ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervista al Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia
di Donatella Palumbo
Il 5 dicembre 2020 il Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati ha eletto alla carica di Presidente Giuseppe Santalucia, 56 anni, Consigliere della Corte di Cassazione, in servizio alla Prima Sezione Penale, esponente del gruppo Area Democratica per la Giustizia. Presiederà la Giunta Esecutiva Centrale così composta: Alessandra Maddalena (Unità per la Costituzione), quale Vice-Presidente, Salvatore Casciaro (Magistratura Indipendente-Movimento per la Costituzione), quale Segretario, Italo Federici (Unità per la Costituzione), quale Vice-Segretario, Aldo Morgigni (Autonomia&Indipendenza), quale Coordinatore dell’Ufficio Sindacale e Cecilia Bernardo (Magistratura Indipendente-Movimento per la Costituzione), quale Direttrice della Rivista “La Magistratura”. A completare la Giunta Esecutiva Centrale sono state elette le colleghe Angela Arbore (Area Democratica per la Giustizia), Elisabetta Canevini (Area Democratica per la Giustizia), Maria Cristina Ribera (Magistratura Indipendente-Movimento per la Costituzione) e Emilia Di Palma (Autonomia&Indipendenza).
Il 7 novembre 2020 si è insediato il Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati a seguito delle elezioni tenutesi il 18/19 e 20 ottobre 2020. In queste ultime settimane è stato posto in essere ogni sforzo utile per creare le condizioni per la costituzione di una Giunta Esecutiva Centrale unitaria, in primo luogo elaborando una piattaforma programmatica comune che fosse la più inclusiva possibile di tutte le voci delle componenti della magistratura associata per una comune assunzione di responsabilità sulla base di valori, ideali e sensibilità istituzionali condivisi. Perché era cosi importante, soprattutto in questo particolare momento storico, addivenire alla costituzione di una Giunta unitaria?
Una precisazione anzitutto. La Giunta che sono stato chiamato a presiedere non è una Giunta unitaria. Non ne fanno parte, infatti, gli eletti nella lista denominata “Articolo 101”, che non hanno condiviso il programma intorno al quale è poi coagulato il consenso di tutti gli altri componenti del Comitato Direttivo Centrale. È però una Giunta a forte tendenza unitaria, e questo è il primo merito che può riconoscersi ai gruppi che sono presenti nel Comitato Direttivo, mossi dalla consapevolezza, pur nelle innegabili difficoltà e contrapposizioni, che i problemi gravi che incombono sulla magistratura associata non possono essere avviati a soluzione se non con la collaborazione di tutti. Collaborazione che non significa una messa da canto delle ragioni di diversità culturale, ma che è il frutto di una presa d’atto importante. La crisi che ha investito la magistratura ha dimensioni importanti, rischia di aggredire l’essenza stessa dell’esser magistrati, almeno, e non è poca cosa, nella sua proiezione pubblica. Attiene pertanto alla cornice comune entro cui trovano legittimazione le nostre contrapposizioni di idee e di opzioni, le quali sono possibili e utili a condizione che non vacilli la comune base di valori e di doveri. Non si tratta di unanimismo di facciata, di accordi per mettere a tacere, marginalizzandole, le voci critiche che con forza si levano accusando l’Associazione di muoversi secondo vecchie logiche compromissorie di spartizione. L’impegno è piuttosto di farsene interamente carico, di sfruttarne il potenziale di cambiamento trovando una condivisione di metodo che già segna la direzione verso la quale occorre incamminarsi. Ma non, appunto, in ordine sparso, perché la fatica che ci attende è eccezionale. Lo sforzo unitario si è già manifestato nella stesura del programma. I componenti della lista “Articolo 101” hanno segnalato, nel lungo dibattito che ha preceduto l’elezione della Giunta, l’importanza della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, del sistema di nomina della componente togata, dichiarando, in linea con il loro programma elettorale, una scelta netta e ferma per l’introduzione del sorteggio, anche se declinato in forme c.d. temperate. È noto che sul sorteggio come metodo di nomina dei componenti del C.S.M. sono in molti – tra i quali mi annovero –, dentro l’Associazione, ad avere da tempo espresso una contrarietà radicale. Ciò nonostante si è deciso, e secondo me saggiamente, di non fare della negazione del sorteggio una sorta di tabù, ma, se così posso dire, di desacralizzarlo proprio attraverso l’esclusione dall’area dell’indicibile che in qualche modo rischia di accrescerne il fascino in quanti mostrano, con maggior coloritura di toni, insofferenza per alcune esperienze consiliari. La sua messa in discussione entro un più ampio orizzonte di riflessione sui sistemi elettorali possibili, che l’Associazione quanto prima rinnoverà con l’assegnazione del lavoro preparatorio ad una Commissione di studio, vuole avere il significato di massima apertura al dialogo, attestazione di assenza di posizioni preconcette (per quanto esse possano essere culturalmente robuste), affidando alla forza degli argomenti e del pensiero, più che dei numeri, il confronto di posizioni all’interno del Comitato Direttivo Centrale. I componenti di “Articolo 101” non hanno colto questa apertura, l’hanno sostanzialmente svalutata mantenendo una contrarietà al loro ingresso in Giunta. Il luogo della discussione resta comunque il Comitato Direttivo ed è lì che recupereremo le ragioni del confronto unitario.
Come noto, la Magistratura italiana sta vivendo un momento di grandi difficoltà a causa delle recenti vicende che hanno scosso il Consiglio Superiore della Magistratura. Anche per l’avvio di questo nuovo percorso è stata posta al centro dell’azione programmatica la questione morale, con particolare riferimento all’approfondimento delle cause della degenerazione correntizia. Come intendi proseguire l’azione politica su questo fronte per recuperare la credibilità della Magistratura?
La c.d. questione morale è stata indicata, se non erro, al primo posto del programma di Giunta, quasi a segnalarne la centralità. Con i termini “questione morale” intendo riferirmi all’appannamento del profilo deontologico del magistrato, allo scollamento vistoso e pericolosamente diffuso tra l’essere e il dover essere, quale è emerso in occasione delle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Perugia. La mia idea è che il rispetto del codice etico sia condizione per l’accettazione sociale del nostro ruolo. C’è – è indubbio – una componente autoritaria della funzione giudiziaria in forza della quale le decisioni di Tribunali e Corti si impongono ai consociati, a cui non è dato sottrarsi. Se, però, si facesse affidamento soltanto su questo aspetto, si perderebbe di vista, con pericolosa e antistorica miopia, l’importanza, l’essenzialità che in una società democratica i pubblici poteri siano, prima ancora che subiti, accettati. L’accettazione a cui rimando è effetto diretto della credibilità che l’Istituzione preposta all’esercizio di un potere pubblico sa conquistare nel contesto sociale in cui opera. La fiducia collettiva, che è altro dal consenso effimero e fuorviante costruito mediaticamente, è una precondizione dell’esercizio del nostro “terribile” potere, di distribuire torti e ragioni e di assolvere e di condannare. Occorre che il magistrato sia credibile e che non affidi soltanto alla sentenza, o al provvedimento autoritativo in generale, il compito di farsi comprendere. Il magistrato vive nella società e per questo deve essere compreso in e da essa. E allora non sono consentite rozze scissioni tra l’esercitare la giurisdizione e l’essere magistrati. Non voglio dire, con idealizzazioni retoriche, che la nostra sia non una professione ma una missione. Non credo a queste enfatizzazioni, che rimandano alla fastidiosa ipocrisia dei valori predicati e non praticati. Intendo piuttosto porre l’accento sulla necessità che la magistratura recuperi una immagine pubblica in linea con l’importanza del ruolo che le è assegnato, in modo da poterlo svolgere pienamente e con la maggiore efficacia possibile. Il codice etico, per questa via, concorre alla definizione di un modello di magistrato che si pone al servizio della funzione e quindi del servizio che si rende: non un codice della repressione, ma un codice della costruzione politica, ove con questo termine – che nel linguaggio dei magistrati ha spesso ingiustificate ambiguità – voglio intendere la sua vocazione a farsi strumento per la realizzazione del bene comune. L’azione dell’Associazione nazionale, su questo terreno, sarà quella che le è propria: un lavoro eminentemente culturale di orientamento dei magistrati verso un modello condiviso, e d’alto profilo, di magistrato, disegnato in piena conformità all’ordito costituzionale. Non si tratta ovviamente di inventarlo: è già da tempo patrimonio e merito dell’Associazione nazionale. Il compito sarà piuttosto di richiamarlo nel nostro vivere l’impegno associativo, per accrescerne la capacità di conformazione dei comportamenti collettivi. Voglio prendere a prestito l’immagine contenuta in un recente libello di un grande intellettuale del nostro tempo per dire che quando “la casa brucia”, e la nostra casa è stata esposta alle fiamme, occorre continuare a fare quel che ci spetta, con maggior cura, dedizione e precisione. Null’altro le situazioni drammatiche ci richiedono se non l’attaccamento, ancor più convinto, ai doveri del ruolo.
Ascoltando il tuo discorso di ringraziamento da neo-eletto Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, è emerso che l’azione politica della Presidenza e della Giunta Esecutiva Centrale seguirà due linee direttrici tra loro complementari: la assoluta centralità delle decisioni assunte in seno al Comitato Direttivo Centrale, quale luogo di sintesi della pluralità di idee e di sensibilità presenti tra le varie componenti associative, e il valore attribuito alla mediazione, quale in sé dell’agire politico, inveratasi nella elaborazione della comune piattaforma programmatica. Quali sono, dunque, le aree principali di intervento che la nuova composizione associativa da te presieduta si impegna a perseguire?
Abbiamo rilevato tutti una crescente disaffezione verso l’Associazione, e ne è in qualche modo attestazione il calo dei votanti all’ultima tornata elettorale, che pure si è svolta telematicamente. Se la Magistratura sta attraversando una crisi, ancor di più può dirsi per l’Associazione, verso cui si registra tra i magistrati sfiducia, disinteresse, se non insofferenza. E allora, che fare? Il mio impegno sarà rivolto a restituire l’immagine, in piena rispondenza alla realtà, dell’Associazione come “luogo” di formazione democratica della nostra soggettività, condizione indispensabile per la nostra esistenza e riconoscibilità nella scena pubblica. L’Associazione è lo strumento con cui la Magistratura può avere voce. Rinunciare ad essa sarebbe come perdere l’identità che, per lo straordinario merito delle generazioni che ci hanno preceduto, siamo riusciti a conquistarci. Vivo l’Associazione come un bene prezioso della Magistratura e in questo senso occorre che i magistrati tutti se ne riapproprino, perché è dalla più ampia condivisione possibile del suo senso storico-sociale che passa la conclusione di questa stagione non felice. In buona sostanza, vedo l’irrobustimento dell’Associazione, il recupero di affezione per i valori associativi, non tanto come fine in sé ma come mezzo per un obiettivo se si vuole più avanzato e indiscutibilmente unitario: la riaffermazione dei valori della funzione giudiziaria.
L’Associazione Nazionale Magistrati è senza dubbio un attore importante della vita politica e pubblica del Paese, interprete attenta dei valori che la Costituzione assegna all’ordine giudiziario, i quali si concretizzano non solo nell’esercizio quotidiano della giurisdizione ma anche nel contributo dell’esperienza che arricchisce il dibattito pubblico sui temi della giustizia e della giurisdizione, come del resto hai recentemente dichiarato. Come noto sono in discussione riforme sulle materie ordinamentali e sulla legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, in merito alle quali si è già espressa l’Associazione Nazionale Magistrati. Che tipo di interlocuzione si avrà con la politica e quali sono i temi ritenuti di assoluta e prioritaria attenzione?
Un versante di azione è l’interlocuzione con la Politica, con il Parlamento, sulle riforme che sono in discussione e che ci riguardano. Prima fra tutte la riforma del Consiglio Superiore e del sistema elettorale. Saremo sentiti dalla Commissione Giustizia della Camera, che ha avviato un ciclo di audizioni, nel frattempo costituiremo le nostre Commissioni di studio per consegnare al Parlamento riflessioni approfondite su quelle proposte. Crediamo nel dialogo e nel confronto sugli argomenti: rappresenteremo critiche e avanzeremo proposte, ma lo faremo con la serietà che deriva dallo studio attento di quel che è posto alla discussione pubblica. Una consapevolezza di fondo ci guiderà senz’altro: la materia del C.S.M. è, se così posso dire, costituzionalmente sensibile. La legge ordinaria deve non assicurarsi la mera compatibilità con le norme costituzionali, ma ricercare la conformità a quei valori e principi. In questo senso ci muoveremo nel confrontarci con le proposte alla cui discussione siamo invitati.
Il 19 novembre 2020 l’Associazione Nazionale Magistrati ha incontrato, con una propria delegazione, il Ministro della Giustizia per sollecitare un intervento del Governo sulla normativa processuale e ordinamentale, in occasione della perdurante emergenza sanitaria e, al contempo, ha chiesto l’apertura di un tavolo di confronto permanente presso il Ministero della Giustizia. La pandemia ha, tra le altre cose, disvelato una maggiore consapevolezza delle opportunità legate all’informatizzazione degli Uffici giudiziari ma i magistrati italiani reclamano risorse adeguate e attenzione alle dotazioni informatiche. Ci sarà una voce forte e unitaria su queste questioni al fine di garantire una efficiente risposta alla domanda di giustizia, sempre più impellente in questo periodo di grave crisi, anche al fine di evitare che altri si pongano quali interlocutori, come è recentemente accaduto con il documento congiunto di alcuni Procuratori della Repubblica e dell’Unione Camere Penali che ha preceduto il c.d. “decreto Ristori”?
L’Associazione deve essere l’unica voce, non per comprimere gli spazi di libertà di quanti vogliono esprimere opinioni e punti di vista, ma perché dobbiamo evitare il rischio della frammentazione interna, che genera confusione e diminuisce la forza di penetrazione delle nostre idee. Le varie posizioni devono confluire per una comune elaborazione, che possa rafforzarsi nel confronto interno e non appannarsi una volta che appaia in qualche modo contraddetta o superata proprio dall’interno. C’è tanto lavoro da fare: l’Associazione è assolutamente interessata a sentire l’opinione di tutti, perché è proprio dalle pluralità delle molte esperienze giudiziarie che ripete autorevolezza nella interlocuzione esterna.
Come intendi declinare l’azione associativa nei confronti dei giovani magistrati e di coloro che lavorano nelle sedi periferiche e maggiormente disagiate? A tal fine potranno avere un ruolo eventuali Commissioni di studio a ciò dedicate, anche in raccordo con le articolazioni territoriali dell’Associazione, per favorire la maggiore inclusione e partecipazione?
Sarebbe miope trascurare i giovani magistrati, oltre che ovviamente ingiusto. Le nuove generazioni sono il futuro a cui volentieri a breve cederemo il passo. Ho molto a cuore che percepiscano da subito l’Associazione come la loro comune casa, che ne avvertano la presenza di sostegno e di aiuto per affrontare le tante difficoltà con l’approccio ad una professione appassionante ma difficile, reso ancor più arduo in certe zone del Paese, ove le poche risorse e l’inadeguatezza delle strutture richiedono uno straordinario impegno per una resa accettabile del servizio. Il prossimo Comitato Direttivo Centrale si occuperà di individuare i fronti di impegno e sono certo che darà prioritaria considerazione ai temi dei giovani magistrati. Magistrati giovani, aggiungo, che vorremmo ancora più giovani, eliminando forme di reclutamento che allontanano nel tempo l’ingresso in magistratura.
Il 17 ottobre 2020 si sono tenute anche le elezioni per il rinnovo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi. E’ possibile intravedere tematiche di interesse comune e spazi di eventuale condivisione per unitarie linee di azione con gli organismi associati delle altre Magistrature, anche attraverso un rilancio del ruolo del Comitato Intermagistrature?
Le magistrature sono plurime, la funzione giudiziaria è unica. Pur nella diversità dei Corpi, esercitiamo tutti la stessa funzione. Questa è la premessa, almeno per me, per impostare un lavoro insieme alle altre Associazioni di magistrati, dagli amministrativi ai contabili ai militari. Ho già sentito i rispettivi Presidenti, con i quali peraltro ho rapporti di amicizia e di reciproca stima, e sono certo che condivideremo pezzi importanti del cammino che ci attende.
Ci sarà spazio anche per un dialogo proficuo con le associazioni di categoria della Magistratura Onoraria e dell’Avvocatura?
Poche battute ma chiare. È impensabile – è una ovvietà – il processo senza avvocati. Quindi, per me è impensabile discutere di giustizia e di processi senza muovere da una discussione franca, leale, collaborativa, con l’Avvocatura. Dobbiamo spazzare il campo anche solo dall’immagine di divisioni tra corporazioni per interessi corporativi, non foss’altro che per la drammaticità del momento che il Paese sta vivendo. Sarebbe financo ingiurioso non rendersene conto. La magistratura onoraria va restituita al suo ruolo, recuperando il senso costituzionale della sua presenza. In tanti anni, per scelte non fatte e per la politica del metter sotto il tappeto i problemi, ci ritroviamo con la precarizzazione di figure importanti del mondo giudiziario. Occorre voltare pagina. Vanno riconosciuti diritti e tutele a quanti sono stati vittime della precarizzazione, inaugurando un nuovo sistema. C’è possibilità di avere una magistratura onoraria che non ci esponga ciclicamente a dover affrontare il tema frustrante di come dare risposta a istanze legittime di tutela di precari. Questa la direzione di marcia che seguiremo, chiedendo che sia migliorato l’impianto della riforma Orlando, che proprio nella diversificazione dei due fronti aveva il dato qualificante: tutela dei diritti maturati in capo a quanti per anni sono stati mantenuti nel ruolo con proroghe annuali e successive, prevenzione del pericolo che si formino in futuro altre sacche di precariato. Occorrono però risorse finanziarie adeguate. Questo chiederemo alla Politica.
Fin qui ci siamo soffermati sulla linea di azione politica dell’Associazione Nazionale Magistrati con riferimento ai profili interni, ma non possiamo dimenticare anche la dimensione internazionale. Si assiste a sempre più frequenti attacchi all’indipendenza e all’autonomia dei magistrati in Ungheria, Romania e Bulgaria, ed è davvero allarmante la drammatica situazione che stanno vivendo i nostri colleghi polacchi. Qual è la strada da percorrere?
Siamo tutti consapevoli, e da tempo, di essere oltre che magistrati italiani, magistrati europei. Lo siamo con le nostre sentenze che sempre più diffusamente sono attuazione del diritto europeo. Lo scenario sovranazionale ci vede, per necessità, attori insieme alle magistrature degli altri Paesi. Le loro vicende ci riguardano direttamente, e l’impegno per la difesa dei valori su cui abbiamo costruito e stiamo completando lo spazio giudiziario dei diritti e delle libertà ci accomuna. Troveremo e sfrutteremo ogni occasione per dimostrare la nostra vicinanza attiva nella difesa di quei valori di democrazia e di libertà, senza che i confini nazionali possano esser limite alla nostra vocazione autenticamente europea.
La Corte di Cassazione, dove svolgi attualmente le funzioni di Consigliere, rappresenta uno snodo nevralgico per la effettiva tutela dei diritti delle persone, ponendosi al centro del dialogo con le altre Corti Supreme nazionali e sovranazionali. Cosa potrà fare l’Associazione Nazionale Magistrati per migliorarne l’efficienza senza mettere a rischio la qualità delle sue decisioni?
La pluralità di Corti supreme, conseguenza della complessità dell’ordinamento in cui siamo collocati, nazionale e sovranazionale, potrebbe far pensare ad un declino della Corte di Cassazione, in crisi di senso, stretta tra Corte Costituzionale, Corte di Giustizia, Corte Europea, e affiancata dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei Conti nella sua alta funzione di nomofilachia. Non è così! La Corte di Cassazione ha chiaro il suo ruolo e lo sta svolgendo al meglio delle possibilità: essere fattore di stabilizzazione democratica, entro la strutturale complessità del nostro tempo, della interpretazione del diritto. Attraverso due percorsi: il confronto con le alte Corti e l’ascolto delle istanze di innovazione che provengono dai Tribunali e dalle Corti di merito. La Corte di Cassazione non è momento di conservazione ma di stabilità, non è il luogo in cui si frena il cambiamento, ma quello in cui lo si elabora criticamente, lo si verifica, lo si affina, ponendoci al riparo dal pericolo che esso rechi incertezza e imprevedibilità. In questa direzione adempie compiti di primaria importanza per la tutela dei diritti e si ripropone con rinnovata attualità come attore essenziale di una società democratica, aperta e sovranazionale.
Durante la prima fase della pandemia la raccolta fondi per l’emergenza Coronavirus, promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati, ha raggiunto la cifra complessiva di euro 300.000,00. Quali iniziative possono adottarsi sul versante della solidarietà nel perdurare della crisi nel Paese?
Ne discuteremo alla prossima riunione. È un tema importante. Sono certo che l’Associazione saprà dare prova della solidarietà dei magistrati.
Grazie Presidente, non ci resta che formulare i migliori auguri di buon lavoro a te e a tutta la Giunta!
La Costituzione gode di ottima salute, ma occorre ancora pienamente attuarla!
Intervista di Roberto Conti a Lorenza Carlassare
Il 27 dicembre 1947 veniva promulgata la Costituzione della Repubblica italiana. A pochi giorni da quella ricorrenza abbiamo avuto l'onore di intervistare la Professoressa Lorenza Carlassare.
Risposte immediate, nette, a volte lapidarie che descrivono alcuni dei tratti della vastissima attività svolta dalla studiosa e docente accademica nelle Università, ma anche nella vita politica del nostro Paese.
Esse scolpiscono lo stato di salute della Carta costituzionale, il suo ruolo nei momenti emergenziali, il ruolo dei suoi interpreti, dell'interpretazione costituzionalmente orientata e della coscienza sociale nel processo di emersione dei diritti fondamentali, le evoluzioni anche recenti manifestatesi sulle tecniche decisorie nel giudizio di costituzionalità.
Nel quadro confortante tracciato dalla Carlassare non manca, comunque, l'invito a rendere sempre più chiara, anche alle giovani generazioni, l'importanza della Costituzione, a spiegarne in modo accessibile i contenuti e le matrici ideologiche, a proseguire l'impegno, a più di settant'anni dalla promulgazione della Costituzione, verso la piena attuazione dei valori più significativi (dignità della persona, cultura, ambiente, eguaglianza e solidarietà), solo in tal modo potendosi contrastare l'avanzata dei falsi idoli del profitto, del mercato e dei suoi "valori".
Non resta che ricordare la "invincibile contrarietà a ricoprire posizioni di potere" che anche in questa occasione Lorenza Carlassare ha inteso sottolineare come uno dei tratti significativi della sua esperienza professionale, monito ed esempio illuminato per le generazioni presenti e future.
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Professoressa Carlassare, prima donna a ricoprire una cattedra di diritto costituzionale in Italia. Ne avvertì l’eccezionalità? Il suo essere donna crede abbia inciso in qualche maniera sul suo percorso professionale? E se sì in termini positivi o negativi? E oggi la dimensione di genere nel suo mondo in che termini si può declinare?
Il fatto che, nella metà degli anni settanta, io sia stata la prima donna a ricoprire una cattedra di diritto costituzionale ben dimostra l’arretratezza e la chiusura del mondo accademico. Fu, allora, un fatto eccezionale e isolato. Infatti, poi, prima che altre donne si aggiungessero a me dovettero passare ancora molti anni durante i quali rimasi sola in un mondo esclusivamente maschile. Un mondo nel quale, in verità, mi trovavo abbastanza bene: come studiosa ero apprezzata dai colleghi con i quali ho sempre avuto rapporti cordialissimi di reciproca stima e spesso di vera amicizia. Sembra un paradosso: evidentemente l’arretratezza non era nei singoli studiosi, ma nei meccanismi del mondo accademico di allora. Essere donna ha inciso negativamente e in maniera fortissima sul mio percorso: ho vinto il concorso a cattedra con un ritardo di almeno un decennio rispetto ai colleghi! Nell’imbarazzo generale per l’anomala situazione, solo Giuseppe Ferrari, illustre studioso e giudice costituzionale, ebbe la sincerità di esporre chiaramente la ragione per cui nonostante la stima generale ero lasciata indietro: il mio ingresso avrebbe rotto un argine che reggeva da secoli, con quali conseguenze? Le conseguenza non furono immediate, però alla fine arrivarono: dopo un certo tempo il numero delle costituzionaliste crebbe velocemente tanto che oggi non sarebbe più possibile dire che nel nostro settore le donne siano discriminate.
I recenti importanti traguardi delle donne nelle istituzioni (la Professoressa Polimeni, prima donna rettrice alla Sapienza, la Prof.ssa Cartabia Presidente della Corte Costituzionale, l’Avvocata Kamala Harris appena nominata Vice Presidente degli Stati Uniti) quali trasformazioni nel funzionamento delle stesse istituzioni hanno comportato e potranno determinare nel prossimo futuro?
Sebbene i traguardi raggiunti dalle donne nelle istituzioni siano notevoli, non si può ancora parlare di parità tranne che in alcuni settori, certamente importanti come la Magistratura non nelle istituzioni politiche dove il cammino non solo è stato lungo e irto di difficoltà, ma rimane incompiuto. Ho scritto molto sul diritto delle donne ad aver una possibilità effettiva di essere elette, contro l’atteggiamento dei partiti che non le inserivano nelle liste escludendole così di fatto dalle sedi della rappresentanza. Parlavo allora di una democrazia dimidiata, difendendo fortemente le leggi emanate per facilitare una reale inclusione. La mia speranza era che la presenza delle donne avrebbe portato a un radicale mutamento della prassi politica, a novità sostanziali, a una maggior attenzione per valori fondamentali quali la pace e la solidarietà sociale. Ma non è stato proprio così: le politiche italiane, a parte qualche significativa eccezione, sembrano in qualche modo essere state assimilate e contagiate dalle logiche di potere che da sempre dominano i politici.
Lei ha notato dei cambiamenti nell’uso e nel rilievo della Costituzione durante il suo percorso professionale che la vede protagonista della scienza costituzionalistica italiana?
Il rilievo della Costituzione è sicuramente cresciuto, non tanto nelle istituzioni politiche, ma sicuramente nella coscienza dei cittadini che ne hanno ben compreso il valore concreto per le loro vite, il valore di fonte e baluardo dei loro diritti. Questo crescente rilievo si connette anche all’uso che finalmente i giudici hanno fatto della Costituzione, sia interpretando in senso ad essa maggiormente conforme le leggi che devono applicare in giudizio, sia talora applicando direttamente le norme costituzionali e, più spesso, rilevando nel corso di un giudizio il contrasto tra i principi costituzionali e la norma legislativa da applicare e sottoponendo la norma stessa al giudizio della Corte costituzionale, l’unico organo in grado di annullarla. L’importanza decisiva della Corte e delle sue decisioni non ha bisogno di essere sottolineata.
L’insegnamento universitario, il rapporto con gli studenti e con i colleghi, il desiderio di coinvolgere una platea vasta sul ruolo e significato della Costituzione hanno costituito la spinta alla scelta di dedicare una pubblicazione alle Conversazioni sulla Costituzione, preconizzando le aperture recenti della Corte costituzionale alla società civile? Che suggerimento si sentirebbe di dare ai suoi colleghi per rendere sempre viva e vitale agli occhi delle nuove generazioni la nostra Costituzione? Come attirare gli studenti ad una comprensione sempre più approfondita della Costituzione, alla luce della sua pluriennale esperienza maturata nelle aule universitarie?
In Italia, purtroppo, la Costituzione non è sufficientemente conosciuta. Persino persone di buona cultura praticamente la ignorano o ne hanno un’idea assolutamente superficiale. Conoscerla è fondamentale per il corretto funzionamento di un sistema democratico nel quale i cittadini devono partecipare in maniera cosciente. Mi piace ricordare (e lo faccio spesso) quel che diceva Giuseppe Compagnoni alla fine del ’700 nel suo “Elementi di diritto costituzionale democratico”: “ L’ignoranza è l’appannaggio del popolo schiavo, la scienza del libero” . E la scienza del popolo libero è prima di tutto quella” dei suoi Diritti, della sua Costituzione, del suo Governo, delle Funzioni de’ suoi Magistrati, delle sue relazioni con gli altri popoli”.
Cosa fare per interessare le giovani generazioni? Far comprendere loro il valore concreto della Costituzione nei rapporti quotidiani (dalla scuola, alla famiglia, all’ambiente, alla cultura, al lavoro); evocare con forza i principi e i valori della Costituzione non trascurando di collegarli alle ideologie che li hanno generati, alle speranze che muovono la storia.
Lei è stata fra l'altro co-protagonista di una stagione in cui il Parlamento aveva ritenuto opportuno pensare ad alcune modifiche del sistema costituzionale, partecipando alla commissione dei saggi dalla quale uscì traumaticamente. E di recente ha espresso posizioni nette sulle riforme costituzionali degli ultimi anni. Coma sta, dunque, a suo giudizio, in salute la Costituzione?
Mi sono sempre opposta a modifiche della Costituzione che tendevano a scardinare i principi dello Stato di diritto, in primo luogo la divisione dei poteri, intaccando il delicato sistema di equilibri tra i diversi poteri dello Stato, sacrificando la ‘rappresentanza’ alla cosiddetta ‘governabilità’ concentrando il potere nell’esecutivo. Riforme espressione di una tendenza autoritaria, diretta anche ad esaltare la figura del ‘Capo’ per farlo diventare il vero e unico centro del potere. Fortunatamente i cittadini hanno compreso il pericolo che si celava dietro quelle proposte di riforma e, per ben due volte, le hanno bocciate attraverso il referendum. In verità la Costituzione gode di ottima salute, eventualmente possono giovarle piccoli e puntuali ritocchi.
E la Costituzione in tempo di crisi pandemica? Ha dato buona prova di sé? I suoi “giudici naturali” – costituzionali e comuni – che ruolo hanno svolto o potevano – o avrebbero potuto – svolgere rispetto all’alluvionale disciplina dell’emergenza adottata? È mancato, secondo Lei, qualcosa in termini di effettività delle tutele di matrice costituzionale o era prevedibile che il controllo di legalità affidato alla giustizia non avrebbe potuto modificare in modo significativo le scelte di politica adottate in una situazione di emergenza?
L’emergenza porta inevitabilmente con sé condizioni particolari nei rapporti politico-costituzionali e incide principalmente sulle fonti di produzione del diritto. Che in questo periodo l’emergenza ci sia stata e ci sia tuttora, dovrebbe esse chiaro a tutti. Quando l’urgenza preme e si rischia di mettere in pericolo beni essenziali della comunità ritardando l’adozione di misure indispensabili, è chiaro che queste devono essere adottate con gli strumenti più celeri. E’ altrettanto ovvio che, appena le situazioni straordinarie cessano, il sistema deve immediatamente ritornare ai procedimenti ordinari: a garantirlo stanno i controlli giurisdizionali e ,in primo luogo, il controllo della Corte costituzionale.
La forte compressione che alcuni diritti hanno subito in tempo di Covid 19 è stata realizzata cercando di contemperare, da parte dei decisori politici, il diritto alla salute delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, con altri valori che, pur ritenuti fondamentali, hanno ceduto il passo, spesso in nome di un (supposto) primato del diritto alla vita ed alla salute. Da costituzionalista come valuta la tenuta delle istituzioni repubblicane rispetto all’uso massiccio dei DPCM (e delle ordinanze adottate in ambito locale) in questo periodo di pandemia?
Il bilanciamento fra principi costituzionali non è soltanto consentito ma è sempre indispensabile anche in periodi assolutamente normali. La giurisprudenza della Corte costituzionale è chiara in proposito.
La crisi pandemica ha, secondo Lei, messo a nudo l’esigenza di un ripensamento generale degli orientamenti giurisprudenziali incentrati sulla protezione dei diritti, magari in nome della vocazione fortemente solidaristica della Costituzione? È quest’ultimo un orientamento che condivide?
Non vedo una particolare necessità di ripensamento degli orientamenti giurisprudenziali in tema di protezione dei diritti. Tutti i diritti garantiti in Costituzione devono essere tutelati, i diritti civili e politici, così come i diritti sociali che, certamente, sono stati quelli la cui fruizione non si è mai effettivamente realizzata: sono infatti diritti che ‘costano’. La Corte costituzionale, negli ultimi tempi (2016 e 2017) si è pronunziata in modo chiaro e deciso sulla illegittimità di scelte legislative che sacrificano i diritti sociali in nome di esigenze di bilancio in un sistema come il nostro che ha tra i principi fondamentali la ‘solidarietà’: “È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” si legge nella sentenza n. 275 del dicembre 2016. Un periodo di grosso fermento sta attraversando la giustizia costituzionale. Dalle sentenze-monito alla inusuale tecnica inaugurata nel caso Cappato, risultante da una decisione in due tempi, con il conseguente passaggio dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti” (D. Tega). Cosa sta succedendo nella giustizia costituzionale? Rigurgito di riaccentramento della giustizia costituzionale – come si è fatto da molti notare –, l’affermazione di forme dapprima sconosciute di “suprematismo giudiziario” (A. Morrone) o semplicemente di nuove tecniche decisorie volte al più efficace appagamento dei diritti e principi costituzionali (G. Silvestri)?
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale è essenziale per non chiudere il sistema: nuove tecniche decisorie per realizzare più efficacemente diritti e principi costituzionali sono un segno di vitalità.
Veniamo alla Costituzione ed i suoi giudici. Quale bilancio si sentirebbe di stilare dopo più di 70 anni dal varo della Costituzione? Guerra, cooperazione, dialogo o cos’altro?
La Costituzione e i suoi giudici: dopo 70 anni mi sembra si possa parlare di un bilancio positivo.
Tanto più la Costituzione si apre alla conoscenza di diversi interpreti, quanto più essa mostra il suo carattere plurale, con la conseguenza che sul significato delle disposizioni dedicate ai diritti ed ai principi fondamentali si riscontrano spesso orientamenti fortemente divaricati. Questo indebolisce o rafforza il ruolo della Carta?
L’esistenza di interpretazioni diverse delle disposizioni costituzionali è normale: solo l’interpretazione autentica ( che interpretazione non è perché proviene dal legislatore ) può essere ‘unica’. Non è pensabile il funzionamento di un sistema giuridico senza interpretazione. Senza interpretazione le disposizioni non vivono, non significano nulla. Il pluralismo è sempre vitale. La Corte può avere un ruolo significativo nel far prevalere l’una o l’altra delle interpretazioni possibili.
Eliminare il termine razza dalla Carta costituzionale le sembra opportuno?
Non mi sembra opportuno eliminare il termine ‘razza’ dal testo costituzionale, anzi lo ritengo pericoloso perché il suo significato si è consolidato e ci consente di comprendere con sufficiente chiarezza cosa la Costituzione vuole vietare. La modifica dell’art.3 mi è sempre sembrata velleitaria e superficiale: lasciamo un vuoto di tutela o cerchiamo un’altra parola da mettere al suo posto ? Proprio perché ha assunto nel linguaggio ‘fascista’ un significato terribile e odioso il termine ‘razza’ va lasciata con tutto il peso di cui l’ha caricato la storia.
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Mario Rosario Morelli, in una recente intervista, ha dichiarato che i diritti fondamentali sono anche quelli percepiti come tali nell’evoluzione della coscienza sociale, ricordando che sulla doppia genitorialità omosessuale la Corte costituzionale ha di recente ritenuto che non vi sia ancora nella collettività un idem sentire. Condivide questa impostazione che affida al corpo sociale ed alla “coscienza sociale” un ruolo fondamentale nella selezione dei bisogni fondamentali? Quanto questa prospettiva si coniuga con il canone tradizionale della certezza del diritto?
Siamo anche qui nel campo dell’interpretazione che – come già dicevo – può evolversi nel tempo anche in relazione all’evoluzione della coscienza sociale. È in una specifica società che le norme devono essere applicate e non possono essere del tutto estranee al contesto storico nel quale sono destinate ad operare: certezza del diritto non può significare immobilità del sistema.
Morte dignitosa e art. 32 Cost. Qual è oggi il rapporto fra diritto all’autodeterminazione e salute dopo i noti interventi della Corte costituzionale. E quali sono secondo Lei le prospettive per il legislatore?
L’art. 32 della Costituzione è estremamente chiaro sulla libertà delle cure, l’inesistenza del dovere di curarsi, il diritto a rifiutare i trattamenti sanitari e l’incostituzionalità di una legge che li imponga quando non sia in gioco la salvaguardia dei terzi ( “l’interesse della comunità”). La persona, la sua dignità e libertà, sono valori non discutibili, non soltanto perché espressi nell’art. 32, ma perché costituiscono il nucleo attorno al quale l’intera Costituzione è costruita. E sono valori comuni e condivisi: vale la pena ricordare le parole di un Papa, Paolo VI ,sul dovere del medico di adoperarsi a “calmare la sofferenza invece di prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo, e a qualunque condizione una vita che non è più pienamente umana e va naturalmente verso la conclusione”. L’autodeterminazione, quando si parla di salute, è la regola : la prospettiva del legislatore non può che essere quella di adeguarsi ai principi.
Essere socia dell’Accademia dei Lincei. Si sente di ricordare il tempo di quello straordinario riconoscimento alla sua professionalità?
Essere socia dell’Accademia dei Lincei è per me un onore; quando ne ho avuto notizia è stato un grande piacere.
Svegliarsi e sentire che un movimento politico l’aveva indicata come candidata all’elezione a Presidente della Repubblica che sensazioni le ha provocato?
Nessun piacere invece ho avuto dalla notizia di essere stata indicata come candidata all’elezione a Presidente della Repubblica. Ho chiarito subito che, a parte l’improbabilità della mia elezione, non avrei mai accettato la candidatura. E non soltanto per l’enorme responsabilità che un simile ufficio comporta e la piena coscienza di non essere adatta a ricoprirlo, ma soprattutto per la mia invincibile contrarietà a ricoprire posizioni di potere: anziché soddisfazione, mi da solo fastidio. Tanto è vero che ogni volta in cui, non essendo riuscita ad evitarle, mi sono trovata in situazioni che sfioravano anche vagamente il potere, mi sono al più presto dimessa.
Cosa possono attendersi le generazioni future dalla Costituzione? Quali valori in essa protetti richiedono, a suo avviso, di essere maggiormente considerati a beneficio delle generazioni future e dell’intera umanità?
Le generazioni future possono attendersi tutto dalla Costituzione, purché sia davvero attuata, il che dopo oltre settant’anni non è ancora avvenuto. Tra i valori che principalmente contano per una vita migliore sta certamente al primo posto il rispetto della persona umana, della sua dignità e libertà a prescindere dalla la sua condizione, dai suoi meriti e dai suoi demeriti: anche il detenuto per colpe gravissime è una persona la cui dignità va rispettata. In primo piano sta la cultura senza la quale non si può attuare il principale obiettivo della Costituzione ( art.3,comma 2) “il pieno sviluppo della persona umana”. Cultura che l’art.9 della Costituzione tutela insieme al paesaggio - nel suo valore naturale, storico e culturale - e all’ambiente dalla cui salubrità dipende la vita di tutti. L’elenco sarebbe lungo: la massima importanza, un’importanza determinante, ha l’eguaglianza non solo formale (art.3), che cambierebbe radicalmente la società, ma può essere realizzata soltanto attraverso l’attuazione dell’altro valore di fondo, la solidarietà (art.2) da porre al primo posto in sostituzione dell’ idolo orrendo che oggi tutto domina :il profitto, il mercato, i suoi cosiddetti ‘valori’.
La semplice verità di Michele Taruffo
di Andrea Apollonio e Carlo Vittorio Giabardo
In questo ultimo frammento d’anno ci ha raggiunto la notizia della scomparsa del Professor Michele Taruffo; un autentico Maestro, di quelli, per davvero, in grado di fare la differenza per chi avesse avuto l’occasione, e il privilegio, di incontrarlo sulla propria strada.
Ci lega, in particolare, un ricordo molto nitido di Michele Taruffo; lo conoscevamo, ciascuno per averlo incontrato su strade diverse: ma lo incontrammo insieme, in una fredda giornata milanese del 2015, nel suo studio, dove ci siamo messi a parlare fino a perdere la cognizione del tempo. Parlammo di diritto certo - egli stava preparando una conferenza in lingua spagnola sul ruolo della verità nella transitional justice, cioè dell’importanza sociale dell’accertamento veritiero dei fatti nei momenti successivi a una dittatura, tema poco ortodosso per un processualista, ma di fondamentale importanza nel dibattito internazionale - ma anche di vita; e discorrendo con lui ci fu evidente che, tra le due cose, non vi era opposizione, ma mutuo arricchimento. Il diritto, per Michele Taruffo, non è mai stato, nemmeno per un momento, statico formalismo, vuoto dogmatismo, ma autentica esperienza piena di complessità (declinata storicamente, comparativamente, filosoficamente, politicamente, ecc.). Poi passammo nella sua abitazione, attigua, e chiacchierammo fino a sera inoltrata assieme alla Professoressa Cristina De Maglie, moglie devota e innamorata (lo erano molto, l'uno dell'altra), incontrata tempo prima nei corridoio dell'Università di Pavia.
Lo avremmo incontrato poi altre volte (a Pavia, a Girona), ma questo piccolo grande ricordo congiunto di quella giornata, terminata con un gin-tonic, che Taruffo preparava - sotto gli occhi indulgenti della moglie - in maniera eccellente, forse troppo forte, rimane speciale.
Della figura di Michele Taruffo un aspetto in particolare non ha smesso di affascinarci: la sua enorme influenza al di fuori dai confini italiani, dall’Europa, specialmente in Spagna, all’America latina intera (dove era letteralmente osannato[1]), dagli Stati Uniti (dove aveva co-autorato, tra le altre cose, un fortunato manuale di American Civil Procedure[2]) fino, ultimamente, alla Cina (dove era stato Professore presso l’Institute of Evidence Law & Forensic Science, a Pechino), egli aveva dato un contributo fondamentale alla scienza giuridica. Cosa rarissima per un giurista italiano, e doppiamente complicata per un processualista: primo, perché già di per sé il diritto, si sa, è un campo di studio inevitabilmente connesso al proprio Paese di origine, e secondo, perché – tra tutte le materie – il diritto processuale civile, avendo a che fare (nell’immaginario collettivo, certo!) con corti nazionali e prassi giudiziali, appare quella più di altre legata al proprio contesto domestico, la meno “universalizzabile” di tutte.
Ebbene: leggere Michele Taruffo, conversare con lui, ascoltarlo, aveva la stessa funzione dell’aprire una finestra e fare entrare una ventata di aria fresca e ventosa nella stanza chiusa e appesantita del diritto (processuale civile) inteso principalmente come insieme di regole tecniche e pratiche forensi. Forse i fogli ordinati sulla scrivania ne risultano scompigliati, ma almeno si respira. I problemi ai quali egli si era dedicato erano infatti slegati dal qui e ora, ma parlavano a tutti, ai giuristi di tutte le latitudini, perché toccavano i nodi cruciali del mondo della giustizia civile. Basti pensare a un “suo” tema, tra i molti, che ci ha fatto pensare, riflettere, discutere più di altri: quello della Verità (non della verità processuale, giacché non esistono più verità, ma solo una), specialmente con riferimento al ragionamento probatorio e quindi al giudizio di fatto, alle cui infinite pieghe e ai cui infiniti risvolti epistemologici, logici, e poi anche politici, Taruffo aveva dedicato praticamente tutta la sua vita. Un tema che a noi - inizialmente, digiuni - appariva semplice, e che semplice, infatti, è – come del resto Taruffo stesso ha messo in luce nel suo assai filosofico libro La semplice verità[3]– ma che, nella sua semplicità appunto, ha aperto (e ci ha aperto) un mondo. Per noi, Taruffo era, e rimarrà, il teorico della Verità.
I temi della giustizia così trattati trascendono la dicotomia processo civile/processo penale, ed è per questo che abbiamo trovato nella Sua opera un terreno comune. Quando si parla della funzione del giudicare, del giudizio inteso come attività logica, della prova nella sua dimensione epistemica, e poi del ruolo del giudice e delle corti nella società, è chiaro che la distinzione perde di importanza (d’altronde, sia in Spagna sia in molte parti dell’America latina esiste il professore di diritto processuale senza ulteriori specificazioni, proprio a indicare l’assoluta somiglianza, se non identità, di molte delle questioni che si agitano nel processo civile e in quello penale). I suoi insegnamenti, quindi, si rivolgono tanto al processualcivilista come al processualpenalista, all’accademico tanto quanto al magistrato – anzi, forse soprattutto a quest’ultimo, chiamato direttamente a compiere quei complessissimi giudizi di fatto e di diritto, la ricostruzione dei fatti di causa e l’interpretazione e applicazione del diritto, al fine di rendere una decisione giusta (non a caso, l’ultimo libro di Taruffo, pubblicato simultaneamente nel 2020 in italiano e in spagnolo, e che tratta precisamente questi temi, si intitola Verso la decisione giusta[4]).
La sua eredità, per chi lo ha conosciuto, e certamente per noi, è quindi innanzitutto metodologica. Ci ha indicato come guardare al diritto. Fare diritto processuale (ma possiamo tranquillamente generalizzare l’affermazione: studiare qualsiasi diritto) significa guardare in alto, guardare al significato profondo delle istituzioni, della loro funzione sociale così come storicamente determinatasi alla luce di una specifica tradizione storica e all’interno di certe premesse filosofiche, che devono esser indagate, rese esplicite. Diritto, tradizione, storia, cultura, filosofia, analisi del linguaggio, scienza, epistemologia, antropologia, sociologia, sono un tutt’uno, quasi un continuum che non può, né deve, essere sminuzzato. L’ambizione enorme del Giurista (sì, con la G maiuscola) è quella di guardare sempre al tutto, e non alle singole parti (come invece fa colui che Taruffo ha polemicamente chiamato il «processualista tipico», innamorato della «microesegesi» e il cui lavoro è dominato da una «maniacale analisi del dettaglio»[5]: ed egli in questo era genuinamente, e nobilmente, a-tipico).
L’autoreferenzialità è un vizio (naturale?), forse anche una tentazione, dalla quale il giurista, nel suo lavoro quotidiano, deve però cercare di fuggire con forza. E Michele Taruffo ci ha insegnato a guardare sempre alla bigger picture, alle questioni in tutta la loro ampiezza teorica, che non conosce spazi; ad aprirsi sempre e sempre di più, non incurvarsi sulla propria confort zone, non rinchiudersi dentro lo spazio artificiale della propria disciplina, o del proprio settore, o del proprio problema: e riflettere laicamente su ciò che ci circonda, magari con un gin-tonic in mano.
[1] La grandissima e inarrestabile diffusione dell’opera di Michele Taruffo nel mondo di lingua spagnola si deve, innanzitutto, alla traduzione in castigliano, nel 2002, a cura del filosofo del diritto dell’Università di Girona Jordi Ferrer Beltrán, della sua opera La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992.
[2] G. Hazard – M. Taruffo, American Civil Procedure. An Introduction, Yale University Press, 1993.
[3] La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009.
[4] Giappichelli, 2020; la versione spagnola è Hacia la décision justa, Zela (Perù) 2020 (ma già in precedenza, ex multis, v. il suo Idee per una teoria della decisione giusta, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 219 ss.
[5] Taruffo, L’insegnamento accademico del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 551 ss.
Michele Taruffo
di Bruno Sassani, Bruno Capponi e Andrea Panzarola
La scomparsa di Michele Taruffo lascia un vuoto nell’ampia comunità degli studiosi del processo che si proietta ben oltre i confini italiani. La straordinaria diffusione della sua opera in tutto il mondo lo aveva infatti, col tempo, elevato alla posizione universalmente riconosciuta di Maestro di diritto e processo per i giuristi di ogni continente. Questa anima grande della cultura giuridica ha esercitato per ogni dove il suo alto magistero utilizzando tutti i mezzi coi quali si alimenta la vita dello Studioso, ora con lo scritto ora con la parola ora con entrambi, sempre con l’inconfondibile impronta della sua poliedrica personalità.
Gli incarichi di Visiting Professor presso prestigiose Università (dalla Cornell Law School allo Hastings College of the Law della University of California); l’infaticabile attività di relatore in convegni internazionali; l’appartenenza alle più importanti associazioni italiane e straniere di diritto processuale e di teoria del diritto (dall’American Law Institute al Bielefelder Kreis, dalla International Association of Procedural Law – di cui è stato pure Segretario Generale – all’Instituto Brasileiro de Direito Processual e all’Academia Brasileira de Direito Constitutional, dall’Association Henri Capitant des Amis de la Culture Juridique Française alle Associazioni italiane di Diritto Comparato e fra gli Studiosi del Processo Civile); la partecipazione ai comitati scientifici di riviste giuridiche e filosofiche; i libri dedicati a temi cruciali della esperienza processuale: tutto questo e molto altro ha concorso a diffondere il pensiero di Taruffo e a consolidarne la posizione di primazia nel panorama tanto italiano (suggellata dalla nomina nel 2005 a Socio Corrispondente della Accademia Nazionale dei Lincei) quanto internazionale.
Non a caso, il volume scritto nel 1993 con Geoffrey C. Hazard su “La giustizia civile negli Stati Uniti” è stato pubblicato, oltre che in inglese, pure in cinese e giapponese. In spagnolo è stato pubblicato nel 2002 il libro del 1992 su “La Prova dei fatti giuridici”. I volumi su “La motivazione della sentenza civile” (1975), su “Il vertice ambiguo (Saggi sulla Cassazione civile)” (1991), “Sui confini (Scritti sulla giustizia civile)” (2002) sono stati rispettivamente pubblicati in Messico, Perù e Colombia. Altrettanto significativamente, Taruffo è stato editor dell’opera fondamentale del 1999 su “Abuse of Procedural Rights: Comparative Standards of Procedural Fairness” (frutto dell’International Colloquium svoltosi nell’ottobre 1998 presso la Tulane Law School di New Orleans ed organizzato dalla International Association of Procedural Law). Pure le “Cinco lecciones mexicanas: Memoria del Taller de Derecho Procesal” del 2003 (in https://www.te.gob.mx/publicaciones/sites/default/files//archivos_libros/Cinco%20Lecciones%20Mexicanas-%20Memoria%20del%20Taller%20de%20Derecho.pdf) restituiscono appieno l’influenza del suo insegnamento in Messico (ed in generale nell’America latina tutta). A distanza di mezzo secolo dalle conferenze messicane di Piero Calamandrei del 1952 (poi pubblicate un paio di anni dopo sotto il titolo “Processo e democrazia”), le lezioni del marzo del 2002 – tenute da Taruffo di fronte al “Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación” e incentrate su tematiche essenziali nella riflessione del Maestro (dalla teoria generale della decisione al precedente, dalla decisione “giusta” alla funzione dimostrativa della prova, etc.) – furono precedute da una dettagliata presentazione da parte del Presidente del “Tribunal Electoral” dell’attività scientifica dell’ospite pavese, che venne al contempo descritto – e vale la pena ripeterne le parole che riassumono un sentire condiviso – come “un grande processualista e filosofo del nostro tempo”, “heredero de la tradición italiana de Chiovenda, Carnelutti, Calamandrei y Denti”.
Le specifiche competenze di diritto comparato, e la fama acquisita nel contesto internazionale, hanno aperto a Taruffo il ruolo di co-reporter del progetto dell’American Law Institute su “Principles and Rules of Transnational Civil Procedure”. Ed è grazie all’inusuale combinazione della padronanza degli strumenti teorici generali e delle conoscenze analitiche dei singoli modelli processuali, che egli ha potuto cimentarsi nell’arduo compito di organizzare il sistema dei principi e delle regole generali a portata “transnazionale” al fine di armonizzare discipline troppo spesso orgogliose della loro “municipalità”.
Michele Taruffo imboccò giovanissimo la sua strada, sulle orme del suo Maestro Vittorio Denti e nel clima culturale della Scuola pavese, particolarmente fecondo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Nato nel 1943, si era laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Pavia nel 1965, nella quale ha finito per ricoprire per molti anni (a partire dal 1976) il ruolo di professore ordinario di diritto processuale civile (insegnandovi altresì diritto processuale comparato e diritto processuale generale). La vocazione comparatistica dello studioso è rispecchiata impeccabilmente nel libro del 1979 dedicato a “Il processo civile ‘adversary’ nell’esperienza americana”. A quella data Taruffo aveva già dato alle stampe due volumi: il primo – “Studi sulla rilevanza della prova” – pubblicato a soli ventisette anni, nel 1970; il secondo – “La motivazione della sentenza civile” (1975) – destinato a diventare un punto di riferimento su un tema tumultuosamente irrisolto. Da queste monografie emergono le direttive delle ricerche degli anni successivi, e prendono forma i tratti distintivi della sua opera complessiva: il marcato sincretismo metodologico che alla prediletta analisi comparatistica associa la sensibilità filosofica e quella storica. Di lì a pochi anni Michele Taruffo offrirà il suo contributo di storico pubblicando “La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi” (1980), un libro che – per la completezza della informazione, la pluralità dei punti di vista e nondimeno la nettezza delle interpretazioni – è comprensibilmente assurto a testo di riferimento per i cultori della storia del processo.
L’indagine storica fa da sottofondo anche al successivo libro del 1991 su “Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile”. Già soltanto il fatto che il titolo del volume – “Il vertice ambiguo” – sia divenuto, nella discussione pubblica sulla Corte Suprema, un vero e proprio topos argomentativo, la dice lunga sull’impatto che l’opera ha avuto su una tematica delicata e divisiva. I meriti del volume, che ha guadagnato negli anni la dignità di vero e proprio “classico” sul giudizio di cassazione, sono d’altra parte risaputi. Non è qui il caso di indugiarvi, se non per dire che rappresentazioni stereotipate da una lunga e comoda tradizione interpretativa, irrigidite nelle semplificazioni di polarità (jus constitutionis-jus litigatoris) che parevano non ammettere vie d’uscita, sono oggetto di radicale rivisitazione critica. Taruffo risale alle origini della ricezione della Cassazione in Italia (mettendo l’accento sulla vivace polemica, in larga parte rimossa, fra i fautori del modello della Cassazione, da un lato, e i sostenitori del modello della Terza Istanza della tradizione nazionale, dall’altro lato) e, ridiscutendo la lezione di Calamandrei, rilegge l’idea di un modello “puro” di Corte Suprema capace di proiettare sul presente la sua forza plasmatrice. Dall’esame delle ragioni della ibridazione nella Cassazione italiana di istituti di eterogenea ascendenza, emerge così il tema del “precedente” (tema che un suo valoroso allievo ha recentemente discusso criticamente nella chiave del “precedente impossibile”).
Michele Taruffo non ha mai smesso negli anni di sviluppare gli argomenti che formano il nucleo pulsante della sua attività speculativa e che vertono – per limitarsi a una estrema sintesi – sulla prova e sulla ricerca dei fatti in funzione di una decisione giusta. Al libro del 1992 su “La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali”, si ricongiungono, idealmente, la curatela del volume del 2012 su “La prova nel processo civile” (nel Trattato di diritto civile e commerciale di Giuffrè) e, in buona parte, il contributo del 2011 sui “Poteri del giudice” nel Commentario al codice di procedura civile di Zanichelli. Non sembra azzardato tuttavia ipotizzare che la massima diffusione delle sue idee su queste tematiche (ben al di là del recinto degli studiosi del processo civile) si sia avuta in occasione della pubblicazione, nel 2009, del volume su “La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti”. L’originale impostazione metodologica di questo volume (innestata sulla rimarcata interdipendenza di prospettive investigative le più diverse) è messa in evidenza dalla trasparenza espositiva, agevolata dalla chiarezza e fluidità di dettato.
Con l’opera di Michele Taruffo si è confrontata la comunità senza confini degli studiosi del processo. Il suo contributo investe l’esperienza integrale della tutela e la complessiva cultura del diritto che vi si accompagna.
Lascito fecondo per le generazioni future.
La questione di giurisdizione - Atti del convegno del 9 dicembre 2020 - Giornate di studio sulla giustizia amministrativa
Nell’ambito delle “Giornate di studio sulla Giustizia Amministrativa – Modanella 2020” il 9 dicembre 2020 si è tenuto il convegno sul tema “La questione di giurisdizione” al quale hanno partecipato come relatori la Prof.ssa Chiara Cacciavillani, dell’Università di Padova, il Presidente Claudio Contessa, del Consiglio di Stato, il Consigliere Antonio Scarpa, della Corte di Cassazione e il Prof. Romano Vaccarella, emerito de La Sapienza. I lavori, introdotti dalla Prof.ssa Maria Alessandra Sandulli, sono stati presieduti da Filippo Patroni Griffi, Presidente del Consiglio di Stato e conclusi dal Prof. Fabio Francario dell’Università di Siena.
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