ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Capita una sera di giugno, per caso, di ascoltare un concerto fuori dall’ordinario.
Di norma non è facile scrivere la recensione di un concerto, ma questo fa eccezione. Per chi non lo conoscesse - come me prima di oggi - Nano Stern è un cantautore quarantenne cileno della tradizione folk-jazz, dotato di una voce straordinaria, una capacità strumentale alla chitarra fuori dal comune e di una grande creatività e profondità nei testi. La grande Joan Baez (con la quale Nano ha duettato in diverse occasioni, tra le quali il concerto per il suo 75° compleanno) lo ha definito il miglior cantautore cileno della sua generazione.
Trovandosi a Roma in visita da amici, Nano ha tenuto il 20 giugno un concerto, ma invece di teatri affollati come quelli che troverà ad Amburgo, Stoccolma, Boston, in Spagna, in Cile e in molte altre sedi che toccherà con il suo prossimo tour, lo ha fatto nel piccolo circolo di Santa Libbirata, La Carretteria, al Pigneto, di fronte a un pubblico di una quarantina di persone - alcuni dei quali suoi amici - tra cui, per puro caso, ho avuto la fortuna di esserci anche io.
L'artista sale sul palco canticchiando scherzosamente senza microfono "lasciatemi cantare …" (il ritornello de L'Italiano vero di Toto Cotugno), per richiamare l’attenzione del pubblico. Ma è solo un attimo e la serata prende poi subito dopo tutt’altra direzione. In effetti, il concerto è subito coinvolgente grazie alla capacità dell’artista di mixare i suoi ritmi latini con la narrazione dei brani, spiegandone in lingua italiana la genesi ed il contenuto dei testi ed insegnando al pubblico prima dell’esecuzione i ritornelli da cantare poi insieme.
Durante una performance di più di due ore il cantautore ha interpretato molti suoi brani originali, ma anche canzoni popolari della nueva canciòn chilena resi popolari in Italia a partire dagli anni ’70 soprattutto per opera dal complesso degli Inti Illimani. Molti di questi brani sono del grande cantautore cileno Victor Jara, torturato ed assassinato durante la feroce dittatura di Pinochet, ma anche brani popolari cileni e del Perù andino in lingua quechua.
I testi, ancorché cantati in spagnolo, arrivano subito al cuore. Lo scaldano.
Ascoltiamo così una serie di brani di Victor Jara come il famoso “Te recuerdo Amanda” (Ti ricordo Amanda), conosciuta in italia grazie agli Inti Illimani ed eseguita anche da Francesco Guccini in una traduzione in italiano molto fedele al testo originale. È una composizione romantica e, al tempo stesso, un inno politico che racconta di due operai i quali devono sfruttare la breve pausa di cinque minuti durante il lavoro per potersi vedere. Di questo brano lo stesso Victor Jara nel suo ultimo concerto prima di essere assassinato disse: «parla dell’amore di due operai, di quelli che voi stessi vedete per strada, e a volte non vi rendete conto di ciò che esiste dentro la loro anima». Nano Stern ne dà una rilettura struggente e intensa, restituendo tutta la delicatezza e la dignità del sentimento raccontato. La sua interpretazione, profondamente rispettosa e vibrante, riesce a far rivivere non solo la melodia, ma lo spirito stesso di Victor Jara, un canto che è insieme denuncia e carezza, memoria e speranza.
Sempre di Jara esegue poi la canzone "El derecho de vivir en paz" (Il diritto di vivere in pace), uno dei brani maggiormente emblematici della Nueva Canción Chilena, un inno potente contro l'oppressione e a favore della dignità umana e della pace. Scritta a suo tempo come atto di solidarietà con il popolo vietnamita durante la guerra, è diventata nel tempo un simbolo di pace che Nano rende attualissimo nel momento che stiamo vivendo. E ancora altri brani di Jara come “El pimiento” (il peperone), “Luchín” (dal nome del piccolo Luchino, simbolo della tenerezza nascosta nella povertà e della necessità di una società più giusta) per concludere con “La partida” (La partenza) brano solo musicale, ma così potentemente struggente e malinconico da riuscire a trasmettere senza bisogno delle parole un senso di lontananza e di esilio: un inno poetico a una resistenza silenziosa.
Nano vuole dare anche un tributo alla canzone italiana e così, pur dichiarando il suo amore per Fabrizio De Andrè, nel corso della sua performance ci fa ascoltare un brano della tradizione seicentesca veneziana cantato in italiano, trasformato e reso attualissimo attraverso la sua chitarra e la sua possente voce.
Ma sono alcuni dei brani originali del cantautore che forse regalano le emozioni più grandi, che coinvolgono e commuovono maggiormente chi ascolta. Il messaggio arriva chiaro, anche se cantato in spagnolo. Tra questi “Inventemos un pais” (Inventiamo un paese), brano fusion tra folk, rock e ritmi latinoamericani, una sorta di Lennoniana “Imagine” in salsa latino-americana, ma forse meno utopica.
Segue il brano che il cantautore scrisse per la fine di un grande amore. Nano spiega che le canzoni d’amore si riconducono, di norma, a due paradigmi Beatlesiani: She loves you (l’amore felice) e Yesterday (l’amore infelice). Questo brano si pone invece in una posizione diversa: si può anche “festeggiare” con serenità la fine di un amore che non c’è più.
Ascoltiamo poi “Lagrimas de oro y plata” (Lacrime di oro e argento) un brano basato su una mitologia andina che narra del continuo inseguimento tra il sole e la luna che porta i due astri prima a lottare tra di loro, poi a pentirsi della loro violenza e quindi a piangere facendo piovere sulla terra argento (la luna) e oro (il sole). Il brano ricorda che dietro alle ricchezze c’è sempre la violenza e conclude che oro è argento non ripagano mai il dolore che li ha prodotti.
C’è anche lo spazio per un brano un brano dedicato al tema dell’immigrazione: “Festejo de color” (Festa di colori) che racconta la forza della memoria e la dignità del migrante: «Sei arrivato da un’altra terra, lasciando indietro una vita, partendo senza un addio, in fuga da una guerra… ti do il benvenuto con affetto e fervore. Che le nostre voci si uniscano per dare vita a una canzone».
Con “Aùn creo en la beleza” (Ancora credo nella bellezza) - che richiama la delectatio victrix di Agostiniana memoria - Stern dichiara la sua fede ottimistica nella bellezza, intesa non solo come estetica, ma anche come etica, speranza e forza rigeneratrice, e nell’importanza dei piccoli gesti: «credo nelle cose sacre: il sole, la natura e tra tanta bruttezza, credo ancora nella bellezza!». “Un gran regalo”, infine, è di nuovo un ottimistico piccolo-grande inno alla resilienza emotiva, alla forza della connessione umana e alla gratitudine: «Molte volte mi sento triste, non trovo più il senso per andare avanti quando tutto spinge indietro. E guardo verso il cielo e non vedo la luce, e tocco la terra e non sento il calore, e arriva un amico e mi fa ricordare che la vita è un grande regalo». Il pubblico canta il ritornello dapprima senza pensarci troppo sù, poi con più entusiasmo la seconda volta, poi sempre con più convinzione tutte le volte successive nella quali l’artista invita a ripeterlo. Le parole toccano dentro. Ripeterle invita a riflettere su sè stessi. Qualcuno ha gli occhi lucidi e, con discrezione, asciuga una lacrima di commozione.
Il concerto si avvia così alla fine, ma il pubblico, trascinato dall’entusiasmo e dalla magia ancora viva nell’aria, a gran voce richiede il bis. Il primo è un virtuosismo alla chitarra e al flauto andino. Per il secondo Nano richiama sul palco la support band che aveva aperto il concerto (il gruppo di virtuosi strumentisti Latin Tram Quartet) ed esegue una rilettura in ritmo bossa-nova del brano “Todo cambia” dell’attivista e cantautrice argentina Mercedes Sosa.
Si chiude con Nano che si commiata dal pubblico riassumendo in tre punti la sua filosofia: cantare rende felici, cantare insieme ad altri rende ancora più felici, ma cantare le cose vere della vita è ancora meglio.
Si esce e il bicchiere di birra consumata scambiando due chiacchiere con Nano sembra avere un sapore diverso. Si torna a casa con un senso di leggerezza e di ottimismo, e anche di gratitudine, come se si fosse respirata un’aria più limpida nonostante la canicola romana.
Restano impresse e tornano alla mente le parole più belle, quelle che spesso dimentichiamo, ma che almeno una volta abbiamo sperimentato come vere: «La vita è un dono grande».
Reseña del concierto de Nano Stern, Roma, 20 de junio de 2025 (traduzione in spagnolo di Federico Bonadonna)
A veces, una noche de junio, por casualidad, se tiene la suerte de escuchar un concierto fuera de lo común.
Normalmente no es fácil escribir la reseña de un concierto, pero este es una excepción. Para quien no lo conociera —como yo antes de hoy— Nano Stern es un cantautor chileno de unos cuarenta años, proveniente de la tradición folk-jazz, dotado de una voz extraordinaria, una capacidad instrumental a la guitarra fuera de lo común y una gran creatividad y profundidad en sus letras. La gran Joan Baez (con quien Nano ha cantado en varias ocasiones, incluyendo el concierto por su 75º cumpleaños) lo ha definido como el mejor cantautor chileno de su generación.
De paso por Roma para visitar a unos amigos, Nano ofreció un concierto el 20 de junio. Pero en lugar de presentarse en teatros abarrotados como los que encontrará en Hamburgo, Estocolmo, Boston, España, Chile y muchas otras ciudades que recorrerá en su próxima gira, lo hizo en el pequeño centro cultural Santa Libbirata, La Carretteria, en el barrio de Pigneto, frente a un público de unas cuarenta personas —algunos de ellos amigos suyos— entre los cuales, por pura casualidad, tuve la fortuna de estar.
El artista sube al escenario tarareando en broma, sin micrófono, “Lasciatemi cantare…” de Toto Cutugno, para llamar la atención del público. Pero es solo un momento: enseguida la velada toma otro rumbo. De hecho, el concierto resulta envolvente desde el principio, gracias a la capacidad del artista de mezclar ritmos latinoamericanos con la narración de las canciones, explicando en italiano el origen y el contenido de las letras, e incluso enseñando los estribillos al público antes de interpretarlas, para que se cantaran juntos.
Durante más de dos horas de actuación, el cantautor interpretó muchas de sus composiciones originales, pero también canciones populares de la Nueva Canción Chilena, popularizadas en Italia desde los años 70 especialmente gracias al grupo Inti Illimani. Muchas de esas canciones son del gran cantautor chileno Víctor Jara, torturado y asesinado durante la feroz dictadura de Pinochet, así como también canciones populares de Chile y del Perú andino en lengua quechua.
Las letras, aunque cantadas en español, llegan directo al corazón. Lo calientan.
Así escuchamos una serie de temas de Víctor Jara como la célebre “Te recuerdo Amanda”, conocida en Italia gracias a los Inti Illimani y también interpretada por Francesco Guccini en una traducción italiana muy fiel al texto original. Es una composición romántica y, al mismo tiempo, un himno político que cuenta la historia de dos trabajadores que deben aprovechar una pausa de cinco minutos para poder verse. De esta canción, el propio Víctor Jara dijo en su último concierto antes de ser asesinado: “Habla del amor entre dos trabajadores, de esos que ustedes mismos ven por la calle, y a veces no se dan cuenta de lo que hay en sus almas”.
Nano Stern ofrece una versión intensa y conmovedora, que transmite toda la delicadeza y dignidad del sentimiento expresado. Su interpretación, profundamente respetuosa y vibrante, logra revivir no solo la melodía, sino el propio espíritu de Víctor Jara: un canto que es a la vez denuncia y caricia, memoria y esperanza.
Del mismo Jara interpreta luego la canción “El derecho de vivir en paz”, una de las más emblemáticas de la Nueva Canción Chilena, un himno poderoso contra la opresión y a favor de la dignidad humana y la paz. Escrita en su momento como un acto de solidaridad con el pueblo vietnamita durante la guerra, con el tiempo se ha convertido en símbolo de paz, y Nano la hace sonar muy actual, a la luz del momento que estamos viviendo.
Y aún más canciones de Jara como “El pimiento”, “Luchín” (inspirada en el pequeño Luchito, símbolo de la ternura escondida en la pobreza y de la necesidad de una sociedad más justa), hasta llegar a “La partida”, pieza puramente instrumental, pero tan profundamente conmovedora y melancólica que consigue transmitir, sin necesidad de palabras, una sensación de lejanía y exilio: un himno poético a la resistencia silenciosa.
Nano quiso rendir también un homenaje a la canción italiana y así, aunque declaró su amor por Fabrizio De André, durante su actuación interpretó una canción de la tradición veneciana del siglo XVII, cantada en italiano, transformada y llevada a la actualidad gracias a su guitarra y su poderosa voz.
Pero son algunas de las composiciones originales del cantautor las que quizás regalan las emociones más intensas, que más conmueven y envuelven al público. El mensaje llega claro, aunque esté cantado en español.
Entre ellas, “Inventemos un país”, tema fusión entre folk, rock y ritmos latinoamericanos, una especie de Imagine de Lennon en clave latinoamericana, aunque quizás menos utópica. Le sigue una canción que Nano escribió tras el fin de un gran amor. El cantautor explica que las canciones de amor suelen encajar en dos paradigmas beatlemaníacos: She loves you (el amor feliz) y Yesterday (el amor infeliz). Esta canción, en cambio, se sitúa en un punto intermedio: también se puede “celebrar” con serenidad el fin de un amor que ya no está.
Escuchamos luego “Lágrimas de oro y plata”, canción basada en una mitología andina que narra la persecución continua entre el sol y la luna, quienes primero luchan entre sí, luego se arrepienten de su violencia y finalmente lloran, haciendo llover sobre la tierra plata (la luna) y oro (el sol). La canción recuerda que detrás de la riqueza siempre hay violencia y concluye que ni el oro ni la plata compensan el dolor que los generó.
Hay también espacio para un tema dedicado a la inmigración: “Festejo de color”, que narra la fuerza de la memoria y la dignidad del migrante:
“Llegaste desde otra tierra, dejando atrás una vida, partiendo sin despedida, huyendo de una guerra… Te doy la bienvenida con afecto y fervor. Que nuestras voces se unan para dar vida a una canción”.
Con “Aún creo en la belleza” —que recuerda a la delectatio victrix agustiniana— Stern declara su fe optimista en la belleza, entendida no solo como estética, sino también como ética, esperanza y fuerza regeneradora, y en la importancia de los pequeños gestos:
“Creo en las cosas sagradas: el sol, la naturaleza, y entre tanta fealdad, ¡aún creo en la belleza!”
“Un gran regalo”, por último, es nuevamente un pequeño-gran himno optimista a la resiliencia emocional, a la fuerza del vínculo humano y a la gratitud:
“Muchas veces me siento triste, ya no encuentro el sentido para seguir cuando todo empuja hacia atrás. Y miro al cielo y no veo la luz, y toco la tierra y no siento el calor, y llega un amigo y me hace recordar que la vida es un gran regalo”.
El público canta el estribillo al principio sin pensar demasiado, luego con más entusiasmo la segunda vez, y después con creciente convicción cada vez que el artista invita a repetirlo. Las palabras tocan el alma. Repetirlas lleva a la reflexión. Alguien tiene los ojos húmedos y, discretamente, se seca una lágrima de emoción.
Así se acerca el final del concierto, pero el público, contagiado por el entusiasmo y la magia aún viva en el aire, pide a gritos un bis. El primero es un despliegue de virtuosismo a la guitarra y a la flauta andina. Para el segundo, Nano invita nuevamente al escenario a la banda de apoyo que había abierto el concierto (el grupo de virtuosos instrumentistas Latin Tram Quartet) e interpreta una versión en ritmo bossa-nova de la canción “Todo cambia” de la activista y cantautora argentina Mercedes Sosa.
Nano se despide del público resumiendo su filosofía en tres puntos:
cantar hace feliz, cantar con otros hace aún más feliz, pero cantar las cosas verdaderas de la vida es aún mejor.
Uno sale del lugar y la cerveza compartida conversando con Nano tiene un sabor distinto. Se vuelve a casa con una sensación de ligereza, de optimismo, y también de gratitud, como si se hubiera respirado un aire más limpio a pesar del calor romano.
Quedan grabadas y regresan a la mente las palabras más bellas, esas que a menudo olvidamos, pero que al menos una vez hemos experimentado como verdaderas:
“La vida es un gran regalo.”
* La foto è stata scattata da Federico Bonadonna, scrittore e antropologo, autore, tra gli altri, del libro Sulle corde del tempo. Una storia degli Inti Illimanni (Jorge Coulon).
La giustizia penale internazionale è sempre stata vista come un complemento necessario dell’ordine mondiale nato dalla Seconda Guerra Mondiale, basato sul multilateralismo e sul rispetto dei principi della Rule of Law.
Lo Statuto di Roma fu quindi salutato come uno strumento fondamentale di enforcement di quei principi, reso via via più completo per l’estensione del catalogo dei delitti nelle attribuzioni del Tribunale Penale Internazionale (International Criminal Court – d’ora in poi ICC), fino alla recente previsione del crimine di aggressione.
La ICC in realtà è solo una delle articolazioni della Giustizia penale internazionale, dovendosi considerare anche i Tribunali instituiti su deliberazione delle Nazioni Unite, Tribunali ad Hoc, o tramite la cooperazione tra le NU e Stati nazionali.
Il carattere innovativo della ICC è però costituito dalla sua stabilità e universalità e dall’affermazione di principi ritenuti viventi nel diritto consuetudinario, come la imprescrittibilità, la non amnistiabilità, l’assenza di privilegi di immunità, espressione della necessità – anche questa ritenuta consuetudinariamente vivente nel diritto internazionale – che i più gravi crimini contro l’umanità o di guerra siano perseguiti e puniti.
Tuttavia, la non sottoscrizione del Trattato di Roma da parte di nazioni particolarmente importanti, quali gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, hanno sin dall’inizio determinato gravi difficoltà, acuitesi in tempi recenti. Difficoltà moltiplicate dal fatto che i tre Paesi appena citati sono anche componenti di diritto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organismo cui competono significativi poteri sulla base del Trattato.
Queste difficoltà possono ritenersi anche alla base delle critiche, rivolte spesso da Paesi del c.d. Sud del Mondo, alla Giustizia internazionale, vista come rivolta esclusivamente alle violazioni che accadono in tali aree, e sostanzialmente inefficace rispetto alle potenziali violazioni dei Paesi occidentali o delle grandi potenze.
Sono, a mio parere, due i fenomeni concomitanti e interrelati che hanno determinato l’attuale grande incertezza sulla ICC
Innanzitutto, la fine della impunità – almeno per il momento sotto il profilo procedimentale – delle grandi potenze, con le misure cautelari emesse a richieste del Procuratore (Office of The Prosecutor – d’ora in poi OTP) nei confronti del Capo dello Stato in carica della Russia (Valdimir Putin) e dei Governanti israeliani (Primo Ministro Netanyahu e il Ministro Gallant); nazioni entrambe non aderenti al Trattato di Roma.
In secondo e più ampio luogo, per via della crisi dell’ordine mondiale multilaterale, per il progressivo abbandono della partecipazione negli Organi della multilateralità e per il ricorso diretto alle armi per la risoluzione delle controversie, anche territoriali.
È arduo discutere del ruolo attuale della ICC e delle sue difficoltà, senza inquadrare l’uno e le altre nella più generale e risalente crisi delle Nazioni Unite (e ora anche di altri organi del multilateralismo, come l’OMS).
Le reazioni di Stati Uniti e Russia all’avvio delle indagini costituisce un punto davvero grave, senza precedenti, nel diritto internazionale. La reazione più grave è quella della Federazione Russa, che ha emesso un ordine di cattura nei confronti di giudici della ICC. Inoltre, l’adozione di misure, peraltro di particolare gravità, adottate anche con Ordine Esecutivo dal Presidente Trump (6 febbraio 2025), colpisce non solo chi ne è diretto bersaglio, il procuratore Khan, ma tutti coloro che forniscono in qualunque modo aiuto e sostegno alla ICC. Ciò ha già determinato significative dimissioni da parte di componenti della struttura della ICC, che hanno necessità di viaggiare negli Stati Uniti o che in essi vivono.
Già in passato, nel primo mandato presidenziale, Trump aveva emesso un EO di congelamento di beni e di restrizioni in accesso e nei viaggi, nei confronti della Procuratrice Fatou Bensouda, per accertamenti su violazioni asseritamente commesse da soldati statunitensi in Afghanistan, ordine poi revocato dal presidente Biden.
Si pone quindi con urgenza il tema di come realizzare efficacemente la tutela dei giudici, dei procuratori e della struttura organizzativa, come previsto dallo Statuto di Roma.
Dal punto di vista tecnico-interpretativo, due sono i quesiti principali, emergenti anche dall’ Executive Order appena menzionato.
Il primo riguarda le attribuzioni della ICC rispetto a Paesi che non sono parte del Trattato o a cittadini di tali Paesi. La questione è stata in passato ampiamente discussa dagli organi della giustizia penale internazionale. Essa può essere considerato un tema dell’approfondimento seminariale.
Sulla base dei provvedimenti della ICC e come possibile oggetto di discussione, segnalo i criteri applicati per affermare la giurisdizione internazionale nel conflitto israelo-palestinese, considerando che Israele non è Stato parte, mentre la Palestina (a sua volta non riconosciuta da tutti i contraenti) ha accettato tale giurisdizione:
1. Crimini commessi da cittadini di Stati parte o di cittadini di Stati non parte commessi nel territorio dei primi
2. Principio di complementarità ex art. 17 (la giurisdizione nazionale prevale solo se non vi è difetto di volontà o capacità di perseguire i crimini)
3. Conflitto internazionale armato (Israele – Palestina) in parallelo a conflitto armato non internazionale (Israele – Hamas)
La questione della immunità dei Capi di Stato o di governo è anch’essa centrale, non solo per via del rifiuto della Mongolia di eseguire la misura nei confronti di Putin, ma perché costituisce un nodo fondamentale circa l’effettività dell’azione della giustizia, mentre sono in corso le condotte illecite.
Oggetto della discussione seminariale potrebbe essere quindi il rapporto tra l’art. 27, comma 2, del Trattato, che espressamente esclude l’immunità per i crimini previsti dal Trattato, e l’art. 98, che sembrerebbe prevedere un’eccezione quando ciò comporterebbe per lo Stato richiesto di agire inconsistently with its obligations under international law with respect to the State or diplomatic immunity”.
Anche su tale questione vi sono pronunce risalenti della Camera d’Appello della ICC.
Entrambe le questioni si sono poi intersecate con quella relativa all’esercizio del potere di azione. Questo è attribuito sia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che al OTP. In quest’ultimo caso emerge il tema dei criteri cui l’ufficio deve attenersi e degli strumenti volti ad assicurarne l’imparzialità.
Il punto è centrale. Ad esempio, esso è emerso a proposito della contestualità dell’azione sia nei confronti di Hamas, pur essendo evidenti le responsabilità dell’organizzazione e dei suoi capi sin dal giorno dopo gli attacchi del 7 ottobre, così come evidente la violazione di plurime fattispecie di delitti contro l’umanità e di guerra, e di Israele, le cui condotte furono successive e pongono – almeno per alcune – questioni circa l’uso da parte di Hamas di ostaggi e di strutture civili a protezione di strutture militari.
I meccanismi di selezione del Prosecutor e dello staff e di successive garanzie di stabilità, sono tali da assicurare, oltre alla professionalità, anche l’indipendenza?
L’art. 53 dello Statuto prevede criteri per l’attivazione delle investigazioni e per i casi di non esercizio dell’azione; questa previsione è poi dettagliata nelle Regulations of the Office of the Prosecutors, in particolare 29 e ss.
Oltre al controllo da parte della Sezione istruttoria della ICC (Pre-trial Chamber) sia per l’autorizzazione alle indagini sia per alcuni casi di dismissione, quali sono le misure in genere adottate? I criteri predeterminati sopra menzionati sono risultati efficaci? Le decisioni sono gerarchiche o hanno profili formalizzati di collegialità (come nel caso di EPPO)?
La ICC non dispone di proprie strutture di polizia giudiziaria, cosicché deve rivolgersi per le attività di indagine e per l’esecuzione dei propri provvedimenti, agli Stati nazionali, che sono obbligati a collaborare sulla base delle previsioni del Trattato.
Gli Stati devono, di conseguenza, adeguare la propria normativa interna per rendere possibile la più efficace delle cooperazioni.
Questo deve avvenire innanzitutto dal punto di vista sostanziale, adeguando le previsioni interne dei delitti punibili e le statuizioni sostanziali a ciò correlate (imprescrittibilità, ecc.). Anche se da un eventuale mancanza di adeguamento non deriverebbero ostacoli, trattandosi di delitti e di previsioni discendenti direttamente dal diritto internazionale, la chiara previsione dei delitti agevolerebbe la cooperazione e consentirebbe casi di diretto esercizio nazionale della giurisdizione, quando ne ricorrano i presupposti.
L’Italia ha istituito una Commissione (Commissione Palazzo - Pocar) che ha redatto un testo di possibili interventi, nel 2023 recepito in parte in uno schema di disegno di legge governativo, mai presentato in Parlamento. L’articolato della Commissione contiene molti spunti di interesse, anche al fine della interpretazione di alcune delle questioni discusse innanzi. Ad esempio, l’art. 7 comma 2, espressamente riconosce che l’immunità dei Capi di Stato non può essere opposta alla ICC (“…. fatti salvi gli obblighi di cooperazione con la Corte penale internazionale previsti dalla legge 20 dicembre 2012 n. 237 e con gli altri tribunali penali internazionali eventualmente competenti”), mentre l’art. 16 prevede che nessuno dei crimini sia prescrittibile.
Utile anche la definizione dei crimini di genocidio (declinati secondo le diverse ipotesi, risultanti dall’esperienza degli anni del dopoguerra), contro l’umanità e di guerra (anche questi ultimi dettagliatamente descritti, anche se non del tutto coincidenti con l’estensione recente nel diritto internazionale a forme di guerra e all’utilizzo di strumenti specifici). Particolarmente importante sembra la previsione e l’espressa indicazione degli elementi costitutivi del delitto di aggressione, in attuazione dell’art. 8 bis dello Statuto, previsione adottata nel 2010 e divenuta operativa nel 2018. Tale crimine, nello Statuto di Roma, come emendato, prevede una serie di garanzie aggiuntive coinvolgenti il Consiglio di Sicurezza delle UN, agli artt. 15 bis e ter.
Potrà costituire punto di discussione nell’incontro la completezza e adeguatezza dell’articolato, così come le ragioni per le quali il testo governativo è stato nella sostanza ritirato. Si intende procedere sulla strada dell’adeguamento o – in caso negativo – quali sono le prospettive alternative per recepire le indicazioni pattizie?
In conclusione, dovremmo interrogarci sulla adeguatezza dal punto di vista delle previsioni sostanziali della disciplina nazionale.
Certamente più rilevante è il tema procedurale. Al di là dei casi singoli, questo tema è da tempo oggetto sia della riflessione scientifica che del contenzioso nella ICC.
Il punto centrale è costituito dalle intrinseche caratteristiche della giurisdizione penale internazionale, che esercita un’attribuzione sovranazionale originaria e che dunque non segue strettamente le norme sulla cooperazione giudiziaria (gli Stati parte sono obbligati a fornire cooperazione piena e non valgono gli ordinari criteri di limitazione, ad esempio circa il carattere “politico” del crimine) o quelle sulla estradizione per la consegna.
Ciò porta a interrogarsi sui limiti del sindacato che può essere esercitato dagli Stati nazionali sulla legittimità e fondatezza delle richieste di assistenza o di consegna, ai sensi degli artt. 58 e 59 dello Statuto (quest’ultimo recita It shall not be open to the competent authority of the custodial State to consider whether the warrant of arrest was properly issued in accordance with article 58, paragraph 1 (a) and (b).).
Margini che, anche sulla base della giurisprudenza delle Corti, sono assai ristretti e soprattutto dovrebbero portare non al rifiuto di collaborazione ma all’interlocuzione con la ICC, cui dovrebbe spettare la decisione finale.
In questo contesto, il ruolo della valutazione politica appare essere del tutto ridotto. Anche l’esercizio dei poteri derivanti dalla tutela della sicurezza nazionale appare contenuto nella disciplina richiamata.
Qual è dunque il ruolo rispettivo dell’autorità politica (il Ministro della Giustizia, cui compete l’interlocuzione con la Corte), di quella giudiziaria nazionale e della ICC?
Quello della effettiva cooperazione degli Stati nazionali è problema che condiziona significativamente la ICC.
Nel periodo 2019 – 2020 solo il 58% delle richieste ha avuto risposta positiva. Nel periodo 2022-2023 questa percentuale è calata al 38.5% (dati estratti dal documento della IBA, Strengthening the International Criminal Court and the Rome Statute System: A Guide for States Parties Second Edition, Ottobre 2024).
In caso di mancata cooperazione, il rimedio della segnalazione all’Assemblea degli Stati parte può considerarsi effettivo? Quali sono stati gli esiti dei casi di devoluzione all’Assemblea? Esistono altri strumenti di sanzione o coercizione degli Stati nazionali?
*La Fondazione Vittorio Occorsio organizza, con Taobuk, nell’ambito del Festival 2025, un incontro cui partecipano il giudice Rosario Aitala, primo vicepresidente della Corte penale internazionale, il Viceministro Francesco Paolo Sisto, l’on.le Luciano Violante, già presidente della Camera dei Deputati, e Nicoletta Parisi, professoressa di diritto internazionale. L’incontro sarà presentato da Vittorio Occorsio e coordinato da Giovanni Salvi.
Obiettivo dell’incontro è mettere a fuoco i problemi che la transizione verso un ordine mondiale diverso da quello che ha retto il mondo dal 1945 determina per la Giustizia penale, emersi con drammatica evidenza negli ultimi anni, soprattutto a causa dei conflitti in Ucraina e in Palestina. L’approccio prescinderà dall’esame delle singole vicende per cercare di individuare le possibili prospettive.
Sommario: 1. Si riaccende la “polemica” sul contributo di Piero Calamandrei al codice di procedura civile del 1940. – 2. Colloquiano studiosi e processualisti. – 3. Il tema discìvelato: i poteri del giudice.
1. Si riaccende la “polemica” sul contributo di Piero Calamandrei al codice di procedura civile del 1940
Occupandosi della storia del diritto processuale civile nel Novecento italiano, è fatale imbattersi nel lungo e densissimo processo di lettura di Piero Calamandrei – inteso come personaggio pubblico – e delle sue opere, dottrinali e “legislative”.
Ci si potrebbe dunque chiedere perché ora uno storico del diritto intenda ripensare questo processo noto, e più volte commentato, e ritenere di poter dare un qualche nuovo contributo di conoscenza.
Forse, una domanda ancora da porsi è non tanto cosa sia stato scritto su Calamandrei o chi abbia scritto cosa, ma perché un certo studioso, in un determinato momento, abbia sentito la necessità di formulare un giudizio, trarre una conclusione, correggere un'immagine; oppure se questa lunga riflessione non sia servita (anche) a parlare di qualcos'altro, meno evidente rispetto alla formidabile vicenda storica del codice di procedura civile del 1940.
Lo spunto l'ho trovato nella rinascita di una discussione che aveva preso le mosse pochi anni dopo l'emanazione del codice di procedura civile del 1940. Questa iniziale discussione fu una vera e propria polemica sulla natura del contributo calamandreiano al codice e, dunque, sul suo “vero” orientamento politico[1].
Stavolta sul palco, assieme a Calamandrei convitato di pietra, ci sono Michele Taruffo, Franco Cipriani e Giulio Cianferotti.
È il 2009, e sulle pagine delle due più antiche e prestigiose riviste italiane di diritto processuale civile si (ri)accende una serrata discussione.
Tutto parte da un lavoro di Girolamo Monteleone, Intorno al concetto di verità “materiale” o “oggettiva” nel processo civile[2].
Si tratta di un articolo in cui l'autore riflette sul fatto che concetti appartenuti, o dati per esclusivamente appartenuti, ad ordinamenti giuridici “defunti”, come quello della DDR, non siano poi così esotici, anche in paesi di (ora) indiscussa matrice democratica, come il nostro.
Per portare a termine questa comparazione, Monteleone sceglie la teoria processualistica per come illustrata, a suo dire, da Calamandrei e da Carnacini e quella del Kellner, commentatore dell'Ordinanza della procedura civile, emanata nel 1975 nella Repubblica democratica tedesca[3].
Ebbene, a parere dell'autore, “le analogie sono impressionanti. I capisaldi teorici sono identici: l'accertamento della verità materiale, il giudice attivo dotato di ampi ed insindacabili poteri, la funzione dell'avvocato, la collaborazione tra parti e giudice, oralità-immediatezza-concentrazione, ecc.”[4].
Questa “impressionante analogia” avrebbe poi trovato soluzione con il disfacimento, da un lato, della DDR e, dall'altro, con l'entrata in vigore della nostra Costituzione.
Nelle tredici pagine del lavoro di Monteleone, Michele Taruffo viene citato una volta sola, peraltro in nota, con il suo articolo Poteri istruttori del giudice e delle parti in Europa, apparso nel 2006 sulla “Trimestrale”, assieme a quello di Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, sempre sulla “Trimestrale” del 2004[5].
Se alle figure di Calamandrei e Carnacini viene tributato l'omaggio dovuto a due maestri della processualistica[6], pur velatamente “accusati” di aver traghettato nel codice del 1940 il concetto di interesse pubblico, nella citazione di Taruffo e Chiarloni sembra nascondersi un vero bersaglio, anche se diverso da quello che ci si potrebbe immaginare.
Si comincia a sospettare, in effetti, che si parli dei padri nobili per alludere a questioni concrete, molto meno storiche ed assai più tecniche.
Comunque, a distanza di pochi mesi, sempre sulla “Trimestrale”, Michele Taruffo pubblica un severissimo commento al lavoro di Monteleone, sferzando con caustica ironia sia lo studioso che le idee[7].
Torneremo più avanti sul contributo di Taruffo.
Continuiamo invece a svolgere la catena degli eventi, oramai inarrestabile.
A stretto giro, sulla rivista da lui co-fondata, appare la risposta di Cipriani[8] che pure, stimolato da Taruffo, evoca un lavoro di Giulio Cianferotti[9].
Orbene, i contendenti (Monteleone, Taruffo, Cipriani) rimangono presto in due, visto che “l'iniziatore” della polemica, Monteleone, dopo aver inviato alla “Trimestrale” una stringata replica sulle “idee confuse del Prof. Taruffo”[10], tace.
La circostanza veramente interessante è che Taruffo, rispolverando la “trita polemica” sul “Calamandrei fascista o collaboratore del fascismo”[11] ne attribuisce la paternità a Franco Cipriani e non, come sarebbe stato legittimo attendersi, anche a Giovanni Tarello.
In questo senso abbiamo parlato di una continuazione dell'originario dibattito, intendendo una parziale (forse soltanto apparente) sostituzione di uno dei primi protagonisti con un altro.
Per quale ragione Taruffo evoca il giudizio di Franco Cipriani quando, come si sa, la questione del Calamandrei “fascista” e del codice “autoritario” è inizialmente frutto della riflessione tarelliana[12]?
Nel suo notissimo lavoro del 1977[13] Tarello imputò a Calamandrei un “ambiguo relativismo”, l'essere stato cioè un antifascista (in nessun luogo troviamo diversa affermazione), fautore però di una politica del diritto più o meno direttamente mutuata da Chiovenda e, dunque, autoritaria[14].
Più precisamente, Tarello legge il lavoro di Calamandrei dedicato alla relatività del concetto di azione e giunge ad individuare “l'operazione politica” condotta dal giurista in questi termini: “gli ordinamenti in cui più si è andati innanzi nella distruzione del diritto privato e nella lotta al diritto soggettivo, insinua Calamandrei, sono due: quello germanico nazista e quello sovietico: là le nuove concettualizzazioni dell'azione sono dunque idonee come strumenti di interpretazione e descrizione dell'intero ordinamento e della sua parte quantitativamente prevalente. In Italia, invece, l'autorità dello Stato si afferma come autorità della legge: perciò la concettualizzazione di Chiovenda non solo rispecchia di fatto, quantitativamente, gli aspetti prevalenti dell'ordinamento, ma deve anche presiedere alla riforma e alla sua interpretazione”[15].
Nel 1973, nel primo numero dei “Materiali”, Tarello aveva già dedicato un lungo contributo alla figura di Chiovenda[16].
Se ne ricava un'impressione difficile da decifrare: da un lato, Chiovenda è senz'altro dipinto come l'anima antica del codice di procedura civile fascista[17]; dall'altro, è visto come il più feroce guardiano della supremazia della legge[18], della legalità, anche lui “assillato dalla legalità”, come più tardi sarà il suo allievo Calamandrei.
È stato forse Paolo Grossi, in un contributo uscito sempre nel 2009, a restituire al meglio la fede profondissima di Calamandrei nella legge[19]; qui vale la pena riportare un passaggio che ci aiuterà poi a dipanare la nostra vicenda: “egli [Calamandrei] è legalista anche perché gli fanno orrore le vicine esperienze europee totalitarie, la nazista e la sovietica, dove si ben oltre gli orientamenti del 'diritto libero' di marca kantorowicziana e dove il giudice, soltanto perché ferreamente aderente alla ideologia dominante, può permettersi un arbitrio pressoché illimitato. Calamandrei ritorna parecchie volte sul punto, facendo continui riferimenti alla Germania nazional-socialista e alla Russia sovietica, spettri da esorcizzare percorrendo una strada protetta dagli argini alti di un rigido legalismo”[20].
2. Colloquiano storici e procesualisti
Evidentemente, c'è qualcosa che non torna.
Abbiamo visto Monteleone giudicare Calamandrei come uno dei forgiatori dell'idea di giudice occhiuto e senza limiti, che facilmente può scavalcare le maglie del codice per cercare la verità anche oltre le allegazioni di parte.
Tarello invece scinde nel pensiero calamandreiano la paura dei regimi totalitari e la necessaria vocazione chiovendiana del nostro codice di procedura, baluardo (fascista?) della legalità.
Grossi trova uno dei motivi forti del legalismo di Calamandrei proprio nella volontà di prendere le distanze dalle derive del nazismo e del socialismo reale.
Riprendiamo allora, forti di questi primi indizi, il tagliente commento che Taruffo indirizza a Monteleone ed in cui si trova, ma altri ne troveremo, un'impressionante moltiplicazione di aggettivi, quasi il “cumulo aggettivale” di cui si ricorda come maestro William Faulkner[21].
Ecco dunque che Taruffo e Chiarloni sono “pericolosi eversori antidemocratici”[22]; l'accusa di fascismo, mossa a Calamandrei è (con le parole di Galante Garrone) “inconsistente, stolida e malvagia”[23]; l'iniziativa di far pubblicare in Italia I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo di Mirjan Damaška è “surrettiziamente eversiva”[24]; e viene citato Giulio Cianferotti, “uno storico serio e documentato e non mosso da pregiudizi ideologici”[25].
Il confronto tra Calamandrei, Carnacini, Taruffo, Galante Garrone, Cianferotti, Damaška, da una parte, e Monteleone dall'altra, assomiglia molto ad una crociata, in cui le forze del “bene”, sotto l'egida di un santificato Calamandrei, sfidano le forze del “male”, negatrici di una versione storica che appare dibattuta ma che, in fin dei conti, tale non dovrebbe essere.
Eppure Taruffo sceglie di chiamare in soccorso il quasi coevo lavoro di Cianferotti, lo storico “serio e documentato e non mosso da pregiudizi ideologici”.
Come dire che lo storico mosso da pregiudizi ideologici non è né serio né documentato il che, temiamo, sia conclusione un po' frettolosa.
Non vogliamo qui entrare in vicende complesse, che ci porterebbero ben fuori dalla rotta che ci siamo prefissati; dobbiamo però tenere a mente che Taruffo invoca il lavoro di Cianferotti non solo perché poggia su solide basi di ricerca ma anche perché è concepito da un autore “immune dal pregiudizio ideologico”.
Floriana Colao, nel suo contributo dedicato alla “vigilia” dell'entrata in vigore del codice di procedura civile, notava però che “la polarità tra autoritarismo e liberalismo come 'ideologie' del processo civile non sembra dunque una chiave di lettura appagante per leggere il pensiero di Calamandrei […]. Dal 1920 la mediazione tra interesse individuale e pubblico, autonomia privata e poteri del giudice, segnava l'impegno di Calamandrei nel processo riformatore approdato al codice del 1940”[26].
Il contributo di Taruffo gioca invece tutto sulla polarità (“fascisti”/”comunisti”; “buoni”/“cattivi”; “eversori”/“conservatori”) ma, per “segnare il punto”, chiama in aiuto lo studioso “non mosso da pregiudizi ideologici”.
Leggiamo allora, con le parole di Taruffo, il contributo di Giulio Cianferotti: “[l'autore] illustra una tesi di fondo perfettamente condivisibile, secondo la quale Calamandrei non solo non fu interprete di una ideologia fascista del processo civile (ideologia che – aggiungo io – non esisteva neppure), ma operò nel senso di evitare che il codice seguisse la deriva dell'ideologia nazista che – quella sì – implicava la violazione dei principi fondamentali dello Stato di diritto”[27].
Cianferotti ricostruisce il rapporto tra Calamandrei ed il codice di procedura partendo dalla “cronaca martellante” che il giurista tiene degli “attacchi che si succedevano al principio di legalità” e della “crisi dell'ordinamento giuridico contemporaneo, e di quel concetto di diritto soggettivo, che finora ne costituiva il pilastro centrale ed ora era oggetto della aperta guerra mossa dalla dottrina e dalle riforme del processo civile nella Germania nazionalsocialista e nella Russia sovietica”[28]; da questa preoccupazione, con lo sguardo volto al “pauroso orizzonte d'Oltralpe”[29], Calamandrei trae la forza per condurre “una battaglia di posizione, di difesa statica dei principi dello Stato di diritto”[30].
Secondo Cianferotti, dunque, “la tesi storiografica delle 'cattive azioni' di Calamandrei, dell'ambiguità 'dei suoi atteggiamenti culturali e dei suoi ruoli istituzionali', della sua presunta riduzione del principio di legalità, della 'autorità della legge', ad affermazione della 'autorità dello Stato', di aver partecipato alla redazione di un 'codice illiberale e autoritario' e averne scritto la Relazione ministeriale, troppo 'sfacciatamente fascista', 'dichiaratamente ed ostentatamente fascista', 'fascistissima', non pare considerare quella particolare tecnica letteraria […] 'in cui la verità sulle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe'; non pare tenere conto dei diversi livelli di senso che quella scrittura cela e disvela ad un tempo”[31].
A questo punto, dobbiamo introdurre l'ultimo studioso in gioco, ossia Franco Cipriani, considerato da Taruffo l'agitatore della polemica sul “Calamandrei fascista”.
Cipriani, nel suo intervento, si confronta molto garbatamente con Cianferotti, in parte condividendo, in parte criticando la “nuova interpretazione di Calamandrei”.
Il discorso, ovviamente, riserva considerazioni ben più caustiche all'indirizzo di Taruffo.
Cipriani tiene soprattutto a precisare di non aver mai considerato Calamandrei un fascista ma di aver semmai sostenuto che questi collaborò con il fascismo[32], collaborò alla stesura di un codice dal carattere “illiberale e autoritario”, disseminato di criticabili istituti[33] che, peraltro, nemmeno il passaggio ad uno Stato costituzionale sembra riuscito ad eliminare[34].
L'interpretazione di Cianferotti, sottolineando, secondo Cipriani, che “nel 1939-40 ci si trovava in una dittatura, di fronte alla quale Calamandrei dovette fare non poche piroette”, corrobora la sua idea: “io sto dicendo e ridicendo che Calamandrei collaborò con Grandi nel varare un codice illiberale e autoritario, ma ho sempre precisato che egli non poteva certo permettersi di rifiutare di collaborare e che il carattere illiberale e autoritario del codice non fu certo voluto o deciso da lui. Anzi, ho sempre dato atto che, dai documenti dell'epoca, risulta con innegabile evidenza che egli fece il possibile per limitare i danni per i diritti delle parti”[35].
Insomma, conclude Cipriani, “Taruffo non aveva motivo di oppormi tanto entusiasticamente l'interpretazione di Cianferotti”.
C'è però un passaggio del contributo di Cipriani che ci mette, almeno in parte, sull'avviso.
L'autore ammette che la sua interpretazione non abbia avuto grande successo tra i processualcivilisti, principalmente a causa del fatto che essi “preferiscono non ammettere che il codice fosse illiberale e autoritario: essi, infatti, pongono il codice al di fuori del tempo e dello spazio, limitandosi a ricordare che lo si varò con l'aiuto di Calamandrei, Carnelutti e Redenti, tre nomi che a loro avviso sarebbero una garanzia della assoluta neutralità ideologica del codice”[36].
Ritorna dunque il concetto di neutralità, di “neutralità ideologica”.Vi è dunque chi ha tentato di ricostruire la vicenda di Calamandrei e del codice di procedura in termini potentemente ideologizzati, come Giovanni Tarello; chi ha scisso la vicenda umana del giurista da quella legislativa, o meglio, l'operazione condotta dai tecnici del diritto da quella “di facciata”, promossa da Grandi e dal regime. E sappiamo ormai bene, proprio grazie alla riflessione di Giulio Cianferotti e Franco Cipriani, che l'insegnamento chiovendiano servì a qualcosa di “altro”, rispetto all'idea forse troppo semplice del grande maestro che addirittura precorre con la sua teoria l'inverarsi del nuovo codice di procedura[37].
Abbiamo ripercorso, seppur sinteticamente, il contenuto degli scritti che hanno animato la “seconda trita polemica” e possiamo ora chiederci se questo dialogare non abbia al suo interno anche una voce ulteriore, nascosta dal dibattito su Calamandrei ma ad esso, quasi furtivamente, intrecciata.
Cosa è accaduto nel nostro, dottrinalmente vivacissimo, anno 2009?
3. Il tema disvelato: i poteri del giudice
Cosa può aver spinto Monteleone a riflettere su analogie tra il nostro processo civile e quello della ex DDR? Cosa può aver spinto Taruffo a difendere, chiamando in aiuto Giulio Cianferotti, la figura di Calamandrei da qualunque sospetto di “fascismo” e Cipriani a ribadire la sua sostanziale estraneità a questa lettura politica del giurista fiorentino?
La risposta, forse parziale ma assai suggestiva, la troviamo nella recensione che Bruno Cavallone dedica ad un lavoro di Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, uscito per Laterza giust'appunto nel 2009[38].
Cavallone polemizza amichevolmente con Michele Taruffo, sul “tema inesauribile dell'accertamento della verità nel processo”[39] e, “polemizzando”, ci dà ottimi spunti di riflessione.
Il “tema dei poteri istruttori del giudice”, ci ricorda Cavallone, trae origine da una distinzione “inventata” dalla dottrina tedesca e coltivata anche da noi, tra “principio dispositivo” e “principio inquisitorio”, quest'ultimo da intendersi in senso solo “processuale o improprio”[40].
Cavallone racconta: “è accaduto così che, nei convegni internazionali di qualche decennio addietro, si sia spesso e ampiamente discettato dei poteri istruttori del giudice (civile), e dunque del confronto tra il giudice 'attivo' nella ricerca della verità e quello 'passivo', cioè ridotto al ruolo di spettatore inerte delle iniziative probatorie delle parti, come del discrimine più significativo tra i sistemi processuali 'privatistici' o 'individualistici' o 'liberali' (cioè conservatori) e quelli ispirati ad opposte ideologie 'pubblicistiche' o 'sociali' (dunque in linea di massima più evoluti, purché non sospettabili di 'autoritarismo', di destra o di sinistra)”[41].
Ecco dunque che alcune parti della nostra narrazione tornano in maniera inaspettata, ecco riapparire parole, aggettivi, concetti che abbiamo già incontrato: ricerca della verità, sistemi privatistici o pubblicistici, destra o sinistra.
Ma proseguiamo nella lettura di Cavallone.
Dopo aver dato atto che Taruffo conferma, anche in questo ultimo lavoro, la sua tesi tradizionale, secondo la quale l'esigenza di accertamento della verità presuppone “un incremento dei poteri del giudice”[42], l'autore ricorda opportunamente che nel codice del 1940, tacciato di autoritarismo anche per aver previsto, giust'appunto, un rafforzamento dei poteri del giudice[43], non vi era traccia di elementari strumenti di accertamento probatorio, come ad esempio quello di poter ordinare alle parti l'esibizione di documenti citati ma non prodotti[44].
Si giunge così ad un'equazione (apparentemente) solida, ovvero maggiori poteri del giudice uguale codice autoritario, o la sua variante politica, ovvero Calamandrei “ideatore” del codice autoritario uguale Calamandrei fascista.
È immediata la reazione di fastidio che proviamo di fronte a questa semplificazione, che però ci induce a domandarci come mai si sia finito con il mescolare, assai malamente, una questione di tecnica giuridica, come l'articolazione dei poteri istruttori del giudice, con quella del giudizio (politico) su Piero Calamandrei.
È ancora Cavallone a darci un buon indizio.
“A questo punto mi sembra però doveroso esprimere a Michele consenso e solidarietà su due non trascurabili aspetti delle sue posizioni […]. Il secondo concerne […] le polemiche riaccesesi in questi anni, nella dottrina italiana e in quella iberica, circa il presunto significato 'autoritaristico' e 'antidemocratico' dei poteri istruttorii del giudice civile. Anche qui credo che Taruffo abbia ragione nel negarlo, e abbia fatto bene (in uno scritto recentissimo) a difendersi vivacemente dalle accuse di vetero-comunismo rivoltegli da quelli che egli definisce 'neo-vetero-liberali' […].
All'inasprimento e alla scarsa chiarezza di questo dibattito hanno probabilmente contribuito due importanti fattori negativi. L'uno, di carattere storico-politico, è quello dell'essersi la polemica intrecciata con quella relativa alla matrice culturale del codice Grandi […], e alla coerenza politica e morale di Piero Calamandrei, che di quel codice fu 'relatore' e in larga parte estensore”[45].
Dunque l'idea di partenza, che dietro le varie polemiche su Calamandrei si celasse altro, trova almeno parziale conferma.
Parziale nel senso che discutere su Calamandrei non serve a “nascondere” un altro tema, come avevamo ipotizzato, bensì discutere su Calamandrei – almeno in un dato periodo della dottrina processualcivilistica italiana – equivale a discutere del tema dei poteri istruttori del giudice[46].
Naturalmente, ne discutono appunto i processualcivilisti che a volte, lo abbiamo visto, coinvolgono anche gli storici del diritto.
Riprendendo il contributo di Taruffo sui poteri probatori delle parti e del giudice, si capisce però che questa commistione è epistemologicamente sterile e del tutto inidonea a descrivere sia i modelli processuali che la forma di Stato in cui questi modelli si sono collocati.
Secondo Taruffo, infatti, “non esiste alcuna connessione tra l'attribuzione al giudice di più o meno ampi poteri di iniziativa istruttoria e la presenza di regimi politici autoritari ed antidemocratici […]. Ancora una volta, tuttavia, emerge l'esigenza fondamentale di evitare confusioni concettuali ed ideologiche: un sistema può non ispirarsi all'ideologia del liberalismo ottocentesco, senza con questo cessare di essere democratico, e soprattutto senza diventare autoritario o totalitario sol perché si attribuisce al giudice un ruolo attivo nell'acquisizione delle prove”[47].
Si capisce che Taruffo, inizialmente, sarebbe propenso a tralasciare del tutto il complicato intreccio tra tecnica processuale, ossia poteri del giudice, e politica legislativa, ossia Piero Calamandrei.
Però poi, nel 2009, anche lui non può fare a meno di gettarsi in questa irresistibile controversia, spiegando di fronte al lettore la scacchiera con i bianchi e con i neri.
È possibile dunque che la citazione del lavoro di Cianferotti, lo studioso scevro da pregiudizi ideologici, abbia consentito a Taruffo di “giocare” la grande partita dell'interpretazione di Calamandrei, anche con uno strumento concettuale di non esclusiva appartenenza processualcivilistica e, dunque, con uno strumento non segnato dal binomio tecnica/politica del diritto.
Alla fine, che sia questo un intreccio più o meno inossidabile, ce lo ricorda proprio il nostro convitato di pietra.
Nel 1951, parlando della teoria di un “maestro del liberalismo processuale”, James Goldschmidt, Calamandrei dice che “nel processo civile […] due concezioni si contrastano il campo (ma spesso vengono a patti e se lo dividono): quella che affida la ricerca della verità alla responsabilità e alla discrezione del giudice, dinanzi al quale le parti appaiono come oggetto passivo di indagini alla mercé dell'interesse pubblico, e quella che affida lo svolgimento del processo soprattutto allo stimolo dei contrapposti interessi di parte, e che conta, per la riuscita della giustizia, sulla collaborazione e sulla responsabilità dei contendenti […]. È noto che questi due modi di concepire la amministrazione della giustizia (il processo inquisitorio e il processo dispositivo), sono proiezioni nel campo della tecnica processuale di due diversi modi di concepire lo Stato e le relazioni che passano tra l'interesse pubblico e l'interesse individuale, tra l'autorità e la libertà dei cittadini”[48].
Siamo però oramai fuori dalla drammatica stagione della dittatura e della guerra e al Calamandrei dell'ultimo scorcio nessuno rimprovera forse più nulla.
Anzi, proprio la scelta di rileggere la teoria processualistica del Goldschmidt dà ragione a Paolo Grossi, quando afferma che “ora, davanti all'osservatore lucido del proprio tempo c'è solo la storia, la storia di tutti i giorni con il suo fardello di miserie reali, con i suoi segni che l'intellettuale è chiamato a leggere malgrado il loro messaggio disperante”[49].
E questa maggiore semplicità – che non è ovviamente semplicismo ma straordinaria capacità di lettura e di sintesi – si ritrova anche in uno degli ultimi contributi di Piero Calamandrei sul giudice istruttore.
Siamo nel 1955 e si parla ancora di concezione pubblicistica e privatistica del processo civile, di come il codice del 1942 sia un codice ispirato alla prima concezione, “per la quale anche il processo civile persegue uno scopo di pubblico interesse”[50].
Però si parla anche di avvocati che rimpiangono il codice del 1865, quando si poteva “fare tranquillamente l'avvocato” rimanendo nel proprio studio “a ricevere i clienti e a studiare le cause”[51].
Oppure di giudici istruttori che “o per timidezza o per comodità, non si servono neanche dei poteri che hanno”, nonostante alcuni avvocati li considerino “espressione di un eccessivo autoritarismo”[52].
L'occhio di Calamandrei contempla, ormai con la veggenza dei saggi, ciò che pure si cela dietro alle grandi battaglie ideologiche, politiche e dottrinali.
Non ci sono solo le umane piccolezze, ma è importante non dimenticarle: “la conclusione di queste mie osservazioni vuole essere ancora una volta un richiamo alla sincerità e alla chiarezza di idee”[53].
Speriamo di aver dato seguito meglio possibile al monito di Piero Calamandrei.
[1] Sul punto si vedano almeno M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal '700 ad oggi, Bologna 1980; G. Tarello, Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile, Bologna 1989; F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d'Italia (1866-1936), Milano 1991; Id., Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli 2009; Id., Piero Calamandrei, la Relazione al re e l'apostolato di Chiovenda, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LI (1997), pp. 749-765. Per una primissima indicazione bibliografica, G. Stanco, Il processo civile in Italia e la dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato (XIX-XX sec.), in “Judicium Il processo civile in Italia e in Europa”, 2021 [https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2021/12/G.-Stanco-1.pdf].
[2] In “Rivista di diritto processuale”, LXIV (2009), pp. 1-13.
[3] “Si è qui scelto il pensiero di due autorevoli rappresentanti della nostra dottrina processuale sia perché essi rappresentano in modo esemplare una concezione del processo e della giurisdizione civili tutt'ora ben presente e seguita, sia perché essa ebbe sicuramente ad influenzare la stesura del codice, come fedelmente testimonia la sua relazione di accompagnamento” (ibid., p. 8).
[4] Ibid., p. 8.
[5] In realtà, M. Taruffo, Poteri probatori del giudice e delle parti in Europa, in “Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile”, LX (2006), pp. 431-432; S. Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LVIII (2004), pp. 447-472.
[6] “Sarebbe, però, ingeneroso criticare con il facile senno di poi quei nostri maestri predecessori che maturarono le loro convinzioni in epoca diversa e in un tessuto normativo egualmente diverso da quello odierno. Non si può rimproverare loro di non aver saputo prevedere il futuro, e quindi restano immutati, pur nel dissenso, la devozione ed il rispetto loro comunque dovuti” (G. Monteleone, Intorno al concetto cit., p. 11).
[7] M. Taruffo, Per la chiarezza di idee su alcuni aspetti del processo civile, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LXIII (2009), pp. 723-730. Segue una postilla, a firma di Federico Carpi ed Umberto Romagnoli, ad ulteriore difesa del maestro Tito Carnacini, pure tirato in ballo da Monteleone.
[8] F. Cipriani, Una nuova interpretazione di Calamandrei, in “Il giusto processo civile”, III (2009), pp. 947-959.
[9] G. Cianferotti, Ufficio del giurista nello Stato autoritario ed ermeneutica della reticenza. Mario Bracci e Piero Calamandrei: dalle giurisdizioni d'equità della grande guerra al codice di procedura civile del 1940, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 2008 (37), pp. 259-323.
[10] L'intervento di Taruffo viene giudicato “uno scomposto e pesante attacco personalistico dai toni sempre scortesi o eccessivi, talvolta fin'anche ingiuriosi” (G. Monteleone, Le idee confuse del Prof. Taruffo, in “Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile”, 2009 (LXIII), p. 1139.
[11] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 724.
[12] Bisogna naturalmente tenere a mente che “definiva 'oggettivamente' vicini al fascismo i giuristi che si discostavano dalla concezione liberale ottocentesca del processo G. Tarello, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione […]. Soprattutto Cipriani verso la fine degli anni Ottanta ha insistito sul contributo di Calamandrei ad un codice autoritario” (F. Colao, Piero Calamandrei e la “vigilia” della riforma della giustizia civile. Dalla Prolusione del 1920 per “Studi Senesi” al codice del 1940, in “Rivista di Studi Senesi” CXXXII (2020), p. 33 nt. 122).
[13] G. Tarello, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, VII (1977), pp. 147-167.
[14] “Nella formazione spirituale del Calamandrei erano stati operanti non pochi elementi (l'autoritarismo statalistico, il nazionalismo, l'élitismo) che sarebbero di lì a poco confluiti nell'ideologia del regime fascista. Anche le prime prese di posizione politiche del giurista (l'acceso interventismo, e poi le simpatie nazionalistiche e l'antisocialismo) erano quelle comuni a tanti membri della giovane borghesia del periodo della prima guerra mondiale, destinati a divenire gli operatori ed i quadri del regime fascista. Al fascismo tuttavia Calamandrei non solo non aderì (se non formalmente, quando ciò divenne obbligatorio pena la perdita della cattedra), ma anzi ne fu tenace e più tardi tenace e coraggioso e cospirativo avversario” (ibid., p. 158).
[15] Ibid., pp. 161-162. Il riferimento è a P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, ora in Id., Opere giuridiche, vol. I, Roma 2019, pp. 427-449.
[16] G. Tarello, L'opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, I (1973), pp. 681-787.
[17] “L'opera di Chiovenda si colloca chiaramente agli albori di una tendenza ideologica e istituzionale, nell'Italia del primo ventennio del secolo, al ribaltamento dei presupposti e dei principi organizzativi dello stato liberale, nella direzione di una organizzazione statale autoritaria […]. Non intendo fare qui la storia della fortuna di Chiovenda; essa coincide con la storia della riforma del processo civile del regime fascista” (ibid. p. 787).
[18] “Con un codice di procedura semplice quale quello di allora […], preparava, col 'sistema', una legislazione che con la scusa di dare più poteri direttivi al giudice lo avrebbe costretto in una fitta maglia di formule legislative concettualistiche tali da rendergli difficile capire quando il potere c'è e quando non c'è; e, con una legge processuale onnipervadente, il giudice avrebbe avuto con l'apparenza di più potere direttivo ben maggiore soggezione alla legge processuale” (ibid., p. 760).
[19] P. Grossi, Lungo l'itinerario di Piero Calamandrei, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LXIII (2009), pp. 865-885.
[20] Ibid., pp. 873-874.
[21] “Da un po' dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l'ufficio perché così l'aveva chiamato suo padre - una buia stanza calda senz'aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati” (W. Faulkner, Assalonne, Assalonne!, Milano 2001, p. 1).
[22] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 724.
[23] Ibid.
[24] Ibid., p. 726.
[25] Ibid., 725.
[26] F. Colao, Piero Calamandrei e la “vigilia” cit., pp. 26-27.
[27] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 725.
[28] G. Cianferotti, Ufficio del giurista cit., pp. 273-275.
[29] Ibid., p. 330.
[30] Ibid.
[31] Ibid., pp. 289-291.
[32] “Taruffo non ha precisato quando e dove avrei parlato o scritto di 'Calamandrei fascista', ma non credo che avrebbe potuto farlo, perché io, in verità, non solo non ho mai fatto una simile affermazione, ma ho sempre tenuto fuori discussione che Calamandrei non è mai stato fascista. Ho invece più volte detto e scritto che Calamandrei collaborò col fascismo, ma trattasi di un'affermazione che non so come possa essere seriamente contestata, atteso che è storicamente certo che egli collaborò col guardasigilli fascista Dino Grandi nella preparazione del c.p.c. del 1940, dell'ordinamento giudiziario del 1941 e del c.c. del 1942” (F. Cipriani, Una nuova interpretazione cit., p. 947).
[33] “Giudice istruttore, valanga di termini perentori, preclusioni, nullità ed estinzioni, poteri discrezionali del giudice, anche di ordinare l'ispezione corporale dei terzi, sostituzione delle sentenze appellabili con le ordinanze inimpugnabili, divieto di impugnare immediatamente le parziali, ivi compreso quelle su domanda”( ibid., p. 955).
[34] Si pensi all'art. 70, che prevede la partecipazione obbligatoria del pubblico ministero, ad esempio, nelle cause matrimoniali o relative allo stato ed alla capacità delle persone e che gli consente di intervenire “in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse”. L'art. 118, che consente al giudice di disporre ispezioni corporali sulle parti e sui terzi; se si rifiuta la parte, può essere condannata al pagamento di una pena pecuniaria “da euro 500,00 a euro 3.000”, se si rifiuta il terzo, la pena è compresa va da “euro 250 a euro 1.500”. Si noti che l'inserimento della pena pecuniaria per il terzo risale al 2009, mentre quella per la parte al 2022 (!). L'art. 128 dispone che l'udienza sia pubblica “ma il giudice che la dirige può disporre che si svolga a porte chiuse, se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume. Il giudice esercita i poteri di polizia per il mantenimento dell'ordine e del decoro e può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni”.
[35] F. Cipriani, Una nuova interpretazione cit., p. 958.
[36] Ibid. p. 959.
[37] Ibid., pp. 955-957.
[38] B. Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in “Rivista di diritto processuale”, LXV (2010), pp. 1-26. A cui risponde M. Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in “Rivista di diritto processuale”, LXV (2010), pp. 995-1011.
[39] Ibid., p. 1.
[40] “Personalmente ho sempre preferito la equivalente distinzione di Benvenuti tra il 'metodo dispositivo' e il 'metodo acquisitivo', più idonea a sottolineare che, in un 'processo di parti', anche il giudice più freneticamente attivo nell'acquisizione delle prove non può 'inquisire' proprio nulla” (ibid., pp. 12-13).
[41] Ibid., p. 13.
[42] Ibid., p. 14.
[43] Taruffo è chiaro nel ritenere che “Chiovenda non muove da un'ideologia autoritaria […], ma dalla convinzione che senza un più robusto esercizio dell'autorità dello Stato nel processo – attraverso un più spiccato ed attivo ruolo del giudice, in un procedimento strutturalmente rinnovato – questo non potrebbe mai diventare uno strumento efficiente per l'amministrazione della giustizia” (M. Taruffo, La giustizia civile cit., p. 190). Del resto Calamandrei, nel decennale della morte di Chiovenda, aveva già affermato che “c'è veramente nella sua dottrina […] la sintesi di due esigenze, l'incontro delle quali riproduce, nel microcosmo del processo, la dialettica del progresso sociale: l'oralità, la semplicità delle forme, l'immediato contatto tra le parti e il giudice costituiscono la garanzia pratica della libertà individuale, che trova nel processo, senza l'ostacolo di insidiosi formalismi, la agevole salvaguardia del diritto soggettivo; ma, d'altro lato, il dovere di lealtà processuale, i poteri dati al giudice per chiarire d'ufficio la verità, e la disciplina della iniziativa privata messa a frutto come forza motrice per raggiungere fini di interesse pubblico, rappresentano la garanzia della giustizia, intesa come esigenza di solidarietà e di reciprocità sociale” (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937-5 novembre 1947), in “Rivista di diritto processuale”, 1947, p. 178.
[44] “Commentando l'art. 281 ter c.p.c., ho tra l'altro criticato il fatto che il nostro legislatore non abbia ivi parallelamente previsto anche il potere del giudice di ordinare d'ufficio l'esibizione dei documenti menzionati dalle parti ma non prodotti (previsione già assente, del resto, anche da quel 'manifesto inquisitorio' che è, per il processo del lavoro, l'art. 421 c.p.c., con il risultato che quel giudice, teoricamente autorizzato ad assumere qualsiasi iniziativa, non può in realtà assumere, secondo la giurisprudenza, nemmeno questa, pur così modesta e ragionevole (al contrario di quel che tranquillamente facevano i giudici ordinari, in assenza di qualunque previsione normativa a riguardo, nel vigore del codice paleo-liberale del 1865)” (B. Cavallone, In difesa cit., p. 15).
[45] Ibid., p. 16.
[46] Sul problema della ricerca della verità ed anche sulla sostanziale vicinanza tra istruttoria civile e penale, Calamandrei ammoniva che “la contrapposizione tra verità reale e verità formale, colla quale qualche processualista ha creduto di esprimere in formula sintetica una essenziale diversità di oggetto tra l'istruttoria penale e l'istruttoria civile […], non corrisponde in alcun modo alla vera natura dei due processi, i quali, sia pur servendosi di diversi metodi d'indagine, mirano allo stesso unico scopo che è la ricerca della verità, della verità semplice ed una, senza aggiunte e senza qualifiche. Le restrizioni che alla libera indagine del giudice sono poste nel processo civile, e specialmente nel processo a tipo dispositivo, non mirano infatti a render meno penetrante e meno esauriente la ricerca della verità, ma mirano anzi a utilizzare come strumenti di indagine, più sensibili e più solleciti di ogni sagacia del giudice, i vigili interessi delle parti contrapposte, ciascuna delle quali, per mettere in evidenza quella parte di verità che le giova, è pronta a prender su di sé, con impareggiabile zelo, il compito della investigazione” (P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in “Rivista di diritto processuale civile”, XVII-XVIII (1939), pp. 114-115.
[47] M. Taruffo, Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, ora in AA.VV., Le prove nel processo civile. Atti del XXV Convegno nazionale. Cagliari 7-8 ottobre 2005, Milano 2007, p. 73.
[48] P. Calamandrei, Un maestro del liberalismo processuale, ora in Id., Opere giuridiche, vol. X, Roma 1919, pp. 323-324.
[49] P. Grossi, Lungo l'itinerario cit., p. 882.
[50] P. Calamandrei, Il giudice istruttore nel processo civile, ora in Id., Opere giuridiche, vol. V, Roma 2019, p. 646.
[51] Ibid., p. 645.
[52] Ibid., p. 647.
[53] Ibid.
Recensione di Vietnam Soul di Nguyễn Huy Thiễp (2018 Ibis, Como-Pavia; 2025 GEDI News Network Spa,Torino)
Se si digita sul web il nome dell’autore (Hanoi, 29 aprile 1950 – 20 marzo 2021), si legge dappertutto che è considerato il maggior scrittore vietnamita contemporaneo, spesso paragonato ad Anton Čechov.
Vietnam Soul è una raccolta di 17 racconti, l’ultimo dei quali ne contiene dieci molto brevi. Tutto si svolge in Vietnam, ma non durante la guerra, che sempre ricordiamo quando si parla di quella nazione. Nel libro, semmai, si può intravedere l’indebolimento degli ideali rivoluzionari di quel tempo e dei legami comunitari. I racconti sono diversi, quasi mai in sequenza l’uno con l’altro, e rimandano a storie che si svolgono in vari villaggi lontani dalle città più grandi, nelle campagne, in zone montagnose impervie o vicine a fiumi e laghi, il che consente una descrizione orgogliosa della natura di quello stupendo Paese: “un mese dopo i festeggiamenti del Tết (il Capodanno lunare del Vietnam)..sugli alberi spuntano le gemme, il bosco si colora di un verde umido e denso. La natura assume un aspetto solenne e al tempo stesso tenero, affettuoso” (dal racconto “Il sale della foresta”). La forza del popolo vietnamita è ben nota, ma qui emergono anche particolarità e differenze tra le vite dei protagonisti dei racconti descritte nelle loro plurime sfaccettature.
Bastano i titoli dei racconti per immaginarne i contenuti che è qui impossibile sintetizzare tutti: nel “Generale in pensione”, un ingegnere parla dei suoi vicini e dei familiari, tra cui il padre che muore in guerra ed è seppellito nel Cimitero degli eroi di Cao Bang, a nord di Hanoi. Si parla di morte, cimiteri e riti anche nel secondo racconto,“Senza re”, dove però c’è soprattutto la vita perchè la morte non è mai senza speranza: dopo le lacrime, si riparte dal banchetto per la morte del defunto, si accendono gli incensi agli avi ed altra vita scorre davanti ai nostri occhi,
Nel quarto racconto, tutto si spiega con il triste canto che, in un tempo remoto, riecheggia dalla riva opposta di un piccolo fiume: “Scorri, scorri, piccolo fiume caro, perché ti preoccupi? Il fiume offre tutto. Eroe, che altro desideri?”. Ma in “Lezioni dalla campagna”, il protagonista è un aquilone che si libra stabile nel cielo di una campagna vicina al villaggio di Thach Dao, dove in tanti pestano il riso tra i colori dei fiori e dove un ragazzo che vi ha passato giorni di vacanza, dice addio all’innocenza ed alla giovinezza, sperando che la sua anima non diventi torbida e che la futura ricerca della ricchezza, della celebrità e della felicità non lo tormenti: ma di certo non si può vivere nella paura (“qual è l’aquilone cui, almeno una volta,/ non si spezza la corda?”). E dunque è giusto reagire con sereno coraggio: “andai avanti, sempre avanti” – dice il protagonista - “Attraversai campi, fiumi. Il sole era sempre dinanzi a me..Ricorderò sempre, avevo diciassette anni allora”.
E’ affascinante e stimolante il racconto su “La figlia della Dea dell’Acqua”, ritrovata ai piedi di un secolare albero di mango sul greto del fiune Cai, mentre “La spada tagliente” racconta la lotta per la conquista del potere alla fine del XVIII secolo tra antiche dinastie e le rivolte contro il regime dei Nguyễn.
L’originalità e lo spessore dell’autore si desumono anche dal racconto “La febbre dell’oro”, pure ambientato in tempi lontani, quelli della storia più antica del Vietnam, ove tre finali diversi e possibili vengono affidati al lettore che così “sceglierà il più congeniale” per sé.
Anche l’amore trova spazio nel libro e non solo nel racconto “Una storia d’amore in una notte di pioggia”, dedicata a Bac Ky Sinh dell’etnia Thai che vive una lunga e triste storia con la giovane e bella Muon, cui non è capace di dare ciò che lei vuole.
In “Gente d’altri tempi”, un giovane insegnante ventenne che ha scelto di trasferirsi e lavorare in un paese sperduto tra le montagne ascolta un collega che gli spiega come la scuola in cui lavorano (e non solo quella) ha il solo scopo di far credere alla gente di vivere in un mondo ben organizzato, mentre il mondo è costruito sul caos e non conosce regole.
Mi concedo ancora una citazione, quella di “Attraversando il fiume”, l’avventura breve di un bonzo, un poeta, un insegnante, un bandito, due mercanti d’antichità, una mamma con il figlio di nove anni, una coppia di innamorati e della barcaiola che deve trasportarli sull’altra sponda. Una tragedia sembra poterlo impedire, ma alla fine l’approdo arriva ed il solo bonzo rifiuta di scendere a terra dicendo che lo farà un’altra volta: “Volere è potere. Una volta Buddha attraversò il fiume sopra un ramoscello d’erba”,
“Vietnam Soul” si conclude con il discorso pronunciato da Nguyễn Huy Thiễp in occasione dell’attribuzione del premio Nonino 2008 (Percoto – Udine): “Sono nato, cresciuto e ho vissuto come scrittore in un paese agricolo povero... mia madre è una contadina. Nel 1950, alla mia nascita, la popolazione del mio Paese era di circa 30 milioni di abitanti, di cui il 90% analfabeta. Oggi la situazione è molto diversa… la popolazione è di poco più di 80 milioni di abitanti, con un tasso di analfabetismo del 15% circa. In Vietnam la letteratura sta sviluppandosi a ritmo straordinario, come altri campi della vita economica e sociale... Attualmente vivo nella capitale, i miei figli non conoscono le attrezzature agricole, leggono i libri e li trovano noiosi, leggono le notizie solo su Internet e giocano al computer con i videogames.. Nel nostro paese, con il ritmo di sviluppo attuale, la campagna si sta sgretolando, alla gente manca la terra, tutto assomiglia a un cantiere in disordine. La nuova vita con le nuove opportunità sta spazzando via impetuosamente i villaggi, le famiglie, ciascuno di noi. Ciò non significa che non vi sia nulla di positivo, anzi è un fatto formidabile. Però nascono altre questioni alla vista di tutti…In che modo la letteratura possa impegnarsi nello sviluppo della vita moderna e che ruolo possa avere è la domanda che ogni scrittore oggi pone”.
La risposta di Nguyễn Huy Thiễp alla domanda che egli stesso si è posto sta tutta in questo ricchissimo libro pieno di racconti che consentono al lettore di riflettere su piccole e grandi storie di una varia umanità alle prese con i successi individuali spesso illusori, con le contraddizioni del Vietnam dei giorni nostri, che hanno posto il denaro al centro di ogni discorso pubblico e privato, tanto che alla domanda di Ton “Che cosa sono i soldi?” Khiem, che lavora ininterrottamente ogni giorno, risponde: “Il nostro Re” (racconto “Senza Re”). Non ci sono eroi tra i personaggi del libro, ma persone che sanno dignitosamente affrontare l’esistenza quotidiana in un Vietnam che, nonostante tutto, rimane un affascinante e luminoso inno alla vita.
Sommario: 1. Novità dal Congresso - 2. Il caso dei magistrati sostituti spagnoli – similitudine e differenze con l’Italia - 3. Magistratura onoraria. La nuova figura di Giudice Professionale non di carriera.
1. Novità dal Congresso
Come ogni anno Enalj, rete europea di magistrati laici ed onorari, si è riunita in Congresso. Quest’anno l’onore di ospitare l’evento è spettato all’Italia.
Nelle giornate del 9 -11 maggio sono giunti a Bergamo delegazioni di Austria, Belgio, Bulgaria, Finlandia, Germania, Polonia, Spagna e Svezia che si sono unite alle delegazioni italiane rappresentate dalle associazioni Unimo e Angdp per festeggiare la giornata del Giudice laico ed onorario e per confrontarsi su temi comuni.
Quest’anno l’Italia aveva sicuramente un motivo in più per festeggiare, posto che il primo maggio è entrata in vigore la L. 51/2025 concernente la riforma della magistratura onoraria che si applica ai magistrati onorari c.d. di lungo corso che dopo una procedura valutativa sono stati confermati nella funzione.
La novità è stata accolta positivamente dai colleghi europei che hanno sostenuto per anni i magistrati italiani nelle loro battaglie.
Sono stati illustrati i punti fondamentali della riforma ed evidenziate le criticità che ancora non sono state sanate dalla nuova legge, che tuttavia è migliorativa rispetto alla disciplina precedente.
Enalj cresce ogni anno, e dopo la costituzione di un comitato che elabori un codice etico per l’associazione, è stata voltata all’unanimità la proposta di istituire in seno ad Enalj un Comitato di Pari Opportunità al fine di sensibilizzare tutti i membri e le singole istituzioni sul rispetto della parità di genere. Tale comitato avrà il compito di vigilare e dare voce ai magistrati onorari e laici che possano subire disparità di trattamento, segnalando le situazioni a rischio soprattutto in alcuni paesi membri.
2. Il caso dei magistrati sostituti spagnoli – similitudine e differenze con l’Italia
Ulteriore novità di quest’anno è rappresentata dalll’ingresso nella rete Enalj di ben tre associazioni di magistrati non di carriera spagnoli, si tratta di Asociación Plataforma Judicatura Interina (APJI) intervenuta con la Presidente Inmaculada Domínguez Oliveros, dell’Associazione “Pro dignidad” dei Giudici Sostituti Supplenti di Spagna con la Presidente Lydia Polo Alba e dell’Asociación de Abogados Fiscales Sustitutos de España, AAFS, con la Presidente Rosa Navarro.
Si tratta di magistrati non di carriera, laureati in giurisprudenza, nella maggior parte dei casi abilitati quali avvocati, che svolgono le funzioni giudiziarie presso i Tribunali e le Procure spagnole sostituendo i magistrati ordinari, sia in caso di assenza per malattia o altra impossibilità del magistrato ordinario, sia in caso di vacanza dei ruoli.
Per accedere a tale professione occorre sostenere una procedura valutativa da ripetere ogni anno. Tali magistrati svolgono le stesse funzioni dei magistrati di carriera, non vi sono limitazioni di competenza, né per materia né per valore.
Ai colleghi spagnoli è richiesta una disponibilità di 365 giorni l’anno, 24 h su 24 h, poiché debbono essere prontamente reperibili in caso necessiti una sostituzione di un giudice di carriera e, se non rispondono prontamente, rischiano di essere sottoposti a sanzione disciplinare e vedersi pregiudicata la possibilità di accedere all’esame di riconferma annuale.
Nel report che è stato sottoposto al congresso i magistrati sostituti spagnoli hanno riferito delle condizioni gravose in cui si trovano a lavorare, senza diritti, senza poter organizzare la propria vita in quanto debbono rimanere sempre a disposizione, senza certezza di lavoro, poiché le sostituzioni posso essere di pochi giorni o di alcuni anni, ma a volte rimangono senza lavoro per mesi tra una supplenza e l’altra.
Questa situazione si trascina da molti anni, posto che alcuni di essi svolge la funzione di Giudice Supplente da oltre venti anni.
A differenza dei magistrati italiani non esclusivi, i giudici spagnoli, non possono svolgere altra attività (salvo qualche ora di insegnamento) in quanto soggetti alle medesime regole di incompatibilità previste per i Giudici di Carriera.
È altresì emerso che questa sia una professione esercitata per la maggior parte da donne, e la ragione è evidente.
I magistrati spagnoli da tempo invocano al governo spagnolo una soluzione legislativa che ponga fine ad anni di ingiustizie e violazioni delle norme euro unitarie sul diritto del lavoro.
La Sentenza C-658/18 della Corte (Seconda Sezione) del 16 luglio 2020. UX contro Governo della Repubblica italiana è stata più volte invocata dai Giudici Sostituti spagnoli senza tuttavia ottenere un risultato. Attualmente è allo studio, e sarà licenziata una legge che tuttavia non recepisce i precetti sanciti nella sentenza sopra citata, e per tale ragione Enalj si è impegnata ad inviare una lettera di supporto ai magistrati spagnoli così come in passato è stato fatto per l’Italia.
La soluzione adottata dall’Italia, anche all’esito delle lettere di infrazione da parte dell’Unione Europea, è guardata con ammirazione non solo dai colleghi spagnoli che auspicano una soluzione simile, ma anche da altri colleghi europei, poiché anche da altre parti ci si sta sempre più rendendo conto che il lavoro dei magistrati, siano essi onorari o laici (per esempio esperti in diritto commerciale o di diritto agrario) è un impegno importante, che richiede ore di studio dei fascicoli, professionalità nella trattazione dei casi, e tale impegno va giustamente remunerato.
3. Magistratura onoraria. La nuova figura di Giudice Professionale non di carriera
Da tempo i magistrati onorari italiani si pongono una domanda che è stata discussa con altri colleghi europei. Possiamo ancora sostenere che i magistrati italiani si debbano definire onorari?
Dell’onorarietà a dire il vero non hanno mai avuto alcun carattere. Da sempre sono stati inquadrati all’interno dell’organizzazione giudiziaria, soggetti alle direttive dei capi degli uffici, con previsione di ruoli esclusivi, carichi di lavoro e obblighi di rendimento, nonché obblighi formativi e di rispetto dei principi etici.
Quello che emerge dal confronto con i colleghi europei è che il magistrato italiano così come quello spagnolo è un giudice che, sebbene non possa dirsi di carriera poiché non ha sostenuto il concorso previsto per i giudici ordinari, ha sostenuto una prova valutativa, è soggetto a verifiche periodiche, ha un obbligo formativo, decide applicando la legge, pronuncia sentenze che hanno lo stesso valore di quelle pronunciate dai giudici ordinari.
A questi magistrati viene richiesta la stessa preparazione e conoscenza delle norme richiesta ai giudici di carriera, con la sola limitazione per quanto concerne la competenza per materia e valore. Tuttavia si osserva che una causa civile che abbia un valore di dieci mila euro può avere le stesse problematiche giuridiche di una causa con valore superiore, ragione per la quale non ci sono differenze nella preparazione e nello studio dei singoli processi tra giudici di carriera e non di carriera.
Ricordiamo che anche i giudici non di carriera sono chiamati a conoscere oltre alle norme interne anche le norme europee, essi sollevano questioni pregiudiziali e sono stati formati tramite un corso che ha coinvolto vari paesi europei, sulla conoscenza della Carta Europea e del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, formazione peraltro auspicata ed inserita nelle Conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea sul rafforzamento dell’applicazione della Carta dei Diritti Fondamentali, che al punto 23) recita “il Consiglio esorta gli Stati membri a valutare ulteriori possibilità di miglioramento della competenza della magistratura e degli altri operatori della giustizia in merito alla Carta, attingendo a materiale formativo dedicato, compresi gli strumenti di e-learning. Il Consiglio suggerisce che gli Stati membri incoraggino le reti di giudici, di giudici onorari e laici e di altri operatori della giustizia a porre rinnovata enfasi sull’applicazione della Carta a livello nazionale, in particolare cooperando in materia di formazione e condivisione delle pratiche e avvalendosi del sostegno e degli strumenti offerti dalla Commissione, dalla rete europea di formazione giudiziaria (di seguito “REFG”) e dalla FRA”.
Per questa ragione i magistrati non di carriera italiani esortano altresì lo Stato italiano e la Scuola di Magistratura ad aprire anche a tale categoria i percorsi di studio internazionale che, per ora, in assenza di una previsione, sono stati comunque svolti grazie a progetti finanziati dall’Unione Europea, tra i quali il progetto Select (https://selectproject.eu).
Ed allora ci si chiede, perché continuare a chiamare onorari questi giudici? Perché chiamarli semi professionali o non professionali, quando in realtà è evidente il contrario? Non sarebbe più giusto chiamarli semplicemente Giudici?
I magistrati italiani sono innanzitutto Giudici Europei, sono magistrati professionali, con anni di esperienza acquisita, semmai si può affermare che siano essi magistrati non di carriera, ma il termine onorario non gli si addice e mortifica la loro dignità professionale.
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