia, questa, che ha bisogno di ben altre battaglie, piuttosto che eluderle sparando cannonate contro obiettivi fittizi: con ciò offuscando, semmai, la percezione del rischio – esso sì effettivo – di perpetuare nel tempo prassi di minor tutela dei soggetti più deboli, non di rado accreditate, oggi, facendo leva su una nozione equivoca di necessità riferita alla fase dell’emergenza sanitaria, o sull’intento – davvero liberal? – di non poter chiedere troppo per esigenze di prevenzione (sovente, nemmeno l’inessenziale) a chi, salvo sorprese, ritenga di non aver molto da temere.
È una preoccupazione, questa, in qualche modo avallata dal fatto per cui si parla quasi sempre, nei dibattiti giuridici in corso, di bilanciamenti tra diritti, rimanendo con ciò nell’ombra che certe rimodulazioni nel loro esercizio sono da correlarsi a un altro termine di pertinenza giuridica esso pure riferibile ai singoli soggetti interessati, che è quello del dovere: non, dunque, all’esercizio di un odioso potere pubblico che – invertendo Robin Hood – toglie (diritti) a qualcuno per dare (diritti) a qualche altro, ma all’attuazione di ciò che costituisce il patto fondativo stesso della democrazia, quale risulta espresso, specie attraverso le sue parole finali, dall’art. 2 della Costituzione.
Si tratta di un termine, nel senso tedesco del sollen, che invero non pochi hanno praticato eroicamente, ben al di là dell’obbligo giuridico, proprio nel periodo della massima emergenza. Sebbene venga menzionato con circospezione in sede politica, quasi vi si veda, oggi, qualcosa di infido, perfino di un po’ totalitario, e, comunque, di poco produttivo sul piano elettorale. In controtendenza (fortunatamente) il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), che nel parere del 28 maggio 2020 su Salute pubblica, libertà individuale e solidarietà sociale argomenta per gran parte con riguardo, per l’appunto, al concetto di solidarietà.
Ammetto subito, peraltro, che non scrivo frigido pacatoque animo. Dalle mie parti i deceduti sono stati migliaia e migliaia, i tassi di mortalità sono schizzati all’insù rispetto allo scorso anno in modo impressionante e moltissimi ora fanno i conti con danni collaterali pesanti. Lo dico perché una certa contiguità, non solo mediatica, con la tragedia incide su alcuni punti di vista. E può non essere un male. Di qui alcune valutazioni generali, necessarie rispetto ai temi sollevati.
In certe zone a rischio di contagio diffuso le limitazioni e, in particolare, il restare a casa (beninteso, con tutti i problemi connessi, dalle diversità delle situazioni abitative, alla deprivazione dell’accesso scolastico, all’incidenza sui rapporti parentali o amicali, e così via), sebbene imposte per il bene comune, hanno rappresentato nel concreto – in primo luogo – un privilegio: vale a dire l’autorizzazione, di cui molti non hanno potuto usufruire (personale sanitario, pubblici amministratori e lavoratori del settore pubblico, soggetti impegnati in attività economiche essenziali, ecc.), a non correre rischi derivanti dall’esercizio delle attività lavorative, o di frequenza scolastica, ordinarie. Personalmente, mi annovero tra i fortunati. Con una certa vergogna per non aver dovuto rischiare, come altri, di più. Piuttosto, il problema – vi ritorneremo – è stato quello delle persone confinate in casa, o nelle residenze assistenziali, perché malate – o con sintomi tali, per utilizzare ritornelli giuridici, da esservi motivi (più che) ragionevoli per sospettare l’avvenuto contagio – e rimaste di fatto senza supporto medico nella più disperante solitudine, in moltissimi casi fino alla morte (con la beffa, se può passarsi il termine, di nemmeno essere annoverati, a quel punto, come deceduti per la pandemia covid-19, vale a dire di esser spariti nel nulla).
Ventilare il pensiero secondo cui, per far salva la vita (di alcuni), nel suo bios, si cadrebbe nel pericolo di compromettere (in ognuno) «tutto il resto della vita» – nodo, questo, richiamato da Massimo Donini (incontro su Ritorno al futuro: risposte all’emergenza sanitaria o tappe verso una società autoritaria?, e-club dell’Università di Palermo, 9 maggio 2020), in riferimento ad Agamben – mi parrebbe a sua volta, nel caso di specie, un’esasperazione. Non potremo certo esigere che taluno doni un rene per salvare un altro, ma qualcosa potremo pure chiedere a rischianti minori per la tutela di rischianti maggiori, a meno che soggiaccia il retropensiero che questi ultimi contino davvero molto poco. È ben vero, come afferma il Comitato etico tedesco richiamato nell’intervista in die Zeit, che «un rischio generale di vita» dovrebbe «essere accettato da ciascuno», altrimenti bisognerebbe vivere come il Kaspar Hauser di Feuerbach (sempre che poi, però, non si desti, rispetto a chi quel rischio verso altri non l’abbia eliso, il sempre famelico circuito penalistico: qualcuno ricorderà le preoccupazioni riferite da Claus Roxin, argomentando sul dolo eventuale, in merito alla prima escursione su un sentiero di montagna cui aveva condotto suo figlio). Per cui, trattandosi di arginare, nella mia città, un numero di morti divenuto presto assai superiore alle vittime civili, nonostante i bombardamenti, di tutta la seconda guerra mondiale, forse qualche limitazione, in effetti, ci poteva ben stare, e qualche cautela per non rinnovare l’esperienza può ben permanere. Senza troppi patemi circa la stadera da utilizzarsi per il giudizio di proporzionalità: tanto più perché le limitazioni oggi necessarie non appaiono davvero così invasive. Nessuno infatti, pone in dubbio che le attività ordinarie debbano riprendere, come in effetti sono, per gran parte, riprese (ma nella mia provincia, non certo secondaria in quel settore, ben più della metà della produzione industriale non s’è mai interrotta). Esse, tuttavia, vanno gestite secondo certe modalità, che non pongono, mi pare, vincoli di molto superiori a quelli che si richiedono circa ordinarie attività pericolose. Certo, si tratta di modalità in qualche caso nuove, come quelle riferite, soprattutto, alla riorganizzazione della attività scolastiche: comunque, non certo tali da rendere invivibile la vita. Così che il pericolo vero dipende dalla demagogia, cioè dall’intento (politicamente allettante) di non esigere più nemmeno il facilmente tollerabile, perché esigere, tanto più in democrazia, implica un’assunzione di responsabilità maggiore di quella (tutta liberale?) del lasciar fare. Non è cosa ignota: dinnanzi a nuove fonti di possibile rischio, si danno nuove esigenze precauzionali, che costano sempre, a tutti, un maggior impegno; e se rispetto a specifiche attività non potesse, ancora, tornarsi a parlare di un rischio (a certi condizioni) consentito, si dovrebbe intervenire con forme solidali di sostegno sul piano economico. Senza dubbio c’è, in proposito, un margine di apprezzamento da parte della politica (cfr. F. Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, in Sistema penale, 26 aprile 2020; D. Pulitanò, Lezioni dell'emergenza e riflessioni sul dopo. Su diritto e giustizia penale, ivi, 28 aprile 2020): purché non asservita alla ricerca facile del consenso hic et nunc, ‘poi si vedrà’, o ai gruppi di interesse economici di cui si parla all’inizio dell’intervista. Francamente, dover riascoltare in nome del diritto fondamentale a una movida incontrollata o ai festeggiamenti calcistici, o in nome delle esigenze immediate di mercato erette a paradigma univoco, i racconti drammatici delle nostre terapie intensive, dove s’è fatto (letteralmente) l’incredibile per cercare, senza potervi riuscire sempre, di far respirare tutti i malati che riuscivano a giungere in ospedale, non mi alletta. Anche perché se la cosa sfugge di mano (e i dati internazionali lasciano molta inquietudine, in un mondo sempre meno blindabile per aree), allora sì che può determinarsi una catastrofe economica devastante, in linea con certe decimazioni medioevali della popolazione a seguito degli eventi epidemici: ben oltre cadute reversibili, ancorché non banalizzabili, di una decina di punti nel PIL.
È riscontrabile, peraltro, un’evidente schizofrenia. E il diritto (ma non solo) penale, in ciò, non aiuta. Da un lato ci si chiede, a ragione, perché non siano state adottate, ab initio, misure restrittive più rigorose, specie per certe aree. Dall’altro lato, si ipotizzano illegittimità, perfino di carattere costituzionale, rispetto a liberalizzazioni non (ancora) attivate. Col rischio della paralisi decisionale, posto che ogni soluzione, giuridicamente, è a rischio. Se si prende una misura, e gli eventi lesivi che essa mira a evitare non si verificano, si porrà subito in dubbio che quella misura abbia avuto effetto causale impeditivo e, dunque, che fosse necessaria: col possibile addebito dei danni, o dei costi economici, che essa abbia comportato per alcuni, se non dell’eccesso di potere o dell’abuso d’ufficio. Se non la si prende, o la si prende male, sono in agguato i delitti contro la salute pubblica, i delitti colposi contro la persona o l’ineffabile sfera applicativa del reato omissivo improprio. Da cui facili atteggiamenti difensivi, intesi, per esempio, a non assumere una responsabilità se non nel quadro di una parcellizzazione pressoché inestricabile delle competenze o assecondando il sentire sociale corrente, se non gli stakeholders dominanti. Ma anche con l’effetto dell’indisponibilità ex post a qualsivoglia trasparenza, cioè all’ammissione, giuridicamente rischiosissima, del fatto che, forse, si sarebbe potuto agire meglio, in modo da farne tesoro per l’avvenire. Il che impone di considerare se davvero il fine prioritario dei processi penali debba essere quello, riconosciute determinate responsabilità, di condannare, e non, invece, quello di fare verità per migliorare, rispetto al futuro, gli stili comportamentali individuali e pubblici (subordinando a quel fine i modi, e la necessità stessa, delle condanne). Così che per esempio, rispetto alla querelle in atto circa la concessione della semilibertà in Germania ai principali responsabili della tragedia ThyssenKrupp, sarebbe interessante, piuttosto, un impegno veemente inteso a verificare se, dopo quella vicenda, sia davvero cambiato qualcosa circa lo stato di inefficienza dei controlli sul rispetto delle norme antinfortunistiche nelle aziende: evitando che la condanna funga da alibi per far sì che tutto resti così com’era). In merito alle carenze nella gestione della vicenda covid-19 la realtà, del resto, è che essa lascia emergere una gigantesca ipotesi di colpa d’organizzazione, la quale impone inversioni di rotta da non eludere attraverso qualche condanna esemplare e qualche capro espiatorio. È facile richiamarne alcuni aspetti: l’incredibile constatazione della (letterale) mancanza a inizio pandemia, non risultandone remunerativa la produzione in Italia, di presidi banali (mascherine, guanti, camici et similia) per l’approccio in sicurezza ai malati contagiosi (il che ha prodotto un numero del tutto inaccettabile di vittime tra il personale sanitario e ha fatto sì che molti ospedali divenissero nel medesimo tempo luoghi di possibile salvezza e di diffusione del contagio); la carenza, molto a lungo, di un numero di tamponi corrispondente alle necessità; il non aggiornamento e la non implementazione dei piani di contrasto delle pandemie virali predisposti in corrispondenza di meno diffuse vicende epidemiche pregresse; la marginalizzazione, in non pochi contesti, della rete socio-sanitaria territoriale; la tendenza diffusa a collocare per motivazioni politiche in ruoli di responsabilità nell’ambito socio-sanitario, per esempio con riguardo alle residenze per anziani, soggetti carenti di competenze professionali adeguate in tale ambito; l’assenza di linee guida accreditate circa la protezione da epidemie delle comunità di persone vulnerabili; la già menzionata difficoltà (e sovente l’impossibilità) delle persone confinate in quarantena di poter ricevere assistenza sanitaria almeno da remoto o di usufruire a domicilio delle bombole d’ossigeno, pur quando indispensabili; in genere, la progressiva riduzione da anni, sottotraccia, dell’impegno economico nel settore sanitario, con le conseguenti carenze di organico negli ospedali e la contemporanea impossibilità d’accesso, per moltissimi laureati in medicina, alle scuole di specializzazione; la contrazione, che ne è derivata, dei tassi per abitante delle postazioni di terapia intensiva e subintensiva (e per fortuna che almeno un importante produttore nazionale di respiratori lo avevamo). Ma si potrebbe proseguire. Tutto questo incide nello stabilire che cosa debba valutarsi come (doverosamente) proporzionato a fini di tutela della vita. Troppo facile sarebbe considerare certe morti inevitabili, riguardando solo l’ultimo anello della filiera. «A seconda di quanto una società abbia ben costruito e mantenuto efficiente il suo sistema», così osserva opportunamente Klaus Günther», «varia il confine tra conseguenze mortali inevitabili ed evitabili dei ‘rischi generali per la vita’».
Proprio da quest’ultimo punto di vista, il concetto di bilanciamento in quanto criterio dei giudizi di proporzione – oggi tra i più gettonati perché consente scelte di campo ben precise, tuttavia evocando l’idea suadente del diritto mite – si è rivelato tra i più equivoci (o, se si vuole, tra i più fluidi). Lo dice bene Jürgen Habermas: «Nel corso del processo di bilanciamento […] i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro. Ma, alla fine, la prevalenza resta di uno, il che significa che questo fa fuori tutti gli altri». Come altrettanto bene spiega Federico Consulich (Lo statuto penale delle scriminanti, Torino, 2018, pp. 41 ss.), a confutazione dell’autonomia di c.d. scriminanti (meramente) procedurali: esse sottendono, «dietro un’apparente neutralità, l’opzione pubblica per una delle due posizioni valoriali in campo», per cui «l’accento posto sul procedimento piuttosto che sul risultato autorizzatorio» «in realtà sancisce la prevalenza di un interesse o di un obiettivo di politica del diritto sull’altro». La logica del bilanciamento rimanda, in effetti (lo avevo sostenuto su Giustizia insieme, in un forum recente dal titolo Scelte tragiche e Covid-19), al criterio dell’aut-aut, che seleziona alcuni fattori rilevanti, considerandoli statici, nel contesto di un conflitto fra beni e, su tate base, decide che cosa tutelare e che cosa no. Mentre riterrei che la strada da percorrere debba essere, prioritariamente, quella dell’et-et, fin dove possibile. Com’è in larga misura avvenuto, nonostante i deficit iniziali sopra segnalati, nella gestione italiana della pandemia. Posto che da parte dei più, sul campo, non s’è affatto limitato a priori – tracciando sulla carta il limite del proporzionato rispetto alle criticità suddette – lo sforzo spendibile per la salvezza di altri, ma s’è cercato di dilatare enormemente quello sforzo, specie con riguardo agli strumenti sanitari disponibili ed anche con notevole rischio personale. Non escluso l’impegno posto in essere – altrimenti si sarebbe ingenerosi con chi s’è trovato a dover gestire responsabilità organizzative nei confronti dell’ignoto – pure nell’ambito politico-amministrativo. Così che, in particolare, il criterio di allocazione delle risorse sanitarie è potuto rimanere quello clinico, secondo l’indicazione dello stesso CNB: «ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età anagrafica, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, è ritenuto dal Comitato eticamente inaccettabile». Entro il quadro, ovviamente, di strategie complessive intese a garantire l’impiego proficuo più ampio possibile delle risorse sanitarie e sulla base di valutazioni, nel caso concreto, fondate sull’appropriatezza clinica, anche in rapporto alle esigenze di fruizione attuale delle risorse sanitarie: ma pur sempre escludendo «automatismi e scelte aprioristiche nell’accesso ai diversi percorsi di cura» (cfr. il parere Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del ‘triage in emergenza pandemica’, dell’8 aprile 2020, n. 3). Dovendosi evitare infingimenti, tuttavia, circa il fatto che l’obiettivo di assicurare tutela sanitaria adeguata a tutti i malati di covid-19 che ne avrebbero avuto bisogno, non è stato raggiunto, e non solo rispetto a un numero ridotto di casi sporadici: posto che, come s’è detto, molti di quei malati sono rimasti privi, addirittura, di qualsivoglia supporto sanitario, costituendo, quest’ultima, la sconfitta bioetica più cocente, finora, della vicenda covid-19 in Italia. Che del resto il rimando alla parola magica dei bilanciamenti non abbia consentito, in genere, una reale valorizzazione di tutti gli interessi comunque rilevanti in una data situazione concreta emerge in modo chiaro con riguardo alle normative, più volte evocate nell’intervista in die Zeit, sull’interruzione volontaria della gravidanza. S’è ben visto qual è stato, infatti, il livello reale dell’impegno di aiuto alla donna in termini di «rimozione delle cause» che la condurrebbero all’aborto, così come richiesto, in particolare, dall’art. 5 della l. n. 194/1978: vale a dire circa la prevenzione (primaria) di un fatto che, pure, recide una vita umana e incide pesantemente sul vissuto futuro di una donna. E ciò sebbene l’effettività di tale aiuto rappresenti un’esigenza basilare di valorizzazione della dignità stessa della donna, come efficacemente emerge nel parere su Aiuto alla donna in gravidanza e depressione post partum, approvato sulla base di un’amplissima convergenza pluralistica dal CNB nel dicembre 2005. Sei milioni di aborti legali, in Italia, nel quarantennio post 1978 non costituiscono un dato trascurabile. Né lo diventano in forza del ridursi, da tempo, dei tassi annuali, stante, fra l’altro, il minor numero delle donne in età fertile, ma altresì il diffondersi del ricorso alla pillola del giorno (o dei cinque giorni) dopo: che, a seconda del momento dell’assunzione durante il ciclo femminile, può agire anche impedendo l’annidamento in utero dell’embrione già formato, per cui quest’ultimo, con ciò, perde a priori ogni rilievo, nonostante il rango assegnatogli dalla Corte costituzionale ex art. 2 Cost. (è bastato, per rimuovere il problema, dilazionare la definizione di inizio della gestazione all’avvenuto annidamento). Come, del resto, quel rango si è rarefatto, con riguardo alle argomentazioni della medesima Corte sulla c.d. diagnosi preimpianto, nel mero diritto – davvero invidiabile – degli embrioni generati e poi scartati a essere posti in stato di congelamento, sine die né speranza. Trascurando, oltre a qualche norma non caducata della legge n. 40/2004, i rilievi dello stesso Habermas, che ravvisava già anni orsono nella generazione di embrioni «con riserva», essendosi già programmata la successiva selezione tra gli stessi, una logica di dominio radicale dell’esistenza altrui, antitetica rispetto al principio di uguaglianza (cfr. Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale [2001], trad. it. Torino, 2002).
Anche per quanto concerne le «insicurezze prognostiche» appare necessario distinguere: esse riguardano essenzialmente l’evolversi della patologia covid-19, le strategie mediche finalizzate a curarla e gli studi sperimentali in atto per addivenire a un vaccino efficace nei suoi confronti. Non riguardano invece, se non in modo secondario, le modalità necessarie per limitare il diffondersi del contagio, cioè i provvedimenti dei quali discutiamo in questa sede: posto che tali modalità sono largamente assodate e, laddove poste in essere, hanno dimostrato un’indubbia, ancorché non risolutiva, efficacia. Tanto che il dibattito ha avuto per oggetto, in merito, non l’utilità di quei provvedimenti, ma la loro estensione contenutistica e temporale in rapporto all’andamento della pandemia, vale a dire l’accettabilità di un certo livello del rischio (peraltro non facilmente identificabile) correlato a diverse graduazioni dell’intervento, col fine di non incidere troppo su esigenze di ordine esistenziale, economico e sociale. Quello che era da farsi, salvo deciderne il quantum, risultava piuttosto chiaro, una volta percepita la gamma degli effetti possibili del contagio in assenza di cure sicuramente efficaci e l’estensione del contagio a livello locale e nazionale. E lo stesso criterio cui ispirare gli interventi indiscutibilmente necessari era, e resta, piuttosto chiaro: far sì, cioè, che i tassi di rilevamento del virus indichino un trend di diminuzione del contagio, vale a dire, statisticamente, che il numero dei nuovi contagi non produca un numero eguale o maggiore di ulteriori nuovi contagi e si riduca, poi, in modo progressivo. Il che, inoltre, rende palese l’esigenza di un riferimento nazionale credibile sul piano scientifico, in grado di offrire alla responsabilità politica le informazioni sanitarie – in particolare, epidemiologiche – ineludibili onde operare scelte rispondenti ai criteri summenzionati.
L’informazione sulla pandemia è stata, riterrei, piuttosto capillare. Tanto da lasciar emergere chiaramente gli stessi limiti insiti nei dati disponibili e pubblicizzati: per esempio, con riguardo alla differenza, emersa rapidamente, tra l’aumento massiccio, in certe zone, dei tassi generali di mortalità e il numero, molto minore, dei deceduti dopo essere stati riconosciuti come affetti dal virus SARS-CoV-2. E di simile trasparenza è parte anche la non univocità dei pareri scientifici talora emersa su alcuni aspetti prognostici della pandemia e sulle prospettive del suo contrasto da parte della medicina: meglio un’informazione nitida circa la (riscoperta) non onnipotenza da ascriversi alle risorse scientifiche e circa la fatica dell’ottenere conoscenze affidabili, di un’informazione manipolata, che tolga paternalisticamente all’opinione pubblica, quale ne sia il fine, una percezione realistica e responsabilizzante dei problemi. Chi lo ha voluto, in effetti, un’idea circa lo status quaestionis la si è potuta fare. Piuttosto, ciò che può preoccupare è l’uso di una propria autorevolezza, sul piano politico, per formulare proposte o diffondere messaggi aventi fini (demagogici) diversi da quelli intesi a una gestione responsabile della pandemia, oppure, sul piano scientifico, per intenti di protagonismo suscettibili di minare la fiducia dell’opinione pubblica in una comunità dei competenti armonica, poiché impegnata, pur nel confronto delle opinioni e delle esperienze di ricerca, per il bene di tutti.
Desta, infine, non poca sorpresa la passione neo-garantista circa il ruolo del parlamento che in taluni sembra essersi risvegliata proprio nell’occasione dei provvedimenti adottati dal governo per il contrasto della pandemia: dopo che per anni il ruolo del potere legislativo è stato largamente delegittimato in più sedi, non senza ricorrenti giustificazioni di simile trend anche in quella accademica. Chi scrive ritiene di potersi trovare, in proposito, al di sopra di qualsiasi sospetto, avendo ribadito più volte e pure di recente (valga lo scritto Legalità, non oligarchie: profili penalistici, in disCrimen, 24 giugno 2020) il ruolo non surrogabile del parlamento, e dunque della divisione tra i poteri, nell’ambito dei sistemi democratici. Ma, francamente, quali provvedimenti diversi, nella sostanza, avrebbe dovuto prendere il parlamento rispetto a quelli, pressoché necessitati, adottati dal governo per arginare il diffondersi della pandemia? Si sarebbe dovuto, forse, perdere ancor più tempo a disquisire (visto che già alcuni ritardi iniziali hanno avuto conseguenze tragiche) prima di decidere? E se c’è un ruolo proprio del governo, dal punto di vista costituzionale, non è proprio quello di far fronte – fermo il rispetto della legislazione vigente e dei principi sanciti dalla Costituzione – a esigenze immediate di intervento? È proprio così deteriorato il sistema democratico italiano da non poter emergere, almeno in momenti particolari (come pure è avvenuto in certi momenti gravi della storia del nostro Paese), una solidarietà costituzionale di fondo fra le componenti politiche, pur nella strutturale articolazione delle medesime in forze di maggioranza e di minoranza? Vogliamo ricordare le parole – purché non le si legga a senso unico – rivolte in Portogallo dal capo dell’opposizione (Rui Rio) a quello del governo (Antonio Costa) quando andò inasprendosi la pandemia: «La minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà, senso di responsabilità. Per me, in questo momento, il governo non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione, ma di collaborazione. Signor primo ministro, conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna perché la sua fortuna è la nostra fortuna»? Un approccio che, pare, non sia rimasto affatto ininfluente sull’efficacia delle misure in quel Paese.
Venendo dunque specificamente, in breve, alle domande proposte:
1) In rapporto a quanto s’è detto, pare difficile stabilire parallelismi tra i giudizi di proporzionalità concernenti le misure di contrasto relative al diffondersi del virus SARS-CoV-2 e i giudizi inerenti alla proporzionalità dell’intervento penale in termini di extrema ratio, quale arma a doppio taglio, rispetto alle esigenze di prevenzione delle offese a determinati beni fondamentali.
Da un lato, infatti, l’ambito di efficacia preventiva connessa all’entità delle pene detentive tradizionalmente inflitte risulta assai più incerto rispetto all’ambito di efficacia delle misure anti pandemia covid-19 finora adottate.
Dall’altro lato, la limitazione nell’esercizio dei diritti fondamentali prodotta dalle suddette misure risulta, comunque, di molto inferiore a quella derivante dalla detenzione in carcere (e, per molti aspetti, anche dalla detenzione domiciliare), nonché assai meglio supportabile, per esempio con riguardo agli effetti sulle attività lavorative, attraverso provvedimenti di sostegno economico-sociale.
La gran parte dei diritti non sono stati cancellati, in realtà, dai provvedimenti connessi all’emergenza sanitaria, ma hanno dovuto ricercare e sperimentare modalità nuove della loro espressione (sul piano del lavoro, dell’istruzione, dell’espressione del pensiero, e così via).
Il problema di fondo, peraltro, è che ci si dovrebbe affrancare dall’idea che la proporzionalità dell’intervento penale vada intesa come riferita a una sorta di rapporto equilibrato (secondo quali parametri?) e, tuttavia, intimidativo – una sorta di ossimoro – tra la gravità del reato e il danno minacciato nei confronti del colpevole: in base a criteri di ‘razionalità’ politico-criminale indimostrati e anzi, per lo più, contraddetti.
La proporzionalità della pena non è da concepirsi nei termini di una deprivazione ritenuta tollerabile (proporzionata) di chance esistenziali rispetto al condannato, bensì in rapporto alla capacità credibile della pena stessa di promuovere pur sempre, secondo le caratteristiche del reato commesso, un’inclusione sociale del colpevole. Così che la pena assuma, fin dal momento della comminazione, un orientamento motivazionale, piuttosto che intimidativo.
Ed è proprio in questo, semmai, che può recuperarsi una corrispondenza tra il concetto di proporzionalità nel contesto penale e in quello delle misure anti covid-19: nel cercare, cioè, di perseguire, insieme, esigenze plurime, non necessariamente antitetiche. Quelle di carattere sociale (contrastare il diffondersi della pandemia – fare verità sul reato, impedire che il medesimo produca profitti, creare condizioni antitetiche rispetto a una possibile recidiva), e quelle attinenti ai diritti individuali (salvaguardare anche in emergenza sanitaria, rimodulandone i modi, le attività in cui quei diritti si esprimono – promuovere l’inclusione sociale del condannato e, con ciò, una ri-valorizzazione nella legalità della sua persona). Entro il quadro, ancora una volta, dell’et-et, piuttosto che dell’aut-aut.
2) Ritengo che le misure anti covid-19 siano state seguite, dai più, perché considerate ragionevoli e necessarie. Del resto, la stessa forza preventiva del sistema penale dipende, già lo si diceva, dalla capacità di motivare a scelte personali. Se si fosse trattato solo di intimidazione, avrebbe inciso in senso antitetico l’estensione inevitabile, tanto più rispetto a quel tipo di misure, della cifra oscura, come pure l’incertezza sulla celebrazione dei processi e sulla stessa punibilità, in concreto, delle trasgressioni.
Certamente il rilievo penale di una certa condotta illecita segnala il particolare disvalore che essa assume in merito al bene tutelato e sul piano delle relazioni sociali, così che tale rilievo può avere, in effetti, una forza particolare di orientamento dei comportamenti. Ma ciò deriva essenzialmente dal rango assegnato, anche nel sentire comune, all’illecito penale, il quale implica – secondo l’indicazione dell’art. 27, co. 3, Cost. – l’appello a una più o meno marcata revisione, nel suo autore, dello stile di vita (aspetto, questo, mancante nell’illecito amministrativo). Così come deriva, altresì, dalla competenza assegnata, per gli illeciti penali, all’autorità giudiziaria.
Non si tratta dunque, anche sotto questo profilo, di entità delle pene: in quanto la funzione prioritaria dei procedimenti penali, lo si richiamava in precedenza, è quella di fare verità – circa i fatti illeciti accaduti – per migliorare, vale a dire per creare condizioni (non solo rispetto al soggetto agente, ma anche con riguardo, per esempio, alla prevenzione primaria) onde far sì che qualcosa di simile non torni a verificarsi nel futuro. Il processo penale, ribadirei, non serve per condannare: è la stessa condanna, piuttosto, che deve risultare funzionale all’intento migliorativo (laddove, invece, la condanna finisce sovente per costituire il pretesto simbolico – si pensi ancora, in genere, ai reati colposi di evento – per lasciare le cose come stanno).
Semmai, si tratterebbe di riflettere, con riguardo alla pandemia, circa l’esigenza di poter assumere provvedimenti immediati che incidano hic et nunc sulla libertà di movimento di chi, in modo irresponsabile, crei le condizioni, risultando malato, per il prodursi di nuovi focolai del contagio. Purché venga assicurata, in questi casi, una presa in carico non fittizia delle condizioni di salute del soggetto coinvolto: stante, lo ricordo nuovamente, il gran numero delle persone che nei mesi passati sono state confinate fiduciariamente in casa, o in determinate residenze comunitarie, e poi, di fatto, abbandonate a sé stesse.
3) Quanto è da ritenersi essenziale rispetto a fatti lesivi di beni fondamentali dovrebbe essere una reale volontà di prevenzione degli stessi, al di là degli strumenti utilizzati. Per cui, in effetti, non può muoversi dall’assunto che la minaccia edittale di una pena detentiva sortisca in modo automatico, e per qualsiasi forma di offesa verso un certo bene, i risultati migliori sul piano preventivo.
Si tratterà dunque di definire anzitutto, a tal proposito, una strategia politico-criminale complessiva, che deve muovere dalla prevenzione primaria. Tenendo presente, poi, che gli stessi strumenti sanzionatori utilizzabili nei confronti delle condotte offensive possono essere diversi dal ricorso al carcere, siano essi gestiti sul piano amministrativo o su quello penale: rilievo, quest’ultimo, il quale lascia emergere un limite storico, che prima o poi dovrà ben superarsi, del diritto penale italiano, ancor oggi carcerocentrico.
Tuttavia, deve realisticamente segnalarsi che, non di rado, la rinuncia all’uso pregresso del diritto penale quale strumento di prevenzione non si è accompagnata a una solida assunzione dell’impegno preventivo attraverso altri mezzi, come pure richiedeva, nel 1975, la richiamata sentenza del Bundesverfassungsgericht sull’aborto: così che simili evoluzioni normative, non solo in quel settore, hanno operato, o comunque sono state percepite, come passaggio di fatto legittimante, al di là delle affermazioni di principio, una rinuncia alla prevenzione tout court, o per lo meno uno scarso interesse rispetto alla medesima.
Ciò a parte, non riterrei che (nuovi) obblighi di penalizzazione fatti valere sul piano sovranazionale e sulla base di fonti normative, a loro volta, sovranazionali, possano essere intesi come obblighi indiscutibili di ricorso, nell’ordinamento italiano, al diritto penale, se non addirittura alla deterrenza detentiva, invece che come obblighi di protezione effettiva di determinati beni o diritti. Posto che il ruolo della libertà personale non può essere estromesso dal novero dei beni fondamentalissimi di rango costituzionale, rilevanti perfino sul piano dei c.d. contro-limiti. E che, secondo la Costituzione, l’intervento restrittivo, per ragioni penali, circa il rilievo di quei beni nei confronti del cittadino è affidato al legislatore, cioè a una fonte parlamentare la quale non informa, o lo fa solo parzialmente, le realtà sovranazionali.
Come non riterrei che delicatissime, e comunque sempre discutibili, ponderazioni che s’intendessero effettuare rispetto al bene stesso consistente nella vita umana siano da presidiarsi attraverso norme penali (si ricordi S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, Bologna, 2015, sui temi del fine vita: «anche i giuristi dovrebbero avvertire la responsabilità di non alimentare una ‘contrapposizione agonistica’ – con le ‘armi pesanti’ del diritto penale – tra medico e paziente»).
Fuori dall’ambito di simili ponderazioni, deve semmai ammettersi che fin quando un diritto penale esista, a presidio di esigenze comportamentali valutate come irrinunciabili sul piano sociale, appare difficile escludere ex ante determinate condotte lesive di beni fondamentalissimi dalla sfera della rilevanza penalistica: sebbene non sia detto, come sopra si osservava, che ciò debba implicare il ricorso alla pena detentiva (l’extrema ratio non attiene tanto al diritto penale, ma all’utilizzo di tale forma sanzionatoria, che, comunque, non è da considerarsi automaticamente come la più efficace).
In questo quadro, peraltro, proprio il ruolo da riconoscersi alla tutela della vita umana manifesta un’insuperabile peculiarità. Quella tutela, infatti, costituisce presupposto cardine del principio di uguaglianza, vale a dire della democrazia. Poiché ogni flessibilizzazione di simile tutela finisce per implicare un giudizio sulle condizioni o sulle qualità di una data esistenza umana, fra l’altro recidendo la possibilità stessa di espressione dell’autonomia personale, di cui la vita costituisce presupposto. Con Habermas: «Il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non ha un effetto impeditivo di ogni arretramento, che gli altri diritti fondamentali non hanno?».
A conclusione. La pandemia, è probabile, ci accompagnerà per non poco tempo nel mondo, obbligando a riorganizzare secondo criteri di prudenza le modalità relazionali al pari delle attività economiche, e a provvedere affinché ci si trovi in grado di isolare, sul piano socio-sanitario, i focolai di contagio. Essa ha lasciato percepire a molti che la caducità della vita non è confinabile in una sua fase estrema, ma l’accompagna, con ciò segnalandone anche la preziosità. Una percezione, questa, familiare a molti poveri del mondo, e meno sperimentata dai benestanti. Ci si aspetta, dunque, il vaccino, perché tutto torni come prima. Così potrà dirsi che tutto è andato bene, dimenticando come la storia la scrivano sempre i sopravvissuti. No, non è andato tutto bene. E nel mondo non va tutto bene. Questa stessa pandemia sarebbe stata arginata meglio se il mondo non fosse dilaniato da contrapposizioni ormai sempre più estranee alla coscienza dei popoli, specie delle generazioni più giovani. Se le risorse per la vita non fossero dilapidate nella produzione delle armi. Se l’eguaglianza di principio dei diritti si fosse già trasformata nella cura del diritto di vivere, per tutti. Sarà benvenuto il vaccino. Ma sarebbe una sconfitta non cogliere il campanello d’allarme che questa pandemia ha suonato. Poiché quanto oggi, nel mondo, non va bene, può condurre, pur senza pandemie, alla distruzione dell’umanità: niente di meno. Il che impone anche ai giuristi di ergersi al di sopra della gestione tecnica, e remunerativa, dei contenziosi ordinari per tornare a svolgere una funzione culturale: quella di segnalare, essenzialmente, l’esigenza di voltare pagina, nel mondo e sul piano intersoggettivo, rispetto a logiche relazionali fondate sul conflitto. Ed è qui che si apre la vera sfida di una riprogettazione dei rapporti sociali e internazionali per gli stessi parlamenti, al di là delle disquisizioni minute sulle competenze circa l’adozione delle misure urgenti in tema di pandemia. Temo, infatti che l’alternativa sia severa: o si saprà urgentemente por mano a costruire una nozione globale della democrazia, o il futuro, alle generazioni che verranno, potrebbe essere sottratto.
7. Domenico Pulitanò. L’esperienza della pandemia e i problemi del penale
7.1 L’esperienza della pandemia e del lock down
La pandemia Covid-19, e le misure adottate in Italia e altrove per contrastarla, hanno posto problemi inquietanti, relativi al bilanciamento di beni fondamentali del singolo (vita, salute, libertà) e della comunità, con sacrificio di alcuni a favore di altri. Sono problemi che interpellano anche il diritto penale, arma a doppio taglio, finalizzata alla tutela di beni importanti e fattore di rischio per le libertà. Opportuna, dunque, la sollecitazione venuta da giustiziainsieme: ragionare sulle condizioni dell’osservanza di restrizioni pervasive, fino al lock down; su come il diritto possa e debba farsi carico dei problemi relativi al “generale rischio di vita”, nel bilanciamento con altri diritti (libertà e dignità), in condizioni di incertezza cognitiva o prognostica.
La pandemia è uno stato d’emergenza (purtroppo) reale, non uno stato d’eccezione stabilito dall’arbitrio soggettivo di un sovrano che proclama la sospensione della legge ordinaria. In tutto il mondo la pandemia di quest’anno 2020 ha distrutto vite, ha portato a restrizioni di libertà, ha messo in crisi l'economia. La potenza nascosta dell’invisibile virus ha sconvolto le cose umane, si è fatta gioco del potere dei reggitori delle società. “Usque adeo res humanas vis abdita quaedam / obterit, et pulchros fascis saevasquae secures / proculcare ac ludibrio sibi habere videtur” (Lucrezio, De rerum natura, V, v. 1233s).
Da metà marzo abbiamo vissuto per molte settimane in uno scenario di sospensione generalizzata e prolungata della normalità sociale, imposta da precetti che in situazioni non emergenziali rifiuteremmo come liberticidi. Restrizioni di diritti di libertà in senso forte: non solo la libertà di circolazione, direttamente bloccata, ma anche diritti e libertà che il blocco impedisce di esercitare. Le regole restrittive sono state via via attenuate, alcune restano ancora nei giorni in cui sto scrivendo (fine giugno).
7.2 La dimensione costituzionale
Sullo sfondo della vicenda Covid-19, la Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, nella relazione sull’attività nel 2019 presentata il 28 aprile 2020, ha osservato che la Costituzione non prevede un diritto speciale dell’emergenza, non la sospensione di diritti fondamentali; è però non insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di crisi o di straordinaria necessità e urgenza, per le quali è pensato come strumento il decreto legge (art. 77). “Necessità, proporzionalità, ragionevolezza, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui deve attuarsi la tutela sistemica e non frazionata dei principi e dei diritti fondamentali, ponderando la tutela di ciascuno con i relativi limiti, in base alle specifiche contingenze. È la Costituzione la bussola necessaria a navigare ‘per l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo-emergenza che ci attende”.
L’emergenza sanitaria ha posto la politica di fronte alla responsabilità di scelte tragiche. Le necessità di contenimento del contagio (tutela della vita e della salute) sono state ritenute idonee a giustificare, nel bilanciamento con le libertà, restrizioni di libertà eccezionalmente spinte, ma razionali rispetto allo scopo di preminente importanza. Il principio di giustiziabilità esige la possibilità di un controllo giurisdizionale, in sede di giustizia ordinaria o costituzionale.
Più la compressione di diritti è severa, più è necessario che sia circoscritta nel tempo[2]: il criterio della temporaneità ci dice che la compressione emergenziale di diritti dovrebbe essere rivedibile in ogni momento alla luce dei fatti e di esigenze mutate. La responsabilità di valutazione e decisione, che è propria della politica in via normale, in situazioni non normali è più forte.
In questo contesto si pone il problema delle basi cognitive delle valutazioni e decisioni: incertezza e incompletezza delle conoscenze a disposizione, e conseguenti insicurezze prognostiche. Valutare e decidere in condizioni d’incertezza è condizione normale della politica. Le pretese e i principi giuridici che chiedono certezze in diritto e in fatto (legalità/determinatezza; accertamento al di là del ragionevole dubbio) debbono fare i conti con la realtà. Con i limiti delle nostre conoscenze, di ciò che sappiamo progettare, di ciò che sappiamo tradurre in norme e in concreti comportamenti.
7.3 Obblighi costituzionali di penalizzazione?
Nella discussione fra Habermas e Gunther, alla quale fa riferimento la sollecitazione venuta da Giustizia Insieme, è stata richiamata la storica sentenza del Bundesverfassungsgericht del 1975, che ha posto limiti alla depenalizzazione dell’aborto e ha suscitato il dibattito su obblighi giuridici di tutela anche penale della vita umana. Anche per la riflessione in Italia quella sentenza è stata un riferimento importante. La strada imboccata dalla nostra Corte costituzionale è stata diversa[3].
Quando in Italia, sul finire degli anni ’70, sono state introdotte riforme legislative orientate verso modelli di disciplina non più integralmente né principalmente penalistici, sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale in malam partem, volte a riespandere l’area dell’illecito penale in nome della tutela di beni giuridici costituzionali. Le censure si sono appuntate sul ritrarsi dell’intervento penale: dalla rilevanza costituzionale di dati beni (la salute e l’ambiente, la vita del feto) è stato argomentato un obbligo di principio di tutela penale di quei beni, o quanto meno l’illegittimità del sopprimere una tutela penale già esistente.
La Corte costituzionale italiana, con giurisprudenza costante, ritiene inammissibili le questioni di legittimità costituzionale volte alla creazione o all’ampliamento di fattispecie di reato. Il principio di legalità dei reati e delle pene (art. 25 Cost.) comporta l’impossibilità per la Corte di “pronunciare alcuna decisione, dalla quale derivi la creazione – esclusivamente riservata al legislatore – di una nuova fattispecie penale”[4]. “Solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali”[5].
Dietro la soluzione processuale dell’inammissibilità affiora una ragione più sostanziale: di fronte a problemi di tutela il penale non è una risposta obbligata[6]. È una risposta possibile, di fatto può essere necessaria, per esigenze di tutela di beni importanti.
Un obbligo di penalizzazione è espressamente previsto nella Costituzione italiana: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13, 4° comma). Condizioni e limiti costituzionali sono posti alla previsione di cause di non punibilità (sentenza n. 148 del 1983). Nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale il rispetto per scelte legislative di tutela penale viene in rilievo anche in delimitazioni della portata della dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale di fattispecie di reato (vedi sentenza sull’aiuto al suicidio, n. 242 del 2019) o di istituti del sistema sanzionatorio (vedi sentenza n. 352 del 2019 sull’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario). Non si tratta di confini rigidi: non sono precluse future scelte legislative meno penalizzanti.
Obblighi di penalizzazione sono previsti dalla normativa europea. Nella giurisprudenza della Corte EDU sono affermati a difesa di diritti della persona, contro usi arbitrari di poteri dell’autorità. In quest’ottica sono stati valutati come scommessa sulla funzione espressivo-simbolica del diritto penale”[7] messa in crisi da scelte arbitrarie di non punibilità o da carenze d’attivazione della giustizia penale.
Come risposta a problemi di sicurezza del convivere e dei diritti delle persone, il diritto criminale/penale è un’opzione possibile, talora necessaria, sempre problematica nei modi. Un azzeramento non è pensabile. La tutela della vita da aggressioni dolose (non uccidere) è un nucleo irriducibile.
Ai suoi compiti di tutela, il Leviatano in versione liberaldemocratica può provvedere, ed è bene che provveda, innanzi tutto con altri mezzi, meno invasivi del penale. Diritto penale minimo è un’idea regolativa, non un principio in senso forte. Per le democrazie liberali, un’idea regolativa importante per le politiche del diritto penale.
7.4 Limiti del penale e rapporto giustizia/politica
Nelle riflessioni sulla ripresa dopo l’emergenza acuta, è stato segnalato da un autorevole politologo il problema del panpenalismo, “la debordante e soffocante presenza del diritto penale in tutti gli ambiti della vita sociale ed economica, a sua volta riflesso della peculiare posizione di forza assunta dalla magistratura inquirente in Italia”[8].
È una presa di posizione politica, ovviamente discutibile, da me condivisa: alla politica deve essere riconosciuto uno spazio non sottoposto a scrutinio diverso da quello culturale e politico, nella sfera pubblica (luogo centrale nella filosofia politica di Habermas). La macchina del law enforcemewnt penalistico non dovrebbe diventare un fattore di rischio e di turbamento per l’esercizio dei diritti dei consociati o di funzioni di governo politico.
Per una riflessione su diritto penale e situazioni d’emergenza è di particolare interesse l’indagine aperta dalla Procura di Bergamo sul ritardo nella costituzione di una zona rossa nei comuni della Val Seriana. “Il governo si difende davanti al pm”, è il titolo di prima pagina del Corriere della sera, 13 giugno 2020. Sono stati sentiti, come persone informate sui fatti, il Presidente del Consiglio e alcuni ministri. Nella discussione mediatica è stato sollevato il problema, se l’indagine giudiziaria penale possa avere ad oggetto valutazioni e decisioni di tale rilevanza politica. È stato inquadrato in un’ottica politica, senza andare a fondo dei problemi giuridici.
Sul piano penalistico, al confine con la politica si colloca la disciplina dei reati ministeriali, agganciata ai criteri della legge costituzionale n. 1 del 1989. Compete all’organo politico (Camera o Senato) debitamente investito dall’autorità giudiziaria, l’eventuale diniego dell’autorizzazione a procedere, con valutazione insindacabile, “ove reputi che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nella funzione di governo” (art. 9).
Il confine della legalità penale è tracciato in via generale dai normali criteri di attribuzione/delimitazione di responsabilità. Di particolare rilievo il tema della colpa, un tipo di responsabilità che nel campo del diritto penale hard (responsabilità per delitto) dovrebbe essere un’eccezione rigorosamente delimitata. La tutela della vita e dell’integrità fisica è il campo principale di applicazione. L’esperienza della pandemia ha mostrato la centralità del problema della colpa, quando si è posto il problema delle eventuali responsabilità e dei limiti di responsabilità di operatori chiamati ad agire in situazioni particolarmente esposte, nelle quali sono morte molte persone. Si sono contrapposte esigenze di responsabilizzazione ed esigenze che sono state formulate come richieste di scudo. La conciliazione dovrebbe essere cercata in criteri di ragionevole delimitazione di principio della responsabilità, avendo riguardo a condizioni di fatto che restringono il campo di ciò che è esigibile.
La penalizzazione della colpa mette in campo logiche difensive che portano al non riconoscimento di errori compiuti, dell’aver sbagliato che “comunque accompagna, in modo più o meno rilevante, l’esistenza di ciascuno”[9]. Anche l’incidenza deformante sul discorso pubblico è una ragione che invita alla massima cautela nell’imboccare la strada del penale.
Problemi non solo di garanzia, ma anche di opportunità, riguardano non solo la giustizia degli esiti, ma l’attivarsi della macchina fin dall’inizio: i presupposti dell’apertura di indagini, e l’esercizio dell’azione penale, la cui obbligatorietà non è un via libera per iniziative ad explorandum. Di fatto, i presupposti dell’obbligo sono affidati alla valutazione del PM (alla posizione di forza delle Procure) in assenza di controlli sulla sussistenza di una notizia di reato che fondi in concreto l’obbligo di verifica. La messa in moto della macchina giudiziaria, in condizioni d’incertezza, comporta costi e rischi certi; l’esito di giustizia è incerto.
La questione dei filtri processuali è presente nel disegno di legge delega n. 2435, presentata alla Camera il 13 marzo 2020. Per la tenuta dei diritti, tutti i problemi di filtro e di controllo sulla macchina investigativa e processuale meritano la massima attenzione. Indipendentemente dal merito delle singole iniziative, il trasferimento in sede giudiziaria di problemi di portata generale comporta il rischio di espansioni panpenalistiche sul terreno delle responsabilità politiche, o semplicemente su quello delle libertà delle persone coinvolte. Nel contesto difficile della post emergenza, un problema che sarebbe bene prevenire.
Sul piano della responsabilità politica, il problema si presenta in termini più generali, rispetto a una pluralità di interessi da soddisfare e da bilanciare, in situazioni d’incertezza fattuale e prognostica: scelte tragiche, nel senso letterale del termine, che comportano comunque il sacrificio di interessi importanti, anzi di diritti fondamentali. È in gioco la salute pubblica, la vita delle persone. Ha avuto eco anche in Italia l’intervista di Wolfgang Schauble, Presidente del Bundestag, che ha affermato la priorità della intoccabile (unantastbar: §. 1 della Costituzione tedesca) dignità della persona: sarebbe sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana.
In un editoriale ne Il foglio, 29 aprile, Giuliano Ferrara ha contrapposto a questa “sortita di un grande tedesco in vene di verità difficile” la scelta italiana: “abbiamo scelto per ora, con tentennamenti, retropensieri luterani, remore da etica capitalistica dispiegata, di non osare la grande scrematura di vecchi e malati, pagando un prezzo notevole per esclusive ragioni di pietà, di grazia e di amore che sono superiori a quelle della dignità”.
Vita, libertà, dignità, sono diritti delle persone. La critica politica (da me condivisa) alla posizione espressa da Schauble non può disconoscere le ragioni di chi ponga l’accento sulla dignità e sulle libertà.
Le scelte su ambiti, modi, tempi di restrizioni emergenziali di libertà (fino alla costituzione di zone rosse) sono scelte politiche particolarmente delicate. Abbisognano di solidi presupposti cognitivi, ma che spesso debbono essere prese in condizioni d’incertezza cognitiva e/o prognostica. Comportano valutazioni discrezionali, in ragione degli interessi coinvolti e di previsioni sui diversi possibili scenari.
Il carattere spiccatamente problematico delle scelte, sia con riguardo alle premesse cognitive sia con riguardo ai bilanciamenti d’interessi, è (mi pare) un argomento contro la trasposizione del problema sul terreno del diritto penale, e conseguentemente della giustizia penale. L’idea che restrizioni spinte delle normali libertà, sia pure a protezione dal contagio, possano essere valutate sul piano penalistico come un dovere imposto ai governanti da regole cautelari, mi sembra pericolosa per gli equilibri di una società aperta. Di fatto, le democrazie liberali della nostra Europa hanno dato, di fronte alla pandemia, risposte diverse.
7.5 Condizioni dell’osservanza. Doveri di solidarietà.
L’esperienza del lock down ha mostrato un soddisfacente livello di osservanza di precetti che in situazioni non emergenziali rifiuteremmo come liberticidi; decisamente contenuti i tassi di disobbedienza. Segno di efficacia generalpreventiva delle normative d’emergenza? Di paure legate alla presa di coscienza del rischio pandemico? O di altre ragioni, o di un mix di ragioni diverse? Sulle ragioni dell’ampia osservanza di restrizioni pesanti torneranno a indagare e a ragionare gli storici.
Una valutazione radicalmente negativa sull’acquiescenza a misure straordinariamente restrittive è stata formulata da un noto filosofo: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? ……. Abbiamo accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali, la nostra libertà di movimento …. i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio” (G. Agamben, Una domanda, in Quodlibet, 14 aprile 2020).
La domanda di Agamben merita considerazione, come provocazione a riflettere sul senso morale e politico dell’osservanza che ci è stata chiesta e che abbiamo accettato, sulla sospensione di libertà fondamentali.
La valutazione prevalente, da me condivisa, è del tutto opposta alla censura di crollo morale. Nell’osservanza delle restrizioni è leggibile la moralità di un sacrificio molto pesante, nell’interesse proprio e degli altri con cui conviviamo.
Nella duplice emergenza della pandemia e del lock down è apparso evidente che il contenimento del contagio e la tenuta della società (della convivenza) sono legati al positivo adempimento di doveri. Assunzioni di responsabilità delle istituzioni politiche, e osservanza dei doveri da parte di tutti: doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.)[10]. Per l’esercizio dei nostri diritti – inviolabili in via di principio, ma fragili di fronte a forze di varia natura – abbiamo bisogno della solidarietà, dell’osservanza di doveri reciproci.
Vengono in rilievo doveri generali gravanti su tutti, e doveri di adempimento di funzioni e di compiti di varia natura, da posizioni di garanzia di livello elevato (dirigenti ed operatori amministrativi, medici, infermieri) fino a compiti umili ma necessari. Nell’emergenza sanitaria possono avere una contingente ragion d’essere anche doveri che comportano restrizioni di normali libertà.
Per quanto concerne i problemi del penale, l’indicazione che può essere letta nell’esperienza della crisi è la preminente importanza della dimensione precettiva e dell’osservanza. Le parole d’ordine del garantismo liberale, così gratificanti per la nostra cultura, presuppongono un sistema precettivo che comporta limitazioni di libertà. Condizione minima della con-vivenza (il minimo etico) è l’osservanza dei divieti che costituiscono il nucleo duro del diritto criminale (articolazioni del decalogo biblico: non uccidere, non rubare, non ingannare).
Situazioni di crisi richiedono adempimenti più impegnativi, adempimenti di doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Nella gestione dell’emergenza, sanzionare i trasgressori delle normative speciali dell’emergenza è questione sostanzialmente irrilevante; può essere rimandata a tempi futuri, nei quali forse ci apparirà di scarso interesse.
Quando il lock down è stato allentato, la discussione in Italia si è appuntata su punti specifici della normativa sulla fase 2, criticati, talora irrisi per scarsa chiarezza (difetto di tassatività, nel gergo penalistico) o dubbia ragionevolezza del confine fra ciò che viene permesso e ciò che resta vietato. Chi sono i congiunti con cui si può incontrare? Perché non gli amici? La perdurante esigenza di cautele sanitarie può giustificare una delimitazione quantitativa dei contatti e degli spostamenti, ma non legittima l’autorità pubblica a decidere, sostituendosi alla libertà di ciascuno di noi, quali contatti personali siano preferibili.
Differenziare fra i possibili contatti personali, secondo criteri che non hanno alcun legame con questioni di sanità, ha mostrato un difetto grave di sensibilità liberale, un’impostazione non rispettosa della libertà e dignità personale, censurabile sul piano della legittimità costituzionale alla luce dei principi di necessità, proporzionalità, ragionevolezza.
La custodia dei principi liberali, cui ci siamo impegnati contro politiche centrate sul più penale, richiede la massima attenzione contro rischi di ‘normalizzazione’ di soluzioni emergenziali di compressione di diritti. Anche di questo ci ammonisce l’esperienza della pandemia e del lock down. “Un punto ci inquieta per il futuro. L’ideologia del controllo totale. L’allegra facilità nel rinunciare ad importanti libertà come prezzo da pagare al nuovo feticismo della sicurezza”[11]. La questione su cui continuare a interrogarci riguarda l’insieme dei diritti fondamentali, vita, libertà, dignità.
[1] C. Roxin, L. Greco, Strafrecht, AT, Bd. I, München, Beck, 2020, § 15/91 e amplius 15/84 ss., con tutti i riferimenti essenziali. I filosofi tedeschi che ragionano in astratto di diritti e valori dovrebbero confrontarsi con tali problemi concreti del loro ordinamento.
[2] Intervista alla Presidente Cartabia, Corriere della sera, 29 aprile.
[3] Anche in materia d’interruzione della gravidanza, cfr. Corte cost. n. 27/1975, che ha inciso sulla penalizzazione a tutto campo, aprendo la possibilità di aborto terapeutico. Cfr. anche Corte cost. n. 35 del 1997.
[4] Corte cost. n. 108 del 1981, con nota di M. Branca, Norme penali di favore: dall’irrilevanza al rifiuto della sentenza-legge in Giur. cost., 1981, I, p. 913 s.
[5] Così Corte cost. n. 447 del 1998, sulla riforma del 1997 dell’abuso d’ufficio, dove si ritrova una più ampia motivazione di un indirizzo consolidato e stabile. In epoca più recente Corte cost. n. 161 del 2005 (sulla riforma del reato di false comunicazioni sociali).
[6] È la tesi che ho sostenuto in D. Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 484 s.
[7] F. Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi Romano, p. 2643 s. (citazione da p. 2688).
[8] Angelo Panebianco, La ripresa e i suoi avversari”, in Corriere della sera, 15 aprile 2020 .
[9] L. Eusebi, Legalità, non oligarchie: profili penalistici, in DisCrimen, in corso di pubblicazione in Jus n. 1/2020.
[10] Ha sottolineato questo aspetto G. De Francesco, Dimensione giuridica ed implicazioni sociali nel quadro della vicenda epidemia, in Legislazione penale, 23 aprile 2020.
[11] P. Borgna, 25 aprile e stato d’eccezione, in Questione giustizia, 24 aprile 2020.
Tecla Mazzarese. Una “Azione non Governativa” di “obbedienza civile”
Recensione di Alessandra Sciurba, Salvarsi insieme. Storia di una barca a vela sulla rotta dell’umanità, Milano, Ponte delle Grazie, 2020
No, Mediterranea. Saving Humans, «nata come piattaforma di realtà associative e singole persone» [p. 167], non è una ONG «ma piuttosto una “ANG”: una “Azione Non Governativa” di “obbedienza civile”» [p. 72, corsivi miei]. Così, nel recente volume Salvarsi insieme. Storia di una barca a vela sulla rotta dell’umanità, Alessandra Sciurba, sua storica portavoce e oggi sua presidente, ribadisce quanto detto già in occasione della prima conferenza stampa di presentazione di Mediterranea, il 22 ottobre del 2018, a Roma, nella sala stampa di Montecitorio.
Ed è proprio durante quella conferenza stampa che i termini in cui viene data notizia della sua prima missione offrono una buona sintesi della ragione d’essere di Mediterranea e della sua fondazione; in quell’occasione, come ricorda Sciurba, si informa infatti che «nella notte tra il 3 e il 4 ottobre del 2018 una nave [la Mare Jonio] battente bandiera italiana era salpata a cinque anni esatti dai 368 morti annegati nella strage di Lampedusa, per testimoniare e denunciare le violazioni dei diritti umani nel Mediterraneo» [p. 72, corsivo mio].
Testimonianza e denuncia delle violazioni dei diritti umani nel Mediterraneo che non si limitano a una pur importante attività di critica e di informazione ma che trovano espressione, anche e non meno significativamente, nell’impegno di arginare tali violazioni, adoperandosi fattivamente in operazioni di soccorso; impegnandosi, cioè, a “cercare e salvare” naufraghi in un mare insidioso per la precarietà delle loro imbarcazioni ma anche e soprattutto per i rischi legati al puzzle della sua parcellazione in distinte zone SaR (Search and Rescue) soggette alla competenza di paesi differenti e alle loro particolari politiche di (non) accoglienza. Zone SaR, distinte, fra le quali, non a caso, la più temuta è quella libica nelle cui acque i migranti vengono cercati non per essere salvati ma per essere riportati in Libia, all’incubo dei maltrattamenti e delle torture perpetrati nei campi di detenzione in cui vengono rinchiusi.
A partire da quella dell’ottobre del 2018, sono otto, ad oggi, le missioni in cui si è sviluppata l’azione di obbedienza civile (e/o, secondo una diversa connotazione forse meno incisiva, di “disobbedienza morale”) di Mediterranea; otto missioni intraprese dall’una o dall’altra delle sue due imbarcazioni: la nave Mare Jonio e la barca a vela Alex; otto missioni, di cui l’ultima, l’ottava, iniziata dalla Mare Jonio il 20 giugno del 2020 che al momento in cui si scrive è in quarantena perché, dopo una prima operazione di salvataggio di 67 migranti, in una seconda operazione, 8 dei 43 naufraghi soccorsi sono risultati affetti da Covid-19.
Il libro di Sciurba, “Salvarsi insieme. Storia di una barca a vela sulla rotta dell’umanità” parla di tutto questo. Racconta di Mediterranea; del suo progetto; della pluralità di persone, eterogenee per formazione e competenze professionali, che si sono impegnate nella sua ideazione e fondazione, nella raccolta pubblica di fondi (oggi si dice crowdfunding) per contribuire all’acquisto delle sue due imbarcazioni (Mare Jonio e Alex), e, non ultimo, come membri dei differenti equipaggi che si sono alternati nelle sue diverse missioni.
Tutto questo non individua però né l’unico né il principale oggetto della narrazione quanto piuttosto lo sfondo o meglio il contesto in relazione al quale e in ragione del quale acquista senso il racconto della missione intrapresa dalla barca a vela Alex agli inizi di luglio del 2019 (la sesta missione di Mediterranea) contravvenendo alle stesse regole che l’equipaggio si era dato prima della partenza «La prima: non portare a bordo nessuno [...] stabilizzare un’eventuale situazione di rischio e aspettare che arrivi una nave adatta al soccorso. La seconda: [evitare di ritrovarsi ] da soli in mezzo a quella distesa immensa di acque internazionali controllate dai libici» (p. 15).
Nel luglio del 2019, infatti, la nave Mare Jonio è bloccata per un sequestro probatorio disposto dalla Procura di Agrigento –«le indagini […] sono per favoreggiamento della cosiddetta “immigrazione clandestina”» (p. 13) a seguito del salvataggio di 30 naufraghi il 9 maggio 2019. A fronte di questo blocco e della diffida ricevuta dalla Capitaneria di porto di Palermo «a salvare vite umane in modo preordinato e sistematico […] perché quel vecchio rimorchiatore di nome Mare Jonio non sarebbe in grado di effettuare salvataggi in sicurezza» (p. 13), l’unica operazione possibile per Mediterranea è quindi l’organizzazione di «una missione di monitoraggio e denuncia delle violazioni dei diritti umani […] e, se servisse, per essere barca di appoggio alle altre due unità di soccorso della società civile in mare: la nave Open Arms, dell’omonima ONG spagnola, e la Alan Kurdi di Sea-Eye che invece è tedesca» (pp. 14-15); un’operazione esclusivamente di monitoraggio e denuncia anche perché l’unico mezzo a disposizione (essendo Mare Jonio sotto sequestro) è il veliero Alex, una piccola imbarcazione che non può ospitare più di diciotto passeggeri in assetto diurno.
Gli accadimenti, però, sconvolgeranno la prudente programmazione della missione di monitoraggio e/o, se necessario, di supporto logistico ad altre imbarcazioni impegnate in operazioni di soccorso: il 4 luglio, la piccola barca a vela Alex si troverà infatti ad essere l’unica imbarcazione a poter arrivare in tempo utile, in una zona al limite della SaR di competenza libica, a prestare soccorso a un gommone con decine di naufraghi a bordo (una volta resa possibile la loro conta, risulteranno ben 59) fra i quali donne (incinte), minori e quattro neonati.
E sono proprio questi accadimenti l’oggetto della narrazione del libro di Sciurba: il salvataggio di 59 naufraghi; la navigazione con 70 persone a bordo (i 59 naufraghi più le 11 persone d’equipaggio) in un’imbarcazione che poteva trasportarne 18; il tentativo di una motovedetta libica di riportare i profughi in Libia; un iniziale rifiuto di Malta di far sbarcare i profughi presenti sulla Alex; i silenzi (prolungati e forse imbarazzati) del centro di coordinamento marittimo italiano alle prese con due decreti su sicurezza e immigrazione, voluti dall’allora Ministro degli interni, che sancivano la chiusura dei porti italiani; la consegna da parte della Guardia di finanza del provvedimento che vietava alla Alex l’ingresso nelle acque italiane; il primo sbarco parziale, gestito dalla Guardia costiera italiana, di tredici naufraghi («le donne incinte, i quattro neonati e i loro nuclei familiari» (p. 99) ); l’improbabile trovata del governo italiano del “baratto” fra i naufraghi sulla Alex da fare sbarcare a Malta in cambio di 50 migranti presenti a Malta da accogliere in Italia; e, da ultimo, la dichiarazione dello stato di emergenza da parte del capo missione Erasmo Palazzotto, parlamentare della Repubblica italiana e, quindi, in violazione del divieto ricevuto, l’approdo nel porto di Lampedusa; lo sbarco di tutti i profughi e infine il sequestro dell’imbarcazione.
Il libro di Sciurba narra di tutti questi fatti ma anche di quello della barca con a bordo uomini in divisa [di cui non verrà rivelato il corpo di appartenenza] che senza alcuna autorizzazione ufficiale nottetempo accostano furtivamente la Alex e «iniziano a tirare fuori dal cabinato una fila lunghissima di sacchi della spesa. Sacchi del supermercato, sacchi normalissimi, quelli che chiunque riempie di cose da mangiare dopo averle pagate alla cassa» (p.116) , sacchi pieni di tutto quello di cui possono aver bisogno naufraghi ed equipaggio per una cena finalmente decente dopo due giorni di pasti a base di barrette energetiche. E ancora, si sofferma sul rapporto istaurato con i 59 profughi da rassicurare e accudire ma, al tempo stesso, con i quali condividere le informazioni sulle decisioni da prendere.
Difficile da individuare un genere a cui ricondurlo, Salvarsi insieme è un libro scritto con la passione di una attivista dei diritti umani, con la lucidità e la fermezza di una giurista che conosce anche ma non solo diritto internazionale e diritto del mare e che padroneggia gli strumenti per un’analisi critica di decreti e ordinanze del diritto interno quando ne disconoscano i principi e i valori di cui sono espressione ma, al tempo stesso, con la sensibilità e la delicatezza di una mamma, , che non riesce a nascondere l’emozione e la gioia di tirar su a bordo una bimba «così minuscola che la testa scompare dentro il giubbotto salvagente, anche se è uno di quelli coi disegnini colorati, per i più piccoli» Una bimba così piccola che «restano visibili solo manine e piedini che si agitano [tanto da farla sembrare] una tartaruga variopinta» (p. 19).
Il giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare)
Sommario: 1. Diritto immune e governo della calcolabilità. – 2. Legal tech and co. e giustizia predittiva (il sogno proibito del positivista). – 3. L’eterno enigma del diritto. – 4. Gli usi processuali delle emozioni. – 5. Conclusioni. «Un algoritmo non si può convincere» (in difesa dell’umanità del giudicare).
1. Diritto immune e governo della calcolabilità
La storia del diritto può essere letta come il perenne (e mai compiuto davvero fino in fondo) sforzo di rendere irrilevanti le emozioni, di cautelarsi contro di esse, di renderle inoperanti, innocue, inoffensive; un tentativo di immunizzare lo scorrere dei traffici giuridici e le prassi dalla imprevedibile e irragionevole mutevolezza del sentire emotivo e quindi della volontà che ne è, spesso, espressione. Dominare l’imprevedibile: questa la immane pretesa del diritto[1].
A questo fine – si dice - non può essere in nessun caso emotivo colui che è chiamato ad applicare quelle “direttive di ragione” che sono le norme giuridiche, ossia il giudice. Il suo operato si vuole quanto più possibile meccanico, puramente sillogistico, depurato (immunizzato appunto) e non viziato da disposizioni, stati, intenzioni e da tutto ciò che si potrebbe definire un personale “senso di giustizia”. Il suo ragionamento deve essere dimostrabile, logico, e quindi esatto, controllabile oggettivamente, fondato e giustificato esclusivamente sulla ragione, che procede da premesse a conclusioni. Bruno Celano ha parlato recentemente di “anti-psicologismo” delle teorie del ragionamento giuridico, prodotto diretto dell’insegnamento kelseniano per il quale il diritto è (deve essere) «un che di impersonale, anonimo, de-psicologizzato», che gode (deve godere) «di una relativa indipendenza, o autonomia (sia concettuale, sia normativa), rispetto alle preferenze, alle intenzioni, alla volontà, alle decisioni, alle credenze (…) di coloro che vi sono soggetti; e in ciò risiede il suo carattere di oggettività»[2]
Diritto funzionale al vivere civile e ai traffici economico-sociali, razionale quindi, calcolabile, geometrico, matematico, scientifico, prevedibile, oggettivo, certo, a cui Natalino Irti ha dedicato, negli ultimi anni, importanti studi[3].
La calcolabilità (del diritto, delle decisioni) sembra essere divenuta la nuova parola chiave per capire il presente giuridico; è onnipresente, pervasiva[4]. L’uso così enfatico di questo vocabolo, come mai prima nella storia del diritto era accaduto, porta a prefigurare anche nell’universo giuridico una dittatura del calcolo, per usare la felice espressione che dà il titolo al bel libro del matematico Paolo Zellini[5].
Facendo ciò, il diritto ha quindi espunto consapevolmente dal proprio ambito “la soggettività dei soggetti”, il nostro essere uomini in carne e ossa; ha dettato regole oggettive (immuni da elementi psicologici) come se gli esseri umani non fossero, prima di tutto, esseri emotivi, o forse proprio per questa ragione; proprio per la consapevolezza, cioè, che l’uomo è un essere emotivo e che in quanto tale deve ricevere la guida del proprio agire al di fuori di sé medesimo.
Ma – parafrasando Pascal – si può ben dire che la “realtà vivente” della giustizia ha le sue ragioni, che la ragione non conosce…[6]
Infatti noi sentiamo in qualche modo vago, spesso non detto, sottaciuto, che la giustizia è una esperienza profondamente umana, e che è anzi giusto e bene che sia così. Qualsiasi cosa si intenda con queste espressioni, nella pluralità dei significati che ognuno di noi attribuisce a queste parole così vaghe (quali “umanità”, “umana”, “giustizia”), vediamo comunque essere radicata l’idea per la quale la razionalità meccanica non deve mai essere dis-umana, il dominio delle regole oggettive non deve significare insensibilità per le concrete conseguenze.
Ciò, peraltro, non sembra valere allo stesso modo per ogni ambito dell’esperienza. Possiamo discutere sul significato e l’opportunità di un giudice emotivo e del ruolo (positivo o negativo) che i processi emotivi giocano nel ragionamento giudiziale. Ma già il fatto che si avverte il senso e l’esigenza di questo dibattito è rivelatore di qualcosa di molto significativo. Ciò ci dice qualcosa. Avrebbe infatti senso chiederci se vogliamo un ingegnere emotivo? Credo di no. E, per esempio, un farmacologo emotivo? Nemmeno. Già, forse, più centrato sembrerebbe chiederci se è bene, oppure no, che un medico sia emotivo – salvo poi, molto probabilmente, convenire con una risposta tendenzialmente negativa. Perché questa differenza? Perché vediamo che l’ingegnere o il farmacologo non hanno a che fare, nel loro mestiere, con esseri umani, né governano o maneggiano, nella loro attività, esistenze e dolori, ma si occupano di costruzioni e osservazioni della realtà, e quindi delle leggi del calcolo e della natura, che prescindono dall’uomo. Il medico, invece, interagisce primariamente con esseri umani che si trovano nel momento della loro massima sofferenza e che in quanto tali sono inoggettivabili – anche se, alla fine, ci arrendiamo al fatto che la soluzione alla malattia prescinde, almeno in larga parte, dai vari atteggiamenti umani impiegati. Vorremmo quindi un ingegnere perfetto calcolatore, un farmacologo impassibile, un medico, forse, imperturbabile. Ma nulla di tutto ciò lo ritroviamo nel campo del diritto, che vede coinvolta la persona in quanto soggetto, nel momento del conflitto, che porta con sé il proprio perenne anelito trascendentale verso la giustizia – la trascendenza della giustizia, ossia la perenne possibilità per l’uomo di contestare la giustizia attuale nel nome della giustizia stessa[7]. Vorremmo, quindi, un giudice incapace di provare la minima emozione? Un giudice a-patico, nel senso deteriore del termine, svuotato della umana capacità di leggere, interpretare e tradurre la gamma delle emozioni, e però, magari, dotato di abilità eccezionali, sopra la media, nel ricordare articoli di codice, eccezioni all’operare di regole e le pronunce per intero della Cassazione su un dato argomento?
2. Legal tech and co., e giustizia predittiva (il sogno proibito del positivista)
Antoine Garapon – magistrato francese nonché uno dei più lucidi studiosi della teoria del processo - in un recente saggio dedicato alle sfide della giustizia digitale ha messo in luce come sia stato proprio questo diffuso sentire la giustizia come una impresa umana, “artigianale” quasi, a rendere più difficoltoso l’ingresso delle tecnologie e dell’intelligenza artificiale nel mondo del diritto rispetto ad altri ambiti della vita sociale (salute, benessere, educazione, ambiente, politica)[8]. Vi sarebbe stata, insomma, una certa resistenza culturale (qualcosa più di un generico sospetto) verso procedure automatizzate che mirino a sostituire l’attività del giurista, ai più diversi livelli, con il funzionamento impersonale di software e algoritmi, proprio in virtù di quella in-oggettivabilità e irriducibilità dell’esperienza umana e dei casi della vita in formule preconfezionate. Oggettivabilità e riducibilità, invece, che - va osservato - non sono altro che il “sogno proibito” del positivista radicale, il tentativo di portare alle estreme conseguenze il mito di una entità che possa davvero definirsi bouche de la loi, cioè un qualcuno o un qualcosa (giudice o software) capace di rendere una decisione-output a seguito dell’inserimento di un fatto della vita-input.
Nonostante il ritardo, concetti come legal tech, smart, digital, cyber justice sono ora espressioni consolidate. Il filo conduttore di questo vasto universo tecno-giuridico è costituito dalla “giustizia predittiva”, ossia l’esigenza che le conseguenze del nostro agire giuridico siano quanto più possibile prevedibili, pre-dicibili, e che il margine di alea sia ridotto al minimo, fino a potenzialmente scomparire – una esigenza, di nuovo, che ha radici antiche e che risale, quantomeno in questa versione, all’ideologia mitica del codice (e del codice civile in particolare) secondo la quale un libro rilegato e ordinato secondo articoli in ordine numerico avrebbe dovuto contenere la regolamentazione intera ed esaustiva, totale, completa dell’esperienza giuridica tra privati[9].
Più nello specifico, lo scopo della giustizia predittiva è quello di rendere le conseguenze delle azioni umani (per quanto qui ci riguarda, in caso di conflitto) trasparenti in anticipo attraverso l’uso dei big data, immense raccolte di informazioni non elaborabili da una mente umana per quantità e qualità del dettaglio, la cui analisi e combinazione permette di scoprire strutture e patterns di regolarità laddove prima si scorgeva solo caos, disordine e casualità. La potenza dell’algoritmo è infatti in grado di digerire e metabolizzare i dettagli e gli elementi fattuali, contestuali, e giuridici di milioni di casi già decisi in precedenza, prevedendo l’outcome della controversia con un altissimo grado di accuratezza. La creazione di modelli predittivi complessi su questa base rende così accessibile e conoscibile qualcosa che prima non lo era con mezzi umani, un nuovo livello di realtà. Dati, dati, e ancora dati. Attraverso le loro combinazioni è possibile una conoscenza sovrumana condotta scientificamente; da cui l’accusa, spesso mossa, e con buone ragioni, di “anti-umanesimo” del mondo legal tech[10].
L’uso di questi strumenti è stato confinato il più delle volte fuori dal processo vero e proprio, in chiave preventiva dello stesso, cioè per prevederne l’esito possibile. Una sorta di do-it-yourself justice[11], una “giustizia fai da te” messa in atto consultando il responso di software decisionali che anticipano i probabili (o probabilissimi) orientamenti giurisprudenziali sulla base delle precedenti statuizioni. Gli esempi sono ben noti. Si riporta che alcuni ricercatori dell’University College di Londra e dell’University of Sheffield nel 2016 hanno creato un algoritmo in grado di prevedere in anticipo l’esito di alcune controversie riguardanti i diritti umani in decisione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in particolare, sulla base degli artt. 3, 6, e 8 della relativa Convenzione) a partire dalla struttura morfologica, e quindi dall’analisi semantica, delle precedenti sentenze in casi simili; ebbene, l’algoritmo ha previsto le conclusioni dei giudici nel 79 per cento dei casi[12]. E inoltre apprendiamo di un software, Case Cruncher Alfa (il nome dice molto: in italiano suonerebbe qualcosa come “il masticatore di casi”), elaborato da alcuni studenti di giurisprudenza dell’Università di Cambridge, il quale è risultato vincitore, gareggiando contro un pool di avvocati specializzati provenienti dai migliori studi legali inglesi, nel predire le soluzioni di 750 casi riguardanti controversie in materia di assicurazioni decise dal Financial Ombudsman: mentre la percentuale “indovinata” dal software è del 88, 6 per cento, quella della squadra composta da uomini si assesta al 62,3 per cento[13]. In Francia, poi, è operativa la piattaforma Predictice, già testata presso due corti di appello e ora ampiamente utilizzata da colossi assicurativi per testare la probabilità di successo caso per caso nell’eventualità di contenzioso e di valutare conseguentemente la strategia processuale più adatta. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Nulla esclude, però, che l’uso di questi strumenti possa avvenire anche dentro al giudizio, e cioè o in funzione decisionale vera e propria o quantomeno per orientare, con varia forza, la decisione umana. In un mondo fatto così, il giudice, ove presente, sarà sempre più spinto a conformarsi passivamente alla decisione che gli viene proposta dall’algoritmo e solo se vorrà discostarsene sarà sottoposto a più intensi doveri di motivazione. Ma quanto vorrà? Già Francesco Carnelutti, sul finire degli anni ’40, si preoccupava di questo, rilevando come l’uso (acritico) da parte dei giudici delle massime giurisprudenziali li dispensasse dalla «fatica del pensare»[14].
È senza dubbio vero che, ora, paventare lo scenario del giudice-robot è nella migliore delle ipotesi prematuro, se non proprio un esercizio di fantascienza giuridica. Ciò non toglie che, filosoficamente, valga la pena vagliare l’ideologia sottostante la giustizia algoritmica, e cioè quella di ridurre, assottigliare la discrezionalità del giudice in tutte le sue ramificazioni, fino all’ideale regolatore della sua eliminazione completa – e non mi pare certo un caso che questa esigenza sia così potente e insistente proprio in questa epoca, la nostra, che ha visto il ruolo del giudice assumere un’importanza cruciale nella governance delle nostre società ai più vari livelli.
3. L’eterno enigma del diritto
La realtà è che fare giustizia è molto più difficile che applicare la legge.
Il diritto vive in bilico tra la certezza (che presuppone l’immutabilità) e il bisogno di adattamento (che comporta, per definizione, evoluzione e quindi incertezza). È questo uno dei molteplici paradossi del diritto, uno degli enigmi che ne caratterizzano il funzionamento. Questo eterno problema può anche essere declinato come dilemma tra l’esigenza di certezza e quella di giustizia[15]. Infatti, le regole che compongono il diritto richiedono adattamento al caso concreto, o richiedono una loro evoluzione e cambiamento quando la loro interpretazione o applicazione appare (è) ingiusta. Tutto si regge, si appoggia quindi sul giudizio.
Il diritto esige quindi questa contraddizione.
Nel mondo degli algoritmi, invece, un diritto troppo calcolabile è un diritto cristallizzato e cementificato. Un diritto assolutamente calcolabile è un diritto nel quale il giudice è incoraggiato a conformarsi, omologandosi, al flusso di decisioni passate, producendo automaticamente risultati sempre identici a sé stessi (effetto “performativo”). Nei casi in cui il giudice si conformi – e l’argomentazione non deve sorprendere – egli sarebbe premiato con la possibilità di motivare succintamente, o non motivare affatto, bastando il richiamo a quanto “deciso” dall’algoritmo.
Gli effetti del conformismo giudiziale non vanno affatto sottovalutati; quest’ultimo - come rileva molto opportunamente e molto criticamente ancora Antoine Garapon – «renforce la culture, l’idéologie dans le sens de Ricoeur, au détriment de l’utopie»[16]. Portare a compimento totale il miraggio positivista del giudice-robot significa null’altro che rinforzare le soluzioni dominanti, lo stato dell’arte, il “come stanno le cose” (l’“ideologia”) a scapito, ricoeurianamente, del pensiero utopico.
Non era così che dovevano andare le cose, verrebbe da dire… Il giudice, storicamente, ha sempre svolto - negli interstizi interpretativi più o meno ampi lasciati dal legislatore, nelle fessure che le parole lasciano aperte e nella misura del consentito – una attività interpretativa volta a garantire una decisione giusta, ma giusta nel senso di giusta nel caso concreto, cioè in questa ipotesi qui, irrepetibile nella sua singolarità, hic et nunc, davanti a queste, e non altre, persone. Come già rilevava sempre Carnelutti, la giustizia – se è veramente tale – è sempre giustizia del caso singolo[17].
Prendere sul serio il giudizio significa quindi destreggiarsi tra la complessa dialettica tra regole e principi, tenere conto delle esigenze e degli interessi in evoluzione e financo – di fronte a casi nuovi – il dovere di inventare (nel senso latino di invenire, cioè “trovare dopo aver cercato”, a partire dal materiale dato) una soluzione, e giustificarla[18]. Tutte esigenze che si pongono in contrasto con gli obiettivi della giustizia algoritmica. I giuristi sanno bene che gran parte dell’evoluzione del diritto avviene nel (e tramite il) giudizio, cioè attraverso l’attività interpretativa, o interpretativo-creativa, del giudice; e ciò sconfessa, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la presunta “immunità” del diritto da quel senso di giustizia che guida l’interprete, il quale, avendo di fronte a sé questo specifico caso di specie, è chiamato a decidere. E – si badi bene – questa non è solo una innegabile affermazione descrittiva di uno stato di cose, ma una affermazione normativa, nel senso che è giusto e bene che sia così.
Mi sia consentito riportare a questo proposito un bel passo di Luciana Breggia (magistrato oltre che studiosa di diritto) in un recente articolo dedicato alla prevedibilità delle decisioni e all’umanità nel diritto:
Il giudizio umano è l’unico che può valutare quel singolo fatto per dargli valore anche al di là della fattispecie espressa e, attraverso i criteri ermeneutici, può dare rilevanza ad interessi materiali non espressamente o non completamente formalizzati nella fattispecie, ma degni di tutela alla luce del complessivo sistema delle fonti e dei principi costituzionali, eurounitari e internazionali[19]. (enfasi nostra).
Torniamo al punto di partenza, e cioè che fare giustizia è cosa ben più complessa che applicare il diritto. Fare giustizia, tra le molte altre cose, significa – come recita il passo - valutare singoli fatti per attribuire loro valore anche al di là della fattispecie espressa, e dare rilevanza a interessi materiali non espressamente o completamente esplicitati nella singola disposizione normativa. Sono affermazioni importanti, che devono essere meditate[20]. Certo, tutto ciò non significa potersi muovere al di fuori dei confini del diritto. Il giudice, dando spazio ai valori di giustizia, deve operare pur sempre dentro la legalità; anzi, possiamo dire che solo così facendo la attua appieno e nella maniera più genuina possibile. Una legalità che va oltre il legalismo formalista. Dal costituzionalismo dei principi, dalla sua portata sovversiva - come ben rileva Paolo Grossi - non si torna indietro. Da qui il capovolgimento: il “vero diritto” è incerto, e non può che esserlo[21].
Senza avallare un tanto inammissibile quanto pericolo soggettivismo del giudice, ognuno vede con chiarezza la porosità dei concetti riportati nel passo citato, quali “complessivo sistema delle fonti”, “principi costituzionali” ecc. e come questi abbiano il grande pregio di saper recepire, entro i confini della legalità costituzionale, quell’in-determinabile senso di giustizia che alla fine di ogni discorso non può che ricadere sul singolo giudicante.
Senza dimenticare infine che questo benefico margine di discrezionalità non è limitato al diritto ma si esprime anche nel momento della ricostruzione delle questioni di fatto. Queste – come giustamente sottolinea ancora Luciana Breggia – devono essere ricostruite «anche in base alle narrazioni processuali dei soggetti coinvolti, cariche di percezioni, emozioni, punti di vista»[22]. Infatti, solo «l’ascolto empatico» che è «proprio dell’umano» è in grado di dare corpo e consistenza alle istante di giustizia che devono essere riempite di senso, laddove invece una macchina «riduce la discrezionalità a un calcolo probabilistico».[23]
Ecco quindi riemergere la funzione inventiva del giudizio.
Va da sé che il tema cruciale è quello dell’educazione del giudice e della formazione della sua sensibilità. Non giudici purchessia, quindi, ma giudici attenti, consapevoli, sensibili, empatici; qualità irrinunciabili per svolgere una funzione tanto terribile come quella del giudicare (cfr. già, a questo proposito, le severe parole di Salvatore Satta: «Che una persona, un uomo, possa giudicare di un altro uomo è cosa che a noi sembra naturale (…): ma se ci si pensa un momento si vede subito che questo è uno dei misteri, forse il più grande, che stanno alla base della vita sociale. (…) Ciò significa che la forza su cui il giudice si regge, la fonte della sua autorità, non è umana, ma divina, è il charisma…»[24]). La bontà e la tenuta di un sistema si regge su queste qualità che si ottengono – certo nel lungo periodo – con una preparazione universitaria eccellente, una conoscenza teorica unita da uno spiccato senso pratico e una visione quanto più possibile consapevole delle infinite complessità della realtà e di ciò che è relazione, e cioè con un pensiero critico affinato, che rifugge il semplicismo, i giudizi taglienti, l’ottusità.
Anzi, la filosofa del diritto americana Martha Nussbaum – che più di tutti ha studiato a fondo l’importanza delle emozioni nella giustizia e nella vita politica[25] – consiglia come parte integrante dell’educazione e dell’attività dei giudici la lettura delle grandi opere letterarie e dei classici senza tempo, che parlano di uomini e vicende, dolori e complessità dell’anima. Solo in questo modo sarebbe possibile fare autentica giustizia. Nonostante questo consiglio possa sembrare, a prima vista, ingenuo o suscitare un sorriso, esso rivela in realtà una grande verità. E cioè che il desiderio, che si traduce in sforzo (per certi versi lodevole), di ottenere buone sentenze a prescindere dalle qualità umane di chi giudica è una impresa votata allo scacco, al fallimento. Siamo consapevoli, infatti, che il diritto, per quanto lo si intenda in senso ampio, non è tutto, ma che, più ancora in generale, ciò che conta è la qualità del sistema civile di riferimento, del quale il diritto è solo una parte, e forse nemmeno la più importante.
4. Gli usi processuali delle emozioni
Giudicare significa quindi non essere impermeabili, ma in ascolto. Colui che giudica, anzi, deve lasciarsi muovere dalla viva esperienza nella quale è processualmente immerso. Il processo è un contesto pervaso da emozioni fortissime; il tribunale è il luogo delle emozioni forse come pochi altri della vita sociale e tutti gli attori processuali sono anche attori emotivi. Ma il punto che vorrei enfatizzare è che non solo l’emotività del giudice è un dato innegabile, ma anche che è un qualcosa che può e deve essere incanalato positivamente.
Certo, se la domanda fosse se è bene che il giudice decida secondo i propri sentimenti e le proprie emozioni, e cioè sulla base di giudizi più o meno coscienti di antipatia e simpatia, o di rabbia, ira, collera, irritazione, tristezza, affetto, turbamento, e così via, essa non avrebbe nemmeno senso di esser posta. A ciò osta l’elaborazione plurisecolare del concetto di stato di diritto e del principio di legalità. I codici processuali, poi, si premurano di garantire che un giudice, in quelle ipotesi in cui sia coinvolto emotivamente, sia privato del potere di decidere. A salvaguardia del principio di imparzialità, la disciplina dell’astensione e della ricusazione, nel processo civile (artt. 51 e 52 c.p.c.), prevede che il giudice debba astenersi (e correlativamente possa essere ricusato) in caso di «grave inimicizia», sua o del coniuge, con una delle parti o con i difensori, o in altre ipotesi tipizzate in cui il suo “portato emotivo” potrebbe condurlo a favorire l’una o l’altra parte (come nel caso di vincoli di parentela, o di particolare frequenza di contatti con le parti).
Il codice, quindi, vuole serenità di giudizio; quella serenità che deriva dal disinteresse. Ma ciò non significa affatto che il giudice non sia chiamato, nel corso del giudizio, a fare uso di quella qualità eminentemente umana che è la comprensione delle proprie e altrui emozioni, e a servirsene. Si è già fatto cenno al delicato giudizio di diritto, che chiama il giudice a prendere in considerazione e valorizzare interessi ed esigenze anche non formalizzate nelle singole disposizioni ma desumibili dai principi generali, e come questa valorizzazione coinvolga necessariamente il senso di giustizia di un buon giudice.
Questo uso intelligente della soggettività lo si ritrova anche a proposito della valutazione degli elementi fattuali. È qui che un approccio puramente calcolatore mostra, forse, il suo volto più debole.
Solo a guisa di esempio: ai sensi dell’art. 116 del c.p.c. il giudice deve valutare la prova secondo il proprio «prudente apprezzamento», espressione che codifica il principio del “libero convincimento” (il «contenitore di emozioni» del giudicante[26]), mentre l’art. 533 c.p.p. afferma il canone dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» nel riconoscimento della colpevolezza dell’imputato. Certo, saremo gli ultimi a disconoscere la essenziale necessità di criteri razionali e obiettivi nel percorso di valutazione probatoria che rendano la decisione del giudice quanto più controllabile intersoggettivamente[27]; ma di certo è difficile spingersi fino al punto di voler negare la presenza e l’importanza di un nucleo infrangibile, un segmento ultimo e insopprimibile di soggettività insito nel convincimento personale e nella valutazione della ragionevolezza o meno del dubbio circa la colpevolezza. Potremmo davvero immaginare un giudice che si trovi a condannare un imputato, in ipotesi a una pena detentiva altissima, perché “dalle carte” oggettivamente, matematicamente, emerge che non vi sono dubbi ragionevoli circa la colpevolezza, pur non credendo egli, dentro di sé, a quella ricostruzione?
5. Conclusione. «Un algoritmo non si può convincere» (in difesa dell’umanità del giudicare)
Che ne è quindi della immacolata, pura logicità controllabile, verificabile del giudizio, inteso come dover essere regolativo?
Sul carattere puramente logico del giudizio rileggiamo Carnelutti il quale - in un dimenticato e visionario saggio[28] – scrisse che credere che il giudizio dimostri qualcosa significa commettere «l’errore di confondere la sentenza con la sua motivazione» sicché bisogna invece tenere a mente che «la motivazione giustifica, non scopre la disposizione»[29]. La distinzione alla quale Carnelutti fa riferimento è quella, ben nota, tra “contesto di scoperta” e “contesto di giustificazione”, ossia tra ragioni che spiegano e ragioni che giustificano (i “buoni argomenti” veri e propri) e in definitiva tra nozione psicologica e nozione logica del ragionamento. Prima il giudizio si forma, nasce internamente in noi e poi ne vengono esplicitate le ragioni. Naturalmente – ma non c’è, forse, nemmeno necessità di ribadirlo - tutto ciò non toglie che «vi è bisogno non solo di scoprire ma di giustificare la scoperta» e che quindi «nessuno di noi giuristi è disposto ad ammettere una sentenza non motivata». Piuttosto ciò porta ad avere consapevolezza che – nel giudizio – «la logica sillogistica… era parziale» e che non è possibile scorgere nel sillogismo «l’atto logico originale»[30].
Dove risiede quindi questo atto logico originale che dà vita e corpo al giudizio?
«Il diritto (c’è ancora bisogno di dirlo?) – afferma e si chiede ancora Carnelutti - è un fatto essenzialmente spirituale». Esso, in quanto tale, non è riducibile all’insieme delle sue parti: «la norma giuridica in sé, o un complesso di norme, un codice per esempio, è un pezzo del diritto, non tutto il diritto, cioè il diritto vivo nella pienezza della sua vita» la quale «si accende (…) quando le norme sono applicate o anche siano violate». Il diritto è viva esperienza umana: «un contratto, un delitto, un processo sono degli uomini uno di fronte all’altro», e perciò «bisogna capire quegli uomini per capire il diritto». Ecco l’umanità del giudizio. Il diritto inteso nella sua umanità non solo «è materia ribelle ai numeri» ma anche – aggiunge qui Carnelutti, toccando vette inarrivabili del pensiero giuridico – «alle parole»[31]. Ma in che senso l’esperienza giuridica sarebbe ribelle alle parole? Egli intende – se ben interpreto il suo pensiero - la parola logica, escludente, categorica, che de-termina e de-finisce (cioè che stabilisce il termine e la fine, che fissa i significati), che pretende di tagliare, e quindi recintare le intere sfumature in-dicibili e inarticolabili delle esperienze umane dentro argini concettuali. Egli, invece, non si riferisce certo alla parola parlata, recitata, narrata, raccontata, viva e vissuta; quella che si manifesta nel dialogo processuale, la “oralità” intesa non solo in chiave semplificatoria (come spesso, riduttivamente, si intende oggi) ma soprattutto come veicolo per l’approdo a una soluzione giusta.
Ecco quindi la accentuata enfasi di Carnelutti sulla dimensione dialogica della giustizia. Il parlare processuale è, sotto questo aspetto, espressamente poetico, nel senso che non vede le parole nell’univocità del loro significato. «La parola – egli prosegue con un linguaggio evocativo che ci indica la giusta strada da seguire – ha da essere parlata affinché se ne esprima la musicalità. E con l’oralità affiora la eloquenza. (…) Ma l’eloquenza combina la musica con la poesia. E il segreto della musica è la pausa; mediante i suona essa riesce a far gustare il silenzio. Non basta scrivere, bisogna parlare col giudice; e non basta spesso il discorso, se non è un’orazione perché a lui s’ha da fare intendere ciò che non si può dire»[32].
Dire l’indicibile, quindi: questo il fondamento e la funzione allo stesso tempo paradossale e necessaria del giudizio.
[1] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Proc., 2014, 44 e seg.
[2] B. Celano, Ragionamento giuridico, particolarismo. In difesa di un approccio psicologistico, in Riv. Fil. Dir., 2017, 315 e seg.
[3] N. Irti, Nomos e lex (Stato di diritto come Stato della legge), in Riv. Dir. Civ., 2016, 590; Id., Un diritto incalcolabile, ivi, 2015, I, 1; Id., Capitalismo e calcolabilità giuridica (letture e riflessioni), in Riv. Soc., 2015, 801; Id., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Civ., 2014, 687. V. poi la raccolta di questi studi in Id., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016.
[4] Oltre agli studi sulla (in)calcolabilità del diritto citati alla nota precedente, adde A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna, 2017, volume nel quale la studiosa ha raccolto alcune delle riflessioni svolte durante i “Seminari Leibniz per la teoria e la logica del diritto” svoltisi presso l’Accademia Nazionale dei Lincei (Roma, ottobre 2019).
[5] P. Zellini, La dittatura del calcolo, Milano, 2018.
[6] Il riferimento è, ovviamente, al celebre Pensiero «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (B. Pascal, Pensieri (1670), in B. Pascal, Pensieri, opuscoli lettere, a cura di A. Bausola, R. Tapella, Milano, 1997, 585).
[7] Questa trascendenza della giustizia è resa con viva materialità dalle parole del Calamandrei, Fede nel diritto (a cura di S. Calamandrei, con saggi di G. Alpa, P. Rescigno, G. Zagrebelsky), Roma – Bari, 2008, 64: «Giustizia? (…) Due litiganti vanno dinanzi al giudice e tutt’e due, per soverchiare l’avversario, invocano la giustizia; la parola è la stessa, ma per ciascuno di essi vuol dire l’opposto, vuol dire la propria vittoria e la rovina del suo contraddittore. Due popoli si scannano per la conquista di un regno: tutt’e due hanno scritto la parola diritto sulla propria bandiera; ma il diritto qual è, quello del vincitore o quello del vinto, quello di chi vuol mantenere le proprie leggi, o quello di chi vuole instaurare un ordine nuovo in luogo delle leggi abbattute?».
[8] A. Garapon, Les enjeux de la justice prèdictive, in La semaine juridique (éd. gén.), 9 gennaio 2017, n. 1-2.
[9] Sull’ideologia “mitica” del codice (nel senso di credenza mitologica), si vedano le notazioni di P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma – Bari, 2015 (cap. significativamente intitolato “Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto”), 51 e seg., spec. 58.; nonché nella raccolta Id., Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007.
[10] A. Garapon, op. cit., 49
[11] A. Garapon, op. cit., 51.
[12] Lo riporta E. Gabellini, La «comodità del giudicare»: la decisione robotica, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2019, 1309.
[13] E. Gabellini, op. cit., 1310.
[14] F. Carnelutti, Giurisprudenza consolidata (ovvero della comodità del giudicare), in Riv. Dir. Proc., 1949, 41 e seg.
[15] Lucidamente, F. Carnelutti, La certezza del diritto, in Riv. Dir. Proc., 1943, 81 e seg. (a margine, criticamente, del volume di F. López de Oñate, La certezza del diritto, Roma, 1942).
[16] Garapon, op. cit., 52 (che cita, in nota 11, P. Ricoeur, L’idéologie et l’utopie).
[17] Così, incisivamente, F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, 138.
[18] Sul carattere radicalmente inventivo del diritto (carattere tanto spesso quanto infruttuosamente messo in ombra nella storia), nel quadro della fine delle “grandi narrazioni della modernità” e dell’avvento del costituzionalismo, P. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma – Bari, 2017. Più di recente, cfr. anche Id., Prefazione, in R. G. Conti (a cura di), Il mestiere del giudice, Milano, 2020 e Id.,
[19] L. Breggia, Prevedibilità, predittività e umanità nella soluzione dei conflitti, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, 395 e seg.
[20] Ricca di significato, a questo proposito, l’intervista ai Professori Gaetano Silvestri, Vincenzo Militello, e Davide Galliani, sulla dinamica tra regole e principi sopranazionali, a cura di R. G. Conti, Il giudice disobbediente nel terzo millennio, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/669-il-giudice-disobbediente-nel-terzo-millennio , e quella ai Professori Antonio Ruggieri e Roberto Bin, a cura di R. G. Conti, Giudice o giudici nell’Italia postmoderna? Le risposte, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/620-2.
[21] P. Grossi, Ritorno al diritto, cit., 66: «la cosiddetta incertezza del diritto, che non si può non cogliere quale fattore negativo se si assume un angolo di osservazione prettamente legalistico, merita un capovolgimento valutativo, se la si vede come il prezzo naturale da pagare per il recupero di una dimensione giuridica che sia veramente diritto».
[22] L. Breggia, op. cit.
[23] L. Breggia, op. cit.
[24] S. Satta, La tutela del diritto nel processo (1950), ora in Il mistero del processo, Milano, 1994, 65. Sulla complessità umana del giudizio, v. anche le recenti e profonde riflessioni di un altro grande processualcivilista, V. Colesanti, Sulla legittimazione a giudicare (meditazioni su un alto pensiero «chi sono io per giudicare?»), in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, 1081 e seg.
[25] M. Nussbaum, Poetic Justice: The Literary Imagination and the Public Life, Beacon Press, 1995; Id., Upheavals of Thoughts: The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, 2001; Id., Political Emotions. Why Love Matters for Justice, Harvard University Press, 2013.
[26] L. Lanza, Emozione e libero convincimento nella decisione del giudice penale, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, 2011 (online)
[27] J. Ferrer Beltran, Prova e verità nel diritto, Bologna, 2004; Id., La valutazione razionale della prova, Milano, 2007.
[28] F. Carnelutti, Matematica e diritto, in Riv. Dir. Proc., 1951, 201 e seg.
[29] F. Carnelutti, ult. op. cit., 202, 203.
[30] F. Carnelutti, ibid.
[31] F. Carnelutti, ult. op. cit., 211 – 212.
[32] F. Carnelutti, ult. op. cit., 212.
Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Tredici giorni - 2. La decisione della CEDU - 3. Ancora una condanna in materia di tutela della salute in carcere - 4. Il tempo trascorso e i problemi ancora sul tappeto.
“Mi perseguitano delle cose, non riesco a mandarle via, non c’è fuga possibile.
Affogo nella mia mente.”
da “Tutto chiede salvezza”, Daniele Mencarelli, 2020
1. Tredici giorni
A.C. è morto suicida nel carcere di Messina il 16 gennaio 2001. Aveva trent’anni, era stato riconosciuto affetto da un quadro di complessi disturbi della personalità, aveva subito ricoveri in osservazione psichiatrica, aveva posto in essere tentativi suicidiari e altri acting out autolesivi. Gli ultimi giorni della sua vita, dall’inserimento il 3 gennaio in una sezione definita come “di sosta” in cella singola, mostrano una sequenza di comportamenti di difficile gestione, la richiesta di isolarsi dagli altri compagni e l’autolesionismo. Una visita psichiatrica suggerisce l’adozione della c.d. sorveglianza a vista, e dopo due giorni la richiesta al magistrato di sorveglianza, subito accolta ex art. 112 reg. es. ord. penit., nel persistere dei sintomi e in assenza di compliance del paziente alla terapia farmacologica, di un nuovo ricovero in osservazione psichiatrica presso l’allora esistente ospedale psichiatrico giudiziario. A.C. richiede di vedere i suoi genitori e poi il suo difensore. In entrambi i casi, a seguito delle sue doglianze, riesce ad effettuare i colloqui. Si barrica nella sua camera detentiva, oscura la luce della finestra e per due giorni resta completamente al buio, al punto che i controlli si effettuano usando delle torce elettriche. Si preferisce non forzare un accesso alla stanza, per non pregiudicare ulteriormente il precario equilibrio del detenuto. Un nuovo controllo dello psichiatra conduce ad una reiterata richiesta di trovare un posto disponibile in OPG. Dopo il colloquio con il difensore, avvenuto all’interno di quella cella al buio, A.C. afferma di voler riprendere le cure e di essere disposto a ripristinare una normale condizione della stanza. Dopo nemmeno ventiquattro ore di apparente calma, si toglie la vita per impiccagione. Inutili i soccorsi, apprestati con le ulteriori difficoltà connesse alle condizioni della cella.
2. La decisione della CEDU
Il 4 giugno 2020 la I sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione (“Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge…”), in particolare perché tale disposizione non si limita a richiedere agli Stati che si astengano dal provocare la morte, ma impone invece l’adozione delle misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione. Una affermazione che diventa particolarmente cogente per le persone private della libertà personale e che la Corte circostanzia alla luce della sua giurisprudenza più recente in materia (vd. Fernandes de Oliveira c. Portogallo, 31 gennaio 2019, in cui tuttavia si parla di una persona volontariamente ricoverata presso un reparto ospedaliero psichiatrico[1]). In particolare, l’obbligo sussiste ove l’autorità disponga di elementi dai quali dedurre “un rischio reale e immediato” che l’interessato possa attentare alla propria vita. In tali casi la violazione è dimostrata se si verifica che lo Stato non ha adottato tutte le misure ragionevoli per contrastare concretamente un tale rischio. La giurisprudenza della CEDU enuncia un elenco di fattori sintomatici in tal senso, che comprendono una valutazione anamnestica dei disturbi psichici, la gravità delle patologie riscontrate, i precedenti autolesivi o addirittura i tentativi di suicidio, i malesseri fisici e psichici e l’ideazione suicidiaria riferiti.
Attraverso una disamina puntuale dei fatti solo succintamente riportati nel par. 1 di questa breve lettura, poggiando anche sui corposi atti del procedimento penale svoltosi a Messina e poi conclusosi con l’assoluzione dall’accusa rivolta ad otto persone, tra le quali l’allora direttrice dell’istituto penitenziario e lo psichiatra, di non aver impedito il suicidio di A.C., la CEDU perviene alla condanna dell’Italia.
L’amministrazione era a conoscenza delle condizioni di salute psichica del detenuto, tanto da aver posto in essere azioni specifiche al riguardo, ed era in grado di apprezzare un rischio concreto che lo stesso ponesse in atto condotte suicidiarie, già varie volte tentate in passato. Plurimi sono gli indici che quindi consegnano ai giudici di Strasburgo una fotografia che considerano di carente diligenza da parte delle autorità: troppo lungo l’intervallo di tempo trascorso tra la deliberazione del magistrato di sorveglianza, il 9 gennaio, circa la necessità del trasferimento in Opg, e la morte di A.C.; contraddittoria la decisione presa di ridurre, seppur di poco, il livello di sorveglianza previsto, da “a vista” a “grandissima sorveglianza”, con pur frequentissimo, ma non meglio specificato negli atti forniti alla Corte, controllo da parte degli operanti di polizia penitenziaria; carente la supervisione medica circa l’effettiva assunzione della terapia farmacologica; infelice la scelta di non rimuovere le barricate e gli scuri apposti dall’interessato, in preda ad una evidente acuzie patologica, pur se dettata dall’obbiettivo di evitare ulteriori traumi all’interessato; intermittente la presenza dello psichiatra, per altro non sempre lo stesso, che visitò in alcune giornate il paziente, a dispetto di quanto le Raccomandazioni, già all’epoca in vigore, del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, prevedessero circa la necessaria costanza nel controllo specialistico dei detenuti con rischio suicidiario (“sarebbe stato necessario prevedere delle consulenze psichiatriche quotidiane”).
La Corte ritiene sostanzialmente assorbita la doglianza relativa all’art. 3 CEDU, mentre rigetta la richiesta relativa alla violazione procedurale dell’art. 2, per la quale lo Stato ha l’obbligo di stabilire le cause della morte della persona e di compiere una verifica specifica circa le eventuali responsabilità anche di tipo omissivo da parte delle autorità competenti e ritiene che, nel caso specifico, il processo svoltosi, previe indagini della Procura della Repubblica di Messina, sia stato scrupoloso e basato su una ricerca di elementi effettivi sulle circostanze del decesso di A.C.
3. Ancora una condanna in materia di tutela della salute in carcere
Come noto, il diritto alla salute non trova una sua espressa formulazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e la Corte di Strasburgo ne ha dunque ricondotto, volta a volta, la tutela a quella del diritto alla vita (art. 2) , alla dignità umana (art. 3), al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). Con riferimento alle persone detenute, cui viene riconosciuta una condizione di particolare vulnerabilità in connessione con la propria condizione, il diritto alla salute è molte volte ricondotto all’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani). La CEDU affronta il tema da tempo con una giurisprudenza consolidata e illuminante, a far data dalla storica sentenza Kudla v. Poland, 26 ottobre 2000, di cui ricorre significativamente il ventennale, quasi parallelo ai tragici fatti di cui alla condanna in commento. Una detenzione in cui le condizioni di salute patologiche non siano adeguatamente e tempestivamente prese in carico aggiunge alla sofferenza che inevitabilmente discende dalla privazione della libertà un peso aggiuntivo, che può divenire intollerabile e che incide sulla stessa dignità umana. Questa breve osservazione non può avere l’obbiettivo di riprendere i molteplici filoni di censura rivolti al nostro paese che negli anni hanno riguardato questa materia e che costituiscono altrettanti insegnamenti fondamentali perché gli operatori interni possano orientare le difficili scelte che in questo campo sono chiamati a compiere. Il fattore tempo assume un rilievo essenziale, come per altro accade pure nel caso Citraro qui in commento, le cure fornite ai detenuti non possono essere inferiori a quelle offerte ai cittadini liberi, né le condizioni di sovraffollamento possono giustificare un accesso sporadico e comunque insufficiente ai servizi sanitari. Neppure è giustificabile che il ritardo sia attribuito ad eventuali rimpalli di responsabilità tra amministrazioni coinvolte.
La sentenza Citraro, in particolare, riprende principi consolidati nella drammatica materia della tutela dei soggetti con patologie psichiatriche e con pregressi tentativi suicidiari, in cui l’obbligo positivo da parte dello Stato di tutelare la vita della persona posta nella sua responsabilità durante la restrizione della libertà pone in primo piano l’art. 2 della Convenzione e, nonostante ci si muova con grande prudenza per evitare di imporre oneri oggettivamente inesigibili alle autorità, si richiede di poter individuare quali azioni credibilmente efficaci le stesse abbiano posto in essere per scongiurare il verificarsi di un evento suicidiario. In tal senso la lettura delle motivazioni ci consegna una sintesi lucida e stringente tanto degli elementi che definiscono la prevedibilità di un pericolo concreto di suicidio, valutati appunto con grande prudenza soltanto a fronte di evidenze documentali, quanto dei molteplici elementi di contraddizione che, nel caso concreto, hanno poi condotto alla condanna e che non possono che interrogare drammaticamente chi conosca la realtà del carcere, di ieri come di oggi.
4. Il tempo trascorso e i problemi ancora sul tappeto
Il suicidio di A.C. è avvenuto quasi venti anni fa. Molto è dunque cambiato, anche dal punto di vista normativo, rispetto all’epoca dei fatti. Non sono purtroppo divenuti più episodici i suicidi nel contesto penitenziario[2]. Non è meno urgente la concretizzazione di più efficaci strategie di presa in carico delle patologie psichiatriche in carcere.
Non può negarsi che si siano compiuti in seguito passi di civiltà fondamentali e plurimi tentativi di affinare l’attenzione degli operatori al problema: il complesso passaggio della sanità penitenziaria alla competenza del Ministero della Salute e delle Regioni, come accade per tutti i cittadini, completato con DPCM 1 aprile 2008; la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari con L. 81 del 30 marzo 2014, a partire dal 31 marzo 2015; gli Accordi in Conferenza Unificata in tema di prevenzione delle condotte suicidiarie; i numerosi protocolli in merito adottati nelle singole Regioni con i Provveditorati regionali e con tutti gli istituti penitenziari; le circolari reiteratamente proposte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a fronte di un incessante ripetersi di casi di suicidio all’interno delle mura del carcere.
Ne emerge con chiarezza la necessità di affrontare con tempestività e capacità di organizzazione la presa in carico dei detenuti sin dal momento dell’ingresso, intercettandone il disagio psichico ed integrando gli interventi delle diverse aree coinvolte.
Parallelamente, al tema della salute mentale in carcere era stato dedicato uno spazio significativo nei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale e le Commissioni di riforma dell’ordinamento penitenziario avevano consegnato al legislatore delegato, in relazione alla delega contenuta nella legge 103/2017, soluzioni importanti per incidere in modo significativo su alcune delle più gravi criticità riscontrate, anche all’esito della citata necessaria chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
In particolare, sotto questo profilo, resta la consapevolezza che, mentre per l’esecuzione delle misure di sicurezza gli OPG hanno trovato nella presa in carico territoriale e, solo come ultima ratio, nelle REMS, le nuove soluzioni operative, per le persone affette da problematiche psichiatriche in esecuzione di pena è oggi approntato un sistema di reparti di osservazione all’interno di alcune strutture penitenziarie (cui si viene ancora inviati su disposizione dell’a.g. ex art. 112 reg. es. ord. penit.), che possono essere sovraffollate e richiedono comunque tempi di attesa prima dell’inserimento, e di c.d. “articolazioni per la salute mentale”, la cui diffusione sui territori è assai diseguale, con inevitabili conseguenze sulla virtuosa presa in carico da parte dei servizi sociali e dei centri di salute mentale che, invece, costituisce la chiave essenziale per interventi efficaci.
Come noto, soltanto in minima parte le proposte di riforma hanno trovato nei d.lgs. 123 e 124 del 2018 una loro concretizzazione e così se, ad esempio, nel nuovo testo dell’ art. 11 ord. penit. inspiegabilmente non si cita più la dotazione di almeno uno specialista in psichiatria per ogni istituto penitenziario (tragicamente quasi adattando il dato normativo ad un fatto che troppe volte accade), è però rimasto un forte richiamo, fondamentale per la tutela della salute psichica, alla necessaria continuità degli interventi sanitari e all’uniformarsi a principi di metodo proattivo, di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni, di integrazione dell’assistenza sociale e sanitaria (art. 11 co. 7 ult. parte ord. penit.).
La Corte Costituzionale, poi, con la sentenza 19 aprile 2019 n. 99, ha ampliato la possibilità di ricorrere alla detenzione domiciliare surrogatoria del rinvio dell’esecuzione della pena ex art. 146 – 147 cod. pen. in correlazione con le condizioni di grave infermità psichica, consentendo con ciò, in linea con quanto la Commissione di riforma aveva immaginato, una via verso l’esterno maggiormente idonea a costruire intorno al detenuto malato un progetto di cure efficaci, ad esempio all’interno di strutture territoriali adeguate.
Tuttavia, la storia di A.C. può purtroppo raccontare, senza poterla affatto archiviare come un drammatico episodio del passato, quella evitabile di altre persone detenute con problematiche psichiatriche che non incontrano ancora efficaci soluzioni di presa in carico realmente integrata all’interno del contesto penitenziario. Accade ancora che, per la difficile compatibilità di molti di loro con i loro compagni, gli stessi vengano volte posti in sezioni “di passaggio”, dove però si resta in quelle celle singole sempre additate come di peculiare rischio per l’incolumità di chi abbia mostrato intenti suicidiari. Accade che l’assistenza degli psichiatri finisca per essere sporadica, quando la CEDU la chiederebbe, almeno per chi si trova in condizioni di particolare acuzie, quotidiana, e che sia apprestata senza che lo specialista chiamato sia sempre lo stesso, impedendo in tal modo il crearsi di quell’alleanza terapeutica che è massimamente importante per garantire una migliore compliance alle cure apprestate. Accade che il rifiuto di assumere le terapie, non certo infrequente a fronte di patologie psichiatriche, possa non essere monitorato a sufficienza, mediante un intervento diretto del medico, ma rilasciato al personale infermieristico, spesso oberato dagli infiniti impegni quotidiani. Accade che queste stesse terapie finiscano per limitarsi a volte a mera sedazione, anche in supplenza di un accompagnamento psicologico e psichiatrico invece fondamentale e non fungibile. Accade che tali detenuti, spesso per altro gravati da plurime marginalità, magari stranieri od ormai privi di un sostegno emotivo familiare, non godano di quel refolo di umanità residua che viene dai colloqui visivi e dai contatti telefonici con i congiunti e che tempera il clima irrespirabile della cella.
Soprattutto vi è il rischio che la persona con problematica psichiatrica, spesso portatrice di una incapacità di rientrare nelle normali regole di convivenza, finisca per inanellare soltanto rilievi disciplinari e sanzioni, innescando un circuito vizioso che gli allontana una possibile progettualità esterna, che invece è così essenziale costruire proprio mediante un approccio multidisciplinare al problema[3]. Ora infatti, che qualche spazio normativo si è aperto, grazie all’intervento della Consulta, occorre costruire i progetti e creare nei diversi attori istituzionali la consapevolezza del contributo che ciascuno può e deve dare.
L’esperienza del magistrato di sorveglianza racconta di quanto il suicidio di una persona detenuta costituisca per l’istituto penitenziario in cui avviene un gravissimo choc negativo, che perturba drammaticamente, ed interpella senza vie di fuga, tutte le persone che fanno parte della comunità penitenziaria. Intorno alla tragedia della persona, con la sua individualità e le sue motivazioni mai fino in fondo perscrutabili, si consuma quello tutto privato dei compagni di pena, con le loro domande, a volte verbalizzate a chi si accosti a loro per condividerne l’angoscia, sul senso di quel che vivono e di quel che hanno condiviso con chi si è tolto la vita, e quello istituzionale delle diverse anime che lavorano quotidianamente perché le pene detentive mantengano la loro funzione costituzionale: dalla polizia penitenziaria, che tante volte riesce ad evitare il peggio, agli operatori giuridico-pedagogici e agli assistenti sociali, sino ai volontari, che spesso sono in grado di intercettare per primi i segnali che possono innescare un virtuoso meccanismo di rete.
Il sovraffollamento penitenziario costituisce, in questo contesto, un grave ostacolo alla realizzazione concreta degli obbiettivi che la CEDU ci chiede di mantenere e che sono alla base della copiosa produzione normativa ed amministrativa in materia. Occorre infatti che vi siano tempi e spazi adeguati per una presa in carico individualizzata delle persone detenute, nonché una formazione specifica di tutte le figure professionali chiamate in prima linea ad affrontare il problema, affinché il carcere possa non soltanto evitare che il peggio accada, ma innescare meccanismi di tutela della salute mentale che, pur a fronte della sofferenza che discende senza illusioni dalla privazione della libertà, prevengano lo slatentizzarsi delle patologie. Su questa strada sono incamminati tutti gli attori del mondo penitenziario, perché ciascuna professionalità è indispensabile e non può arretrare trincerandosi dietro riparti di competenze formali, ma è necessario che si lavori alacremente perché le risorse umane (si pensi alla drammatica carenza di accessi in carcere degli specialisti in psichiatria) e materiali siano decisamente implementate. Soltanto questo sistema potrà esonerarci dalla grave responsabilità che nel caso Citraro e Molino i giudici di Strasburgo ci hanno attribuito.
[1] Grande Chambre Cedu Fernandes de Oliveira c. Portugal, 31.01.2019, in https://hudoc.echr.coe.int/eng/#{"itemid":["001-189880"]}. Vi si legge anche la preziosa opinione, in parte dissenziente, redatta dal giudice Pinto de Albuquerque, che considera necessario che allo Stato siano imposti standard più elevati di tutela quando ci si riferisca a categorie particolarmente vulnerabili di persone ospedalizzate in regimi comunque restrittivi. L’opinione si segnala anche per la domanda di concretezza che la materia impone, tanto da far definire la pronuncia della Corte come “un exercice d’appréciacion judiciaire créatif pour un pays imaginaire”.
[2] Cfr. per un quadro aggiornato e completo circa quest’ultima emergenza e le problematiche connesse alla tutela della salute mentale in carcere oggi costituiscono strumenti di approfondimento fondamentali la Relazione al Parlamento 2020 del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e la relativa Presentazione del 26 giugno 2020 in http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/
[3] E’ di questi giorni la redazione di una versione aggiornata delle Regole penitenziarie europee che, tra l’altro, insistono ulteriormente sui limiti dell’isolamento e dell’uso delle sanzioni disciplinari in genere, in particolare in correlazione con le conseguenze in tema di salute mentale. Cfr. Recommendation Rec(2006)2-rev of the Committee of Ministers to member States on the European Prison Rules revised and amended by the Commitee of Ministers on 1 july 2020 https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectId=09000016809ee581
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