ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le questioni pregiudiziali (…o di costituzionalità), anche in tempo di COVID, non sono un passe-partout (a commento dell’ordinanza della Corte di giustizia del 10 dicembre 2020, causa C-220/20)*
di Vincenzo Sciarabba
Sommario: 1. Introduzione - 2. Precisazioni sulla “questione” posta - 3. Le ragioni dell’irricevibilità: alcuni principi generali… - 4. …e la loro applicazione al caso di specie - 5. Chiarimenti ulteriori - 6. A proposito dell’applicabilità della Carta dei diritti - 7. Profili di merito: cenni preliminari e rinvio - 8. Conclusioni.
1. Introduzione
Con ordinanza del 10 dicembre 2020, in causa C‑220/20, la Corte di giustizia ha dichiarato “manifestamente irricevibile” una questione pregiudiziale sottopostale da un Giudice di pace italiano (in specie di Lanciano, in Provincia di Chieti) con ordinanza del 18 maggio del 2020, pervenuta in cancelleria il 28 maggio 2020, nella quale si chiedeva «[s]e gli articoli 2, 4, comma 3, 6, comma 1, e 9 del Trattato dell’Unione, gli articoli 67, commi 1 e 4, 81 e 82 del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea, in combinato disposto con gli articoli 1, 6, 20, 21, 31, 34, 45 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ost[i]no rispetto a disposizioni interne, quali gli articoli 42, 83 e 87 del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, la delibera del 31 gennaio 2020 del Consiglio dei Ministri che ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale sanitaria per sei mesi fino al 31 luglio 2020, gli articoli 14 e 263 del decreto legge 19 maggio 2020 n. 34, che hanno prorogato lo stato di emergenza nazionale per Covid-19 e la paralisi della giustizia civile e penale e dell’attività di lavoro amministrativo degli Uffici giudiziari italiani fino al 31 gennaio 2021, in combinato disposto, violando le predette norme nazionali l’indipendenza del giudice del rinvio e il principio del giusto processo, nonché i diritti ad essi connessi della dignità delle persone, della libertà e della sicurezza, dell’uguaglianza davanti alla legge, della non discriminazione, di condizioni di lavoro eque e giuste, dell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, della libertà di circolazione e di soggiorno». La decisione, e in generale la vicenda, sembrano meritevoli di una certa attenzione.
Le osservazioni che seguono ‒ e che verranno sviluppate in buona parte anche nelle note ‒ si concentreranno principalmente su alcune questioni procedurali di particolare pregnanza.
Alle questioni sostanziali si dedicherà invece, in questa sede, solo qualche cenno, con la premessa che ogni riflessione sui molti profili di merito toccati nell’ordinanza di rinvio è fortemente ostacolata da quello stesso motivo che in larga parte spiega, sul piano processuale, l’esito della vicenda: e cioè la circostanza che in tale ordinanza (così come in quella, di qualche giorno successiva, con la quale doglianze analoghe sono state sottoposte in parallelo all’esame, o forse meglio all’attenzione, della Corte costituzionale) più che essersi formulate e poste delle “questioni” in senso tecnico[1], si sono presentate una cornucopia di problemi, informazioni, osservazioni, riflessioni e domande non configurate come (e tendenzialmente nemmeno suscettibili di essere “tradotte”[2] in) quesiti risolvibili, nell’esercizio delle proprie competenze, attraverso i propri poteri d’intervento e nell’ambito del proprio ruolo istituzionale, dal giudice europeo (né, si ritiene, dal giudice delle leggi: e nel giro di poco tempo se ne avrà conferma o smentita), risultandone di conseguenza preclusa la possibilità di sviscerare ed affrontare organicamente e compiutamente, in sede scientifica, i vari profili[3].
2. Precisazioni sulla “questione” posta
A questo proposito, e addentrandoci con ciò maggiormente nella questione (…in senso molto lato, come si diceva) occorre subito precisare che, seppure sul sito della Corte di giustizia il file contenente la questione pregiudiziale si limiti significativamente a riportare il quesito richiamato nelle prime righe di questo lavoro, la “questione” posta dal giudice del rinvio includeva anche una “seconda parte”, ricavabile dall’ampia ordinanza del 18 maggio 2020 (di ben 34 pagine) ‒ ove essa risulta evidenziata in grassetto al pari del quesito racchiuso nella prima parte ‒ e citata pressoché integralmente al punto 19 dell’ordinanza della Corte di Lussemburgo (da cui è estrapolata la citazione che segue, con l’aggiunta dei corsivi nei passaggi iniziali).
In questa “seconda parte”, piuttosto singolare sotto diversi profili, si chiedeva «[i]n particolare […] alla Corte di giustizia se l’indipendenza del giudice del rinvio e il diritto al giusto processo delle parti della presente controversia e di tutte le cause pendenti davanti a [detto] giudice siano stati violati dal Governo italiano nel momento in cui si sono verificate le seguenti condizioni giuridiche e situazioni di fatto:
– in data 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri con una delibera adottata senza l’intesa obbligatoria con le Regioni e utilizzando una procedura non prevista dalla normativa interna per l’emergenza sanitaria, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale per COVID-19 per la durata di sei mesi fino al 31 luglio 2020, avocando alla Presidenza del Consiglio […] la competenza di tutte le disposizioni per fronteggiare una situazione epidemiologica in quel momento inesistente sul territorio nazionale, senza stanziare risorse economiche adeguate per la dichiarata emergenza;
– il Governo italiano con decretazione d’urgenza ha sospeso per il periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020 l’attività giudiziaria nel settore civile e nel settore penale, ad eccezione di pochissime cause ritenute urgenti sul piano legislativo e non nella valutazione del giudice, che sono state trattate in udienza pubblica senza prevedere specifiche misure di contenimento per l’emergenza COVID-19, mentre l’attività [del giudice del rinvio] è stata sospesa integralmente, in mancanza della possibilità di effettuare cause urgenti della tipologia pretesa dal legislatore;
– il Governo italiano dal 9 marzo all’11 maggio 2020 non ha provveduto alla sanificazione e disinfestazione straordinaria degli uffici, degli ambienti e dei mezzi in uso alla amministrazione giudiziaria, all’acquisto di materiale igienico sanitario e di dispositivi di protezione individuale, nonché all’acquisto di apparecchiature informatiche e delle relative licenze di uso per informatizzare i settori giudiziari civili e penali anche degli Uffici del Giudice di pace, pur avendo a disposizione il Ministero della giustizia per le misure di contenimento del virus e la ripresa dell’ordinaria attività giudiziaria disponibilità finanziarie di importo molto elevato e da utilizzare immediatamente in deroga alle norme UE nazionali in materia di appalti pubblici, senza l’obbligo di rendicontazione contabile ed amministrativa e senza il controllo della Corte dei conti;
– per il periodo dal 12 maggio al 31 luglio 2020, il Governo italiano ha imposto con decretazione d’urgenza per il settore civile e per il settore penale, cioè per i settori di competenza del giudice [del rinvio], ad eccezione delle limitate tipologie di cause urgenti come quelle già trattate in udienza pubblica per il periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020, modalità organizzative delle pochissime udienze che avrebbero dovuto essere effettuate o di impossibile attuazione come il processo da remoto per carenza strutturale del sistema informatico e organizzativo di lavoro del Ministero della giustizia, o gravemente lesive dei diritti di difesa e del contraddittorio delle parti, come le udienze a sola trattazione scritta senza la presenza dei difensori e delle parti;
– per il periodo dal 12 maggio al 31 gennaio 2021, il Ministero della giustizia non ha consentito né consentirà per il settore civile e per il settore penale di poter effettuare udienze pubbliche anche a porte chiuse a causa della inutilizzabilità del personale amministrativo di cancelleria in lavoro agile senza collegamenti da remoto con gli Uffici giudiziari, della mancata sanificazione e disinfestazione straordinaria degli uffici, degli ambienti e dei mezzi in uso alla amministrazione giudiziaria, del mancato acquisto di materiale igienico sanitario e dispositivi di protezione individuale, della mancata individuazione di protocolli di misure di contenimento per lo svolgimento dell’attività giudiziaria, scaricando la responsabilità di effettuare (in rarissime occasioni) o non effettuare (nella generalità dei casi) le udienze pubbliche, in carenza delle condizioni di sicurezza sanitaria e senza tutele contro l’emergenza COVID-19, ai Capi degli Uffici giudiziari (Presidenti di Tribunale per i giudizi in 1° grado) o ai singoli Giudici;
– per il periodo dal 9 marzo 2020 al 31 gennaio 2021 il giudice [del rinvio] è stato messo nelle condizioni di non poter effettuare udienza con nessuna delle modalità organizzative previste dalla decretazione d’urgenza né con udienza pubblica né con il processo da remoto e l’aula virtuale né con trattazione scritta senza la presenza dei difensori e delle parti, e sarà costretto a rinviare tutte le cause rivenienti sui suoi ruoli del settore civile e del settore penale a data successiva al 31agosto 2020 e, con la pubblicazione del decreto legge [n. 34/2020], al 31 gennaio 2021;
– a causa della totale inattività giurisdizionale come udienze svolte e provvedimenti giudiziali prodotti nel periodo dal 9 marzo 2020 al 31 gennaio 2021 il giudice [del rinvio] non ha percepito e non percepirà alcuna indennità dal Ministero della giustizia, neanche a titolo di contributo economico per l’emergenza sanitaria;
– infine, il Governo italiano con decretazione d’urgenza ha prorogato per altri sei mesi fino al 31gennaio 2021 lo stato di emergenza nazionale e l’attuale paralisi della giustizia civile e penale, mentre dal 18 maggio 2020 sono state riaperte tutte le attività produttive ed economiche che si svolgono nell’ambito della competenza territoriale regionale, con ripresa della libera circolazione tra le Regioni e nei confronti degli Stati [membri] dell’Unione, senza obbligo di quarantena, dal 3 giugno 2020, con l’adozione di modeste misure igienico-sanitarie e di contenimento sociale».
A fronte di una prospettazione siffatta, non stupisce, per un verso, che nel pubblicare sul sito della Corte il quesito ad essa sottoposto dal giudice del rinvio ci si sia limitati, come si diceva, a riportarne la prima parte (quella qui richiamata inizialmente), omettendo la seconda, con ciò in sostanza escludendosi implicitamente, e “a monte” (pur sotto questo profilo se si vuole marginale, non decisivo, non ufficialmente riconducibile a una presa di posizione del collegio decidente, e tuttavia assai indicativo), che questo secondo “blocco testuale” (non si sa come meglio definirlo in breve)[4] potesse essere considerato tecnicamente parte della “domanda”; e, per l’altro verso, che la complessiva questione ‒ presa invece in considerazione nella sua interezza nella motivazione dell’ordinanza del giudice dell’Unione ‒ sia stata da questi dichiarata manifestamente irricevibile.
3. Le ragioni dell’irricevibilità: alcuni principi generali…
È precisamente nei passaggi in cui la Corte europea motiva la decisione di manifesta irricevibilità che si rinvengono, come anticipato, alcune indicazioni (che spesso rappresentano il “precipitato” di precedenti chiarimenti giurisprudenziali) di un certo interesse in vista della corretta e più precisa ricostruzione della natura e delle finalità del procedimento di cui all’art. 267 TFUE, e, da un’altra prospettiva, del rapporto che deve sussistere tra il giudizio della Corte dell’Unione e il giudizio a partire dal quale la questione è sollevata; e ancora, conseguentemente, delle caratteristiche che dovrà avere l’ordinanza di rinvio pregiudiziale quale atto che, se ben formulato, potrà consentire l’instaurazione del giudizio innanzi al collegio europeo esprimendo e definendo appunto il legame tra tale giudizio e il giudizio “principale” (usandosi non a caso, anche nella dottrina e nella giurisprudenza eurounitaria, la medesima formula utilizzata ‒ nell’ambito della giustizia costituzionale italiana ‒ per definire il giudizio da cui prende le mosse, e su cui dovrà avere ricadute, il “giudizio incidentale” innanzi alla Consulta).
Sembra dunque utile richiamare, pur con inevitabili tagli, e con l’aggiunta di alcuni corsivi, almeno alcune delle affermazioni contenute nei punti 23 e seguenti della decisione del 10 dicembre.
Anzitutto, dopo essersi ricordato che, «secondo una giurisprudenza costante della Corte, il procedimento istituito dall’articolo 267 TFUE costituisce uno strumento di cooperazione fra la Corte ed i giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi di interpretazione del diritto dell’Unione che sono loro necessari per la soluzione della controversia che sono chiamati a dirimere», si precisa, con dovizia di riferimenti a precedenti decisioni che qui si omettono per brevità, che «[l]a ratio del rinvio pregiudiziale non risiede tuttavia nell’esprimere pareri consultivi su questioni generiche o ipotetiche, bensì nella necessità di dirimere concretamente una controversia», dal momento che, come risulta «dalla formulazione stessa dell’articolo 267 TFUE, la decisione pregiudiziale richiesta deve essere “necessaria” al fine di consentire al giudice del rinvio di “emanare la sua sentenza” nella causa della quale è investito»; e «dal dettato e dall’impianto sistematico dell’articolo 267 TFUE emerge che il procedimento pregiudiziale presuppone, in particolare, che dinanzi ai giudici nazionali sia effettivamente pendente una controversia, nell’ambito della quale ad essi è richiesta una pronunzia che possa tener conto della sentenza pregiudiziale».
Ciò ribadito, la Corte aggiunge, rifacendosi ad altre proprie decisioni, che «[n]ell’ambito di siffatto procedimento, deve quindi esistere, tra la suddetta controversia [quella pendente dinanzi al giudice nazionale] e le disposizioni del diritto dell’Unione di cui è chiesta l’interpretazione, un collegamento tale per cui detta interpretazione risponde ad una necessità oggettiva ai fini della decisione che dev’essere adottata dal giudice del rinvio».
A questo punto, spingendosi oltre (e sempre ricollegandosi alla propria giurisprudenza pregressa), il giudice dell’Unione afferma che «l’esigenza di giungere ad un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo definisca il contesto di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate, o almeno che esso spieghi le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate», dal momento che la Corte «può pronunciarsi unicamente sull’interpretazione di un testo dell’Unione a partire dai fatti che le sono presentati dal giudice nazionale».
E ancora, andando a toccare forse uno dei punti in riferimento ai quali l’ordinanza del Giudice di pace italiano risultava più vistosamente carente (nonostante la sua ampiezza, e forse per certi versi anche in ragione di una certa sua “dispersività” in qualche modo accentuata proprio dalla stessa ricchezza e varietà di riferimenti e doglianze, non sempre accompagnata da un analogo livello di chiarimento, approfondimento e, per così dire, pertinenza argomentativa sul piano logico-giuridico), la Corte si sofferma specificamente sulla «importanza dell’indicazione, ad opera del giudice nazionale, dei motivi precisi che l’hanno indotto ad interrogarsi sull’interpretazione del diritto dell’Unione e a ritenere necessario proporle questioni pregiudiziali»: e ciò in quanto, fungendo la decisione di rinvio «da fondamento del procedimento dinanzi alla Corte, è indispensabile che il giudice nazionale» non solo «chiarisca, nella [stessa], il contesto di fatto e di diritto della controversia principale», ma fornisca anche «un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui chiede l’interpretazione, nonché [e qui le carenze sembrano massime] sul nesso a suo avviso intercorrente tra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui è investito».
Si tratta, come la Corte non manca di sottolineare, di «requisiti concernenti il contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale» che «figurano in modo esplicito all’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte, che il giudice del rinvio, nell’ambito della cooperazione prevista all’articolo 267 TFUE, deve conoscere e osservare scrupolosamente»…[5].
4. …e la loro applicazione al caso di specie
Su tali basi, non sorprende la valutazione della Corte secondo cui la domanda di pronuncia pregiudiziale sottopostale non soddisfa i necessari requisiti di ammissibilità.
Tra le molte ragioni richiamabili a sostegno di tale conclusione, la Corte si concentra su alcune, verosimilmente perché più immediate e/o perché, per così dire, meno impegnative sotto il profilo motivazionale, forse anche allo scopo di non sbilanciarsi su aspetti più complessi e delicati, magari creando dei “precedenti” suscettibili di risultare in un futuro eccessivamente limitanti, o comunque “scomodi”.
Nondimeno, molti sono gli insegnamenti che ‒ soprattutto da parte dei giudici (in particolare, ma non solo, coloro che siano meno avvezzi ad addentrarsi in “questioni eurounitarie” e, soprattutto, a “dialogare” col giudice di Lussemburgo); nonché, per così dire “a cascata”, da parte degli avvocati ‒ possono trarsi dall’ordinanza in esame.
Ivi si osserva anzitutto che la questione sottopostale, pur consentendo di stabilire a grandi linee l’oggetto del procedimento principale ‒ ossia una «domanda di risarcimento dei danni che sarebbero stati provocati in un incidente stradale che ha coinvolto un autoveicolo» (…incidente asseritamente causato, può aggiungersi, da una buca presente in loco) ‒, «non contiene alcuna indicazione riguardo alle circostanze di tale incidente o all’eventuale ruolo che avrebbero avuto in esso le parti del procedimento pendente dinanzi al giudice del rinvio», e (circostanza forse ancor più problematica) «non precisa il fondamento giuridico di tale domanda né le disposizioni nazionali applicabili al fine di risolvere tale controversia, dato che il giudice del rinvio si limita a menzionare la natura civile del procedimento principale e a rilevare che la legislazione interna che esso dovrà applicare a detta controversia “deriva dal processo legislativo di recepimento del diritto dell’Unione”», senza che tale quanto mai generica affermazione sia in alcun modo corroborata da elementi concreti in grado di illuminare il nesso tra la vicenda, ed il suo contesto giuridico, e il diritto dell’Unione.
Sotto altro profilo, poi, «nei limiti in cui dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che il giudice del rinvio ha ritenuto necessario sottoporre alla Corte tale domanda a causa delle modalità organizzative in cui sostiene di essere tenuto ad esaminare il procedimento principale» (è su tali aspetti, di natura molto generale, che verte infatti, come vedremo, un’ampia e variegata parte della “questione”), la Corte, dopo aver ricordato che la domanda «verte sull’interpretazione dell’articolo 2, dell’articolo 4, paragrafo 3, dell’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 9 TUE nonché dell’articolo 67, paragrafi 1 e 4, e degli articoli 81 e 82 TFUE, in combinato disposto con gli articoli 1, 6, 20, 21, 31, 34, 45 e 47 della Carta», rileva come dall’ordinanza di rinvio «non risult[i] che la controversia principale presenti, quanto al merito o al regime processuale applicabile al suo esame, un collegamento con tali disposizioni del Trattato UE o del Trattato FUE o che il giudice del rinvio sia chiamato ad applicare una qualsiasi di tali disposizioni al fine di ricavarne la soluzione di merito da riservare a tale controversia», da tale ordinanza «non risulta[ndo] neppure che una risposta della Corte a tali questioni sia atta a fornire al giudice del rinvio un’interpretazione del diritto dell’Unione che gli consenta di dirimere questioni procedurali di diritto nazionale di cui sarebbe investito prima di poter statuire nel merito della controversia, non contenendo l’ordinanza di rinvio alcuna indicazione in tal senso».
In tali circostanze ‒ conclude (sul punto) il giudice eurounitario ‒ «si deve constatare che dall’ordinanza di rinvio non risulta che tra le disposizioni del Trattato UE o del Trattato FUE su cui verte tale questione e la controversia di cui al procedimento principale esista un collegamento che sia idoneo a rendere necessaria l’interpretazione richiesta affinché il giudice del rinvio possa, in applicazione dei precetti derivanti da tale interpretazione, adottare una decisione che sia necessaria al fine di statuire su tale controversia» (corsivi aggiunti, qui come sempre ove non diversamente indicato).
«Appare invece manifestamente», chiosa la Corte, «che tale domanda non verta su un’interpretazione del diritto dell’Unione che risponde ad una necessità oggettiva per la soluzione di detta controversia, ma che essa abbia carattere generale».
Tanto basterebbe, probabilmente.
5. Chiarimenti ulteriori
Ma la Corte si spinge oltre, mettendo per così dire il dito nella piaga (o in alcune delle piaghe), con ciò fornendo ulteriori indicazioni preziose in vista di una miglior comprensione, e quindi di un miglior utilizzo, del meccanismo del rinvio pregiudiziale.
Si censura, in particolare, il fatto che l’ordinanza di rinvio non contenga «nessuna spiegazione quanto alla scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione delle quali è richiesta l’interpretazione o quanto ai dubbi nutriti dal giudice del rinvio in proposito, limitandosi quest’ultimo a esporre considerazioni d’ordine generale».
Più precisamente, si rileva, in prima battuta, che «[d]al testo della questione pregiudiziale risulta […] che l’interpretazione richiesta del diritto dell’Unione dovrebbe consentir[e al giudice del rinvio], in sostanza, di valutare la validità delle modalità organizzative che regolano la tenuta delle udienze nelle cause dinanzi ad esso pendenti, in particolare nella controversia di cui al procedimento principale, riguardo alla quale esso nutre dubbi in quanto tali modalità, congiuntamente considerate, violerebbero “[la sua] indipendenza (...) e il principio del giusto processo, nonché i diritti ad essi connessi della dignità delle persone, della libertà e della sicurezza, dell’uguaglianza davanti alla legge, della non discriminazione, di condizioni di lavoro eque e giuste, dell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, della libertà di circolazione e di soggiorno”».
E, in seconda battuta, si osserva che, «nei limiti in cui il giudice del rinvio, con tale affermazione, o anche con la sua esposizione degli effetti concreti che deriverebbero dai provvedimenti urgenti relativi al funzionamento degli organi giurisdizionali adottati dal legislatore italiano per lo stato di emergenza sanitaria […] o con le considerazioni relative alla sua indipendenza e al diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva […] intenda giustificare la scelta delle disposizioni del Trattato UE e del Trattato FUE che menziona nella questione e la pertinenza di tale scelta, è sufficiente constatare che tali considerazioni d’ordine generale non contengono alcun riferimento preciso a dette disposizioni né alcuna chiara spiegazione quanto ai motivi per i quali nutre dubbi circa la loro interpretazione nel contesto dell’applicazione di tali provvedimenti di emergenza alla controversia di cui al procedimento principale», dovendosi altresì e conseguentemente «constatare che l’ordinanza di rinvio non contiene neppure la richiesta illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, e del collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale».
6. A proposito dell’applicabilità della Carta dei diritti
Concentrandosi poi su un profilo più specifico e di assoluta importanza, la Corte rileva che, «nei limiti in cui si possa ritenere che la questione pregiudiziale verta anche sull’interpretazione degli articoli 1, 6, 20, 21, 31, 34, 45 e 47 della Carta relativi, rispettivamente, alla dignità umana, al diritto alla libertà e alla sicurezza, all’uguaglianza davanti alla legge, alla non discriminazione, alle condizioni di lavoro giuste ed eque, alla sicurezza sociale e all’assistenza sociale, alla libertà di circolazione e di soggiorno, nonché al diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, occorre constatare che detta mancanza di informazioni non consente del pari alla Corte di pronunciarsi sull’applicabilità di detti articoli».
E a tal proposito, dopo aver ricordato la circostanza ben nota (ma che non di rado si tende a dimenticare) che «[l]’articolo 51, paragrafo 1, della Carta prevede […] che le disposizioni di quest’ultima si applichino agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», sicché «ove una situazione giuridica non rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza», il giudice europeo evidenzia che «la mera affermazione del giudice del rinvio, secondo cui la maggior parte delle disposizioni di diritto interno applicabili alle cause sottoposte al suo esame, compresa la controversia nell’ambito della quale egli adisce la Corte, risulta dalla trasposizione del diritto dell’Unione ad opera del legislatore italiano, è manifestamente insufficiente a consentire alla Corte di constatare una siffatta attuazione».
Sul punto la Corte si spinge ancora più avanti (forse perfino troppo?) nei chiarimenti, andando conclusivamente a precisare (con evidente apertura a delicate ricostruzioni più generali sul modo di far valere le varie fonti attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale) che «[l]’eventuale applicabilità degli articoli della Carta citati dal giudice del rinvio avrebbe potuto, se del caso, essere constatata solo laddove le altre disposizioni del diritto dell’Unione menzionate nella questione pregiudiziale fossero applicabili nel procedimento principale». Ma poiché, per le ragioni precedentemente indicate, la «questione è manifestamente irricevibile nella parte in cui riguarda tali altre disposizioni», «[l]a domanda di pronuncia pregiudiziale è, di conseguenza, del pari manifestamente irricevibile nei limiti in cui deve essere intesa come vertente su dette disposizioni della Carta»…
7. Profili di merito: cenni preliminari e rinvio
Resterebbe a questo punto da esaminare, o almeno da chiedersi, se nel merito, prescindendo dalle carenze dell’ordinanza di rinvio al giudice europeo, e prescindendo altresì da quella serie di illazioni, commenti, forzature, giudizi tranchant o valutazioni affrettate che, oltre a tradire un atteggiamento non sempre e del tutto sereno, distaccato ed equilibrato del giudice del rinvio[6], risultano per lo più di scarso valore ed utilità sul piano giuridico, vi fossero nelle pieghe dell’ampio ‒ e in molte altre parti più accurato e oggettivamente stimolante ‒ provvedimento del 18 maggio[7] elementi tali da poter astrattamente condurre, ove la questione fosse stata formulata in modo più congruo, a un esito differente, soprattutto in riferimento a quei profili più pianamente riconducibili all’ambito della tutela di diritti e principi fondamentali (vuoi in virtù di un diretto richiamo alla Carta, vuoi per altri motivi).
A tal fine, sorvolando su una serie di ostacoli ulteriori ‒ il primo dei quali rappresentato dal problema di fondo della possibilità di rinvenire nei profili di merito della vicenda (sul piano fattuale e giuridico) elementi tali da giustificare l’applicazione delle invocate norme europee[8] ‒ e ragionando, per intendersi, come se un idoneo collegamento con il diritto dell’Unione vi fosse ‒ si potrebbe anzitutto distinguere, all’interno dell’ordinanza del 18 maggio 2020, due ordini di questioni: quelle riferibili, in modo più o meno diretto, alla posizione del giudicante (sotto molti profili) e quelle ricollegabili, anche in questo caso in modo più o meno diretto, alla posizione delle parti, con la prevedibile precisazione che in alcuni casi un medesimo aspetto può ben assumere rilievo sotto entrambi i profili[9].
Ancora, vi sarebbe da precisare che, oltre ai rilievi più direttamente e specificamente ricollegabili alla posizione delle parti del procedimento principale, nell’ordinanza di rinvio vi sono una serie di passaggi rivelatori di (o comunque finalizzati a evidenziare) criticità sistemiche afferenti, più in generale, alla tutela dei diritti fondamentali e ai rischi, o comunque alle limitazioni, che (le possibilità effettive di ottenere) tale tutela, e conseguentemente i diritti stessi, hanno incontrato e, parrebbe, continuano a incontrare nel contesto della pandemia: non solo e non tanto (in questa particolare prospettiva di analisi e di riflessione, decisamente meno battuta) in modo diretto (secondo quella che, per intuitive ragioni, sembra invece essere, in modo più o meno fondato, la principale preoccupazione di non pochi giuristi e di molti cittadini, complici per la verità grossolane e dannosissime semplificazioni e strumentalizzazioni che tuttavia non oscurano la necessità di porsi molto seriamente anche questo problema, ed altri egualmente importanti[10]), cioè in quanto immediatamente e chiaramente colpiti dalle misure restrittive adottate per cercare di arginare il contagio e conseguentemente ridurre il numero di decessi ed aumentare le possibilità di cura; bensì in modo indiretto, meno evidente e verrebbe da dire “subdolo”, appunto in quanto privati, in tutto o in parte, della possibilità di essere tempestivamente ed efficacemente tutelati attraverso i consueti rimedi giurisdizionali (sulla cui centralità e imprescindibilità non dovrebbe essere necessario dilungarsi), giungendosi sotto questo profilo a ragionare, da parte del giudice a quo, di una attuale «crisi sistemica della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento interno per la lesione del principio di indipendenza e di imparzialità del giudice, provocata dalla paralisi delle procedure di tutela e garanzia dei diritti dell’ordinamento dell’Unione a tempo indefinito, e comunque fino al 31 gennaio 2021 per la durata (e con la scusa [sic]) dello stato di emergenza nazionale per il Covid-19» (punto 94; ma v. anche, al riguardo, i punti 93, 100, 101 e 143 dell’ordinanza di rinvio).
Nell’impossibilità di sviluppare il discorso in questa sede, non si può che fare integralmente rinvio all’analisi e alle riflessioni svolte nel più ampio scritto inizialmente citato, ove si è tra l’altro tentato di gettare un po’ di luce, direttamente o indirettamente, sui profili di potenziale contrasto o tensione tra le molte misure e condotte (anche omissive) richiamate dal giudice del rinvio e alcuni diritti e principi fondamentali riconosciuti (anche) a livello europeo, e, più in generale, di trarre dalla complessiva vicenda e dai molti riferimenti e stimoli presenti nell’ordinanza del 18 maggio 2020 alcuni possibili insegnamenti e spunti di riflessione anche sul piano sostanziale.
8. Conclusioni
Per concludere, sembra invece potersi trarre da tale vicenda (e dall’ordinanza della Corte di giustizia in commento) un semplice ma fondamentale insegnamento sul piano “procedurale”, e più precisamente sul piano delle dinamiche dei rapporti tra Corti e, prima ancora, delle funzioni e più in generale del ruolo delle Corti e dei giudici tutti (dei loro compiti, dei loro poteri, dei loro limiti e, in relazione a ciò, dei loro modi di relazionarsi tra loro e con il potere politico); il tutto, naturalmente, con ricadute inevitabili, in verità di tipo biunivoco, sul (o a partire dal) ruolo delle fonti che tali giudici “maneggiano”.
Insegnamento che non dovrebbe suonare amaro né men che meno cinico, ma serenamente realistico e costruttivo (inducendo indirettamente a rivolgere nelle giuste direzioni e a concretizzare nei giusti modi il proprio impegno e le proprie sacrosante aspirazioni, così da aumentarne, per così dire, l’efficacia e al contempo evitare perdite di energie e di tempo prezioso ‒ non solo il proprio, ma anche, spesso, quello di altri ‒ che, appunto, potrebbero essere più proficuamente utilizzati).
Si tratta della circostanza, scontata ma talora dimenticata (forse non tanto per “eccesso di zelo”, come a volte un po’ equivocamente, e talora sinistramente, si afferma, quanto per non piena dimestichezza con alcuni principi di fondo e/o con una serie di “tecnicismi”, se così si vuol dire), che il richiamo a diritti e principi fondamentali sanciti (e tutelati, ma, appunto… nei modi previsti! V. subito oltre) nell’ambito dell’ordinamento eurounitario, come pure del nostro ordinamento costituzionale e, ancora, del “sistema CEDU” (ordinamenti e sistemi sulle cui peculiarità e sui cui tratti di integrazione o collegamento non ci si può ovviamente tornare a soffermare in questa sede) non può funzionare come un passe-partout buono per qualsiasi nobile finalità di giustizia, in senso lato; così come a maggior ragione (e ciò contribuisce in parte a giustificare la precedente affermazione, che tuttavia si giustifica anche per altri motivi “sostanziali”, largamente indipendenti da quanto si sta per dire) un passe-partout non possono essere ‒ per ragioni che vanno oltre la ovvia “non esaustività” (e il comunque limitato ruolo) dei parametri sostanziali di riferimento, e che si ricollegano invece specificamente alla funzione specifica di ciascun meccanismo e rimedio giurisdizionale, ed alla serie di regole e principi che ne discendono in ordine ai giusti modi di utilizzo e, quindi, ai criteri di ricevibilità/ammissibilità ‒ il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, l’incidente di legittimità costituzionale innanzi al giudice delle leggi o, ancora, il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (e, in incerta prospettiva futura, la richiesta di parere consultivo ex protocollo 16)…
*Per una trattazione più ampia delle questioni toccate ‒ o sfiorate ma lasciate da parte ‒ nel presente scritto, e per ulteriori riflessioni che da tali questioni prendono le mosse, cfr. volendo V. Sciarabba, Riflessioni di inizio anno tra tutela della salute, organizzazione e funzionamento della giustizia e garanzia dei diritti e principi fondamentali, in Consulta OnLine, 1/2021.
[1] Vale a dire, a seconda dei casi ‒ ossia, rispettivamente: (a) questione pregiudiziale e (b) questione di costituzionalità ‒ ed a grandi linee (provando cioè a fornire “su due piedi” una bozza definitoria meramente indicativa, senz’altro suscettibile di notevoli perfezionamenti sulla base di una più puntuale ricognizione giurisprudenziale e dottrinale):
a)precise richieste di interpretazione di ben individuate disposizioni normative ai fini (della valutazione, riservata alla Corte di giustizia, della validità di atti imputabili all’Unione, o comunque) della soluzione di un altrettanto ben determinato dubbio, necessaria in vista del (meglio: quale condizione per) la corretta (nel senso di conforme ai vincoli discendenti dalle norme eurounitarie, primarie e derivate) decisione di una ‒ ancora una volta ben individuata e illustrata nei suoi profili fattuali e giuridici (su questo specifico aspetto si tornerà oltre) ‒ controversia giuridica di cui il giudice del rinvio è investito (si vedano al riguardo, in particolare, i punti 23 e ss. dell’ordinanza della Corte di giustizia, sui quali pure si tornerà proprio allo scopo di approfondire maggiormente l’importante tematica qui toccata);
b)richieste di valutazione della fondatezza di specificamente motivati dubbi di conformità a determinate norme costituzionali (o “interposte”) di determinate norme con forza di legge ‒ tra le quali, per dedicare un cenno esplicito all’ordinanza del 28 maggio 2020 con la quale il medesimo Giudice di pace si è rivolto alla Corte costituzionale, non sembrerebbe agevole, pur considerando alcune importanti peculiarità della situazione, annoverare semplici delibere del Consiglio dei ministri o ordinanze del Capo dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri (atti in linea di principio aventi diversa natura e quindi soggiacenti, come si tornerà a dire, a differenti mezzi di impugnazione e in genere contestazione, a livello interno come pure, potenzialmente, a livello sovranazionale) ‒ anche in questo caso in funzione della corretta soluzione del giudizio principale (come può notarsi, la bozza di definizione è su questo versante ancor più sommaria, trascurandosi del tutto una serie di questioni e precisazioni che potrebbero aprirsi e dovrebbero farsi).
[2] Il punto sembra di un certo interesse, dovendosi al riguardo distinguere l’ipotesi di un’eventuale “traduzione”, almeno in parte, delle variegate doglianze del giudice del rinvio in vere e proprie “questioni” ad opera della stessa Corte interpellata, nell’esercizio dei propri fisiologici e più o meno ampi poteri, per l’appunto, di riconfigurazione della questione, dall’ipotesi di riformulazione di tali doglianze in termini diversi e più congrui ad opera di altro giudice ai fini di un nuovo rinvio pregiudiziale ‒ o, un po’ più verosimilmente, di un nuovo incidente di legittimità costituzionale ‒ o, ancora, ad opera della dottrina a fini di speculazione teorica sui profili di merito delle “questioni di fondo” comunque emergenti dalle pur per molti versi infelici ordinanze di rimessione/rinvio.
In quest’ultimo senso numerosi spunti possono probabilmente rinvenirsi ‒ oltre che in alcuni cenni contenuti nel presente scritto ‒ negli ultimi paragrafi del più ampio lavoro prima citato, ove si è cercato di “recuperare” e sottoporre all’attenzione (anzitutto) di studiosi, giudici e avvocati almeno qualcosa di ciò che di interessante e talora importante, dal punto di vista costituzionale in senso lato (e anche “europeo”), vi era nella questione dichiarata manifestamente irricevibile dalla Corte di giustizia.
[3] Ci si potrebbe poi arrivare a chiedere, nella logica di cui alla nota precedente (e avendo riguardo a determinati contenuti e caratteristiche dei provvedimenti con cui le “questioni” sono state sollevate), se qualcuno tra i molti profili sostanziali toccati (o almeno sfiorati) nelle ordinanze del Giudice di pace di Lanciano sia suscettibile di essere concettualmente e “processualmente” riconfigurato in modo da poter essere fatto giuridicamente valere, da parte dei diretti interessati, attraverso un ricorso innanzi alla Corte di Strasburgo, qualora si rinvenissero elementi tali da far emergere una compressione non giustificata di uno dei diritti tutelati dalla CEDU e dai suoi protocolli.
Vale peraltro la pena segnalare, avendo la cosa una certa attinenza con una simile prospettiva, che con decisione del 5 novembre 2020 pubblicata il 3 dicembre 2020 la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso (n. 18108/20, Renaud Le Mailloux contre la France), presentato il 16 aprile 2020 da un cittadino francese, in cui si poneva sotto accusa uno Stato per l’inadeguatezza delle misure di contenimento e di soccorso clinico adottate (o non adottate) per combattere la pandemia, configurando la condotta di tale Stato come inosservanza degli obblighi positivi derivanti dagli articoli 2, 3, 8 e 10 della Convenzione; la Corte, come si diceva, ha dichiarato il ricorso irricevibile e ha colto l’occasione per rimarcare, in particolare, l’inammissibilità dell’“actio popularis” nel sistema della CEDU e la necessità, affinché un ricorso possa essere esaminato nel merito, di lamentare e dimostrare un pregiudizio concreto e individualizzato tale da poter determinare l’assunzione della qualità di “vittima” in capo al ricorrente, in conseguenza di una diretta e specifica violazione di diritti garantiti dalla Convenzione e non di generici pregiudizi di interessi diffusi; da notare che la Corte, nella stessa occasione, ha ribadito anche la necessità di rivolgersi anzitutto alle autorità giurisdizionali interne, conformemente al principio di sussidiarietà che impronta il “sistema CEDU” (per la segnalazione del caso, con efficace sintesi alla quale ci si è qui ampiamente appoggiati, si ringrazia l’Avv. Federico Di Salvo).
[4] In effetti, si tratta (come lo stesso giudice del rinvio dichiara) di un insieme di «condizioni giuridiche e situazioni di fatto» riportate allo scopo, se non proprio di rappresentare l’oggetto indiretto del giudizio richiesto (come a tratti e per più versi parrebbe), almeno “supportare” ‒ in forme e modi alquanto variegati e verosimilmente affidandosi, nelle intenzioni, a un’autonoma opera di estrapolazione degli elementi di eventuale rilievo effettivo da parte del giudice europeo ‒ la (invero piuttosto apoditticamente) lamentata violazione da parte del Governo italiano del principio di indipendenza del giudice e del diritto al giusto processo delle parti, nonché dei «diritti ad essi connessi della dignità delle persone, della libertà e della sicurezza, dell’uguaglianza davanti alla legge, della non discriminazione, di condizioni di lavoro eque e giuste, dell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, della libertà di circolazione e di soggiorno».
È anche alla luce di ciò ‒ e in particolare alla luce di questo tentativo, che sembra potersi intravedere, di abbozzare una sorta di “processo storico” contro il Governo italiano per il modo in cui sono state gestite l’organizzazione e il funzionamento della giustizia (già prima, per qualche aspetto; ma soprattutto) durante il periodo, non ancora concluso, dell’emergenza sanitaria, se non anche per il modo in cui più in generale è stata gestita l’emergenza sanitaria tout court (in questa prospettiva sembrano doversi leggere molti passaggi della lunga ordinanza del 18 maggio, come pure di quella appena successiva con cui lo stesso Giudice di pace si è rivolto alla Corte costituzionale) ‒ che è sembrato di poter scorgere nell’impianto complessivo dei provvedimenti in discussione un approccio più in linea, semmai (con gli innumerevoli aggiustamenti e “scremature” del caso), con la logica tipica di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ipoteticamente presentabile dalle parti private se non addirittura, sotto certi profili che più direttamente lo riguarderebbero, da parte del giudice. Il tutto naturalmente previo esaurimento di ogni possibile rimedio interno, essendo in ultima analisi a questi ordinari rimedi domestici che probabilmente, come si tornerà a dire, sarebbe stato e sarebbe più opportuno rivolgere anzitutto l’attenzione, specie in riferimento a quei molti atti amministrativi o normativi (almeno formalmente) secondari richiamati nelle ordinanze del giudice di Lanciano che sarebbero stati e sarebbero più correttamente e utilmente “aggredibili”, sempre che ve ne fossero o ve ne siano davvero necessità, presupposti e ragioni, innanzi al TAR Lazio o ad altro giudice comune, amministrativo e non… con tale ultima precisazione volendosi alludere soprattutto all’eventualità di un coinvolgimento, in casi estremi, del giudice penale, secondo quanto le cronache di questi mesi, del resto, già purtroppo mostrano ampiamente.
Quanto infine al possibile ruolo della Corte costituzionale a fronte di eventuali violazioni di norme della Costituzione (e/o di altri parametri interposti invocabili, tra cui la stessa CEDU e, secondo la giurisprudenza più recente, pure la Carta dei diritti fondamentali: sul punto cfr. volendo, anche per ulteriori riferimenti, V. Sciarabba, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte costituzionale, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di Antonio Ruggeri e già in Consulta OnLine, 3/2019), basti qui ricordare la basilare e notissima circostanza che un intervento del giudice costituzionale potrà essere richiesto ‒ da parte dei soggetti legittimati (in via incidentale, i giudici, d’ufficio o su istanza di parte nell’ambito di un giudizio pendente; in via principale, lo Stato e le Regioni), alle condizioni e nei modi previsti ‒ soltanto nel caso di abusi compiuti dal legislatore (statale o regionale) o dal Governo mediante atti con forza di legge; oppure anche avverso atti non legislativi ‒ e, ancora, avverso comportamenti di varia natura, al limite anche omissiva ‒ nel (solo) caso di usurpazione o lesione di attribuzioni costituzionali, tanto nell’ipotesi di conflitto tra organi dello Stato (ma si ricordi nuovamente, a questo riguardo, che contro gli atti dell’esecutivo il rimedio principe resta il ricorso innanzi al giudice amministrativo; salva poi l’intricata questione, nella quale non ci si può qui addentrare, delle possibili sovrapposizioni tra i due rimedi), quanto ‒ con differenze sulle quali pure si deve sorvolare ‒ nell’ipotesi di conflitto tra Stato e Regioni (anche in questo caso non senza possibili interferenze tra giustizia costituzionale e giustizia amministrativa).
[5] Oltre all’art. 94 del regolamento di procedura, la Corte menziona le “Raccomandazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (GU 2019, C 380, pag. 1), riferendosi in particolare al punto 15.
La Corte non richiama invece, seppure le circostanze della vicenda (e in specie il parallelo e pressoché contestuale rinvio alla Corte costituzionale, di cui tuttavia la Corte di giustizia potrebbe anche, almeno in teoria, non aver avuto notizia) avrebbero potuto offrire ragioni per farlo, i punti 12 e 13 di tali Raccomandazioni, relativi a un aspetto specifico di notevole importanza, e cioè quello del «momento opportuno per effettuare un rinvio pregiudiziale».
In effetti, come si è avuto occasione di evidenziare in altra sede (La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte costituzionale, cit.; e, più ampiamente, Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, Milano, Key Editore, 2019), le indicazioni contenute nei punti 12 e 13 delle Raccomandazioni sembrano offrire interessanti elementi a sostegno non solo della possibilità ma anche dell’opportunità, almeno in determinate circostanze, di assegnare la priorità sul piano temporale all’incidente di costituzionalità innanzi al giudice delle leggi (anziché al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia), e, per motivi analoghi, parrebbero suscettibili di essere presi in considerazione, almeno in casi come quello alla base del presente scritto, per riflettere criticamente ‒ senza pregiudizi, ma, appunto, con molta attenzione e spirito critico ‒ sulla stessa possibilità e opportunità di un doppio rinvio in parallelo.
In tali previsioni infatti, dopo essersi affermato, in linea generale, che il giudice nazionale è «nella posizione migliore per valutare in quale fase del procedimento occorra formulare tale domanda», si precisa che siccome, «tuttavia, tale domanda servirà da base per il procedimento che si svolgerà dinanzi alla Corte e che quest’ultima deve poter disporre di tutti gli elementi che le consentano sia di verificare la propria competenza a rispondere alle questioni poste, sia di fornire, in caso affermativo, una risposta utile a tali questioni, è necessario che la decisione di effettuare un rinvio pregiudiziale venga presa in una fase del procedimento nella quale il giudice del rinvio sia in grado di definire con sufficiente precisione il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, nonché le questioni giuridiche che esso solleva. Nell’interesse di una corretta amministrazione della giustizia può anche risultare auspicabile che il rinvio venga effettuato in esito a un contraddittorio tra le parti» (corsivi significativamente originali, nell’ultima versione pubblicata e a differenza che nelle precedenti).
Le indicazioni, e in specie il riferimento addirittura alla necessità che la decisione di effettuare un rinvio pregiudiziale venga presa in una fase del procedimento nella quale sia definito con sufficiente precisione il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, nonché le questioni giuridiche che esso solleva, risultano di ancor maggiore interesse alla luce della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, nella quale si rinvengono prese di posizione nel senso che, ferma restando la circostanza che «gli organi giurisdizionali nazionali godono della più ampia facoltà di adire la Corte», nondimeno «potrebbe essere vantaggioso, secondo le circostanze, che i fatti di causa siano acclarati e che i problemi di puro diritto nazionale siano risolti al momento del rinvio» (punto 35 della sentenza 11 settembre 2014, causa C-112/13, A contro B e altri).
Tali affermazioni paiono assai indicative non solo perché, come si anticipava, esse confermano (insieme ad altre più esplicite statuizioni contenute in altri punti della motivazione e nello stesso dispositivo della sentenza da ultimo citata, e di altre) il riconoscimento della possibilità di considerare prioritaria la questione di costituzionalità rispetto al rinvio pregiudiziale, ma anche perché, come pure si è anticipato, forniscono importanti elementi per ragionare sul momento in cui la Corte di giustizia, in linea di massima, preferirebbe essere interpellata: laddove il riferimento, da una parte, alla “necessità” che sia già adeguatamente “definito” il contesto anche “di diritto” del procedimento principale, “nonché le questioni giuridiche che esso solleva”, e, dall’altra, all’opportunità (“vantaggiosità”) che “i problemi di puro diritto nazionale” – tra cui chiaramente non possono non inserirsi in primis quelli relativi alla legittimità “interna” delle norme che dovrebbero applicarsi – siano già “risolti” al momento del rinvio a Lussemburgo sembrerebbe proprio deporre (contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, e limitatamente almeno a determinati tipi di questioni) nel senso della preferenza (dal punto di vista europeo) per la priorità... della questione di costituzionalità!
E ciò allo scopo, parrebbe, di riservarsi (da parte del giudice eurounitario, e almeno, come si diceva, secondo il proprio “punto di vista”) “l’ultima parola” sulla questione; e, al contempo, di economizzare le proprie risorse di tempo nonché, per così dire, il proprio “impegno” (in più sensi, includenti il rischio di esporsi oltremodo sul piano latamente politico in conseguenza delle questioni poste), astenendosi in ipotesi dall’intervenire in tutti quei casi in cui l’applicabilità di un atto legislativo nazionale in potenziale contrasto con diritti o principi fondamentali possa già essere esclusa per altra via, in specie attraverso il riconoscimento della sua illegittimità ad opera del giudice costituzionale.
[6] Si possono richiamare in questo senso, in particolare, il punto 48; il punto 73; il punto 74; il punto 82; il punto 94; il punto 96; i punti 117 e 128; il punto 125; nonché, in parte (essendo in questo caso la “provocazione” un po’ più sottile e maggiormente agganciata a elementi oggettivi), il punto 141.
[7] Il discorso si potrebbe teoricamente allargare espressamente, in vista della decisione che dovrà adottare il nostro giudice delle leggi, al provvedimento del 28 maggio 2020 con cui il medesimo Giudice di pace ha sollevato, come si è già ricordato, una questione di legittimità costituzionale formulata in una logica e con riferimenti per molti versi analoghi.
[8] Al riguardo, come si è ricordato, la Corte ha censurato l’assenza di concrete indicazioni idonee a chiarire e supportare l’estremamente generico, e non circostanziato, assunto del giudice del rinvio, osservando che la “mera affermazione” secondo cui «la maggior parte delle disposizioni di diritto interno applicabili alle cause sottoposte al suo esame, compresa la controversia nell’ambito della quale egli adisce la Corte, risulta dalla trasposizione del diritto dell’Unione ad opera del legislatore italiano», risulta «manifestamente insufficiente a consentire alla Corte di constatare una siffatta attuazione».
[9] La distinzione, per quanto in alcuni casi forzata (e salva in ogni caso la possibilità, come si diceva, di considerare determinate doglianze “ambivalenti”), risulta importante per vari motivi, tra cui anzitutto le sue ricadute sulla legittimazione soggettiva a contestare eventualmente in diverse sedi i provvedimenti e le condotte cui si fa riferimento.
[10] Sulle varie problematiche costituzionali legate alle misure emergenziali (e anche, specificamente, alle loro modalità di adozione), v., tra le analisi più severe (con la consueta acutezza, profondità, efficacia e ampiezza d’analisi), G. Silvestri, Covid-19 e Costituzione, in www.unicost.eu, 4 ottobre 2020; ma anche, quantomeno (e con accenti in parte diversi), F. Sorrentino, A proposito dell’emergenza coronavirus, in Il diritto pubblico della pandemia, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, II, Genova, 2020, p. 1 ss.; M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, ibidem e in Rivista AIC, 2/2020, pp. 109 ss.; Id., Avvisi ai naviganti del Mar pandemico, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 2/2020; R. Romboli, L’incidenza della pandemia da Coronavirus nel sistema costituzionale italiano, in Consulta OnLine, 3/2020; P. Costanzo, Conte e Pinochet, ibidem, 23 marzo 2020; A. Ruggeri, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in Diritti Regionali, 1/2020; Id., Scelte tragiche e Covid-19 (intervista a cura di R.G. Conti), in questa Rivista, 24 marzo 2020; Id., Il coronavirus, la sofferta tenuta dell’assetto istituzionale e la crisi palese, ormai endemica, del sistema delle fonti, Consulta OnLine, 1/2020; V. Onida, Costituzione e coronavirus. La democrazia nel tempo dell’emergenza, Milano, 2020; M. Bignami, Le fonti del diritto tra legalità e legittimità nell’emergenza sanitaria, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 2/2020, e Id., Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, ibidem, 7 aprile 2020.
Diritto d’uso esclusivo di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale: la volontà dei privati alla luce del principio del numero chiuso dei diritti reali (nota a Cass., sez. un, n. 28972 del 17/12/2020)
di Francesco Taglialavoro
Natura, limiti e opponibilità del diritto di uso esclusivo su beni comuni: il passo indietro delle Sezioni Unite tra prassi negoziale e rispetto della dogmatica civilistica.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Astrazione dal caso concreto: dalla vicenda all’esame della Corte alle vicende della prassi negoziale - 3. I precedenti giurisprudenziali - 4. La decisione delle Sezioni unite - 4.1.Riconducibilità dell’uso esclusivo a un diritto reale tipico - 4.2.La compatibilità dell’uso esclusivo con la regola dettata dall’art. 1102 cod. civ. - 4.3 L’uso esclusivo quale diritto reale atipico - 4.4 La natura del diritto d’uso esclusivo - 5. Corollari applicativi e conclusioni.
1.Introduzione
È valida la convenzione con la quale si attribuisce a un condòmino l’uso esclusivo di un bene presuntivamente comune? Tale diritto può essere trasferito a titolo particolare ed è opponibile anche ai terzi?
In una assai articolata decisione, le Sezioni unite passano in rassegna oltre cinquant’anni di precedenti giurisprudenziali, concludendo per l’inconfigurabilità del diritto reale di uso esclusivo.
La sentenza in commento si lascia apprezzare per la estrema completezza dei richiami giurisprudenziali, nonché per il rigore col quale misura la prassi contrattuale alla luce delle fondamentali categorie dogmatiche in tema di diritti reali c.d. minori.
La Suprema Corte, tuttavia, è fin troppo sintetica nel delineare le conseguenze applicative della propria – in apparenza dirompente – decisione: da un lato, infatti, gli orientamenti esposti sono offerti in lettura in modo torrentizio, col risultato di “spiazzare” il lettore e condurlo, in modo poco consapevole, in un percorso di contrapposizioni non del tutto chiare; dall’altro, la sentenza dedica 33 pagine alla demolizione del “diritto reale” di uso esclusivo, riservandone soltanto due alla “sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia contemplato”.
Il ruolo dell’interprete appare quindi particolarmente importante: si tenterà, quindi, una ricostruzione schematica della principale giurisprudenza richiamata, distinguendo tra orientamenti complementari ed essenziali, questi ultimi organizzati in ragione delle reciproche contrapposizioni.
2. Astrazione dal caso concreto: dalla vicenda all’esame della Corte alle vicende della prassi negoziale
Tre soggetti sono comproprietari di un immobile costituito da sei unità (tre a uso commerciale e tre a uso residenziale) oltre che da un cortile retrostante e da un’area antistante ai locali commerciali.
La comunione ordinaria viene sciolta e, in base all’atto di divisione, uno dei tre soggetti diviene proprietario (fra l’altro) di uno dei locali commerciali “con l’uso esclusivo della porzione di corte antistante”; costui, in seguito, aliena il locale ad un altro soggetto, specificando nell’atto di vendita che l’alienazione comprende “l’uso esclusivo della porzione di corte antistante”.
I successivi acquirenti degli altri appartamenti citano in giudizio il proprietario del locale commerciale, sostenendo che quest’ultimo si fosse indebitamente appropriato dell’area comune condominialeantistante al negozio; il convenuto resiste in giudizio, richiamando a supporto la pattuizione con la quale gli era stato trasferito non solo il diritto di proprietà sul negozio ma anche l’uso esclusivo della corte a esso antistante.
Quid iuris?
La difesa del convenuto risulterebbe fondata ove si potesse qualificare l’invocata pattuizione e, prima di essa, l’originaria pattuizione di cui all’atto di divisione: i) o come in realtà traslativa del diritto di proprietà sull’area in questione; ii) o come costitutiva di un diritto reale atipico di uso esclusivo; iii) oppure quale particolare modalità di disciplina dell’uso delle cose comuni.
Al contrario, ove si interpretassero quelle pattuizioni come costitutive del diritto reale d’uso, la seconda alienazione sarebbe in parte nulla per contrarietà ai limiti di durata imposti dall’articolo 1024 cod. civ.
Il caso che si è appena sintetizzato ha costituito, per la Suprema Corte, l’occasione per una riflessione di portata generale: per rinuncia accettata al ricorso, infatti, il processo si era estinto e il giudizio è proseguito nell’interesse della legge.
L’interprete noterà, nel caso che si è appena sintetizzato, la ricorrenza di diversi elementi frequentemente posti alle attenzioni dei giudici del merito[1]; astraendo, si può quindi ritenere che il problema giuridico da risolvere sia il seguente: qual è la natura della clausola attributiva dell’uso esclusivo di una parte “comune”? L’uso esclusivo può essere ceduto? Anche disgiuntamente rispetto all’immobile cui accede? Si può usucapire?
3. I precedenti giurisprudenziali
La questione circa la natura, i limiti e l’opponibilità del diritto di uso esclusivoè stata diffusamente trattata dalla giurisprudenza.
Alcuni orientamenti, richiamati dalla sentenza annotata, si limitano a considerare l’esistenza della clausola in commento, senza però approfondirne limiti e ammissibilità[2].
Altri orientamenti, più esaustivi, propongono due tesi opposte: una “obbligatoria”, l’altra “reale”.
Secondo un primo orientamento, l’uso esclusivo costituirebbe una particolare modalità di godimento del bene comune che, in deroga agli articoli 1102 e 1117 cod. civ., spetterebbe soltanto a uno dei comunisti (o condomini), senza incidere sul profilo della proprietà.
Secondo le Sezioni unite la capostipite di tale orientamento sarebbe costituito da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301[3], poi seguita da Cass. 10 ottobre 2018, n. 24958[4]; Cass. 31 maggio 2019, n. 15021[5]; Cass. 4 luglio 2019, n. 18024[6]; Cass. 3 settembre 2019, n. 22059[7].
Tale affermazione potrebbe generare nell’interprete qualche perplessità: se è vero, infatti, che la decisione del 2017 è la prima ad avere compiutamente analizzato la non riconducibilità della clausola in questione al diritto reale d’uso di cui agli artt. 1021 e segg. cod. civ., si ritiene che tale orientamento, nella parte in cui ritiene che l’uso esclusivo costituirebbe una particolare modalità di godimento del bene comune, sia noto alla giurisprudenza di legittimità sin da Cass., 27 giugno 1978 , n. 3169[8], secondo la quale: “il regolamento convenzionale di condominio può sottoporre a limitazioni l’esercizio dei poteri e delle facoltà che normalmente caratterizzano il contenuto del diritto di proprietà dei singoli condomini sulle cose comuni e può giungere ad attribuire ad uno o più condomini l’uso esclusivo di determinate parti comuni del fabbricato”.
In base all’orientamento appena analizzato, quindi, “non trattandosi (...) di figure di asservimento o di pertinenza (...), deve riconoscersi in generale nella parte comune, anche se sottoposta ad uso esclusivo, il permanere della sua qualità - appunto - comune, derogandosi soltanto da parte dell'autonomia privata al disposto dell'art. 1102 cod. civ., altrimenti applicabile anche al condominio, che consente ai partecipanti di fare uso della cosa comune "secondo il loro diritto"”.
L’insegnamento appena esposto non appare del tutto condivisibile o, meglio, pare porsi in contrasto con larga parte della giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’uso della cosa comune può essere più intenso[9],frazionato[10],turnario[11], ma mai del tutto vietato[12].
In base all’orientamento analizzato, peraltro, l’uso esclusivo non sarebbe usucapibile (in quanto non diritto reale) e potrebbe essere opposto ai terzi nei limiti in cui, in linea generale, lo può essere il regolamento condominiale[13]. Resta, infine, aperto il problema della ripartizione delle spese (il bene, infatti, resta formalmente comune).
Un secondo orientamento fa invece leva sul concetto di estensione del diritto di proprietà o sul vincolo di pertinenzialità.
É stato infatti affermato che la presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 cod. civ. può essere vinta non soltanto quando il contrario risulti in modo espresso dal titolo, ma anche quando il bene sia asservito in modo esclusivo, per le sue proprie caratteristiche o per la destinazione impressa dall’originario proprietario dell'intero immobile, all’uso o al godimento di una sola parte dello stesso[14]: in casi simili, dunque, non si sarebbe al cospetto di un bene comune il cui uso sia riservato a un solo condòmino, ma di un bene in proprietà esclusiva dello stesso.
Secondo altre decisioni[15],la previsione [nel regolamento contrattuale contestuale alla costituzione del condominio] dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio a favore di una frazione di proprietà esclusiva costituirebbe sui beni il vincolo di pertinenzialità di cui all’art. 817 cod. civ.: tale ricostruzione appare coerente con la norma di cui al comma secondo dell’art. 817 cod. civ. e permetterebbe la circolazione del relativo diritto ai sensi dell’art. 818. È opinione comune che il rapporto pertinenziale, la cui nozione si rinviene nel citato art. 817, primo comma, cod. civ., richieda due elementi: uno soggettivo, che consiste nell’atto di destinazione e va propriamente inquadrato negli atti giuridici in senso stretto; l’altro oggettivo, vale a dire la durevole funzione di ornamento o servizio. Quanto al requisito soggettivo, in ambito condominiale, nessun problema sorge nel caso in cui la destinazione sia stata impressa dall’originario proprietario dell’edificio; secondo parte della dottrina, peraltro, la destinazione potrebbe anche essere successiva e richiederebbe, in questo caso, soltanto la maggioranza qualificata, “trattandosi di innovazione volta al maggior rendimento della cosa comune[16]”.
4. La decisione delle Sezioni unite
Le Sezioni unite vengono chiamate a decidere sulla questione di massima di particolare importanza circa la natura, i limiti e la opponibilità del diritto di uso esclusivo su beni comuni.
La Suprema Corte ravvisa anche un contrasto giurisprudenziale, dando tuttavia l’impressione di non averlo messo correttamente a fuoco: secondo la sentenza annotata, infatti, tale contrasto si porrebbe tra Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301 e Cass. 9 gennaio 2020, n. 193 secondo la quale: “in base agli artt. 1026 e 979 c.c., il diritto reale di uso, istituito a favore di una persona giuridica, non può superare il trentennio; né può ipotizzarsi la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà e darebbe vita a un diritto reale incompatibile con l'ordinamento vigente”.
A chi scrive i due precedenti non sembrano però porsi in contrasto; non solo: non pare corretto neppure affermare che la decisione n. 24301 del 2017, più che porsi in diretto contrasto con un formato indirizzo giurisprudenziale precedente, avrebbe prospettato una “ricostruzione nuova”. Si ritiene, invece, che tale sentenza si sia posta in contrasto con l’orientamento fatto proprio, da ultimo, da Cass. 20712 del 2017, analizzata supra: ciò è tanto più evidente in considerazione del fatto che la soluzione offerta dalle Sezioni unite finisce per dare continuità proprio a quest’ultimo orientamento.
Ma procediamo con ordine.
Al § 5.2 della decisione in esame, le Sezioni unite mettono a fuoco il tema della configurabilità del diritto d’uso esclusivo chiedendosi:
1) se l’attribuzione ad un condomino di un diritto di uso esclusivo altro non sia, almeno in taluni casi, che una formula da intendersi come equivalente dell'attribuzione a lui della proprietà solitaria sulla porzione in discorso;
2) se e come il diritto di uso esclusivo di una parte comune possa armonizzarsi con la regola basilare dettata dall'art. 1102 cod. civ.;
3) se il diritto di uso esclusivo abbia natura di diritto reale atipico o sia riconducibile ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento;
4) se abbia, al contrario, natura non di diritto reale, bensì di diritto di credito.
Il Supremo consesso procede dunque, ma in ordine sparso, alla soluzione di tutti i quesiti sopra schematizzati. Si seguirà, in questa sede, l’ordine di trattazione proposto in sentenza.
4.1.Riconducibilità dell’uso esclusivo a un diritto reale tipico
Le Sezioni unite escludono, anzitutto, che la clausola di cui si discute possa ricondursi al diritto reale di servitù: le ragioni sono spiegate – spiazzando il lettore – nei paragrafi 5.3 e (dopo varie considerazioni su altri argomenti) 6.8.
Questa la sintesi: a differenza del diritto reale di cui agli articoli 1027 e ss. cod. civ., il diritto di uso esclusivo consiste non già nella semplice creazione di un peso sulle cose comuni, ma nel sostanziale svuotamento del diritto di proprietà sulle stesse[17]. Non solo: la servitù, per la sua stessa conformazione, non può tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, dovendo essere sempre specificato il carattere del peso e l’utilità del rapporto di dipendenza tra i due fondi.
Secondo le Sezioni unite, dunque: “se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l’“uso esclusivo” di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro”.
L’uso esclusivo non può neppure ricondursi al diritto reale di uso(paragrafi 5.4 e – anche in questo caso dopo varie altre considerazioni – 5.4.6) perché l’istituto di cui agli articoli 1021 consente al suo titolare di servirsi della cosa per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia, non è cedibile né può esser concesso in locazione e non è perpetuo (art. 1026 cod. civ.).
Le differenze tra i due istituti, quindi, attengono al contenuto del diritto, alla durata, alla trasferibilità e alle modalità di estinzione.
4.2.La compatibilità dell’uso esclusivo con la regola dettata dall’art. 1102 cod. civ.
Il rapporto fra uso esclusivo di un bene comune e contenuto del diritto di comproprietà è decisivo per la soluzione dei quesiti posti dalla sentenza in commento.
Il punto di partenza del complesso ragionamento delle Sezioni unite è costituito dall’art. 1102 cod. civ., in base al quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Secondo il supremo consesso, la facoltà d’uso costituisce parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, tanto è vero che, nel caso della comunione, si è ritenuto ammissibile un uso più intenso a vantaggio di alcuni comunisti, frazionato, turnario, ma mai del tutto vietato (cfr. supra, par. 3); nell’uso esclusivo, invece, “proprio perché esclusivo, si elide (...) il collegamento tra il diritto ed il suo contenuto, concentrandosi l’uso in capo ad uno o alcuni condomini soltanto: tant'è che si è parlato in proposito, come già accennato, di uso quasi uti dominus”.
Tale elisione, è questo un passaggio assai importante, è ammissibile soltanto in presenza di un diritto reale minore. E poiché, come visto, il diritto d’uso esclusivo non può inquadrarsi in alcuno dei diritti reali minori previsti dal codice, resta da chiedersi se tale elisione possa essere il frutto dell’autonomia privata[18].
Se i privati, in altre parole, possano costituire per contratto un diritto reale minore atipico.
4.3 L’uso esclusivo quale diritto reale atipico
Le Sezioni unite escludono categoricamente che l’istituto in commento possa ricondursi a un diritto reale atipico del quale, in radice, negano la configurabilità.
La sentenza annotata si lascia apprezzare per una assai esaustiva disamina sul tema della tipicità dei diritti reali, distinta, peraltro, dal concetto (in apparenza simile) del numero chiuso degli stessi[19]: nella parte più convincente della motivazione (paragrafi da 6.9 a 6.10), la Suprema Corte dà continuità all’indirizzo giurisprudenziale che nega, ai privati, la possibilità di costituire nuovi diritti reali o di alterare il contenuto di quelli tipicamente previsti.
Le Sezioni unite analizzano, anzitutto, le ragioni che deporrebbero a favore del superamento dell’anzidetto limite: nella prospettiva del rispetto dell’autonomia privata non si vedrebbero ragioni per differenziare diritti di credito e diritti reali, coi soli limiti della contrarietà all’ordine pubblico, dell’illiceità del contratto e della meritevolezza dell’interesse perseguito; i privati, del resto, sarebbero in grado di rispondere, tempestivamente e meglio del legislatore, alle mutevoli esigenze del traffico giuridico; il principio del numero chiuso, poi, si radicherebbe nella tradizione ma non sarebbe disposto da alcuna norma positivamente codificata. La Suprema Corte, aprendo il ventaglio della propria analisi, cita anche riflessioni proprie di altri orientamenti, riferendosi, in particolare, all’arrêt Maison de Poesie, vale a dire – anche se la decisione non lo specifica – alla sentenza resa dalla Corte di Cassazione francese il 31 ottobre 2012[20], nella quale “la Cour de cassation inaspettatamente riforma la sentenza dei giudici di merito e afferma il principio secondo cui il proprietario, nel rispetto delle regole dell’ordine pubblico, può costituire in favore dell’altra parte un diritto reale che attribuisce il beneficio di un godimento speciale del proprio bene[21]”.
A tali considerazioni, la Suprema Corte replica col solido argomento fondato sull’art. 1372 cod. civ.: “creare diritti reali atipici per contratto vorrebbe dire perciò incidere non solo sulle parti, ma, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, anche sugli acquirenti della cosa: ed in definitiva, paradossalmente, vincolare terzi estranei, in nome dell'autonomia contrattuale, ad un regolamento eteronimo”.
Un divieto esplicito sarebbe peraltro del tutto superfluo in un sistema che, dopo aver minuziosamente tipizzato e regolato gli iura in re aliena(cosa già di per sè scarsamente comprensibile, ove potessero crearsene di atipici in numero infinito), pone al centro della disciplina del contratto, come la dottrina ha da assai lungo tempo evidenziato, l'art. 1372 c.c., che limita gli effetti di esso alle parti, con la precisazione che solo la legge può contemplare la produzione di effetti rispetto ai terzi: escludendo così in radice che il contratto, se non sia la legge a stabilirlo, possa produrre effetti destinati a riflettersi nella sfera di soggetti estranei alla negoziazione.
Tali considerazioni di carattere generale trovano peraltro conferma: nell’art. 42 della Costituzione, lì dove è prevista una riserva di legge in ordine ai modi di acquisto, di godimento e ai limiti della proprietà privata; nel generale disfavore che l’ordinamento mostra nei confronti delle limitazioni incisive al diritto di proprietà, come dimostrato dai limiti imposti dall’art. 1379 cod. civ. al divieto convenzionale di alienare[22]; nella tassatività dei diritti reali soggetti a trascrizione di cui all’art. 2643 cod. civ.; nella assolutamente costante giurisprudenza di legittimità, anche in materia di tipicità di obbligazioni propter reme oneri reali.
In definitiva, secondo la sentenza annotata: “la pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. "diritto reale di uso esclusivo" su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell'edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall'art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus claususdei diritti reali e della tipicità di essi”.
4.4 La natura del diritto d’uso esclusivo
Mettendo a sistema le conclusioni raggiunte è possibile ritenere: i) che il godimento è parte essenziale e strutturale del diritto di (com)proprietà; ii) che è possibile limitare il godimento su un bene comune, a vantaggio di un solo comunista, soltanto tramite la costituzione di un diritto reale tipico; iii) che l’uso esclusivo non corrisponde ad alcun diritto reale previsto dalla legge.
Quid iuris?
Anche se non viene espressamente affermato, le Sezioni unite danno continuità all’orientamento formatosi a partire da Cass. 29 marzo 1982, n. 1947, presentato, nel presente lavoro, come espressione di una ricostruzione in chiave reale che fa leva sul vincolo di pertinenzialità (cfr. supra, § 3): dovrà essere compito del giudice, innanzi alla clausola fin ora commentata, verificare anzitutto se le parti abbiano effettivamente inteso limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante o non abbiano invece voluto trasferire la proprietà: in questo secondo caso il rapporto avrebbe natura pertinenziale, come affermato dalla già citata sentenza del 4 settembre 2017 n. 20712.
Nel caso in cui la verifica desse esito negativo, l’interprete, prima di giungere alla declaratoria di nullità della pattuizione, dovrà verificare se sussistano i presupposti per la qualificazione della stessa quale costitutiva del tipico diritto reale d’uso. Resterà aperta, ove anche questa verifica desse esito negativo, la possibile conversione del negozio in contratto obbligatorio avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo, ma solo inter partes.
5. Corollari applicativi e conclusioni
Alla luce della decisione annotata la posizione del condòmino che intenda utilizzare in via esclusiva un bene presuntivamente comune appare certamente indebolita: se prima era sufficiente richiamare la clausola attributiva del diritto d’uso esclusivo, contenuta nel proprio titolo di provenienza, adesso sarà necessario un ulteriore sforzo argomentativo.
Si pensi ai seguenti casi, molto frequenti nella prassi: Tizio è proprietario di un locale commerciale posto al pian terreno dell’immobile condominiale e utilizza, in via esclusiva, lo spazio a esso antistante. Oppure: Tizio è proprietario di un immobile posto all’ultimo piano dell’edificio condominiale e ha accesso diretto, tramite una scala privata, al lastrico solare: egli, nel tempo, realizza sul lastrico alcune opere (quali fioriere, tende, ombrelloni e simili) e pretende di goderne in via esclusiva.
In entrambi i casi, l’amministratore, su mandato dell’assemblea, contesta tali utilizzi, definendoli indebiti e intimando il rilascio del bene (verosimilmente definendolo comune).
A questo punto il condòmino potrebbe: i) richiamare il proprio titolo di provenienza, sostenendo di avere il diritto di utilizzare il bene in via esclusiva; ii) sostenere di avere utilizzato in via esclusiva il bene per più di vent’anni.
Si analizzi, anzitutto, la prima ipotesi.
La prima valutazione da compiere è sempre quella sul titolo di provenienza: occorrerà accertare se in esso sia presente una clausola attributiva o del diritto di proprietà sul bene presuntivamente comune, oppure il diritto di uso esclusivo sullo stesso; nell’uno e nell’altro caso occorrerà risalire la catena delle alienazioni fino a giungere all’atto di costituzione del condomìnio (la clausola dovrà essere presente in ogni atto traslativo).
Questa verifica potrebbe dare esito negativo: Tizio acquista da Caio il locale commerciale unitamente alla proprietà o all’uso esclusivo dell’area allo stesso antistante, ma Caio aveva a sua volta acquistato soltanto la proprietà dell’immobile “principale”. In questo caso, per il principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet, si ricadrà nella ipotesi sub ii) della quale si dirà infra.
La verifica potrebbe avere (come spesso accade) esito positivo: occorrerà quindi distinguere il caso in cui il titolo trasferisca la proprietà del bene presuntivamente comune e il caso in cui lo stesso preveda (soltanto) l’uso esclusivo sso.
Nel primo caso nulla quaestio: la presunzione di cui all’art. 1117 cod. civ. è vinta e il bene è di esclusiva spettanza del condòmino. Tutte le parti presuntivamente comuni possono essere attribuite in proprietà esclusiva a un singolo condòmino? Secondo parte della dottrina[23]occorrerebbe distinguere tra parti strutturali (come fondazioni e muri maestri), indivisibili per natura o destinazione, che sarebbero necessariamente comuni e parti non indispensabili, per le quali opererebbe la presunzione semplice di cui all’art. 1117 cod. civ.; di diverso avviso la prevalente giurisprudenza, secondo la quale, comunque, il proprietario esclusivo è tenuto a rispettare la destinazione obiettiva della cosa, determinata dalle sue intrinseche caratteristiche strutturali e funzionali[24].
Nel secondo caso la clausola non è sufficiente, di per sé sola, a fondare il diritto del condòmino, perché non è possibile eliminare un requisito essenziale della comproprietà (l’uso del bene) se non con la costituzione di un diritto reale minore: tale diritto non può essere quello di uso esclusivo, categoricamente escluso dalle Sezioni unite. Ma potrebbe essere il diritto d’uso (non cedibile e non perpetuo). Oppure, ed è questa la strada che presumibilmente si tenterà di percorrere, occorrerà dimostrare che le parti, pur riferendosi alla cessione dell’uso comune, abbiano in realtà voluto cedere la proprietà del bene: in questo caso, avvertono le Sezioni unite, il rapporto tra bene “principale” e bene presuntivamente comune, avrà natura pertinenziale.
Occorrerà, in altri termini, provare che l’originario atto di disposizione fosse in realtà costitutivo di un vincolo di pertinenzialità, istituito dall’originario proprietario e successivamente mantenuto, nelle varie alienazioni, circolando in conformità con quanto disposto all’art. 818 cod. civ.
Si analizzi, adesso, la seconda ipotesi(il condòmino fonda il suo uso esclusivo sulla base del possesso continuato ultra ventennale).
Occorre premettere che non tutte le parti comuni sono suscettibili di essere possedute uti dominus(e non uti condominus) in ragione delle proprie peculiari caratteristiche per le quali residua, comunque, una utilità anche indiretta da parte del condòminio (si pensi ai lastrici solari che, comunque, coprono l’edificio): in questo caso non potrà usucapirsi la proprietà, residuando soltanto la possibilità di usucapire, eventualmente, un diritto reale minore come il “calpestio” (cfr. nota 18).
In tutti gli altri casi, non potrà comunque essere usucapito “l’uso esclusivo” perché, come chiarito, non è un diritto reale.
Resta quindi, soltanto, la possibilità di usucapire la proprietà (ove il condòmino fornisca la rigorosa prova del possesso ad escludendum); il diritto d’uso (con i limiti della non perpetuità e della non trasferibilità) o, infine, un diritto reale minore come la servitù.
In conclusione: la sentenza annotata si apprezza per la completezza dei richiami giurisprudenziali ed è facile prevederne larghi richiami nella prassi applicativa; pecca, però, in sistematicità, e (soprattutto), nella sua parte conclusiva, lì dove il contributo offerto all’interprete appare fin troppo esiguo. Non si comprende fino in fondo, infine, cosa intenda la Suprema Corte per perpetuità inter partes, concetto, questo si, dalla forte caratterizzazione di ossimoro.
[1]“La clausola mediante la quale si concede ad una singola unità immobiliare l'uso esclusivo di un'area”, notano le Sezioni unite nella sentenza annotata, è ricorrente nella prassi: si tratta, in effetti, di un chiaro esempio di “tipicità negoziale” che spesso precede, comprensibilmente, la “tipicità giurisprudenziale”. “Di fronte a nuove esigenze, indotte dai progressi della tecnologia e della economia, può infatti accadere che nessun tipo legale offra risposte soddisfacenti (...) spesso ne nascono liti, che vengono portate davanti ai giudici; e altrettanto spesso i giudici decidono su diritti e obblighi che il contratto crea per le parti, secondo regole che, consolidandosi, danno luogo alla disciplina” (V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 422: l’Autore si riferisce al leasing, che, nel tempo, ha acquisito una tipicità definita “social-giurisprudenziale”).
[2]Ci si riferisce a Cass. 20 febbraio 1984, n. 1209 in Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 2, per la quale: “in un edificio in condominio la funzione naturale di un cortile, di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano, non è incompatibile con l’appartenenza o la destinazione di esso all’uso esclusivo di uno o più condomini, nè l'obbligo da parte di costoro di rispettare quella funzione comporta il sorgere di diritti particolari in favore degli altri partecipanti al condominio”; Cass. 27 luglio 1984, n. 4451 in Riv. giur. edilizia, 1985, I, 16, per la quale: “nel condominio degli edifici i singoli condomini hanno il diritto di usare la cosa comune nel modo soggettivamente più soddisfacente, con il limite di non mutarne la destinazione e di non sopprimere o limitare la pari possibilità di essa da parte degli altri partecipanti alla comunione secondo il rispettivo diritto”; Cass.25 ottobre 1991, n. 11392 inGiust. civ. Mass., 1991, fasc.10, per cui: “nel caso di installazione di una tenda e delle relative intelaiature metalliche su di uno spazio di proprietà comune, da parte del condomino del piano terreno che lo abbia in uso esclusivo e destinato a ristorante, per la sussistenza della violazione dell'art. 1102 c.c. con riguardo al mutamento della struttura e della funzione del detto bene comune ed in particolare al diritto di veduta in "appiombo" dei condomini dei piani superiori, deve accertarsi sia l'"utilitas" (specifica o socialmente rilevante) derivante da quel diritto che in concreto la sua menomazione, tenendo conto in ispecie del distacco (in altezza) della tenda dalle vedute dei piani superiori, delle caratteristiche dei luoghi e dell'uso normale, nonché, in relazione alla specifica destinazione dello spazio comune, delle consuetudini e del normale comportamento degli esercenti di attività consimili”.
[3]In Rivista del Notariato2018, 6, II, 1191.
[4]In Diritto & Giustizia 2018, 11 ottobre.
[5]In Condominioelocazione.it, 18 settembre 2019 con nota di A. Nicoletti.
[6]In dejure Giuffre.
[7]In dejure Giuffre.
[8]In Riv. giur. edilizia1979, I, 550.
[9]Cfr. Cass. 30 maggio 2003, n. 8808 in Giust. civ. Mass. 2003, 5; Cass. 21 ottobre 2009 n. 22341 in Giust. civ. Mass. 2009, 10, 1476.
[10]Cfr. Cass. 14 luglio 2015, n. 14694 in Giust. civ. Mass. 2015; Cass. 11 aprile 2006 n. 8429 in Arch. locazioni 2007, 3, 300.
[11]Cfr. Cass. 12 dicembre 2017, n.29747 in Giust. civ. Mass. 2018; Cass. 19 luglio 2012, n.12485 in Guida al diritto2012, 37, 63.
[12]Cfr. in particolare Cass. 29 gennaio 2018, n.2114 in Giust. civ. Mass. 2018 per la quale: “l’art 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una norma inderogabile. Ne consegue che i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il quorum prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni”. Secondo la sentenza annotata, in tal senso, “il godimento concreta una facoltà intrinseca del diritto di comunione, sicchè la modifica del contenuto essenziale della comproprietà, consistente nella negazione della facoltà di uso del bene comune ad alcuni condomini, può discendere soltanto dalla costituzione di un diritto reale in favore dell'usuario, il che però appare precluso dall'osservazione che il nostro ordinamento tuttora non consente all'autonomia privata di scavalcare il principio del numero chiuso dei diritti reali”.
[13]Cfr. in particolare Cass. 25 ottobre 2001, n.13164 in Arch. locazioni ,2002, 292, per la quale: “il regolamento di condominio predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio, ove sia accettato dagli iniziali acquirenti dei singoli appartamenti e regolarmente trascritto nei registri immobiliari, assume carattere convenzionale e vincola lutti i successivi acquirenti, non solo per le clausole che disciplinano l'uso o il godimento dei servizi o delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca; ne consegue che tale regolamento convenzionale, anche se non materialmente inserito nel testo del successivo contratto di compravendita dei singoli appartamenti dell'edificio, fa corpo con esso quando sia stato regolarmente trascritto nei registri immobiliari, rientrando le sue clausole, "per relationem", nel contenuto dei singoli contratti”.
[14]Ci si riferisce a Cass. 28 aprile 2004, n.8119 in Dir. e giust. 2004, 24, 12: in questo precedente si controverteva sulla attività di un condòmino che, per ampliare l’immobile di propria esclusiva spettanza, aveva realizzato una escavazione nel sottosuolo condominiale di fatto appropriandosene: la Corte, premessa la natura presuntivamente comune del sottosuolo, ha affermato che “per l’esclusione della presunzione di proprietà comune, di cui al citato art. 1117 c.c., non é necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l'attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una sola parte dell'immobile, che forma oggetto di un autonomo diritto di proprietà ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall'originario proprietario dell'intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare - sempre in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l'incensurabile apprezzamento dei giudici di merito - che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all'edificio condominiale, viene meno il presupposto dell'accennata presunzione”.
[15]Cfr., da ultimo, Cass. 04 settembre 2017, n. 20712 in Guida al diritto, 2018, 4, 27, che decide su un caso assai frequente nella prassi: l’Amministratore conviene in giudizio un condòmino per il rilascio dell’area antistante all’immobile di esclusiva proprietà dello stesso; resiste in giudizio il condòmino, rivendicando la proprietà esclusiva dell’area in contesa poiché, a suo dire, il regolamento condominiale ne attribuirebbe l’uso esclusivo ai proprietari delle attività commerciali.
[16]Cfr. C.M. BIANCA, Diritto Civile, La proprietà, Milano, Giuffrè 1999, 67 in nota 50.
[17]Come avviene nell’enfiteusi: in quel caso, però, sono sussistenti obblighi per l’enfiteuta naturalmente incompatibili col diritto di cui si discute.
[18]Indicazioni di senso contrario non possono esser tratte né dall’art. 1126 cod. civ., né dalla riforma del condominio, né dal D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, comma 2, lett. b), che obbliga il costruttore a indicare nel contratto relativo a futura costruzione le parti condominiali e le pertinenze esclusive.
Quanto all’art. 1126, unica norma in cui si fa esplicito riferimento all’uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, lo stesso è dettato in materia di lastrici solari, beni che, per la loro specifica natura, non possono essere usucapiti (per lo meno per quanto attiene al diritto di proprietà: sulla usucapione del diritto di calpestio, autonomo rispetto al diritto di proprietà e qualificabile come una servitù, si veda Cass. 17 aprile 1973, n. 1103 in MGI, 1973, 396): da questa norma, anzi, potrebbe desumersi a contrario che “non sono configurabili ulteriori ipotesi di uso esclusivo, le quali (...) sottraggano a taluni condomini il diritto di godimento della cosa comune loro spettante”.
Quanto alla riforma del Condomìnio, che ha introdotto talune forme di concessioni ai singoli condomini di un godimento apparentemente non paritario, è da ritenere che “tali previsioni, per la loro eccezionalità, non possono concorrere alla costruzione di un principio generale”, essendo peraltroda escludere “che esse comportino modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni in favore del titolare dell'uso”.
Quanto, infine, al D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, “è già risolutivo osservare che si tratta di una norma eccezionale, dalla quale non potrebbe in ogni caso desumersi l'istituzione di un generale "diritto reale di uso esclusivo". Ma, al di là di questo, la norma parla di pertinenze, e dunque ancora una volta di attribuzione in proprietà, secondo quanto si è già visto compatibile con l'assetto condominiale”.
[19]Nella decisione annotata si legge, in effetti, che numero chiuso e tipicità dei diritti reali, in larga parte sovrapponibili, sarebbero tenuti distinti dalla dottrina, secondo la quale: “in forza del primo solo la legge può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito”.
[20]Consultabile al seguente indirizzo: https://www.revuegeneraledudroit.eu/blog/decisions/cour-de-cassation-troisieme-chambre-civile-31-octobre-2012-pourvoi-numero-11-16-304/
[21]Cfr. E. Calzolaio, La tipicità dei diritti reali: spunti per una comparazionein Rivista di diritto civile, 2016, n. 4, pagg. 1080 e ss.
[22]Si aggiunga la norma di cui all’art. 713 cod. civ., comma tre, per la quale il testatore può disporre che la divisione dell'eredità o di alcuni beni di essa non abbia luogo prima che sia trascorso dalla sua morte un termine non eccedente il quinquennio.
[23]Cfr.. P.B. Peresutti in Commentario breve al codice civile, Padova, 2020, p.1114 subart. 1117, IV.
[24]Cfr. Cass. 2 maggio 1996, n. 4023 in Arch. locazioni1996, 729, per la quale: nel caso in cui una parte di un edificio condominiale, necessaria all'uso comune, spetti in proprietà esclusiva ad uno solo dei condomini, questi è tenuto, nell'esercizio delle sue facoltà di godimento, a rispettare la destinazione obbiettiva della suddetta parte all'utilità generale dell'intero condominio, poiché i concetti di uso e di destinazione prescindono da quello di appartenenza, attenendo piuttosto alla funzione che la parte dell'edificio ha assunto, per volontà dei condomini o per la sua propria natura, nel quadro dell'utilizzazione dell'edificio da parte dei singoli proprietari.
Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732) di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa e la questione di legittimità costituzionale - 2.Sugli effetti del provvedimento interdittivo, sui contrasti con norme costituzionali e sul controllo giudiziario - 3. Il diritto di difesa limitato dall’interdittiva o limite della stessa?
1. Premessa: la vicenda contenziosa e la questione di legittimità
L’affermarsi della normativa antimafia nel tessuto giuspubblicistico ha posto diversi problemi. In primis bisogna considerare la propensione a massimizzare l’interesse pubblico sotteso alla normativa antimafia che ha comportato un progresso unilaterale, senza cioè un’adeguata e preventiva considerazione degli interessi concorrenti. In secundis va evidenziato che il sistema della normativa antimafia risulta compromesso dalla finalità preventiva che spinge in avanti la tutela conducendo all’ingovernabile risultato di una “indefinita” pervasività [1].
È in tale contesto che si colloca l’accurata ordinanza, che qui si annota, del TAR di Reggio Calabria del 11 dicembre 2020, n. 732.
In tale sede il giudice amministrativo è stato chiamato a decidere sull’annullamento del provvedimento prefettizio [2] fondato per un verso, sui precedenti e sulle parentele del marito della ricorrente [3] e per altro verso, sui rapporti, anche economici, della stessa.
E per di più il provvedimento gravato evidenzia il contesto parentale fortemente compromesso della stessa ricorrente, atteso che il padre risulta contiguo alla cosca -OMISSIS- mentre il fratello dipendente dell’impresa, già destinataria di interdittiva antimafia nell’ agosto 2013, è stato raggiunto da diversi provvedimenti penali. Ed infine la sorella risulta attinta da provvedimenti penali relativi ad attività di gestione rifiuti non autorizzata, violazione di leggi ambientali ed in materia di edilizia.
Detto provvedimento viene impugnato adducendo molteplici censure, con le quali la ricorrente si duole dell’insanabile violazione di legge del provvedimento gravato che sarebbe stato adottato in assenza dei prescritti presupposti di legge. In più la ricorrente allega plurimi profili di illegittimità costituzionale e non conformità alla normativa EDU di alcune disposizioni del Codice antimafia, ed in particolare gli artt. 67, 89 bis, 92 e 94.
Il Collegio accoglie la domanda cautelare e successivamente, con sentenza non definitiva, respinge, ritenendoli non fondati, i motivi di ricorso dedotti dalla parte ricorrente, ivi comprese le diverse eccezioni di legittimità costituzionale e non conformità alla normativa EDU, ad eccezione della prospettata illegittimità costituzionale dell’art. 92 del D.lgs 159/2011 [4].
Con l’illegittimità de qua, viene evidenziata la disparità di trattamento tra i soggetti destinatari di una misura di prevenzione e quelli attinti da informazione antimafia interdittiva, che deriverebbe dal fatto che, soltanto per i primi, il comma 5 dell’art. 67 del Dlgs 159/2011 prevede che "le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia".
Invero, tale misura non è prevista in materia di interdittiva antimafia. La circostanza per la quale sia preclusa la possibilità di escludere le decadenze ed i divieti previsti, nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato ed alla sua famiglia, concretizzerebbe un’evidente ed irragionevole disparità di trattamento.
Dunque il Collegio reputa la questione dedotta rilevante considerando che l’attività aziendale costituisce l’unica fonte di reddito della famiglia della ricorrente e che, in mancanza di essa, non avrebbe la possibilità di mantenere quattro figli conviventi, di cui solo uno maggiorenne. Ulteriormente, per effetto del gravato provvedimento, si porrebbe la indifferibile necessità di licenziare otto dipendenti assunti con contratto a tempo pieno ed indeterminato i quali, considerato il periodo emergenziale, non troverebbero facilmente una nuova collocazione lavorativa.
Come detto, alla luce della normativa vigente, non possono essere presi in esame gli effetti che scaturirebbero dal provvedimento interdittivo, dal che consegue la rilevanza della prospettata questione di costituzionalità.
Difatti, laddove venisse accolta la questione di legittimità costituzionale sinteticamente prospettata, il giudizio si dovrebbe concludere con un esito opposto, in quanto la riconosciuta incostituzionalità della norma de qua determinerebbe, l’annullamento dell’informazione antimafia interdittiva adottata a carico della ricorrente dall’autorità prefettizia.
Sulla scorta di ciò, il Tribunale adito ritiene che la norma, per come formulata, non lasci margini per una sua eventuale lettura costituzionalmente orientata. Difatti essa non contempla affatto l’attribuzione all’autorità prefettizia del potere di valutazione discrezionale relativamente agli effetti del provvedimento emesso.
Per tali ragioni il il TAR di Reggio Calabria dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, del D.lgs. n. 159 del 2011, in relazione agli artt. 3, secondo comma, 4 e 24 della Costituzione, disponendo dunque la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
2. Sugli effetti del provvedimento interdittivo, sui contrasti con norme costituzionali e sul controllo giudiziario
Ordunque il Collegio, richiamando la natura «cautelare e preventiva» [5] delle interdittive antimafia [6], rileva che l’impossibilità per il Prefetto di esercitare i poteri previsti nel caso di adozione delle misure di prevenzione di cui all’art. 67 co 5 del D.lgs. n. 159 del 2011, possa concretizzare un’irragionevole violazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 co. 2 della Costituzione.
Difatti se si tiene in considerazione che le interdittive antimafia e le misure di prevenzione siano accomunate della medesima natura di provvedimenti idonei ad assicurare un’anticipata difesa della legalità e che sono altresì tenute al rispetto delle medesime conseguenze decadenziali previste dall’art. 67 del D.lgs. n. 159/2011 appare concreta la lamentata disparità di trattamento. Invero la mancata previsione del potere/dovere del Prefetto di vagliare gli eventuali effetti del provvedimento determina un vizio non giustificato data la natura univoca del provvedimento interdittivo e delle misure di prevenzione. Bisogna rilevare, a questo punto, che la prevenzione antimafia si muove ai confini dello Stato di diritto contenendo degli aspetti strutturali fortemente indeterminati. Seppur la mancanza di confini stringenti sia giustificata dalla ratio stessa dell’istituto, vi sono diversi profili che necessitano di una puntuale tipizzazione essendo doveroso garantire un bilanciamento degli interessi generali con gli interessi dei singoli e delle imprese, specialmente tenendo in considerazione la gravità delle conseguenze che incombono sui destinatari dei provvedimenti prefettizi [7].
È lo stesso Collegio a rammentare, in tale sede, che una questione simile posta all’attenzione dalla Corte Costituzionale [8] non fu oggetto di una pronuncia specifica poiché, contrariamente alla vicenda per cui è causa, l’argomento non veniva dedotto in modo autonomo lasciando spazio ad una eventuale determinazione positiva circa la questione di legittimità che prende forma in misura tale da rideterminare i confini del potere/dovere riconosciuto all’autorità prefettizia [9].
Ed altresì, secondo il Collegio giudicante, non rileva la temporaneità del provvedimento interdittivo come fattispecie idonea a legittimare la disparità di trattamento tra i destinatari di interdittiva antimafia e di misure di prevenzione [10], atteso che i conseguenti dodici mesi [11] di inattività appaiono un periodo ampiamente sufficiente a pregiudicare in modo definitivo qualsiasi attività di impresa, cagionando un vulnus evidente a chi da quell’attività trae i mezzi di sostentamento suoi e della sua famiglia. È chiara dunque la necessità, de iure concedendo, di ampliare lo spettro di attività del prefetto, chiamato non solo a tutelare l’interesse generale, ma anche l’interesse del destinatario del provvedimento prefettizio il quale non solo subirebbe il danno a livello personale ed imprenditoriale, ma andrebbe ad inficiare anche l’ambito familiare, che in particolare, nel caso de quo, coinvolgerebbe tre soggetti minori.
Per di più non può intendersi causa escludente della disparità lamentata il fatto che ai sensi dell’art. 34 bis comma 6 del D.lgs n. 159 del 2011, “Le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del prefetto, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 del presente articolo…”. Difatti il controllo giudiziario sospende, medio tempore, gli effetti dell’interdittiva senza eliminarli e la sua applicazione è condizionata dall’impugnazione del provvedimento interdittivo. Tale intervento, dunque, non produce una eliminazione degli effetti conseguenti all’emissione del provvedimento prefettizio ma sospende gli stessi lasciando incerta la possibilità per il destinatario di trovarsi di lì a poco senza un effettivo mezzo di sostentamento per se e per la propria famiglia [12].
Difatti, il controllo giudiziario interviene quando il provvedimento interdittivo ha già, almeno in parte, dispiegato i suoi effetti e non riabilita l’impresa ma, al contrario, presuppone la sussistenza e la permanenza del detto provvedimento interdittivo [13]. E dunque, in nessun momento viene preso in considerazione il necessario bilanciamento degli interessi in gioco. La compressione dell’interesse individuale è certamente il sacrificio necessario al funzionamento dell’istituto ma la questione in oggetto valicando non solo l’interesse del singolo destinatario ma anche quello dei suoi familiari e dei soggetti terzi merita la doverosa attenzione del Giudice di legittimità.
Inoltre, per quanto attiene al profilo della lamentata violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione pare opportuno ricordare che la ragionevolezza delle leggi è corollario del principio di uguaglianza ed esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano congruenti al fine perseguito dal legislatore, con la conseguenza che sussiste la violazione di tale principio laddove, come nel caso di specie, pare possibile riscontrare una contraddizione tra disposizioni legislative ispirate alla tutela dell’interesse pubblico.
Altresì il Collegio adito ritiene che la questione di legittimità costituzionale va posta anche in relazione all’art. 4 della Costituzione. È evidente infatti che le conseguenze derivanti dall'adozione dell’informativa interdittiva [14], incidono in maniera pervasiva sull’attività svolta dai soggetti che ne sono colpiti, inibiti non solo ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione ma anche ad attività private, sottoposte a regime autorizzatorio, che possono essere intraprese su segnalazione certificata di inizio attività da parte del privato alla Pubblica amministrazione [15].
Dunque le conseguenze relative all’emissione del provvedimento interdittivo sono cospicue e si manifestano anche nei confronti di terzi, colpendo finanche i soggetti che lavorano presso l’impresa attinta dall’interdittiva ripercuotendosi dunque sull’esercizio di un diritto fondamentale quale il diritto al lavoro. Sul punto va evidenziato che tale diritto costituisce il fondamento della nostra Carta costituzionale.
In particolare non si rinviene la ragione per cui si debba garantire l’attività lavorativa ai detenuti, considerandola altresì come una componente essenziale del trattamento rieducativo [16], mentre non viene riconosciuta e dunque garantita allo stesso modo per i soggetti destinatari di un provvedimento di natura cautelare e preventiva, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, emesso da un’autorità amministrativa sulla base della regola causale del "più probabile che non"[17], e alla cui discrezionalità è rimessa l’attivazione dell’eventuale contraddittorio [18]. Dunque è innegabile che nell’adottare il provvedimento in questione, si debba considerare l’effettiva eventualità che esso vada a depauperare i mezzi di sostentamento derivanti dall’attività lavorativa che conseguentemente ed inevitabilmente viene meno [19].
3. Il diritto di difesa limitato dall’interdittiva o limite della stessa?
Orbene, la compiuta valutazione dei fatti posti alla base del giudizio circa l’annullamento del provvedimento interdittivo gravato, viene completata mediante l’audizione della parte interessata che solo nella fase giudiziaria ha la facoltà di presentare le proprie ragioni, integrando così il contradditorio. Ai fini di completezza anche in sede procedimentale, dovrebbe essere riconosciuto il diritto per i destinatari dell’interdittiva di una valutazione prefettizia preventiva circa gli effetti del provvedimento stesso. Difatti, la mancanza di una visione completa, o meglio ad ampio raggio, comporta, come nel caso in oggetto, una limitazione stringente di un diritto costituzionalmente garantito che pregiudica irrimediabilmente la sfera personale e familiare dei destinatari [20].
Per di più, si arriva a dubitare della compatibilità della disposizione in commento con il diritto della difesa di cui all’art. 24 Cost.. Difatti va rilevato preliminarmente che il procedimento finalizzato all’emissione dell’informazione antimafia alla luce della normativa vigente conosce soltanto l’interlocuzione eventuale, prevista dall’art. 93, comma 7, del D.lgs. n. 159 del 2011. Infatti il Prefetto competente al rilascio del provvedimento, solo ove lo ritenga necessario, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite, può invitare in sede di audizione personale i soggetti interessati a produrre ogni informazione utile [21]. Dunque anche questo aspetto è sottoposto, sic et simpliciter, alla piena discrezionalità del prefetto non prevedendo così un vero e proprio diritto dell’interessato ad intervenire in tale sede ma lasciando l’autorità competente libera di emettere il provvedimento senza un previo intervento del destinatario [22].
Da tanto considerato, bisogna concludere che se per un verso è evidente che, in alcune circostanze, “la discovery anticipata, già in sede procedimentale, di elementi o notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in informazioni riservate delle forze di polizia, spesso connessi ad inchieste della magistratura inquirente contro la criminalità organizzata e agli atti delle indagini preliminari, potrebbe frustrare la finalità preventiva perseguita dalla legislazione antimafia”[23], è anche vero, alla luce delle disparate conseguenze che gravano sugli operatori economici raggiunti dall’interdittiva, che precludere ai destinatari di detto provvedimento la possibilità di sottoporre all’autorità prefettizia le possibili conseguenze dello stesso, in termini di depauperamento dei mezzi di sostentamento suoi e della sua famiglia, si integra una violazione anche dell’art. 24 della Costituzione.
In conclusione va però rilevato che la Corte Costituzionale non è propensa all’applicazione del diritto di difesa al di fuori dei confini giurisdizionali non estendendo il pieno contenuto del dettato normativo al procedimento contenzioso di natura amministrativa. Ciò posto, non si devono escludere però gli eventuali riflessi, anche in altri ambiti, di detto diritto, rappresentando un valore inerente ai diritti inviolabili della persona [24].
Dunque l’interessante questione di legittimità posta all’attenzione del TAR Reggio Calabria è stata rimessa alla Corte Costituzionale. Quest’ultima avrà la possibilità di vagliare i motivi addotti ed intervenire garantendo, nel caso in cui riscontrasse effettivamente un vizio di legittimità della norma in oggetto, la tutela di diritti costituzionalmente garantiti che si trovano sul “piatto della bilancia” insieme all’interesse pubblico del contrasto alla Mafia.
[1] si rinvia per un’esaustiva quanto interessante disamina a M. Mazzamuto, Lo scettro alla prefettocrazia: l’infinita pervasività del sistema antimafia delle grandi opere ed il caso emblematico delle “filiere”, in Diritto dell’economia, 3-2013, pp.619
[2] si consenta il rinvio su diverse questioni relative ai provvedimenti prefettizi a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020; C. Filicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945)
[3] imputato e detenuto per reati di mafia, accusato di svolgere il ruolo di capo-promotore-organizzatore della cosca operante in Catona - Arghillà - Villa San Giuseppe - Rosalì – Spontone.
[4] In tale sede appare necessario accennare un confronto tra la materia in oggetto e il sindacato del giudice amministrativo sulle ordinanze di sgombero connesse ai procedimenti di confisca. Anche in quest’ultima sede infatti è possibile rinvenire questioni di legittimità appartenenti allo stesso filone de quo. Riservandoci la possibilità di trattare accuratamente tale confronto si consiglia la complessa analisi di M. Mazzamuto, L’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita’ organizzata, Diritto penale contemporaneo, 2015
[5] Consiglio di Stato sez. III, 09/09/2020, n.5416
[6] Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3
[7] si veda M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittive antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giurisprudenza Italiana, 2019
[8] Cfr. sentenza n. 57/2020
[9] M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[10] Cfr. Corte Costituzionale con la sentenza n. 57/2020
[11] v. F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm, 6, 2018
[12] si consiglia per un approfondimento sull’interdittiva nel contesto costituzionale M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in giustamm, 2017
[13] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3268/2018
[14] v. A. M. Speciale, Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari, in giustizia-amministrativa, 2020.
[15] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 20 gennaio 2020 n. 452
[16] Cfr. Corte Costituzionale 532/2002
[17] M. A. Sandulli, Osservatorio sulla Giustizia Amministrativa, in Foro Amministrativo (Il), fasc.9, 1 settembre 2019, p. 1377
[18] si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979)
[19] v. M. Mazzamuto, Misure giurisdizionali di salvataggio delle imprese versus misure amministrative di completamento dell’appalto: brevi note sulle modifiche in itinere al codice antimafia, in diritto penale contemporaneo, 2016; ed ancora M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, Sistema penale, fascicolo III, 2020
[20] sulla posizione dell’impresa raggiunta da interdittiva si consiglia M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittiva antimafia e obbligatorietà delle misure antimafia, in Giurisprudenza italiana, 2019; di grande interesse anche M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, Giurisprudenza italiana, 2018
[21] R. RUPERTI, Sul contraddittorio procedimentale in materia di informazioni antimafia, in Giur. it., 2020, 3
[22] comportando non solo “l’insuscettività (…) ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive che determinano (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3) ma anche come stabilito dal CdS: "ai sensi dell'art. 67, co. 1, lett. g) del d.lgs. n. 159/2011, è preclusa al soggetto colpito dall'interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere 'contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali', stante l'esigenza di evitare ogni esborso di matrice pubblicistica in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali" (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3).
[23] Consiglio di Stato, sezione III, 31 gennaio 2020 n. 820
[24] Corte Costituzionale sentenza n. 128/1995
Due interrogativi sulla relazione tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari
di Luigi Salvato
Sommario: 1. Premessa. - 2. Caratteri del nesso tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare. - 2.1. Responsabilità civile e responsabilità disciplinare. - 2.2. Responsabilità disciplinare e professionalità. - 3. Discrasie tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare: eventuali lacune e possibili rimedi.
1. Premessa
La responsabilità disciplinare del magistrato costituisce un tema controverso, al quale è particolarmente sensibile l’opinione pubblica, divenuto centrale nel dibattitto politico soprattutto a partire dagli anni ’80, allorché è definitivamente tramontato il mito del giudice quale bouche de la loi e si è avuta, per ragioni note e non tipiche ed esclusive del nostro Paese, un’espansione del potere giudiziario. E’ così accaduto che «mentre “tradizionalmente l’immunità dei giudici non ha costituito l’oggetto frequente di liti”, in tempi più recenti “siccome i giudici hanno assunto poteri che li portano a decisioni concernenti interessi vitali”, è aumentato l’incentivo per le parti ad invocare la responsabilità personale dei giudici, un fenomeno che “è divenuto particolarmente evidente in casi concernenti le libertà civili (civil rights)»[1]. Restano dunque attuali le pur non recenti considerazioni con cui il C.s.m. ha ricordato[2] che «la società civile ed i cittadini tutti esprimono con crescente vigore una più che legittima esigenza di controllo dei pubblici poteri e di garanzia che coloro cui sono affidate pubbliche funzioni le adempiano con correttezza e nell’interesse generale», evidenziando le ragioni della complessità della questione. Ragioni identificabili, tra l’altro, nel fatto che la responsabilità del magistrato (non solo quella disciplinare) non definisce soltanto il sistema sanzionatorio delle regole di condotta del magistrato, ma costituisce anche una di tecnica di composizione dell’equilibrio tra poteri dello Stato[3] e che nella sua disciplina, come sottolineato nel 1990 dal Presidente della Repubblica, è «fortemente coinvolto il valore dell’indipendenza, strumento primo della garanzia di imparzialità e di indipendenza del giudice»[4], essendo peraltro molteplici le forme di responsabilità prefigurabili (sociale, politica, civile, amministrativa, disciplinare, oltre che penale), le quali si dipanano su piani e con effetti diversi e coinvolgono l’essenza stessa della funzione giurisdizionale[5].
Si tratta di questioni complesse, la cui soluzione richiede il bilanciamento di molteplici valori costituzionali e che, tuttavia, già nella loro prospettazione rischiano oggi di essere distorte dall’esplosione della diffusione di opinioni e/o informazioni a mezzo dei social media, che ha contribuito ad esaltare ambiguità ed equivoci che pure connotano il tema della responsabilità del magistrato. E’ infatti rimasta inascoltata «la sollecitazione a non confondere l’opinione pubblica di derivazione illuministica da questo indistinto aggregato, prodotto dall’insieme di acritici e passivi utenti di televisione e di rete, pronti ad accettare per vera un’opinione per il solo fatto che viene ripetuta e diffusa»[6], non avendosi altresì consapevolezza del rischio, insito nei social media, della «relativa facilità con cui le emozioni negative possono essere usate per creare dipendenza e manipolare [che] produce risultati aberranti», e delle cause e degli effetti di una «sfortunata combinazione di biologia e matematica»[7]. Anche per tale fenomeno si assiste al radicarsi di convincimenti in ordine alla finalità di determinati istituti giuridici ed all’applicazione che ne viene data le quali alimentano aspettative, conflitti e tensioni non di rado ingiustificati e che, tuttavia, non possono essere liquidati come irrilevanti per la considerazione – altrimenti, almeno in passato, dirimente – che in larga misura muovono da concezioni tecnicamente erronee, tenuto conto appunto del peso assunto da quell’aggregato indistinto e tumultuoso di ‘opinioni’ alle quali si è fatto cenno.
Non è dunque inopportuno svolgere qualche breve considerazione, articolata in due interrogativi, non per offrire risposte, ma per richiamare l’attenzione in ordine a possibili malintesi concernenti la responsabilità disciplinare del magistrato e la relazione tra questa, l’etica e la deontologia professionale.
2. Caratteri del nesso tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare
Il primo interrogativo induce a chiedersi se sussista una relazione inscindibile tra etica, deontologia professionale e responsabilità (in particolare, disciplinare) del magistrato.
Le tre nozioni, in linea generale, con riguardo agli appartenenti ad ordini professionali, ovvero ad un data organizzazione e/o apparato, sono tendenzialmente avvinte da un tale nesso. In sintesi, con l’improprietà insita in ogni semplificazione, il sostantivo ‘etica’, riferito alle condotte degli appartenenti a dette categorie, identifica infatti le regole di comportamento che si impongono nello svolgimento di un ruolo professionale socialmente identificato, che hanno radice nella morale, ma che assumono rilevanza giuridica in quanto recepite in specifici precetti di tale natura e che, conseguentemente, finiscono con coincidere con quelle, di identico contenuto, riconducibili alla deontologia professionale[8]. Tali precetti fissano regole ‘di ruolo’, preordinate cioè a stabilire le modalità da osservare nello svolgimento di date professioni ed attività, garantiti dalla previsione della responsabilità disciplinare nel caso in cui siano violati. La responsabilità disciplinare si caratterizza infatti all’interno del più ampio genus della responsabilità, in quanto dà luogo all’irrogazione di sanzioni che incidono sull’an e sul quomodo dello svolgimento di una data professione e/o attività e non è preordinata alla diretta ed immediata tutela di quanti siano stati lesi dalla violazione della regola di ruolo. La dimensione interna ad un ordine professionale e/o ad un apparato di detti precetti e la loro stessa finalità, in quanto strumentali esclusivamente a stabilire e garantire le regole di svolgimento di una data attività, giustificano che la loro enunciazione e l’irrogazione delle sanzioni, nel caso di violazione, siano riservate agli stessi. In tali ambiti sussiste, inoltre, una sostanziale coincidenza delle regole di etica (almeno di quelle direttamente rilevanti sul piano giuridico) e di deontologia professionale ed un inscindibile nesso tra queste e la responsabilità disciplinare, dipanandosi la complessiva vicenda in una dimensione tendenzialmente interna all’ordinamento di settore, il solo eminentemente ed immediatamente interessato dalla stessa.
Si tratta di caratteri che, all’evidenza, non sono predicabili con riguardo alla magistratura (in particolare, a quella ordinaria), non tanto in considerazione dei limiti di compatibilità della nozione di “disciplina” (in quanto sottintende un’organizzazione gerarchica, di tipo verticistico) con il particolare status del magistrato, bensì per la specificità delle ragioni e finalità delle regole di condotta che a questo si impongono, quale pubblico impiegato che svolge una peculiare funzione, di rilevanza costituzionale. Tali regole, prescrittive del ‘saper essere’ e del ‘saper fare’ il magistrato, diversamente da quanto accade in tutti gli altri ambiti, non sono infatti strumentali a garantire la coerenza del corpo cui egli appartiene, non mirano alla tutela dei valori propri di quest’ultimo e neppure esprimono un interesse autocorrettivo, ma sono preordinate alla tutela dell’ordinamento giuridico generale. La loro violazione lede direttamente l’interesse della generalità dei consociati e ciò spiega e giustifica perché dei provvedimenti disciplinari si occupino ben due norme della Costituzione (artt. 105, 107, primo comma) e perché l’identificazione degli illeciti competa in via primaria al Parlamento, costituendo la stessa, come anche il relativo procedimento sanzionatorio, uno strumento di responsabilizzazione della magistratura dinanzi alla sovranità popolare e di rottura della separatezza dell’ordine giudiziario.
L’individuazione dei valori tutelati e delle condotte che li vulnerano è dunque costituzionalmente riservata a chi può esprimere tali valori: il legislatore e, nel precedente sistema, il giudice disciplinare, e cioè la Sezione disciplinare in quanto articolazione del C.s.m., tenuto conto della sua collocazione costituzionale e delle modalità della composizione. Al riguardo, va ricordato che la Corte costituzionale ha infatti escluso «che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l'ordine giudiziario», ovvero che realizzi «il cosiddetto autogoverno»[9], negando che il C.s.m. eserciti funzioni di rappresentatività dell’ordine giudiziario, tenuto altresì conto della sua composizione, volta ad evitare che «l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato»[10]. Nella logica del disegno costituzionale, è stato sottolineato, il Consiglio deve essere «garantito nella propria indipendenza» anche «nei rapporti con l'ordine giudiziario», con il quale dunque non si identifica[11]. Efficacemente il C.s.m., nel richiamato parere del 1984, sottolineò la diversità della responsabilità disciplinare dei magistrati rispetto a quella degli appartenenti agli ordini professionali e degli altri pubblici dipendenti, osservando che l’identificazione degli illeciti compete appunto in via primaria al Parlamento e la disciplina dei magistrati è sottoposta a riserva di legge (art.105 Cost.), costituendo «uno strumento di responsabilizzazione della magistratura dinanzi alla sovranità popolare, di rottura della separatezza dell’ordine e di costruzione di una deontologia non corporativa». La responsabilità disciplinare ed il relativo procedimento – ha ancora puntualizzato il giudice delle leggi – consiste «nell’assicurazione del regolare e corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, vale a dire una funzione che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di autonomia» ed è questa la ragione che giustifica la strutturazione del procedimento secondo un modulo giurisdizionale, allo scopo della più rigorosa tutela dei beni costituzionalmente protetti[12] e con una regolamentazione particolare che riflette il proprium dell’ordine giudiziario[13]. Per tali ragioni, l’enunciazione delle regole etiche (nell’accezione rilevante nella dimensione giuridica) e deontologiche (che, come detto, ai fini qui di interesse coincidono) la cui violazione è sanzionata con la responsabilità disciplinare è dunque sottratta all’ordine cui appartiene il magistrato.
Nel sistema dell’illecito atipico, la genericità della formulazione della norma prescrittiva della regola di condotta e della sanzione[14], riservando al giudice disciplinare un potere assai ampio di identificare i valori tutelati, determinava una sostanziale coincidenza dei precetti etico/deontologici – intesi quali regole di comportamento che si impongono nell’esercizio della funzione – con quelli suscettibili di dare luogo a responsabilità disciplinare, stabiliti dallo stesso giudice nell’attività di integrazione del contenuto dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946. Nell’ordinamento si è tuttavia prodotta una frattura tra regola deontologica e regola disciplinarmente sanzionabile allorché è stato previsto il codice etico dei magistrati, attribuendone l’approvazione all’A.N.M. (con l’art. 58-bis del d.lgs. n. 29 del 1993, poi trasfuso nell’art. 54 d.lgs. n. 165 del 2001). Le perplessità ed i dubbi, anche di legittimità costituzionale, in ordine ad una tale previsione[15] sono in parte mitigati dalla considerazione che, secondo la Magna Carta dei giudici, i principi della deontologia «devono emanare, quanto a redazione, dagli stessi giudici» (art. 18), benchè sia invece più sfumata sul punto la Raccomandazione CM / Rec (2010) n. 12 del Comitato dei Ministri agli stati membri sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, in quanto prevede che i principi deontologici «devono essere sanciti in codici di etica giudiziaria», ed «i giudici devono assumere il ruolo principale nella preparazione di tali codici» (cap. VIII, § 73), esigendo dunque soltanto che sia garantita la maturazione e condivisione con i giudici degli improrogabili principi che si impongono nello svolgimento della funzione. In disparte detti dubbi, è qui sufficiente ricordare che deve ritenersi pacifica la riconduzione del codice etico nell’ambito della soft law e l’impossibilità, anche per le ragioni di ordine costituzionale sopra richiamate, di sanzionare disciplinarmente la violazione dei precetti nello stesso contenuti. Nondimeno, nella vigenza del sistema dell’illecito disciplinare non tipizzato l’ampiezza del potere attribuito al giudice disciplinare gli consentiva di riempire la generica previsione del richiamato art. 18 anche avendo riguardo ai precetti del codice etico, che finivano in tal modo per essere indirettamente presidiati dalla responsabilità disciplinare.
E’ quindi con la riforma realizzata dal d.lgs. n. 109 del 2006 e con la tipizzazione dell’illecito disciplinare che è maturato il definitivo distacco della regola deontologica contenuta nel codice etico da quella prescrittiva del comportamento ‘di ruolo’ che si impone al magistrato la cui inosservanza può dare luogo a responsabilità disciplinare. La tipizzazione ha infatti comportato che le condotte disciplinarmente sanzionabili sono soltanto ed esclusivamente quelle previste come tali dal legislatore, e cioè dal ‘codice disciplinare’ (contenuto nel d.lgs. n. 109 del 2006), non anche dal ‘codice etico’. Conseguentemente, agli organi della giurisdizione disciplinare è rimasto attribuito l’unico ed esclusivo compito di accertare e stabilire se una determinata condotta ascrivibile ad un magistrato integri gli elementi costitutivi di una delle fattispecie tipizzate. L’ambito di detta giurisdizione è stato precisamente perimetrato dalle Sezioni Unite civili, affermando che le disposizioni del d.lgs. n. 109 del 2006, «[a]gli artt. 2, 3 e 4 elencano minuziosamente gli illeciti disciplinari» e, quindi, «è la stessa legge che individua le condotte disciplinarmente rilevanti in contrasto con i doveri del magistrato. Ne consegue […] che la violazione delle regole deontologiche non sempre è sanzionata disciplinarmente». L’elencazione generale dei doveri contenuta nell’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 ha una «funzione prevalentemente simbolica (o se si vuole "pedagogica") e deontologica (…) che può assumere rilievo solo nell'ambito delle valutazioni rimesse al giudice in presenza di clausole generali quali quelle della scarsa rilevanza del fatto, della giustificabilità o della scusabilità della condotta», con la conseguenza che, «al di fuori di tali ipotesi, il sillogismo giuridico richiesto per affermare o escludere la responsabilità disciplinare comporta soltanto il confronto tra la fattispecie astratta e la condotta del magistrato».
Nel vigente sistema dell’illecito tipizzato – in virtù dei principi di legalità e tassatività della fattispecie, tenendo altresì conto dell’ammissibilità dell’interpretazione estensiva, ma non di quella analogica – i precetti del codice etico costituiscono dunque meri punti di riferimento utilizzabili da parte del giudice disciplinare esclusivamente nell’attività di riempimento delle residue clausole generali contenute nelle fattispecie contemplate dal d.lgs. n. 109 del 2006. Resta in ogni caso escluso, come convincentemente sottolineato da Gabriella Luccioli, che questo profilo di connessione possa far diventare le regole del codice etico «parametri per incolpazioni disciplinari» e far individuare quali illeciti disciplinari «fatti di diretta violazione di norme deontologiche, con un chiaro stravolgimento della loro natura e della loro funzione e con una non consentita assunzione della giurisdizione disciplinare quale strumento di applicazione del codice etico, la cui violazione si colloca al di sotto della soglia dell’illecito disciplinare»[16].
L’introduzione del sistema dell’illecito disciplinare tipizzato e l’attribuzione della locuzione di ‘codice etico’ a quello approvato dall’A.N.M. comportano, in primo luogo, che i precetti etici e di deontologia professionale (nella coincidenza che, come detto, esiste tra dette regole nella dimensione giuridicamente rilevante) non hanno (e non possono avere) rilevanza ex se dal punto di vista disciplinare; in secondo luogo, fanno sì che le regole di etica e di deontologia professionale del magistrato si articolano su due differenti piani, che procedono parallelamente, con la conseguenza che soltanto la violazione di quelle recate dal ‘codice disciplinare’ è presidiata dalle sanzioni previste dal d.lgs. n. 109 del 2006. Tale distinzione non di rado è, purtroppo, del tutto pretermessa e si dimentica che vi sono casi in cui esiste un divario tra la regola fissata dal codice etico e da quello disciplinare e, quindi, accade che una condotta, benché lesiva dei precetti posti dal primo, non è sanzionabile ai sensi del secondo. Emblematica in tal senso è, tra le altre, la discrasia concernente il dovere di riserbo. La declinazione disciplinare di tale dovere si articola esclusivamente nei tre distinti illeciti funzionali previsti dalle lettere v), u) e aa) dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006[17] – sostanzialmente coincidenti con quelli oggetto dell’art. 6, primo e secondo comma, del codice etico –, oltre che in quelli dell’art. 2, comma 1, lettera d) (nel caso in cui la condotta integri un comportamento abitualmente o gravemente scorretto nei confronti dei soggetti contemplati da detta previsione) e dell’art. 4 (se l’esternazione integri un reato). Le disposizioni previste dal terzo e quarto comma dell’art. 6 del codice etico[18] prevedono invece ulteriori condotte, eticamente più impegnative, che tuttavia non sono state tradotte in disposizioni normative per i profili disciplinari e, quindi, la loro violazione giammai può costituire oggetto di un’incolpazione e, a fortiori, di una sanzione disciplinare.
In definitiva, sussistono due divergenti nozioni di deontologia professionale: una è quella declinata dal codice etico; un’altra è quella fissata dal codice disciplinare ed è solo la violazione delle regole poste da quest’ultimo che può dare luogo a responsabilità disciplinare. Tra dette nozioni esiste una relazione che è solo di tendenziale contiguità e, appunto per questo, sono ipotizzabili casi in cui si verifica una discrasia delle regole deontologiche, evidentemente rilevante ai fini dell’identificazione della sanzione che ne presidia l’osservanza[19]. Si tratta di una distinzione che ineluttabilmente si impone ai fini della corretta applicazione delle norme e che, tuttavia, non di rado sembra del tutto dimenticata. In non infrequenti casi è infatti malamente invocata l’applicazione di una sanzione disciplinare (stigmatizzando una presunta inerzia al riguardo) in relazione a condotte che violano le regole del codice etico, senza considerare che queste non risultano contenute nel codice disciplinare, con evidenti, intuitive, ricadute negative, soprattutto di carattere mediatico, ad onta della palese inesattezza ed insostenibilità di una siffatta prospettazione.
2.1. Responsabilità civile e responsabilità disciplinare
Se è netta ed incontrovertibile la distinzione tra regole del codice etico e del codice disciplinare, altrettanto certa e chiara è quella tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile.
La responsabilità civile concerne i rapporti del magistrato con le parti processuali o con altri soggetti ed è caratterizzata da una funzione e da una ratio sua propria, in quanto è preordinata a garantire il diritto al risarcimento del danno subito dal cittadino per effetto dell’esercizio non corretto della funzione statuale di giurisdizione.
La responsabilità disciplinare invece non è anzitutto uno strumento di garanzia della esattezza delle decisioni, ma non è inoltre neanche un rimedio approntato per assicurare la tutela dei diritti eventualmente lesi da condotte e/o provvedimenti del magistrato. Essa è infatti preordinata esclusivamente a sanzionare la violazione dei doveri del magistrato normativamente tipizzati nelle fattispecie di illecito disciplinare, che può comportare l’irrogazione di sanzioni le quali incidono soltanto ed esclusivamente sul rapporto di impiego, in una vicenda alla quale resta dunque estraneo il soggetto che pur ne abbia eventualmente patito le conseguenze. Peraltro, ciò neppure determina un vuoto di tutela, in quanto colui che sia stato leso da condotte e/o provvedimenti scorretti del magistrato può (e deve, se e quando lo ritenga) agire facendo valere la responsabilità civile, qualora ne sussistano i presupposti. I due tipi di responsabilità possono, ma certo non necessariamente devono, concorrere; i relativi procedimenti sono improntati al principio della reciproca autonomia, non sussistendo né un vincolo decisionale derivante dall’esito del giudizio civile in quello disciplinare (art. 20, comma 1, d.lgs. n. 109 del 2006) e viceversa, né un rapporto di pregiudizialità, con la conseguenza che le due azioni sono contemporaneamente esperibili, in ambiti ed a fini diversi[20].
2.2. Responsabilità disciplinare e professionalità
La tipizzazione dell’illecito disciplinare rende altresì certa la distinzione tra responsabilità disciplinare e professionalità. La professionalità condensa l’insieme delle regole che costituiscono patrimonio comune della funzione magistratuale, comprensive del complesso novero di strumenti preordinati a garantire il ‘saper fare’ il magistrato che, per la specificità della funzione e per i valori dalla stessa coinvolti, finiscono con coincidere con quelle concernenti il ‘saper essere’ magistrato, avvinte da un nesso inestricabile. Le regole relative alla professionalità sono stabilite, in larga misura, dagli atti consiliari e, in virtù del principio della tipizzazione dell’illecito, la loro violazione è sanzionabile disciplinarmente soltanto se e quando integrino una delle fattispecie contemplate dal d.lgs. n. 109 del 2006. Può così accadere che vi siano casi nei quali si riscontra l’inosservanza delle regole della professionalità, senza che risultino tuttavia integrati tutti gli elementi costitutivi di una delle fattispecie di illecito tipizzate e che, quindi, restano sottratti alla responsabilità disciplinare[21].
La diversità dei due ambiti comporta che tra valutazioni di professionalità e giudizio disciplinare vi è una reciproca autonomia, che peraltro neppure vuol dire completa irrilevanza e/o indifferenza, vertendosi in «una ipotesi di pluriqualificazione giuridica della fattispecie, a fini disciplinari ed a fini di progressione di carriera»[22].
3. Discrasie tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare: eventuali lacune e possibili rimedi.
Le rilevate discrasie danno corpo al secondo interrogativo, poiché inducono a chiedersi se possano profilarsi carenze di sistema, in considerazione della ipotizzabilità di condotte eticamente e deontologicamente riprovevoli secondo il codice etico fissato dall’A.N.M. (alla quale per precisa scelta del legislatore ne è stata attribuita l’approvazione, con l’efficacia sopra descritta), ovvero comunque in contrasto con i precetti della professionalità fissati negli atti consiliari, che restano tuttavia disciplinarmente irrilevanti, in quanto non riconducibili alle fattispecie contemplate dal codice disciplinare.
L’interrogativo sottintende un problema reale e che può destare preoccupazione, ma che, per essere apprezzato al giusto, richiede anzitutto di identificare esattamente contenuto e finalità dei differenti istituti approntati per garantire l’osservanza dei doveri che si impongono al magistrato, perché soltanto l’esatta enunciazione di tale premessa consente di accertare se vi siano, e quali siano, le criticità del sistema della responsabilità disciplinare definito dal d.lgs. n. 109 del 2006. Le perplessità prospettate al riguardo, per vagliarne la fondatezza, esigerebbero peraltro di prestare attenzione ai dati statistici (e non solo)[23], apprezzandoli non soltanto in valore assoluto, ma anche in comparazione (in termini percentuali) con quelli di altri ambiti (professionali e della P.A.). Per saggiare la validità della risalente considerazione in ordine ad una sorta di immunità mantenuta dal sistema, in quanto «sanzioni come l’ammonimento e la censura non hanno più alcuna influenza pratica»[24], occorrerebbe poi verificare se le sanzioni più ‘lievi’ restino davvero prive di rilevanza nel successivo percorso professionale, tenendo altresì conto della possibile incidenza su di esso anche dei fatti accertati e non riconducibili ad un illecito tipizzato e delle conseguenze (sul piano professionale) pur solo della pendenza del procedimento.
La corretta formulazione dell’interrogativo richiede altresì di avere ben chiaro che la responsabilità disciplinare, tenuto conto della descritta finalità che la connota, non costituisce e non può costituire il presidio (almeno, non in modo diretto ed immediato) dei diritti dei cittadini oggetto di un determinato processo (civile o penale), la cui tutela può e deve essere assicurata all’interno di questo, attraverso i rimedi contemplati dalla legge processuale, e mediante tutti quelli previsti dall’ordinamento per garantire il ristoro dei danni “da’ e ‘nel’ processo[25]. Sicuramente, inoltre, non è neanche uno strumento preordinato a garantire correttezza ed esattezza delle decisioni, ovvero a garantire, in modo diretto ed immediato, la professionalità dei magistrati. Il vigente sistema, improntato al principio della tipizzazione degli illeciti, costituisce dunque conseguenza della scelta legislativa di non ricondurre qualsiasi patologia delle condotte dei magistrati nell’alveo sanzionatorio della giustizia disciplinare, in sé non aprioristicamente censurabile. Richiamando una riflessione svolta in ordine al diritto penale[26], ma reiterabile in relazione al diritto punitivo latamente inteso, appare infatti scarsamente convincente l’idea di spostare in tale ambito l’orientamento valoriale di determinate condotte, snaturandone la funzione propria, con il rischio di non cogliere la complessità del fenomeno e di non affrontare in modo corretto i problemi che lo stesso pone, qualora l’attenzione venga appunto limitata ai soli risvolti punitivi. D’altronde, la distinzione dei precetti deontologici, a seconda che siano o meno sanzionabili disciplinarmente, neppure è tipica ed esclusiva del nostro ordinamento. E’ stabilita infatti anche dalla Magna Carta dei giudici, secondo cui «l’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari» (art. 18). La richiamata Raccomandazione CM / Rec (2010) n. 12, disponendo che «nella loro attività i giudici devono essere guidati da principi deontologici di condotta professionale» e precisando che «tali principi non solo ricomprendono doveri suscettibili di sanzione disciplinare, ma forniscono anche indicazioni ai giudici sul come comportarsi» (cap. 8, § 72), neppure sembra prefigurare l’inscindibilità del nesso tra regola della deontologia professionale e responsabilità disciplinare.
Nondimeno, è certo che occorre garantire in modo congruo l’osservanza delle regole concernenti il ‘saper essere’ ed il ‘saper fare’ il magistrato, finalità da perseguire anzitutto, e soprattutto, rinvigorendo la formazione, rendendola davvero in grado di costruire una casa comune. Occorre infatti garantire la maturazione del convincimento che il codice etico costituisce «non solo o non tanto un insieme di regole da osservare, ma un abito mentale, la cifra della nostra condotta quotidiana, quella che fa essere rigorosi e sobri nel comportamento e riflette la piena consapevolezza della fisionomia costituzionale della funzione esercitata»[27]. Ed è altresì improrogabile rendere congrui e più efficaci gli strumenti del sistema ordinamentale che possono prevenire, prima ancora di reprimere, le cadute di professionalità e che, quindi, meglio garantiscono i cittadini. L’effettivo controllo dell’osservanza dei doveri in occasione sia delle valutazioni di professionalità periodiche sia delle altre previste dall’ordinamento (all’atto del conferimento e/o della conferma degli uffici semidirettivi e/o direttivi), sia da parte dei capi degli uffici, qualora emergano anomalie, in tesi disciplinarmente irrilevanti eppure sintomatiche della violazione dei doveri imposti dalla deontologia professionale, resta la strada da privilegiare in vista del rafforzamento della credibilità e dell’efficienza della funzione giudiziaria. Gli organi disciplinari intervengono infatti quando tutti gli altri presìdi sono stati superati ed il danno è stato già fatto; comunque, ad essi non può essere chiesto qualcosa di diverso dalla punizione della condotta patologica. Sono dunque le regole della professionalità che costituiscono il reale, efficace, strumento di garanzia e presidio dei valori costituzionali e dell’ordinamento, comuni all’intera generalità dei cittadini e non propri del solo ordine giudiziario. Significativamente, nella Magna Carta dei giudici è rimarcato che «la formazione iniziale e permanente è, per il giudice, un diritto ed un dovere» e costituisce «un importante elemento di garanzia dell’indipendenza dei giudici, nonché della qualità e dell’efficacia del sistema giudiziario» (art. 8). Facendo cadere l’accento tonico sulla professionalità si evita inoltre il rischio di indulgere in formulazioni etiche astratte, che rischiano di smarrire la peculiarità della funzione e rendere incerto lo stesso contenuto delle condotte disciplinarmente censurabili.
Con tali precisazioni, resta comunque il dubbio in ordine alla completezza e congruità del catalogo degli illeciti tipizzati. Il precedente sistema, incentrato sulla clausola generale dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, aveva costituito oggetto di un ampio dibattito, caratterizzato dalla prevalenza delle critiche, formulate anche muovendo da premesse differenti e che, tuttavia, convergevano nello stigmatizzare l’eccesiva ampiezza ed indeterminatezza del potere attribuito al giudice disciplinare. La Corte costituzionale aveva peraltro ritenuto sostanzialmente impossibile la tipizzazione, in considerazione della necessità di fare riferimento a principi deontologici insuscettibili di compressione in schemi preordinati, reputando quindi compatibile la clausola generale con il principio di legalità, tenuto conto dello «uso di espressioni sufficienti ad individuare con certezza il precetto»[28], riferentesi a valori chiaramente individuati secondo la comune opinione ed in quanto il «prestigio dell’ordine giudiziario» non è un valore formale ed esteriore, se inteso, come necessario, quale «credibilità della funzione», e cioè come «considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione», «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria». Di diverso avviso erano stati invece il Presidente della Repubblica[29] ed il C.s.m.[30], mentre un’autorevole dottrina aveva icasticamente sottolineato che il richiamato art. 18 faceva sì che l’organo disciplinare, all’atto della valutazione della condotta, poneva un divieto “ora per allora”, sostanzialmente affermando: «ti punisco perché hai violato il precetto che ora io pongo»[31].
Il difficile bilanciamento delle esigenze di garanzia (sottesa alla tipizzazione) e di completezza della disciplina (messa in crisi dalla previsione di un catalogo chiuso di illeciti) era stato realizzato prevedendo nel d.lgs. n. 109 del 2006 due clausole di chiusura per gli illeciti funzionali[32] e per quelli extrafunzionali[33], sostanzialmente recependo un’indicazione fornita dalla cd. Commissione Paladin[34]. Tali disposizioni furono però abrogate dalla legge n. 269 del 2006 e ciò ha reso concreto il rischio della tenuta e della congruità del complessivo sistema sul piano applicativo, «laddove una serie di condotte, non perfettamente rientranti nelle fattispecie tassativamente descritte, pur rivestendo ugualmente un carattere lesivo del bene protetto, potrebbero sfuggire alla sanzione disciplinare»[35]. Si tratta di una preoccupazione meritevole di attenzione, anche in quanto, come detto, la scelta della tipizzazione rigida non è costituzionalmente obbligata. Resta dunque aperta la possibilità di operarne una diversa, riservata alla discrezionalità del legislatore ordinario all’esito di una riflessione e di un dibattito che involge il bilanciamento di fondamentali valori costituzionali e che comunque non può consistere in quello ospitato dai social media, in quanto risolventesi, in buona sostanza, nelle apodittiche ed immotivate affermazioni contenute nei tweet e/o nei post.
[1] M. Cappelletti, Giudici irresponsabili ?, Milano, 1988, 13, richiamando la dottrina straniera.
[2] Nella premessa del parere reso nel settembre del 1984 su un disegno di legge sulla responsabilità del magistrato presentato nel corso della IX Legislatura.
[3] A. Giuliani-N. Picardi, La responsabilità del giudice, Milano, 1987, 183.
[4] Messaggio alle Camere (a norma dell’art. 87, secondo comma, della Costituzione), del 26 luglio 1990.
[5] M. Cappelletti, Giudici irresponsabili ?, cit., 13.
[6] F. Ippolito, Recuperare la fiducia e non rincorrere il consenso, Questione Giustizia, 2018, 4, 235, richiamando R. Parascandolo, Internet: opinione di massa ed economia del gratis, relazione al convegno “Quarto potere” del 23 gennaio 2019, organizzato dalla Fondazione Basso e da Filosofia in movimento, in www.fondazionebasso.it.
[7] La considerazione è di Jason Lanier (Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Milano 2018, 26), uno dei guru della Silicon Valley, che, grazie alla sua esperienza ‘dal di dentro’ e muovendo da dati di ordine tecnico (concernenti la modalità di funzionamento della nuova tecnologia, di cui la gran parte di noi, meri utenti, non ha consapevolezza), ha efficacemente richiamato l’attenzione sul problema della «modificazione del comportamento implacabile, robotica e fondamentalmente insensata messa al servizio di manipolatori invisibili e algoritmi indifferenti» e sui rischi insiti per il modo in cui possono orientarlo, determinando la formazione del consenso e finanche il radicarsi di convinzioni cospirative, come è emerso a seguito dell’esplodere dello scandalo di Cambridge-Analytica e del White Supremacism statunitense.
[8] Nella vasta letteratura sul tema, per riferimenti sui concetti di etica e deontologia con riguardo alla magistratura, gli atti di un convegno dell’A.N.M. tenuto nel 2005 a Napoli, nel volume Deontologia giudiziaria-Il codice etico alla prova dei primi dieci anni, a cura di Aschettino-Bifulco-Epineuse, Sabato, Napoli, 2006.
[9] Corte cost. n. 142 del 1973.
[10] Corte cost. n. 142 del 1973.
[11] Corte cost. n. 143 del 1983.
[12] Corte cost. n. 289 del 1992, n. 145 del 1976.
[13] Corte cost. n. 119 del 1995.
[14] L’art. 18 r.d.lgs. n. 511 del 1946 recitava: «Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari».
[15] Tra le tante perplessità accennate nel testo vanno ricordate quelle volte ad evidenziare che è stato imposto con un atto avente forza di legge ad una associazione privata, quale è l’ANM, che, per la sua composizione “chiusa” (all’interno, come all’esterno), è solo parzialmente esponenziale solo dell’ordine giudiziario; su tali profili, ex plurimis, A. Cerri, La bozza di “codice etico” del magistrato, Critica del diritto, 1994, 43; L. De Ruggiero-G. Ichino, Il codice etico dei magistrati. Una prima riflessione in tema di deontologia, Questione giustizia, 1994, 17; A. Rossi, Prime riflessioni sul codice etico della magistratura, ivi, 1993, 805.
[16] G. Luccioli, I principi deontologici nella professione del magistrato, wwwgiudicedonna.it, 1, 2018.
[17] Che riguardano, rispettivamente, i limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste (lettera v), l’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza (lettera u) e, infine, il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali (lettera aa).
[18] I quali prevedono: «Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.
Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica».
[19] L. Salvato, L’attività nel settore disciplinare, https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/Bilancio_sociale_2018_allegati.pdf, 5.
[20] Per ragioni di sintesi, mi sia concesso rinviare ad Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, Cass. pen, 2019, 1, 32, essendo qui sufficiente ricordare che: l’acquisizione della notizia della proposizione di un giudizio civile di danno ex lege n. 117 del 1988 non impone, da sola, l’esercizio dell’azione disciplinare per i fatti che vi hanno dato causa; il procedimento non è, di regola, soggetto a sospensione per pregiudizialità (art. 15, comma 8, lettera d-bis, d.lgs. n. 109 del 2006) rispetto alla causa civile di danno verso lo Stato, vi sia o non vi sia in quest’ultima l’intervento volontario del magistrato, o rispetto al giudizio di rivalsa; l’azione disciplinare deve essere esercitata se e quando i fatti che hanno dato causa all’azione civile di danno e che sono stati comunicati all’Ufficio integrino gli estremi di una ipotesi disciplinare tipizzata a norma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006, indipendentemente dalla valutazione che sia data ai fatti in ambito civile; la definizione, con pronuncia passata in giudicato, della causa civile di danno o del giudizio di rivalsa non ha efficacia nel processo disciplinare
[21] Esemplificativamente, è sufficiente ricordare che, secondo il d.lgs. n. 109 del 2006, «si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto» (art. 2, comma 1, lettera q), sicchè può darsi il caso di ritardo nel deposito di sentenze non disciplinarmente sanzionabile e che, tuttavia, bene può (e dovrebbe) assumere rilevanza in relazione ai parametri di valutazione della diligenza e laboriosità del magistrato.
[22] Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339, per un recente approfondimento delle relazioni tra procedimento di valutazione della professionalità e giudizio disciplinare, P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive, www.giustiziainsieme.it.
[23] Contenuti nelle Relazioni del Procuratore Generale della Corte di cassazione redatte in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, riportate (quelle degli ultimi anni) nel sito web della Procura Generale.
[24] G. Rebuffa, La funzione giudiziaria, Torino, 1993, 105.
[25] Il riferimento è oltre che alla responsabilità civile - che, come detto supra nel testo, colui che si ritenga leso da un atto o da un comportamento del magistrato può far valere, a prescindere (ed indipendentemente) dalla responsabilità disciplinare, dalla quale è del tutto svincolata - all’equa riparazione per irragionevole durata del processo (legge 24 marzo 2001, n. 89), all’equa riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.) ed alla riparazione dell’errore giudiziario (artt. 643-647 c.p.p.).
[26] Il riferimento è al Discorso del P.G. della Corte di cassazione, Giovanni Salvi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/Intervento_Procuratore_generale.pdf.
[27] G. Luccioli, I principi deontologici nella professione del magistrato, cit.
[28] Corte cost. n. 100 del 1981.
[29] Rimarcando nel Messaggio alle Camere del 26 luglio 1990 che la tipizzazione è la «unica scelta aderente e forse l’unica coerente con il principio di legalità».
[30] Esprimendosi, nel richiamato parere del 1984, favorevolmente alla tipizzazione, pur riconoscendone la difficoltà, suggerendo che fossero «inequivocabilmente espressi i valori deontologici che si intendono tutelare» e venissero configurate «fattispecie tipizzate riconducibili, quasi indicazioni paradigmatiche, ad un idea generale del complesso dei doveri imposti dalla funzione».
[31] G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano, 1977, 857.
[32] Art. 2, lettera i), che sanzionava «il perseguimento di fini estranei ai suoi doveri ed alla funzione giudiziaria».
[33] Art. 3, lettera l): «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza».
[34] Che nella relazione conclusiva trasmessa al Presidente della Repubblica il 10 gennaio 1992 aveva sottolineato che il rispetto della riserva assoluta di legge «non porta ad escludere la legittimità – o addirittura l’indispensabilità – dell’inserzione di una o più norme di chiusura, in calce all’elenco degli illeciti disciplinari “tipizzati”», aventi «un valore interpretativo delle norme stesse», in modo da delimitare l’ambito della discrezionalità del giudice.
[35] S. Erbani, Gli illeciti disciplinari dei magistrati, in Ordinamento giudiziario. Organizzazione e profili processuali, a cura di D. Carcano, Milano, 2009, 439.
Stranieri dei Paesi terzi e assegno per il nucleo familiare: parità di trattamento e integrazione nel dialogo tra le Corti(*)
di Chiara Colosimo(**)
Abstract: I rinvii pregiudiziali sulla compatibilità con la Direttiva 2003/109/CE e la Direttiva 2011/98/UE delle previsioni di cui all’art. 2 Legge 153/1988 – che consentono al solo cittadino italiano di computare nel proprio nucleo familiare anche familiari residenti all’estero, mentre agli stranieri dei Paesi terzi di considerare i soli familiari residenti in Italia – sono l’occasione, per la Corte di Giustizia, di soffermarsi sulla rilevanza del processo di integrazione e sulla necessità di salvaguardare le finalità della legislazione europea, garantendo ai cittadini dei Paesi terzi, che risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro, equità e parità di trattamento: strumento imprescindibile nel consolidamento del legame con lo Stato ospitante e nella realizzazione di una società complessivamente più coesa.
Sommario: 1. Premessa, la fisionomia di un istituto complesso - 2. Lo stato dell’arte sul trattamento riconosciuto agli stranieri dei Paesi terzi - 3. La questione al vaglio delle Corti - 3.1. I dubbi interpretativi del Giudice di Legittimità nazionale - 3.2. L’intervento del Giudice Europeo – 4. L’effettività dell’integrazione nella parità di trattamento.
1. Premessa, la fisionomia di un istituto complesso
L’assegno per il nucleo familiare[1] è una prestazione economica erogata dall’INPS ai nuclei familiari di alcune categorie di lavoratori, pensionati o beneficiari di prestazioni previdenziali che partecipa, come si evince dall’eredità giurisprudenziale che lo accompagna, di una composita natura previdenziale e assistenziale[2].
Sulla sua natura previdenziale si sono soffermate, tanto la Corte Costituzionale con sentenza 22 dicembre 1995, n. 516, quanto le Sezioni Unite del Supremo Collegio con sentenza 7 marzo 2008, n. 6179; la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato la natura previdenziale dell’istituto in ragione del fatto che lo stesso non è correlato alla retribuzione, ma al reddito complessivo del nucleo familiare di riferimento, garantendone la sufficienza alle famiglie che ne siano prive[3].
In questa prospettiva, esso è precipitato del disposto di cui agli artt. 36 e 38 Costituzione[4].
La sua inclinazione assistenziale emerge valorizzando la rilevanza che la disciplina riconosce, oltre che al reddito complessivamente prodotto, al numero e alla condizione psico-fisica dei componenti del nucleo familiare: il reddito considerato ai fini dell’erogazione dell’assegno, difatti, viene elevato a fronte di nuclei familiari bisognevoli di una tutela più incisiva in ragione della presenza di soggetti – maggiorenni o minori – colpiti da patologie fisiche o mentali che incidono significativamente sulla possibilità oggettiva di svolgere un’attività lavorativa ovvero di attendere alle funzioni e ai compiti propri dell’età[5].
Ecco, quindi, che l’assegno per il nucleo familiare “realizza una compenetrazione tra strumenti previdenziali ed assistenziali e precisamente tra quelli posti a tutela per il carico di famiglia, con quelli apprestati a tutela di malattie…”[6].
In quanto tale, la prestazione in parola rientra senza dubbio nell’ambito di applicazione del Regolamento (CE) 29 aprile 2004, n. 883, in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, posto che l’art. 1, lett. z), dispone che “ai fini del presente regolamento si intende per:… z) «prestazione familiare», tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I”.
E, d’altronde, la Corte di Giustizia ha ricordato: “20.… che, come ripetutamente giudicato dalla Corte con riferimento al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GU 1971, L 149, pag. 2), la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale... Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004… 21. La Corte ha già dichiarato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale… 24. Per quanto concerne la prestazione oggetto del procedimento principale, risulta dagli atti che, da un lato, l’ANF [n.d.e. la pronunzia concerne l’istituto di cui all’art. 65 Legge 448/1998] è versato ai beneficiari che ne facciano richiesta e che soddisfino le condizioni relative al numero di figli minori e ai redditi previste dall’articolo 65 della legge n. 448/1998. Tale prestazione, pertanto, viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli. 25. Dall’insieme delle suesposte considerazioni risulta che una prestazione quale l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004”[7].
2. Lo stato dell’arte sul trattamento riconosciuto agli stranieri dei Paesi terzi
Con l’art. 11, par. 1, lett. d), della Direttiva 2003/109/CE del 25 novembre 2003 – relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo – si è stabilito che “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda:… d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale” e, al successivo paragrafo 4, che “gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali”; disposizione di analogo tenore si rinviene nella successiva Direttiva 2011/98/UE del 13 dicembre 2011 – relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro – che ha previsto, all’art. 12, par. 1, lett. e), che “i lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c)[[8]], beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:… i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004” e, al seguente paragrafo 2, che “gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento:… b) limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo 1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto…”.
A dispetto di quanto previsto dalle richiamate Direttive, la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare è rimasta immutata, confermata quindi anche nel suo comma 6bis dell’art. 2 Legge 153/1988 che prevede, ancor oggi, che “non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia…”: una norma, inequivoca nel suo tenore, che cristallizza una differenza nel trattamento riservato allo straniero, cui risulta preclusa la possibilità di considerare il familiare eventualmente residente nel Paese terzo in assenza di condizioni di reciprocità.
La disparità di trattamento non è stata ritenuta conforme al diritto dell’Unione Europea dalla giurisprudenza di merito che, nell’ultimo lustro, è giunta a disapplicare il disposto di cui all’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 in ossequio ai principi delineati dalla Corte di Giustizia, facendo applicazione diretta del diritto dell’Unione[9].
L’orientamento poggia, in primo luogo, sull’imperativo dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e sul principio di uguaglianza, dai quali discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario – che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri ai fini della definizione del suo senso e della sua portata – devono essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme, da compiersi tenuto conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa medesima[10], così da garantirne l’efficacia[11]. Ne consegue che il giudice nazionale, chiamato ad applicare nell’ambito della propria competenza le norme del diritto dell’Unione, ha l’obbligo di assicurarne la piena efficacia disapplicando, ove occorra, la disposizione nazionale contrastante senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale[12].
Nel caso di specie, nessun dubbio può esservi circa il fatto che le disposizioni in materia di parità di trattamento della Direttiva 2003/109/CE e della Direttiva 2011/98/UE siano dotate di effetto diretto e potessero, pertanto, comportare – come ritenuto dai giudici di merito – la disapplicazione del diritto interno contrastante[13].
Le pronunzie in commento muovono, altresì, da un’ulteriore fondamentale considerazione.
La Direttiva 2003/109/CE è stata recepita con il Decreto Legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, il cui art. 1 ha modificato l’art. 9 D. Lgs. 286/1998 prevedendo, tra l’altro, al comma 12, lett. c), che “oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può:… c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale… salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale”; la Direttiva 2011/98/UE ha trovato attuazione con il Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 40.
Si è opportunamente evidenziato che il Legislatore nazionale non si è avvalso della facoltà di deroga (deroga, peraltro, che deve essere necessariamente oggetto di interpretazione restrittiva[14]), che avrebbe richiesto una scelta espressa – successiva all’entrata in vigore delle Direttive e del relativo recepimento – e che non può pertanto desumersi dalla mancata modifica della disciplina di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
Rileva, in questo senso, il principio sancito dalla Corte di Giustizia con sentenza 24 aprile 2012[15]: “al riguardo occorre rilevare che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista all’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109 unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta”. Rileva, ugualmente, quanto affermato circa il fatto che “…disposizioni adottate del resto prima del recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli Stati membri hanno la facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva”[16].
Si è parimenti osservato che il Tredicesimo Considerando della Direttiva 2003/109/CE definisce prestazioni “essenziali” – ossia, prestazioni in ordine alle quali la parità di trattamento non può essere derogata – quelle che comprendono “almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine”, e tra le quali deve essere ricompreso anche l’assegno per il nucleo familiare proprio in quanto sostegno a un reddito minimo e all’assistenza parentale[17].
Si è così ritenuto che la norma interna, che ai soli stranieri dei Paesi terzi concede l’assegno per il nucleo familiare unicamente per i familiari residenti sul territorio nazionale, si porrebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 11 Direttiva 2003/109/CE e all’art. 12 Direttiva 2011/98/UE: clausola di parità di trattamento direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale, che impone di considerare nel nucleo familiare degli stranieri anche i familiari residenti all’estero.
3. La questione al vaglio delle Corti
A dispetto dell’interpretazione ossequiosa del principio di parità di trattamento progressivamente consolidatasi nella giurisprudenza di merito, con le ordinanze dell’1 aprile 2019, n. 9021[18] e n. 9022[19], la Corte di Cassazione ha ritenuto di demandare alla Corte di Giustizia la verifica circa la conformità della previsione di cui all’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 rispetto alla Direttiva 2003/109/CE e alla Direttiva 2011/98/UE.
3.1. I dubbi interpretativi del Giudice di Legittimità nazionale
La prima questione sollevata dal Supremo Collegio attiene all’interpretazione dell’art. 11, par. 1, lett. d), Direttiva 2003/109/CE ed è volta a verificare se il principio – secondo cui al soggiornante di lungo periodo deve essere assicurato lo stesso trattamento dei cittadini nazionali avuto riguardo alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale – comporti che i familiari dello stesso, ove residenti fuori dal territorio dello Stato membro, debbano considerarsi inclusi nel novero dei destinatari del trattamento di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
L’interrogativo muove da un duplice rilievo.
Da un lato, dal fatto che il Quarto Considerando valorizza “l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri” quale “elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel trattato” e che la stessa Direttiva 2003/109/CE definisce familiari “i cittadini di paesi terzi che soggiornano nello Stato membro interessato…” (art. 2, par. 1, lett. e), in un contesto in cui si è affermato che l’obiettivo principale della direttiva è l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri[20]. Dall’altro, dal fatto che, ai sensi dell’art. 2 Legge 153/1988, il nucleo familiare non costituisce solo la base di calcolo dell’importo del trattamento medesimo, ma ne è anche beneficiario: “per il diritto nazionale i componenti del nucleo familiare assumono un rilievo essenziale nella struttura del trattamento dell’assegno e sono considerati i sostanziali beneficiari dello stesso trattamento”[21].
Poiché, in mancanza di condizioni di reciprocità, l’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 dispone che i soli familiari del cittadino straniero[22] debbono essere esclusi dal nucleo familiare qualora la loro residenza effettiva non sia in Italia, deve allora verificarsi se tale previsione sia compatibile con il principio sancito dalla Direttiva 2003/109/CE, art. 1, par. 1, lett. d): questione non risolvibile in forza della giurisprudenza della Corte di Giustizia già formatasi, in quanto relativa a familiari che risiedono stabilmente nel territorio del medesimo o di un differente Stato membro.
Richiamato il principio di cui all’art. 12, par. 1, lett. e), il Supremo Collegio solleva analoga questione avuto particolare riguardo alla Direttiva 2011/98/UE e ai familiari dei cittadini di Stati terzi che si trovino nel territorio di uno Stato membro per periodi più brevi dei cinque anni utili al conseguimento di un permesso di soggiorno per lungo periodo.
Per quel che attiene alla disciplina interna, il Giudice di Legittimità evidenzia una volta ancora il rilievo attribuito dalla norma al nucleo familiare che è, al tempo stesso, base di calcolo e destinatario dei benefici di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
Il dubbio interpretativo rispetto alla portata del principio sovranazionale viene delineato avuto particolare riferimento al Ventesimo e al Ventiquattresimo Considerando nella parte in cui, da un lato, si afferma il diritto alla parità di trattamento anche dei “familiari di un lavoratore di un paese terzo che sono ammessi nello Stato membro”, dall’altro, si precisa che la “…direttiva non dovrebbe neppure conferire diritti in relazione a situazioni che esulano dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ad esempio in relazione a familiari soggiornanti in un paese terzo. La presente direttiva dovrebbe conferire diritti soltanto in relazione ai familiari che raggiungono lavoratori di un paese terzo per soggiornare in uno Stato membro sulla base del ricongiungimento familiare ovvero ai familiari che già soggiornano regolarmente in tale Stato membro”.
3.2. L’intervento del Giudice Europeo
Nelle pronunzie scaturite dal duplice rinvio pregiudiziale[23], la Corte di Giustizia conferma principi già acquisiti al patrimonio giurisprudenziale interno quali l’obbligo per lo Stato membro di conformarsi al diritto dell’Unione nell’organizzazione dei regimi di sicurezza sociale e nella disciplina delle relative prestazioni[24], l’obbligo di garantire – tanto ai soggiornanti di lungo periodo, ai sensi dell’art. 11, par. 1, lett. d), 2003/109/CE, quanto ai cittadini di Paesi terzi ammessi nello Stato membro a fini lavorativi e titolari di un permesso unico, ai sensi dell’art. 12, par. 1, lett. e), Direttiva 2011/98/UE – la parità di trattamento in quanto regola generale, la possibilità di limitare la parità di trattamento in funzione di deroghe da interpretarsi restrittivamente e la cui applicazione deve essere chiaramente espressa dallo Stato membro[25].
Ciò posto, avuto particolare riguardo alla definizione di “familiare” di cui all’art. 2, lett. e), Direttiva 2003/109/CE, la Corte chiarisce che la stessa è funzionale all’impiego della nozione ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della direttiva medesima e non alla limitazione del diritto alla parità di trattamento previsto per i soggiornanti di lungo periodo dall’art. 11, par. 1, lett. d); evidenzia peraltro che, se quest’ultima fosse la funzione dell’art. 2, la disposizione derogatoria di cui all’art. 11, par. 2, non avrebbe ragion d’essere[26]. Nel rammentare, poi, che il preambolo di un atto dell’Unione non ha valore giuridico vincolante né può essere impiegato per derogarvi ovvero interpretarlo in senso contrario al tenore letterale che gli è proprio[27], il Giudice Europeo osserva che non vi è modo di trarre dal Quarto Considerando l’esclusione del diritto alla parità di trattamento per il soggiornante di lungo periodo i cui familiari non risiedano nel territorio di uno Stato membro, bensì in un Paese terzo: esclusione, d’altronde, che non si rinviene in nessuna disposizione della direttiva.
Nemmeno una simile esclusione ricorre nella Direttiva 2011/98/UE, avuto specifico riguardo alla parità di trattamento da riservarsi al titolare di un permesso unico, posto che la chiara formulazione dell’art. 12, par. 1, lett. e), depone in senso contrario, e che l’art. 12, par. 2, lett. c), consente una limitazione alla parità di trattamento in materia di agevolazioni fiscali qualora i familiari del lavoratore di un Paese terzo non abbiano domicilio o residenza abituale nel territorio dello Stato membro, mentre analoga deroga non risulta prevista nel paragrafo 2, lett. b, in materia di prestazioni di sicurezza sociale: i casi in cui la parità di trattamento riconosciuta al titolare di un permesso unico può esser limitata, pertanto, risultano chiaramente esplicitati dalla disciplina dell’Unione e non attengono all’ipotesi in esame.
Ne consegue che l’esclusione non può certo farsi derivare né dal Ventesimo Considerando, nella parte in cui enuncia che il diritto alla parità di trattamento dovrebbe essere riconosciuto anche a coloro che sono stati ammessi nello Stato membro per fini non lavorativi e vi sono stati poi autorizzati a lavorare, né dal Ventiquattresimo Considerando, a mezzo del quale si precisa che la direttiva non impone ai Paesi membri di corrispondere prestazioni di sicurezza sociale ai familiari che non risiedono nello Stato membro ospitante.
Avuto particolare riguardo all’applicazione della Direttiva 2011/98/UE, la Corte di Giustizia è stata sollecitata a pronunziarsi sulla legittimità dell’esclusione del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nello Stato membro anche in relazione alla previsione di cui all’art. 1 del Regolamento (UE) 24 novembre 2010, n. 1231, a mente del quale “il regolamento (CE) n. 883/2004 e il regolamento (CE) n. 987/2009 si applicano ai cittadini di paesi terzi cui tali regolamenti non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità, nonché ai loro familiari e superstiti, purché risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all’interno di un solo Stato membro”.
Sul punto, la Corte di Giustizia osserva che, se il Regolamento (UE) 24 novembre 2010, n. 1231, ha lo scopo di creare un diritto alla parità di trattamento in favore dei familiari di un cittadino di un Paese terzo che risiedano nel territorio di uno Stato membro (e che si trovino in una delle situazioni ivi considerate), ciò non significa che il Legislatore dell’Unione abbia inteso escludere dal diritto alla parità di trattamento di cui alla Direttiva 2011/98/UE il titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato. Precisa, altresì, che siffatta esclusione nemmeno può trarsi dalla previsione di cui all’art. 11, par. 2, Direttiva 2003/109/CE (“…lo Stato membro interessato può limitare la parità di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio”), da un lato, in quanto norma soggetta a interpretazione restrittiva, dall’altro, in quanto nella Direttiva 2011/98/UE non si rinviene disposizione analoga: “…non può ammettersi che le deroghe elencate nella direttiva 2011/98 siano interpretate in maniera da includerne una supplementare per il solo motivo che tale ulteriore deroga figura in un altro atto diritto derivato”[28].
Passaggio oltremodo rilevante delle pronunzie in esame è quello che concerne la definizione e la portata della finalità di “integrazione” perseguita da entrambe le direttive – che, secondo l’Ente Previdenziale e il Governo italiano presupporrebbe la presenza nel territorio dello Stato membro dei familiari del soggiornante di lungo periodo e del titolare di un permesso unico – integrazione che, così afferma il Giudice Europeo, si fonda sull’“avvicinare i diritti di tali cittadini a quelli di cui godono i cittadini dell’Unione, in particolare assicurando la parità di trattamento con questi ultimi in una vasta gamma di settori economici e sociali”[29], e sul “garantire loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. La direttiva mira altresì a creare condizioni uniformi minime nell’Unione, a riconoscere che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e a fungere da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi”[30], così che escludere la parità di trattamento qualora i familiari non risiedano nello Stato membro – per un periodo che potrebbe, peraltro, essere temporaneo – “non può essere conforme a tali obiettivi”.
Quindi, “fatta salva la deroga consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109, uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo per il motivo che i suoi familiari o taluni di essi risiedono non sul suo territorio, bensì in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano”[31], e “fatte salve le deroghe consentite dall’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al titolare di un permesso unico per il fatto che i suoi familiari o taluni di essi risiedono non nel suo territorio, bensì in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano”[32].
Ne consegue che l’omesso versamento dell’assegno e la riduzione dell’importo dello stesso, in ragione del fatto che i familiari non risiedano in tutto o in parte nel territorio dello Stato membro, sono contrari al diritto alla parità di trattamento per come qui considerata non potendosi attribuire rilevanza ai rispettivi legami con lo Stato membro. Né rileva il fatto anche i familiari siano beneficiari sostanziali del trattamento in questione, in quanto l’assegno viene versato in favore di quel componente del nucleo familiare (soggiornante di lungo periodo o titolare di un permesso unico) che è destinatario diretto della tutela riconosciuta dalla disciplina sovranazionale.
Sicché, qualora lo Stato membro non abbia espresso l’intenzione di avvalersi delle deroghe tipizzate, l’art. 11, par. 1, lett. d), Direttiva 2003/109/CE e l’art. 12, par. 1, lett. e), Direttiva 2011/98/UE debbono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari – tanto del soggiornante di lungo periodo (art. 2, lett. b), Direttiva 2003/109/CE), quanto del titolare di permesso unico (art. 2, lett. c), Direttiva 2011/98/UE) – che risiedano, non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un Paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino del medesimo Stato membro residenti in un Paese terzo.
4. L’effettività dell’integrazione nella parità di trattamento
All’integrazione, l’Unione Europea guarda come a un potenziale “motore di sviluppo economico e della coesione sociale” e si propone, pertanto, di “definire un quadro normativo che garantisca la parità di trattamento e assicurare a tutti gli immigrati un livello di diritti adeguato”[33].
A tal fine, si è impegnata a dare solide garanzie in tema di diritti fondamentali e parità di trattamento[34], e la partecipazione e la cittadinanza attiva degli stranieri provenienti dai Paesi terzi costituisce uno dei principi fondanti dell’Unione che “pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”[35].
In materia di sicurezza sociale e assistenza sociale, l’art. 34, par. 2 e 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce che “ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”, e che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”: questi principi sono parte necessaria di un processo di integrazione che, nel fondarsi sull’affermazione dell’equo trattamento e della parità nel riconoscimento dei diritti fondamentali[36], non può muovere da una prospettiva di parcellizzazione o recessività delle tutele che si basi su differenziazioni ed esclusioni di diritti che, oltre a non trovare fondamento nell’ordinamento positivo europeo, ne costituiscono di fatto una negazione ostacolando il perseguimento delle finalità che gli son proprie[37].
Sotto questo specifico profilo, le due pronunzie della Corte di Giustizia assumono peculiare rilievo nella parte in cui evidenziano come il soggiornante di lungo periodo e il titolare di un permesso unico al centro (cittadini di Paesi terzi legalmente stabilitisi nei territori degli Stati dell’Unione) siano i destinatari primi delle tutele di cui alle due direttive, titolari del diritto alla parità di trattamento e – per il suo tramite – alla compiuta integrazione nello Stato membro, così ponendo l’accento sull’incompatibilità della disuguaglianza cristallizzata nella Legge 153/1988 tra cittadini italiani e cittadini dei Paesi terzi laddove, in tutto o in parte, i familiari risiedano al di fuori dell’Unione.
D’altronde, il Giudice Europeo opportunamente sottolinea che gli effetti della suddetta disparità non si producono in capo ai soli familiari che non risiedono nel territorio dello Stato membro, bensì colpiscono in primis il soggiornante di lungo periodo o il titolare di un permesso unico che – lavoratore o pensionato – è destinatario del versamento dell’assegno[38] e componente inscindibile di quel nucleo familiare che la normativa nazionale, proprio per il tramite del beneficiario diretto, intende sostenere: la disuguaglianza incide, pertanto, sul diritto stesso che le direttive mirano a salvaguardare.
Emerge, netta, la contraddizione di una disparità di trattamento fondata su una pretesa diversità del legame con il territorio dello Stato che, inevitabilmente, produce l’effetto di ostacolare il radicarsi di quello stesso legame, intralciando un processo di integrazione che necessita della garanzia di parità di trattamento anche in materia di sicurezza sociale[39].
Tuttavia, ciò non può essere, in quanto “gli Stati membri non possono pregiudicare l’effetto utile della direttiva stessa e devono tenere conto dell’obiettivo di integrazione perseguito da tale direttiva, nonché della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e segnatamente dell’articolo 34 della stessa in materia di previdenza sociale e assistenza sociale, allorché stabiliscono le misure soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito da detta disposizione”[40].
In questa prospettiva, si dispiega il senso e l’effetto del dialogo tra le due Corti.
(*) Riflessioni a margine delle sentenze della Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale c. WS, e 25 novembre 2020, causa C-303/19, Istituto nazionale della previdenza sociale v. VR.
(**) Giudice del Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Lavoro.
[1] L’art. 2, co. 1 e 2, D.L. 69/1988, convertito con modificazioni dalla Legge 153/1988, prevede che, “per i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di servizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali, a decorrere dal periodo di paga in corso al 1° gennaio 1988, gli assegni familiari, le quote di aggiunta di famiglia, ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato e la maggiorazione di cui all’art. 5 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, cessano di essere corrisposti e sono sostituiti, ove ricorrano le condizioni previste dalle disposizioni del presente articolo, dall’assegno per il nucleo familiare. L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, secondo la tabella allegata al presente decreto. I livelli di reddito della predetta tabella sono aumentati di lire dieci milioni per i nuclei familiari che comprendono soggetti che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. I medesimi livelli di reddito sono aumentati di lire due milioni se i soggetti di cui al comma 1 si trovano in condizioni di vedovo o vedova, divorziato o divorziata, separato o separata legalmente, celibe o nubile. Con effetto dal 1° luglio 1994, qualora del nucleo familiare di cui al comma 6 facciano parte due o più figli, l’importo mensile dell’assegno spettante è aumentato di lire 20.000 per ogni figlio, con esclusione del primo”. Il successivo comma sesto dispone che “il nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. Del nucleo familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed equiparati, anche i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti”.
[2] In questo senso, ex multis, Cass. Civ., Sez. Lav., 30 marzo 2015, n. 6351; Cass. Civ., Sez. Lav., 29 settembre 2008, n. 24278; Cass. Civ., Sez. Lav., 4 luglio 2008, n. 18490; Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2004, n. 6155; Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2003, n. 13200.
[3] Art. 2, co. 9, Legge 153/1988.
[4] Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2004, n. 6155, e Cass. Civ., Sez. Lav., 12 novembre 2003, n. 17048.
[5] Art. 2, co. 2, Legge 153/1988. Vedi Cass. Civ., Sez. Lav., 30 marzo 2015, n. 6351, e Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2003, n. 13200; sulla natura assistenziale, vedi anche App. Brescia, 16 luglio 2018, n. 296; Trib. Milano, 28 aprile 2017.
[6] Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9021.
[7] Corte di Giustizia, 21 giugno 2017, C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva c. Istituto nazionale della previdenza sociale e altro.
[8] Il riferimento è “b) ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002; e c) ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale”.
[9] App. Brescia, Sez. Lav., 16 luglio 2018, n. 296; Trib. Pavia, Sez. Lav., 6 giugno 2018; App. Brescia, Sez. Lav., 5 dicembre 2017, n. 556; App. Torino, Sez. Lav., 6 novembre 2017, n. 772; Trib. Milano, Sez. Lav., 6 novembre 2017; App. Trento, Sez. Lav., 26 ottobre 2017, n. 72; Trib. Alessandria, 22 settembre 2017; Trib. Milano, 28 aprile 2017; App. Brescia, Sez. Lav., 22 giugno 2016, n. 233; Trib. Brescia, Sez. Lav., 14 maggio 2015.
[10] Cfr. Corte di Giustizia, 20 ottobre 2011, causa C-396/09, Interedil Srl, in liquidazione c. Fallimento Interedil Srl e altro; Corte di Giustizia, 29 ottobre 2009, causa C‑174/08, NCC Construction Danmark A/S c. Skatteministeriet; Corte di Giustizia, 18 ottobre 2007, causa C‑195/06, KommAustria c. Österreichischer Rundfunk; Corte di Giustizia, 15 luglio 2004, causa C‑321/02, Finanzamt Rendsburg c. Detlev Haibs.
[11] Vedi, ex multis, Corte di Giustizia, 5 dicembre 2004, cause riunite C-397/01-C-403/01, Pfeiffer c. Deutsches Rotes Kreuz.
[12] Scontato, sul punto, il riferimento a Corte di Giustizia, 9 marzo 1978, causa C-106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. Simmenthal Spa; si vedano anche Corte di Giustizia, 26 febbraio 2013, C-617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson; Corte di Giustizia, 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Aziz Melki e Sélim Abdeli; Corte di Giustizia, 19 novembre 2009, C-314/08, Krzysztof Filipiak c. Dyrektor Izby Skarbowej w Poznaniu; Corte di Giustizia, 27 ottobre 2009, C‑ 115/08, Land Oberösterreich c. ČEZ as.
[13] Sono, d’altronde, norme espressive del divieto di discriminazione cui il Giudice Europeo ha sempre riconosciuto effetto diretto. Si vedano, sul punto, le note pronunzie Corte di Giustizia, 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri c. Successione Karsten Eigil Rasmussen; Corte di Giustizia, 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Seda Kücükdeveci c. Swedex GmbH & Co. KG; Corte di Giustizia, 22 novembre 2005, causa C-144/04, Werner Mangold c. Rüdiger Helm.
[14] Corte di Giustizia, 24 aprile 2012, causa C-571/10, Servet Kamberaj c. Istituto per l’Edilizia sociale della Provincia autonoma di Bolzano e altri, pt. 86: “…occorre rilevare che, dal momento che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri ed il diritto di tali cittadini al beneficio della parità di trattamento nei settori elencati all’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109 costituiscono la regola generale, la deroga prevista dal paragrafo 4 di tale articolo deve essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenza del 4 marzo 2010, Chakroun, C‑578/08, Racc. pag. I‑1839, punto 43)”.
[15] Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 87.
[16] Corte di Giustizia, Martinez Silva, cit., pt. 30.
[17] Così, App. Brescia, 16 luglio 2018, cit.; si veda anche Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 92: “al riguardo occorre rammentare che, conformemente all’articolo 34 della Carta, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. Ne consegue che, nei limiti in cui il sussidio di cui trattasi nel procedimento principale risponde alla finalità enunciata nel citato articolo della Carta, esso non può essere considerato, nell’ambito del diritto dell’Unione, come non compreso tra le prestazioni essenziali ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109”.
[18] Si è chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione: “se l’art. 11, paragrafo 1 lett. d) della direttiva 2003/109/ del Consiglio, del 25 novembre 2003, nonché il principio di parità di trattamento tra soggiornanti di lungo periodo e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore soggiornante di lungo periodo ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.
[19] Si è chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione: “se l’art. 12, paragrafo 1 lett. e) della direttiva 2011/98/ del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, nonché il principio di parità di trattamento tra titolari del permesso unico di soggiorno e di lavoro e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore titolare del permesso unico ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.
[20] Il richiamo è, altresì, al Dodicesimo e Sedicesimo Considerando, e alla pronunzia della Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, causa C-508/10, Commissione Europea c. Regno dei Paesi Bassi e altro, pt. 66.
[21] Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9021.
[22] Cittadino non appartenente all’Unione Europea, ai sensi del Decreto Legislativo 286/1998.
[23] Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale c. WS, quanto alla Direttiva 2011/98/UE; Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-303/19, Istituto nazionale della previdenza sociale v. VR, quanto alla Direttiva 2003/109/CE.
[24] Il richiamo è, in entrambi i casi, alla decisione della Corte di Giustizia, 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Georgi Ivanov Elchinov c. Natsionalna zdravnoosiguritelna kasa, pt. 40, con la precisazione che il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i loro regimi di sicurezza sociale, e che spetta a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale, il relativo importo e il periodo per il quale sono concesse.
[25] Art. 11, par. 2, Direttiva 2003/109/CE e art. 12, par. 2, lett. b), co. 1, Direttiva 2011/98/UE; cfr. Corte di Giustizia, INPS, pt. 23 (C-303/19) e pt. 26 (C-302/19), cit.
[26] Deroga della quale il Governo Italiano non ha ritenuto di avvalersi, come evidenziato dall’Avvocato Generale nelle proprie conclusioni (pt. 65-66) e dalla Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 38. Posto che l’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 è precedente alla Direttiva 2003/109/CE e all’art. 9, co. 12, lett. c), D. Lgs. 286/1998 per come modificato dall’art. 1 D. Lgs. 3/2007, il Legislatore nazionale ha previsto quale unica condizione l’effettiva residenza dello straniero – non dei suoi familiari – sul territorio nazionale.
[27] Così, già Corte di Giustizia, 19 novembre 1998, causa C-162/97, Gunnar Nilsson e altri c. Governo Svedese e altri, pt. 54: “a tal riguardo occorre rilevare che il preambolo di un atto comunitario non ha valore giuridico vincolante e non può essere fatto valere per derogare alle disposizioni stesse dell’atto di cui trattasi”.
[28] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 38.
[29] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 28.
[30] Corte di Giustizia, INPS (C-302/19), cit., pt. 34.
[31] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 30.
[32] Corte di Giustizia, INPS (C-302/19), cit., pt. 39.
[33] In questo senso, l’Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi, COM(2011)455; in questo senso anche il Quarto Considerando della Direttiva 2003/109/CE e il Diciannovesimo Considerando della Direttiva 2011/98/UE.
[34] Secondo il Piano d’azione sull’integrazione dei cittadini di paesi terzi, COM(2016)377, “garantire che tutti coloro che risiedono legittimamente e regolarmente nell’UE, indipendentemente dalla durata del loro soggiorno, possano partecipare e apportare il loro contributo è essenziale per il benessere, la prosperità e la coesione futura delle società europee. In un periodo in cui discriminazione, pregiudizi, razzismo e xenofobia sono in aumento, vi sono imperativi giuridici, morali ed economici che impongono di sostenere i diritti fondamentali, i valori e le libertà dell’UE e di continuare ad adoperarsi per una società complessivamente più coesa. Un’integrazione efficace dei cittadini di paesi terzi è nell’interesse comune di tutti gli Stati membri”.
[35] Così, il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
[36] Questo, d’altronde, il senso del Secondo Considerando tanto della Direttiva 2003/109/CE, quanto della Direttiva 2011/98/UE che richiamano la riunione straordinaria di Tampere del 15-16 ottobre 1999 all’esito della quale – in punto di equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi – si è affermato che “l’Unione europea deve garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’UE. Essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia… Occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. Alle persone che hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata dovrebbe essere garantita in tale Stato membro una serie di diritti uniformi il più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’UE, ad esempio il diritto a ottenere la residenza, ricevere un’istruzione, esercitare un’attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo; va inoltre riconosciuto il principio della non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato di soggiorno. Il Consiglio europeo approva l’obiettivo di offrire ai cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in maniera prolungata l’opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono” (pt. 18 e 21). Sull’equo trattamento che deve essere assicurato ai cittadini dei Paesi terzi, così l’art. 79 TFUE: “L’Unione sviluppa una politica comune dell’immigrazione intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.
[37] Rammenta l’Avvocato Generale che “l’obiettivo principale della direttiva 2003/109, come emerge dai considerando 4, 6 e 12 di quest’ultima, è l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri” (Conclusioni, causa C-303/19, pt. 36).
[38] Oltremodo puntuale, sotto questo profilo, il rilievo dell’Avvocato Generale (Conclusioni, causa C-303/19, pt. 53, e causa C-302/19, pt. 51).
[39] D’altronde, “per costituire un autentico strumento di integrazione sociale, lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe valere al suo titolare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una vasta gamma di settori economici e sociali sulle pertinenti condizioni definite dalla presente direttiva” (Dodicesimo Considerando della Direttiva 2003/109/CE).
[40] Conclusioni dell’Avvocato Generale, causa C-303/19, pt. 39, che richiama Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 79-81.
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