ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi osservazioni di carattere tecnico e culturale su “Proposte normative e note illustrative” rese pubbliche dal Ministero della Giustizia di Andrea Proto Pisani
Molto sinteticamente si osserva quanto segue.
1) Ufficio del processo.
- Estrema varietà dei criteri di selezione senza indicazione, almeno in prospettiva, di criteri unitari.
- Non si accenna neanche al rapporto di lavoro, se non che è a tempo determinato; né all’impegno settimanale, né alla retribuzione, né al trattamento di previdenza e assistenza. Si ignorano gli interventi della Commissione e della Corte Europea di Giustizia.
2) A.D.R.: carattere tutto corporativo cui ci si ispira, senza capirne il perché.
- Sul piano culturale la ratio e il valore della mediazione – comunemente insegnato dagli esperti di questa materia – è il suo fondarsi sul consenso delle parti nel volere utilizzare l’attività di un terzo per pervenire ad una soluzione condivisa.
- Il getto della recente decisione della Corte di Cassazione riguardo ai soggetti che devono partecipare al primo incontro, sa di ripicca.
- La impossibilità di delegare l’avvocato, con la forma della autentica in calce o a margine, è anche qui pura ripicca, anche perché la procura per scrittura privata, se non se ne contesta l’autenticità della sottoscrizione, è forma con cui si può disporre o transigere controversie relative a materie anche di immenso valore, salvo ovviamente la necessità dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata per la trascrizione ecc.;
- Quanto alla mediazione delegata dal Giudice: in grado d’appello è follia; ma è follia perché il lavoro di selezione consentirebbe al Giudice di risolvere la controversia con estrema semplicità;
- Viene, a pensare male, prevista perché in questo modo si individuano le uniche ipotesi di mediazione in cui la percentuale delle controversie risolte con l’accordo è elevata o elevatissima.
Concludendo, sulla base del consenso tutto è delegabile (si pensi alla delega attualmente prevista dal Giudice della separazione giudiziale) ma il prevedere la mediazione obbligatoria condizione di procedibilità costituisce un inutile appesantimento e allungamento dei tempi della giustizia civile.
3) Appello.
Si tratta della parte migliore delle proposte, sol che:
- si sopprimessero i filtri;
- si aprisse ai nova: essenziali per rimediare agli errori di uno dei 245 mila avvocati esistenti;
- si prospettasse nella relazione l’opportunità di eliminare, di sopprimere tutte le ipotesi di inappellabilità delle sentenze (o provvedimenti analoghi), di primo grado, allo scopo di assicurare l’unico vero filtro – allo stato – immaginabile al ricorso in Cassazione.
4) Cassazione: è disdicevole intervenire per legge sul giudizio di Cassazione una volta ogni cinque anni o addirittura meno.
Gli interventi veri sulla Cassazione dovrebbero probabilmente agire sull’interpretazione del secondo comma dell’art. 111, modificando l’intepretazione che incautamente la Cassazione stessa, senza prevedere le tragiche conseguenze che ne sarebbero determinate, determinò quando dal 1956 in poi sottrasse alla Corte costituzionale (entrata in funzione quell’anno) il controllo di costituzionalità delle norme che escludono il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti aventi forma diversa da quella di sentenza.
Inoltre, nulla si dice circa il controllo dei diritti del contribuente tramite il ricorso per Cassazione con il suo relativo ingolfamento.
5) Giudice di Pace (e cenni sui Giudici onorari in genere).
- In via preliminare nulla si dice sui criteri di selezione e del rapporto di lavoro (indeterminato, retribuzione, ecc.).
- Il criterio del valore è cieco, lo si ripete per l’ennesima volta.
- Scelta la materia, sarebbe molto più semplice assicurare la specializzazione del Giudice non togato.
Considerazione pratica: i danni anche elevatissimi alla persona da infortunistica stradale, in pratica sono determinati prima dal C.T.U., poi normalmente dalle “tabelle” o in mancanza da altro C.T.U. Anche questa ovvietà è ignorata dai nostri aspiranti legislatori.
Sul piano delle scelte culturali:
- un solo Giudice onorario di primo grado, competente solo per materie predeterminate e non di volta in volta previste dal Presidente di sezione o dai singoli Giudici togati. Ovviamente la disciplina dell’eventuale incompetenza dovrebbe essere semplificata al massimo perché si resterebbe pressoché sempre nell’ambito del “circondario”.
- Ovvia necessità della previsione dei criteri di selezione e di disciplina del rapporto.
6) Volontaria giurisdizione.
- Ci si dimentica di prevedere una disciplina adeguata alle ipotesi più delicate costituite dalla “gestione di interessi” che incidono su diritti: queste ipotesi costituiscono il nucleo forte su cui mi sembra l’ampia riflessione dottrinale abbia richiamato con forza l’attenzione (vedi gli studi di Civinini, Montesano, Lanfranchi e, se si vuole, la sintesi da me tentata nelle Lezioni).
7) Esecuzione forzata.
Non sono competente della materia, ma mi sembra che la vendita telematica avrebbe meritato di essere considerata, così come probabilmente sarebbe stata necessaria quantomeno la consultazione di qualche esperto in materia notarile.
8) Controversie in materia di famiglia e di minori.
è questo il settore in cui più si avvertono veri e propri svarioni culturali.
Si prevede in via generale l’istituzione di un Tribunale della Famiglia e dei Minori, Tribunale che dovrebbe operare in via monocratica, quale - direi proprio - Giudice specializzato:
A) ma non si tiene conto alcuno che una volta eliminato l’addebito viene meno del tutto ogni necessità di prevedere due processi distinti, l’uno relativo alla separazione giudiziale e l’altro al divorzio: tutt’al più, se proprio si vuole, si potrebbe prevedere che l’instaurazione dell’unico processo preveda che fra la data della notifica dell’atto introduttivo e la prima udienza intercorra un termine dilatorio – diciamo sei mesi – per consentire un ultimo ripensamento. Quanto alla necessità di interventi urgenti sui figli e sul mantenimento, sarebbe sufficiente il richiamo del c.d. procedimento cautelare uniforme previsto dagli artt. 669 bis e ss., procedimento applicabile anche in caso in cui sorga una questione sulla materia di genitorialità.
B) Non si ha consapevolezza della abnorme sovrapposizione effettuata negli anni ’30 del secolo scorso tra amministrazione e giurisdizione in materia minorile, e conseguentemente:
1 – si continua nell’errore grave (grave anche per le abnormi conseguenze in tema di rapporti tra Giudice e Servizi Sociali) di attribuire al Tribunale dei Minorenni il potere di agire d’ufficio in palese violazione del principio della domanda, principio che se non conosciuto determinerebbe sicuramente la bocciatura dello studente ad un esame di Procedura civile e anche penale.
Lo svarione è grave perché intanto si può prevedere che il TM agisca d’ufficio in quanto si ritiene ammissibile che i Servizi Sociali (o altri terzi del tutto estranei al rapporto genitoriale) anziché rivolgersi al Pubblico Ministero (ovviamente specializzato in materia di famiglia e di minori) si rivolgano direttamente al Giudice, con tutte le gravissime conseguenze di cui le tragiche vicende di Bibbiena costituiscono l’esempio più recente ma nient’affatto isolato.
2 - Ad evitare ulteriori gravi violazioni nella formazione del convincimento del Giudice, sarebbe opportuno esplicitare che anche in controversie relative alla genitorialità le prove vanno formate nel contraddittorio delle parti nel corso del processo e in particolare che le relazioni dei Servizi Sociali non possano avere alcun valore (a meno che l’operatore sociale sia a conoscenza di fatti e ne riferisca in giudizio a seguito di testimonianza dedotta e assunta secondo le regole).
3 – L’istituzione della sezione specializzata in materia di famiglia e di minori imporrebbe non solo, ovviamente, la soppressione formale del Tribunale dei minirenni (con il venir meno del relativo posto di direttivo), ma anche la attribuzione a tale sezione di tutte le controversie attualmente devolute al Tribunale dei minorenni, ivi compresi i procedimenti in materia di adozione, e la loro conseguente trattazione e decisione da parte del giudice monocratico.
Il tutto sembrerebbe a mio avviso ovvio, ma non lo è per difetto culturale, ovviamente non degli autorevoli componenti della Commissione ma degli assistenti di cui si siano avvalsi.
I termini del procedimento (sanzionatorio) presi sul serio (nota a Cons Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2021 n. 584).
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il fatto. – 2. I termini nei procedimenti sanzionatori dell’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente. – 3. La perentorietà cedevole dei termini per la conclusione della fase preistruttoria. - 4. Natura ordinatoria o natura perentoria del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio: il contrasto interno alla giurisprudenza della sesta sezione. – 5. I rimedi all’inosservanza del termine. – 6. Lo stato della giurisprudenza del giudice ordinario. - 7. Conclusioni.
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1. Il fatto. Con delibera del 13 marzo 2014, l’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente (A.R.E.R.A.) aveva avviato nei confronti della Sinergas s.r.l. un procedimento per l’accertamento di varie violazioni della normativa in materia di qualità dei servizi di distribuzione e misura del gas.
All’esito dell’istruttoria, con delibera del 18 gennaio 2018, era stata poi irrogata alla Società la sanzione amministrativa pecuniaria di 20.000 euro.
Sulla vicenda di fatto che si caratterizza per la durata del procedimento sanzionatorio di oltre millequattrocento giorni, laddove la stessa Autorità nella delibera di avvio del procedimento aveva indicato il termine massimo di 270 giorni, si innesta la sentenza del Consiglio di Stato che si segnala per l’argomentata e meditata soluzione del problema del termine per provvedere, della sua natura e delle conseguenze dell’inosservanza.
Nel ricorso in primo grado e poi in appello la Società aveva invero sollevato molteplici censure contestando sotto più profili la legittimità del provvedimento sanzionatorio.
Sugli aspetti di merito della vicenda è però superfluo soffermarsi perché tutta la sentenza ruota intorno al motivo della inosservanza del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio che nella economia della decisione assume dunque carattere assorbente.
2. I termini nei procedimenti sanzionatori dell’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente. La sentenza ricostruisce puntualmente la disciplina del procedimento sanzionatorio di competenza dell’A.R.E.R.A. quale risulta dall’art. 45, comma 6, del d.lgs. 1 giugno 2011, n. 93 e dal Regolamento adottato dall’Autorità con delibera 14 giugno 2012, n. 243 poi modificato, in epoca successiva ai fatti di causa, con delibera 1° giugno 2017, n. 388/2017/E/com.
Nel quadro dei principi tracciato dall’art. 45, comma 6 (piena conoscenza degli atti istruttori, contraddittorio in forma scritta e orale, verbalizzazione e separazione tra funzioni istruttorie e decisorie) la normativa secondaria articola il procedimento in una fase preistruttoria e in una fase istruttoria. La prima è rivolta all’acquisizione di ogni elemento utile ai fini di un eventuale avvio di procedimento sanzionatorio. Se elementi utili emergono, la fase preistruttoria si conclude con la notifica della contestazione.
I possibili esiti della fase istruttoria, in contraddittorio, sono invece quelli della archiviazione o della adozione della sanzione.
Per quanto riguarda i termini, l’art. 45, comma 6 del d.lgs. 93 del 2011 prescrive che la prima fase del procedimento debba concludersi con la notifica degli estremi della violazione, “entro centottanta giorni”.
Il termine per la conclusione della seconda fase del procedimento non è invece stabilito né dalla norma primaria né dal Regolamento adottato dall’Autorità con deliberazione 14 giugno 2012, n. 243 nella versione in vigore all’epoca dello svolgimento dei fatti[1]. In assenza di esplicita previsione di portata generale, il termine da prendere a riferimento è pertanto quello che la stessa Autorità è tenuta comunque a stabilire, in ottemperanza al disposto dell’art. 8, comma 2, lett. c bis) della l. 241 del 1990, tenendo conto della complessità del procedimento e a comunicare alle parti nella contestazione degli addebiti.
3. La perentorietà cedevole dei termini per la conclusione della fase preistruttoria. La sentenza che qui si annota esamina approfonditamente natura ed effetti della mancata osservanza del secondo termine, quello per l’adozione del provvedimento sanzionatorio, che nel caso di specie era stato violato.
Tuttavia la sentenza prende anche posizione su varie questioni che riguardano il termine per la comunicazione delle contestazioni. In primo luogo quella della sua decorrenza. La precisazione non è del tutto banale. L’art. 45, comma 6, d.lgs. 93 del 2011 è lacunoso sul punto, limitandosi ad affermare che “la notifica degli estremi della violazione deve avvenire entro centottanta giorni”. Correttamente la sentenza individua nello “accertamento dei presupposti per l’avvio del procedimento” il dies a quo per il computo dei centottanta giorni. Si affretta poi a chiarire che “la sussistenza degli elementi necessari per ritenere configurabile una condotta illecita è rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, non potendosi prevedere una casistica che a fronte dell’eterogeneità e complessità delle diverse ipotesi sclerotizzi detta scelta. Sicché, fatto salvo un sindacato di eccesso di potere sulla sua scelta, è l’Autorità a fissare il momento in cui ritiene compiuto il detto accertamento preliminare”. La sentenza aderisce dunque, sia pure nell’ambito di un mero obiter dictum, ad un orientamento che è condiviso anche dalla giurisprudenza civile spesso chiamata a pronunciarsi sulla questione con riferimento ai procedimenti sanzionatori di Consob e Banca d’Italia. Il giudice ordinario di merito e di legittimità [2] assume che l’accertamento, da cui decorre il termine per la notifica della contestazione degli addebiti, non debba essere riferito alla percezione dei fatti nella loro materialità, ma debba riguardare piuttosto la violazione delle norme per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni amministrative. Partendo poi dalla considerazione che quest’ultima attività, di verifica dei presupposti, può richiedere un’istruttoria e valutazioni anche complesse, la giurisprudenza fa poi coincidere la data dalla quale deve farsi decorrere il termine per la notifica della contestazione con il momento nel quale, ragionevolmente, la constatazione del fatto avrebbe potuto tradursi in accertamento, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito.
Il termine per notifica degli addebiti è dunque perentorio, ma si tratta di una perentorietà cedevole perché poggia sulle sabbie mobili di una valutazione riguardo al compiuto accertamento della violazione di una norma e dunque all’individuazione del dies a quo che, pur se soggetta a sindacato[3], è rimessa in prima battuta alla stessa amministrazione procedente[4],
4. Natura ordinatoria o natura perentoria del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio: il contrasto interno alla giurisprudenza della sesta sezione. Se sul problema della natura del termine di conclusione della fase preistruttoria la sentenza si limita dunque a richiamare precedenti che possiamo definire consolidati della giurisprudenza amministrativa e ordinaria, argomentata e meditata è la posizione che la sesta sezione adotta riguardo al problema della qualificazione del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio affidato alla competenza di A.R.E.R.A.
Sulla questione, la sentenza segnala un contrasto interno proprio alla sezione sesta laddove le altre sezioni del Consiglio di Stato sono univocamente orientate nel senso della natura perentoria del termine per adottare il provvedimento di chiusura del procedimento sanzionatorio. Proprio in relazione a detta circostanza e considerato anche che il contenzioso relativo alla Autorità di Regolazione per l’Energia le è per intero affidato, la Sezione ritiene di poter sciogliere essa stessa il contrasto anziché rimettere la questione alla Plenaria.
La Sezione rileva dunque un’oscillazione della propria giurisprudenza.
La linea di discrimine tra l’uno e l’altro orientamento è marcata dal ruolo assegnato al principio di legalità.
Secondo una prima impostazione, il carattere perentorio del termine procedimentale deve trovare fondamento espresso nel dettato normativo per la ragione che lo spirare del termine implica decadenza ed incide direttamente sulle situazioni soggettive degli interessati. In mancanza di una previsione normativa espressa, dunque, il termine finale del procedimento sanzionatorio, ancorché individuato da regolamenti o delibere generali dell’Autorità, avrebbe valore solo ordinatorio con la conseguenza che la mancata osservanza non incide in alcun modo sulla legittimità dell’atto[5]. Il potere sanzionatorio, inteso come potere di esigere la sanzione, incontrerebbe dunque il solo limite della prescrizione quinquennale sancito dall’art . 28 della l. 689 del 1981.
In non rare occasioni la sesta sezione ha invece aderito all’altro orientamento per il quale la tesi della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori da una norma, se è valida in line generale, non è però applicabile ai provvedimenti sanzionatori. Rispetto a questa categoria di procedimenti, i termini assumerebbero sempre un valore perentorio, a prescindere da un’espressa qualificazione normativa siccome imposto dal principio di effettività del diritto di difesa dell’incolpato e dal principio di certezza dei rapporti giuridici[6].
La sentenza in esame scioglie dunque il contrasto a favore della seconda delle tesi sopra sintetizzate. Gli argomenti addotti a sostegno sono molteplici e coinvolgono temi assolutamente centrali quali quello del ruolo dell’interprete e del significato del principio di legalità.
Il ruolo dell’interprete, che non è quello di mero esegeta, consente di prescindere da una qualificazione normativa espressa. In materia di sanzioni, la natura perentoria o meno del termine dai principi può essere argomentata dai principi di effettività del diritto di difesa, di certezza dei rapporti giuridici[7], di piena realizzazione dell’effetto dissuasivo della sanzione che esige anch’esso un lasso temporale il più possibile ristretto tra la contestazione della violazione e l’adozione del provvedimento sanzionatorio. Tutti detti principi cooperano nel senso della perentorietà del termine.
Accanto a quelli sopra richiamati, pure il principio di legalità, nella sua accezione sostanziale, autorizza a rintracciare il fondamento del carattere perentorio del termine di conclusione del procedimento in atti di normazione secondaria di carattere generale o anche in atti puntuali quali la delibera di avvio del procedimento laddove, come nel caso del procedimento sanzionatorio, nel senso della perentorietà congiurano i principi generali sopra richiamati.
5. I rimedi all’inosservanza del termine. Affermata la natura perentoria del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, anche in mancanza di una previsione normativa espressa, la sentenza affronta un ulteriore e delicato problema che è quello delle conseguenze della sua violazione.
Sul versante dei rimedi e delle tutele la sentenza prende in considerazione varie alternative. La prima è quella dell’azione avverso il silenzio. Correttamente si avverte che l’azione non sarebbe utilizzabile nella sua forma classica per ottenere la condanna dell’amministrazione a provvedere. Ed è chiaro che la condanna a chiudere il procedimento sanzionatorio con un provvedimento espresso di qualsiasi contenuto non risponde in alcun modo all’interesse dell’amministrato che è evidentemente quello di non subire la sanzione. E’ invece rispondente all’interesse del ricorrente lo strumento della azione atipica di accertamento dell’inutile decorso del termine per provvedere con una sentenza che ponga quindi fine alla situazione di incertezza e agli effetti pregiudizievoli che sono legati alla mera pendenza del procedimento (quali le eventuali misure cautelari adottate dalla amministrazione procedente o il danno reputazionale). L’apertura è di notevole interesse anche nella prospettiva, invero non affrontata dalla sentenza, dell’utilizzo del rito speciale avverso il silenzio per ottenere l’accertamento della mera decorrenza del termine e dunque dell’esaurimento del potere.
La seconda ipotesi che la sentenza prende in considerazione per poi respingerla, o meglio per sminuirne il rilievo, è quella della tutela risarcitoria. La circostanza che qui si contesta la violazione di una regola di comportamento da parte dell’amministrazione procedente non avvalora la tesi della adeguatezza della tutela risarcitoria quale forma esclusiva di ristoro del soggetto che ha subito la lungaggine del procedimento. Si avverte che la stessa contrapposizione tra regole di validità e regole di comportamento ha poco senso nel diritto amministrativo dove la violazione delle regole comportamentali che scandiscono l’agire della pubblica amministrazione comporta pacificamente l’illegittimità dell’atto per violazione di legge e/o eccesso di potere e quindi il suo annullamento.
La tutela di risarcimento del danno subito per effetto del mancato rispetto del termine finale è dunque percorribile, ma non in via esclusiva. Solo il rimedio dell’azione costitutiva di annullamento è infatti tale ad assicurare piena ed effettiva tutela al soggetto leso dal provvedimento sanzionatorio tardivo.
La violazione della regola che stabilisce il termine entro il quale deve essere adottato il provvedimento sanzionatorio comporta dunque l’invalidità del provvedimento e, in particolare la sua annullabilità.
In conclusione, i passaggi dell’iter argomentativo della sentenza meritevoli di attenzione sono due: l’affermazione della natura perentoria del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, anche in mancanza di una qualificazione normativa espressa; l’idea dell’idoneità dell’azione di annullamento, e non di altri rimedi, ad assicurare all’amministrato la piena tutela della lesione subita per effetto del provvedimento sanzionatorio adottato in violazione della regola che impone alla amministrazione di concludere il procedimento entro un termine certo.
6. Lo stato della giurisprudenza del giudice ordinario. La pronuncia in esame opera dunque il definitivo assestamento della giurisprudenza amministrativa sui due aspetti sopra evidenziati, natura del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio ed effetti della sua inosservanza, e ne offre una sintesi efficace.
Un utile esercizio può a questo punto essere quello di sovrapporre le conclusioni cui la sentenza perviene con gli orientamenti che sulle medesime questioni ha maturato la giurisprudenza del giudice ordinario. Ne risultano, come passiamo subito ad argomentare, differenze notevoli che sarebbe opportuno ricomporre. La materia dei provvedimenti sanzionatori, e in particolare quella del potere sanzionatorio delle autorità amministrative indipendenti, è spartita tra i due plessi giurisdizionali [8] e pertanto ogni divergenza nella soluzione di problemi che si presentano in termini identici, salvo l’imputazione del provvedimento sanzionatorio ad autorità diverse, risulta poco comprensibile.
Sul versante del giudice civile, civile il leading case risale alla pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, 30 settembre 2009, n. 20929[9] alla quale la giurisprudenza successiva si è conformata.
La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, o meno, del provvedimento sanzionatorio emesso dalla Consob oltre il termine finale di 180 giorni dalla notificazione della lettera di contestazione degli addebiti, rovescia i termini della questione.
Il problema non è quello della natura perentoria o meramente ordinatoria del termine.
La qualificazione del termine è in qualche modo irrilevante ai fini della questione della legittimità o meno del provvedimento sanzionatorio tardivo.
Secondo l’interpretazione seguita dalla Cassazione, l’inosservanza del termine finale è comunque vizio che attiene al procedimento. Di conseguenza lo stato viziato dell’atto adottato oltre il termine previsto per la conclusione del procedimento ricade nell’ambito di applicabilità dell’art. 21-octies, della legge generale sul procedimento ammnistrativo che – come è noto - sancisce l’irrilevanza dei vizi del procedimento e della forma degli atti in tutti i casi in cui, a causa della natura vincolata del provvedimento, il contenuto di questo non potrebbe comunque essere diverso[10].
La tesi che assume la natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, e perciò l’irrilevanza di eventuali vizi procedimentali [11], si salda poi con quella, anche questa condivisa da una giurisprudenza oramai consolidata del giudice ordinario[12], per la quale la violazione delle regole del giusto procedimento e dei precetti di cui agli artt. 24 e 111 della Costituzione e all’art. 6 della CEDU non comporta illegittimità ed annullabilità del provvedimento sanzionatorio. La ragione della predicata irrilevanza del vizio procedimentale risiede, in questo caso, nel carattere pieno e sostitutivo del sindacato giurisdizionale sul provvedimento che applica la sanzione. La verifica circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione svolta in sede amministrativa è ripetibile dal giudice nel rispetto di tutte le garanzie del giusto processo con la conseguenza che la mancata osservanza di queste nel procedimento può trovare adeguata compensazione nel processo.
L’una e l’altra premessa conducono alla conclusione dell’irrilevanza della violazione della regola del termine per l’esercizio del potere sanzionatorio. Il vizio non comporta annullabilità poiché si tratta di fattispecie vincolate e soggette a sindacato giurisdizionale pieno.
7. Conclusioni. La distanza tra la posizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario non è segnata dunque dalla qualificazione del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, se di decadenza o meno. Infatti, come abbiamo visto, la giurisprudenza civile considera irrilevante la questione. La divergenza non è neppure segnata dalla qualificazione del vizio. Per entrambi i giudici si tratta di violazione di una violazione di legge e segnatamente di una norma sul procedimento.
Il dissenso investe invece le conseguenze della violazione: non viziante per il giudice ordinario, tale invece da dar luogo ad annullabilità del provvedimento finale per il giudice amministrativo.
Le posizioni ora riferite colorano di nuovo interesse la contrapposizione tra la tesi per la quale la scadenza del termine per la conclusione del procedimento, e dunque per l’esercizio del potere, comporta l’inidoneità dell’atto a produrre il suo effetto costitutivo tipico e quella che vi collega la sola possibilità di chiedere l’annullamento dell’atto tardivamente adottato.
La questione non è stata adeguatamente approfondita neppure dalla dottrina che più si è spesa a favore della tesi della perentorietà del termine per la conclusione del procedimento [13]. Mentre la giurisprudenza amministrativa, timorosa di cedere spazi alla giurisdizione ordinaria, ha sempre mostrato una notevole riluttanza ad accogliere la soluzione della nullità del provvedimento adottato oltre il termine per l’esercizio del potere.
Si tratta di posizioni che meritano di essere riviste se si vuole portare alla sue logiche conseguenze e si vuol dare effettività alla scelta di “prendere sul serio” i termini del procedimento, scelta che è implicita nella qualificazione degli stessi in termini di perentorietà.
I tempi sembrano del resto maturi. Da un lato, il precipitato in termini di giurisdizione ordinaria che il vizio di nullità comporta, secondo i criteri tradizionali di riparto, è in buona misura sterilizzato dall’estensione della giurisdizione esclusiva. In questa ricade anche la fattispecie esaminata dalla sentenza che qui si commenta che riguarda l’Autorità di regolazione dell’energia.
Dall’altro finché si ragiona in termini di annullabilità, occorre fare i conti con le argomentate conclusioni cui perviene la giurisprudenza ordinaria in merito al carattere non invalidante del vizio.
In conclusione, l’opzione a favore della perentorietà del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio è del tutto condivisibile nell’ottica dell’effettività delle regole del giusto procedimento. Si tratta però di una scelta che deve essere condotta fino alla sua logica conseguenza: se il decorso del termine di chiusura del procedimento “consuma il potere sanzionatorio”[14] il provvedimento non è annullabile, ma nullo.
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[1] Una disciplina generale è poi stata introdotta con la delibera dell’Autorità L’art. 4bis sancisce ora un termine di conclusione del procedimento che è pari a 220 giorni decorrenti dalla comunicazione di avvio del procedimento. Il termine può essere sospeso in caso di richiesta di informazioni di cui all’articolo 10, di accesso, di ispezione, di perizia o di consulenza di cui all’articolo 11, nonché di richiesta di informazioni, fino alla data di ricevimento delle informazioni, delle relazioni peritali o consulenziali o della conclusione dell’accesso o dell’ispezione. Il termine è inoltre prorogato di 30 (trenta) giorni nel caso di richiesta di audizione finale avanti al Collegio ed è prorogabile in presenza di sopravvenute esigenze istruttorie, nonché in caso di estensione soggettiva od oggettiva del procedimento.
[2] Sulla scorta di Cass. 9 settembre 2007, n. 5395 che, pronunciandosi sul procedimento sanzionatorio in materia di intermediazione finanziaria afferma che il termine di 180 giorni per la contestazione degli addebiti ha natura perentoria e la sua inosservanza determina l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione. Tuttavia il dies a quo per il computo del termine non coincide con la data della constatazione materiale dell’illecito e si colloca invece nel momento in cui, nel caso concreto, sia stato possibile pervenire all’accertamento della avvenuta violazione delle norme in materia di intermediazione, compiute la valutazioni tecniche complesse ed espletata l’istruttoria a tal fine necessaria.
[3] La tendenziale elasticità dei termini procedimentali che l’orientamento giurisprudenziale citato alla precedente nota assicura alla amministrazione è parzialmente mitigata dalla giurisprudenza di merito, nella quale sono ripetute affermazioni di questo tenore: il lasso temporale tra l’accertamento materiale dell’illecito e la contestazione “non può essere eccessivamente dilatato, sulla base di una discrezionalità dell’autorità non suscettibile di controllo”(App. Milano, sez. I, 4 aprile 2013); “non può essere dilatato ingiustificatamente, rinvenendo però la sua giustificazione, legittimità e ragionevolezza da eventuali necessità istruttorie promananti dalla complessità dell’indagine” (App. Milano, 25 giugno 2013); e, ancora, “la dilatazione dei termini per la contestazione non può essere giustificata dal ricorso ad attività di indagine non essenziali ovvero dal ritardo immotivato nell’audizione dell’incolpato” (App. Milano, 23 agosto 2013)
[4] “Sicché, “fatto salvo un sindacato di eccesso di potere sulla sua scelta, è l’Autorità a fissare il momento in cui ritiene compiuto il detto accertamento preliminare”, cfr. in motivazione 6.1
[5] In questi termini i precedenti puntualmente richiamati dalla sentenza e, in particolare, Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 2020, n. 6891; Id., 13 febbraio 2018, n. 911; Id., 19 febbraio 2018, n. 1053;Id., 8 luglio 2015, n. 3401 relative a procedimenti sanzionatori condotti dall’Autorità per l’energia elettrica ed il gas; Id., Sez. VI, 29 maggio 2018, n. 3197; Id., 4 luglio 2018, n. 4110; Id., 22 settembre 2015, n. 5253, al procedimento sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato; Id, , 2 febbraio 2015, n. 468 sul procedimento sanzionatorio dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici.
[6] Così Cons. St., sezione VI, 29 gennaio 2013, n. 542; Id. sez. VI, 6 agosto 2013, n.4113; Tar Lazio, sez. II, 5 maggio 2014, n. 4626; Cons. St., Sez. VI, 21 febbraio 2019, n. 2042; Id. sez. V, 3 ottobre 2018, n. 5695; Id. 3 maggio 2019, n. 2874; Id. , sez.VI, 17 novembre 2020, n. 7153. Anche la dottrina si è prevalentemente espressa nel senso della perentorietà del termine, specie con riguardo all’esercizio del potere della Consob. Vedi W. Troise Mangoni, Il potere sanzionatorio della Consob. Profili procedimentali e strumentalità rispetto alla funzione regolatoria, Milano, 2012, p. 173 ss.;M. Fratini, sub art. 195, ne Il Testo Unico della Finanza, Commentario a cura di M. Fratini, G. Gasparri, Tomo 3, Milano, 2012, p. 2678 ss.; M. Fratini, G. Gasparri, A. Giallongo, Le sanzioni della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob), in Le sanzioni delle Autorità amministrative indipendenti, a cura di M. Fratini, Padova, 2011, p. 458 ss
[7] La sentenza richiama pure il noto orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo per la quale le sanzioni amministrative sono assimilabili alle sanzioni penali con la conseguenza che i procedimenti che le applicano sono soggetti ad una più stretta accezione dei principi del giusto procedimento, ivi compresi quelli di effettività del diritto di difesa e di certezza. In tal senso vedi: Corte EDU, Grande Camera, 17 gennaio 1970, caso Delcourt c. Belgio; Corte EDU 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics srl contro Italia;; Corte EDU, 04 marzo 2014, caso Grande Stevens e altri c. Italia. In dottrina, V. ZAGREBELSKY, Le sanzioni Consob, l'equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. It., 2014, 5La giurisprudenza europea giustifica l’assimilazione tra sanzioni amministrative e penali laddove le prime presentano carattere afflittivo in considerazione dell’importo previsto, quando l’apparato sanzionatorio risponde ad interessi generali normalmente tutelati dal diritto penale (quali quelli della tutela degli investitori, dell’efficacia, trasparenza e sviluppo dei mercati) e quando la sanzione persegue uno scopo preventivo e repressivo e non di mera riparazione del danno.
[8] La giurisprudenza ordinaria si è trovata spesso ad esaminare il problema nell’ambito della giurisdizione che è attribuita al giudice ordinario in materia di sanzioni amministrative e segnatamente delle sanzioni comminate da Banca d’Italia e Consob rimesse anch’esse alla giurisdizione ordinaria da Corte Cost. 20-27 giugno 2012, n. 162 e Corte Cost. 15 aprile 2014, n. 94.
[9] La pronuncia del 2009 della Cassazione è richiamata dalla sentenza in esame la quale esclude il contrasto sottolineando le peculiarità della fattispecie decisa dalla Cassazione. Il contrasto invece sussiste ed è esattamente rilevato da Cons. St., sezione VI, 29 gennaio 2013, n. 542, che nell’affermare il carattere perentorio del termine accordato alla Banca d’Italia per concludere il procedimento sanzionatorio, muove proprio da un’aperta critica a Cass. 20929/2009.
[10] Il giudice amministrativo, e pure la sentenza in esame, esclude invero la natura vincolata dei provvedimenti sanzionatori i quali sarebbero dotati di un tasso di discrezionalità coessenziale alla loro natura, sia in ordine all’accertamento dei fatti che alla loro qualificazione giuridica (per i quali sussiste una accentuata discrezionalità tecnica), sia in ordine alla quantificazione della sanzione e di conseguenza esclude che possa operare la previsione contenuta nel comma 2 primo periodo del citato art. 21- octies relativa all’irrilevanza del vizio. L’assimilazione delle sanzioni amministrative a quelle penali in ragione del loro carattere afflittivo, che è un chiaro portato della giurisprudenza della Corte EDU, ne comporta però la soggezione ai principi di tassatività e determinatezza della norma punitiva. Dunque i provvedimenti sanzionatori sono provvedimenti in cui il fatto costitutivo del potere può essere oggetto di una attività di accertamento anche complessa, ma non di valutazione discrezionale. Sulla assimilazione delle sanzioni amministrative alle sanzioni penali e la conseguente sottoposizione alle garanzie di cui agli artt. 6 e 7 della CEDU: Corte EDU, Grande Camera, 17 gennaio 1970, caso Delcourt c. Belgio; Corte EDU 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics srl contro Italia; Corte EDU, 04 marzo 2014, caso Grande Stevens e altri c. Italia; vedi anche Corte Cost. 21 marzo 2019, n. 63. In dottrina V. ZAGREBELSKY, Le sanzioni Consob, l'equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. It., 2014, 5. Sulla soggezione delle sanzioni amministrative ai principi di tassatività e determinatezza, m.a. sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie, Jovene, 1983, 74ss..
[11] Nello stesso senso, Cass., sez. II, 21 febbraio 2013, n. 4429 e Cass., sez. II, 14 giugno 2013, n. 15019.
[12] Cass. civ. sez. II 21 maggio 2020, n. 9371; Id. 21 maggio 2020, n. 9385 ove è enunciata la massima per la quale: “In tema di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 della CEDU, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa - nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria - ovvero mediante l'assoggettamento del provvedimento sanzionatorio - adottato in assenza di tali garanzie - ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della Convenzione, il quale non ha l'effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacché la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale”.
[13] Così m. clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 176, per il quale “una volta chiarito che l’atto emanato fuori termine, nullo o annullabile che sia, determina l’impossibilità per l’amministrazione di operare la sanatoria o di esercitare nuovamente il potere sulla base degli stessi elementi posti alla base del provvedimento tardivamente emanato, diventa un problema semplicemente terminologico e non di sostanza usare una espressione anziché l’altra” (ovvero nullità o annullabilità). Anche se lo stesso A. afferma di preferire tra le due soluzioni prospettate quella che qualifica il provvedimento emanato fuori termine come nullo per carenza sopravvenuta di potere perché il termine rappresenta un limite esterno del potere avendo “la funzione di delimitare nel tempo la situazione di incertezza e di sospensione dell’assetto dei rapporti che si determinano nel periodo intercorrente tra l’avvio del procedimento e la sua conclusione con l’emanazione del provvedimento”.
[14] Così Tar Lazio, sez. II, 5 maggio 2014, n. 4626, relativa ai procedimenti sanzionatori dell’Isvap.
“Lampeggi” sulle motivazioni di Bruno Capponi
1. È stimolante leggere nel programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021 (punto 11) e nelle Riflessioni del pres. Rordorf, in questa Rivista dal 3 giugno 2021, tante calibrate osservazioni sull’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali. Ne vanno sottolineati i presupposti: l’obbligo va sempre assolto, e deve essere personalmente assolto dall’estensore del provvedimento. Si tratta di presupposti non proprio scontati, perché messi talora in discussione da chi programma la motivazione a richiesta[1], così come da chi assume normale che la motivazione possa tradursi in un posterius, addirittura rimesso a un giusperito terzo[2]. In tempi di strisciante americanizzazione del linguaggio, dei comportamenti e dei concetti, è consolante verificare che non siamo (ancora) disposti ad accettare verdetti. Che esponenti della più alta Magistratura condividano questa idea, pur in un momento di grave crisi di efficienza, dimostra quanto sia tuttora vivo nella nostra cultura il principio (e il messaggio) del comma 6 dell’art. 111 Cost.
2. Siamo soliti parlare di motivazione con riferimento ai provvedimenti, ma non dobbiamo perdere di vista che anche gli atti di parte vanno motivati. Basta leggere il controverso testo dell’art. 342, comma 1, c.p.c. (sortito dalla novellazione a sorpresa dell’estate 2012) per rendersene conto. Non a caso, il tema della chiarezza e sinteticità riguarda allo stesso modo atti e provvedimenti, sebbene vada poi declinato diversamente nei diversi contesti. Ho sempre pensato[3], d’altra parte, che le motivazioni di merito siano e debbano essere diverse da quelle di legittimità, e dai provvedimenti organizzativi del pres. Lupo in poi[4] una distinzione va fatta anche all’interno delle motivazioni di legittimità. Dunque, è essenziale prendere atto che quando si parla di motivazione non ci si riferisce a un fenomeno unico e monolitico, bensì a un elemento suscettibile di essere declinato in un ricco numero di variabili in contesti tra loro assai diversi.
3. Quando si parla di Cassazione, va stabilito se la motivazione rilevi quando la Corte conosce e/o quando decide. I principi di diritto affermati nell’interesse della legge (art. 363, nelle sue varie applicazioni) o, come si vorrebbe ora[5], a seguito di “rinvio pregiudiziale” del giudice di merito che invoca un intervento nomofilattico prefigurano una Corte che non esercita (o non esercita soltanto) funzioni di giudice, bensì una funzione di orientamento o addirittura para-legislativa che, secondo taluni, le deriverebbe direttamente dall’art. 65 ord. giud.
Si tratta di questione delicatissima, che non può risolversi in poche battute (come impongono questi “lampeggi”). Però, è chiaro, decisione e motivazione assumono significati diversissimi a seconda che il principio di diritto venga affermato decidendo un ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.) ovvero in relazione a una pluralità di casi (e magari ricorsi) futuri, nel contesto che ben conosciamo: in cui il principio vincola soltanto il giudice che ha disposto il rinvio pregiudiziale[6] così come, del resto, quello affermato decidendo un ricorso vincola il solo giudice di rinvio.
È vero che, come ricorda Rordorf, è rinvenibile nell’ultima produzione normativa una tendenza ad accrescere il vincolo della nomofilachia, ma ciò vale nei rapporti tra sezioni unite e sezioni semplici (quando queste ultime se lo ricordano…), non anche nel rapporto, mai scontato a fronte dell’art. 101, comma 2, Cost., tra giudice di legittimità e giudici di merito. Se non si risolve questo enorme nodo critico (che non si affronta proprio per le grandi difficoltà che implica), temo che la più pura funzione nomofilattica della Cassazione, da molti voluta specie all’interno della Corte, non potrà mai seriamente decollare.
Il primario che, all’apice della carriera, decida di non andare più in sala operatoria potrà diventare una grande Maestro della medicina, un faro per le generazioni future; ma nella consapevolezza di aver cambiato mestiere.
4. È bello ascoltare dalla voce di un grande magistrato, quale Renato Rordorf, il riferimento alla funzione “interiore” della motivazione (§ 3, in fine). La categoria riflette un elemento che anch’esso non va dato per scontato: la motivazione è parte integrante della decisione, non un qualcosa che venga “appiccicato” dall’esterno a cose già fatte (funzione meramente giustificativa) e al solo scopo di sorreggere un verdetto. I magistrati del lavoro sanno bene quanto sia insidioso il sistema che porta a separare la stesura del dispositivo da quella della motivazione. Io credo che la motivazione non possa che essere sempre “interiore”, e la categoria andrebbe inserita nei testi istituzionali.
5. La Corte di cassazione dovrebbe evitare sentenze troppo articolate – anche Rordorf parla, con negativo apprezzamento, delle “sentenze-trattato” – se non altro perché, nel nostro sistema, la massimazione non è compito esclusivo dell’Organo che pubblica la decisione: sono davvero infinite le sedi – dalle riviste tradizionali a quelle telematiche, che spuntano nuove di giorno in giorno – in cui si vuole tradurre in “principio” le affermazioni della Corte che sorreggono o conducono a una decisione. C’è poi l’opera diffusiva e a volte strumentale e fuorviante dei difensori, i quali spesso tendono a citare nei loro atti, col virgolettato, brani di motivazioni che risultano inconferenti ai fini del decidere e che, come ancora ricorda Rordorf, sovente non costituiscono neppure il frutto di una discussione e decisione collegiali. Più una decisione è lunga, articolata e inutilmente dettagliata, maggiore è il rischio di una sua sostanziale incomprensione.
La quale è spesso del tutto strumentale, siamo d’accordo: ma il nostro particolare contesto finisce per favorire il fenomeno, che dovrebbe invece reprimere. Il narcisismo (termine utilizzato ancora da Rordorf) di molti consiglieri fa il resto; in un bel libro di memorie[7] di un altro grande magistrato, Gabriella Luccioli, ho letto una frase che mi è rimasta impressa e che suona: nelle tante sentenze che ho scritto, non ho mai dimenticato che a parlare era la Corte di Cassazione. Questa frase andrebbe scolpita nell’Aula Magna, al posto di quella che attualmente compare – Nimium altercando veritas amittitur – e che forse suona un po’ irridente nei confronti degli Avvocati, i quali del resto sono ormai raramente ammessi alla discussione pubblica. O forse occorrerebbe conservare la frase di Publilio Siro per gli Avvocati, e incidere nel marmo quella della Luccioli ad uso e consumo dei Magistrati.
6. Parlando di motivazione della sentenza, non può trascurarsi che ogni sentenza è il terminale di un dato procedimento, e ne mutua tutte le caratteristiche, e così in primo luogo quelle negative. Già in altra occasione[8] ho scritto che un giudice dovrebbe poter dire: se, nelle prime venti pagine del tuo atto, ancora non mi hai fatto chiaramente capire cosa vuoi, il resto non lo leggo. Dedico il mio tempo, che è risorsa preziosa, a chi sa meglio spiegarsi, o che ha bisogno di più parole per spiegarsi al meglio. Ma non soltanto i giudici sono vittime dell’abolizione del bollo sul formato protocollo e del sistema del contributo unificato. Le prime vittime sono anzi gli stessi avvocati, che sin dai gradi di merito vengono invogliati, partendo dalle memorie del comma 6 dell’art. 183 c.p.c., a contribuire alla deforestazione del pianeta: sfido chiunque, sulla base dell’esperienza, a dimostrare che, dopo gli atti introduttivi, servono sempre tre memorie prima di aver accesso all’udienza istruttoria. Le attuali proposte governative sono nel senso di far scattare le preclusioni anche istruttorie sin dal primo atto: ma allora, a cosa mai potranno servire tre memorie di stanche ripetizioni e grasse rifritture?
È purtroppo sin dall’inizio del giudizio che l’avvocato viene indotto a riscrivere il già scritto e, fatalmente, a rileggere il già letto. Carnefice e vittima, come in ogni farsa che si rispetti. L’avvocato è la prima vittima in ordine di tempo: perché legge, di norma, prima del giudice, del quale diviene poi in pari misura carnefice. L’opera di affastellamento indiscriminato e irrazionale, che è alla base della produzione dei nostri atti giudiziari, s’aggrava inevitabilmente col passaggio dei gradi, perché la preoccupazione che prevale è quella di dar conto di tutto, e di non cadere in errori di omissione.
Morale: se non si cambia la struttura del giudizio sin dal primo grado, se non si regola la base della piramide, ben difficilmente si potranno richiedere alla Cassazione motivazioni chiare, sintetiche e illuminanti.
Per riprendere le classificazioni di Rordorf, siamo d’accordo sull’esistenza di un narcisismo “positivo” contrapposto a uno “nocivo”. Ma c’è anche il narcisismo “malato”, che viene cioè dal contagio del processo, dal processo come malattia[9], perché non si può pretendere che il risultato finale abbia caratteristiche e qualità che il processo stesso, in sé, è ben lungi dall’avere.
7. Per questo ritengo che la pars costruens dell’intervento di Rordorf sia quella (§ 5) in cui l’A. sottolinea che il progresso nella materia potrà venire soltanto dalla collaborazione tra le personae (sempre più dramatis) che compaiono nel processo: argomento che introduce la motivazione come tipo “dialettico” (altra categoria “nuova” sulla quale riflettere). Tra gli atti di parte e la sentenza c’è «una stretta correlazione», e dietro gli atti ci sono sempre le persone. Che non debbono smettere di dialogare, anche in tempi così difficili.
[1] V. lo studio della Tota, Motivazione “a richiesta” nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2014, 613 ss.
[2] Di questa curiosa proposta (mancata) abbiamo ragionato in A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile» (collegato alla legge di stabilità 2014), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 361 ss.; nella stampa quotidiana v. Sentenze in appalto agli avvocati, in Il Sole-24Ore dell’11 marzo 2014, pag. 23.
[3] Mi permetto di rinviare a La motivazione della sentenza civile dopo la Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642, in Quest. Giust. on line dal 24.3.2015.
[4] Provvedimento sulla motivazione semplificata n. 27 del 22 marzo 2011, in Foro it., 2011, V, 183.
[5] Il riferimento è agli emendamenti governativi al d.d.l. 1662/S, già pubblicati e discussi in questa Rivista.
[6] Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso relative alla legge delega di riforma del processo civile quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, di prossima pubblicazione in questa Rivista.
[7] Diario di una giudice. I miei cinquant'anni in magistratura, Udine, 2016.
[8] Brevità, concentrazione, non-ripetizione, in www.judicium.it-Intimités.
[9] V., sul punto, le sapide pagine di Giussani, Sul morbo della causa muta, in Riv. Dir. proc., 2021, fasc. 2.
Prosegue la riflessione di Giustizia insieme sul programma di gestione per l'anno 2021 della Corte di Cassazione. Agli interventi di Renato Rordorf - Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti” - e di Bruno Capponi - Lampeggi sulle motivazioni - segue, oggi, il contributo dell'Avv. David Cerri su chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti).
Riflessioni sulla Relazione illustrativa del programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021.
2. Chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti) di David Cerri
Nei primi giorni di maggio è venuto alla luce il programma di gestione per l’anno 2021 dei procedimenti civili e penali della Corte di Cassazione; documento oltre modo interessante, non solo per i suoi aspetti amministrativi ed (appunto) più strettamente gestionali, ma per alcuni profili che confermano indicazioni che sempre più chiaramente vengono offerte ai giuristi pratici ormai da diversi anni. Il riferimento è evidentemente al linguaggio giuridico, ed in specie a quello del processo. È quindi possibile formulare qualche breve osservazione per quanto concerne il processo civile, leggendo con attenzione la relazione del Primo Presidente Pietro Curzio. Parafrasando una celebre serie retorica riferita ad avvenimenti di tutt'altro genere e ben più tragici [1], e limitandoci soltanto agli ultimi mesi e settimane, potremmo iniziare dicendo... Vennero prima le linee programmatiche della ministra Cartabia; vennero poi il PRRN, ed insieme i lavori della commissione Luiso, infine venne l’ emendamento al disegno di legge Bonafede AS 1662, frutto delle scelte sui suggerimenti della Commissione [2]. Stavolta, però, è rimasto qualcuno a dire qualcosa, e cerco di dargli voce solo per uno specifico aspetto: quello dei riferimenti ad un linguaggio chiaro e conciso.
Per spiegare i concetti di chiarezza e concisione, e soprattutto per applicarli alle concrete scelte del giudice o dell'avvocato, si corre il rischio di violarli in radice, con illustrazioni fumose e prolisse; cerco allora di dare dei riferimenti che siano invece in linea con il tema.
In primo luogo, allora, mi piace far riferimento al processo culturale che ha portato a far sì che di tali concetti e più in generale del linguaggio giuridico dapprima si facesse uno studio, e poi un'applicazione normativa nel campo della formazione: questo risultato (che rivendico agli anni della Scuola Superiore dell'Avvocatura diretta da Alarico Mariani Marini [3]) è divenuto realtà già con la legge di riforma ordinamentale forense (L.247/2012, art.43,c.2 lett.b), e 46, c.6, lett.a), e quindi col D.M. 17/2018 sui corsi di formazione per l'accesso, che all’art.3, c.2 fa espresso riferimento alle “tecniche di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità”, ed alla “teoria e pratica del linguaggio giuridico”. Quanto simili considerazioni si possano fare anche a proposito della formazione dei magistrati è reso evidente anche soltanto e da ultimo dalle indicazioni del D.L. 44/ 2021 sul concorso per magistrato ordinario, laddove si prescrive che la prova scritta (mantenuta, a differenza che per gli avvocati, dove è stata sostituita per l’emergenza pandemica con una specifica nuova prova orale) consista nello “svolgimento di sintetici elaborati teorici”, e dove si sottolinea che tra i criteri per la valutazione si dovrà tener conto della “capacità di sintesi nello svolgimento degli elaborati “.
Sono partito dalla formazione, ritenendola il campo che meriti il maggiore sforzo, dovendo contribuire anche il linguaggio e la scrittura alla tutela dei valori costituzionali portati dall'articolo 111; ma avrei invece potuto iniziare riferendomi a quelle che sono già realtà di diritto positivo. In particolare mi riferisco alle novelle del 2016 per l'art.3 del codice del processo amministrativo, con la (pur controversa) previsione del potere regolamentare del Presidente del Consiglio di Stato sui limiti dimensionali degli atti (art.13 ter disp.att.), oppure alla norma sul processo civile telematico (art.16 bis, c.9 octies, D.L. 179/2012) che sancisce la sinteticità come carattere principale degli atti di parte e del giudice.
Vi è quindi da tempo un movimento generale per l'affermazione dei due concetti con cui ho esordito, la cui origine non è misteriosa: sono gli stessi strumenti di lavoro concordati tra avvocatura e magistratura, tanto a livello nazionale (come il Protocollo tra S.C. e C.N.F. del 2015 sulla redazione dei ricorsi in Cassazione in materia civile e tributaria, o le Linee Guida del 2017 redatte dall’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla Giustizia Civile [4]), quanto a livello territoriale (dove in numerosi Fori si sono approvati Protocolli d’intesa) a dar conto dell'importanza dell'esperienza delle corti europee, che nella loro impostazione - di ispirazione anglosassone - hanno sempre tenuto in gran conto gli aspetti “pratici” del processo, spingendosi ad indicazioni sulla lunghezza degli atti, sulla loro struttura, sulla forma grafica, di cui anche da noi si è fatto tesoro. Senza peraltro dimenticare che tale esperienza era stata preceduta da quella statunitense: se mi è consentita una battuta, spesso in Italia arriviamo tardi, ma quando arriviamo talvolta superiamo i maestri; il trasparente riferimento è alle previsioni del processo amministrativo, dove la lunghezza degli atti è misurata in termini di caratteri, così oltrepassandosi non solo il richiamo al numero delle pagine, ma addirittura quello al numero delle parole, criterio tuttora seguito negli U.S.A., per esempio a proposito dei processi di fronte delle Corti d'appello federali (Rule 32, Federal Rules of appellate Procedure: 13.000 parole per i principal briefs).
Torniamo quindi alla sequenza ricordata.
Con le sue Linee Programmatiche la ministra Cartabia – premesso assai saggiamente che non era il caso di “coltivare illusorie ambizioni di riforme di sistema non praticabili nelle condizioni date” – a marzo preannunciava la valorizzazione di “alcuni aspetti” dei disegni di legge già presenti in Parlamento, “quali ad esempio il principio di sinteticità degli atti, mediante una sua chiara affermazione e l’introduzione di specifiche disposizioni volte a renderlo effettivo”. A metterci il carico da 11 provvedeva poi il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza – ed il Recovery Fund è sempre ben presente alla ministra – dove per gli interventi sul processo civile si legge che “Dal punto di vista generale si rendono effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”; carico da 11, dicevo, reso evidente dal riferimento a premi e sanzioni…
La Commissione ministeriale presieduta da Francesco P.Luiso, e che ha visto come Vicepresidente Filippo Danovi, vice capo dell’ufficio legislativo del ministero, ha fornito all’esecutivo una serie di soluzioni, tradotte poi (con scelte doverosamente politiche su alcune delle alternative proposte) nell’emendamento al d.d.l. AS 1662 di recentissima diffusione.
Sul punto le proposte della Commissione parlano scarnamente dell’ “introduzione nel codice di procedura civile e con portata generale del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali di parte e dei provvedimenti giudiziali”.
Ebbene, è nella proposta governativa che appaiono - e per la prima volta nel codice di rito – riferimenti espressi a chiarezza e concisione, per tutte le parti del processo; dal 1940 fino a tempi più recenti le indicazioni erano sempre state date ai giudici, non anche alle parti private. La musica ora dovrebbe cambiare. Andando in ordine: a proposito degli atti introduttivi, si propone di sostituire all’art.3, c.1 del d.d.l. Bonafede le lett. b) e c) , in modo tale che i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, così come le difese del convenuto, siano esposti “in modo chiaro e specifico”[5]; analogamente, per il giudizio di appello (art.6) si indica che “le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata di cui all’articolo 342, comma primo, n.2), del codice di procedura civile siano esposte in modo chiaro e specifico”; ed in Cassazione (art.6 bis) che “il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione”[6]. Ancor più esplicitamente, all’art.12 si prevede che il criterio cardine sia il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità. Una scelta importante è infine effettuata in merito alle conseguenze in termini di validità degli atti, della violazione delle “specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo”: non potranno esserci sanzioni di invalidità o inammissibilità; ma, ove ad esser violate siano “le specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali” se ne potrà tener conto nella disciplina delle spese. Al riguardo osserverei soltanto, dal punto di vista testuale, che non mi è chiaro il perchè della diversa formulazione adottata (solo nel secondo riferimento si precisa che si tratta di limiti redazionali: il che esplicita la possibilità di seguire la strada del C.P.A. – magari ed auspicabilmente con indicazioni del legislatore e non di un organo amministrativo); per il contenuto, che si è scelta una via intermedia tra le indicazioni del Protocollo Cassazione/C.N.F. del 2015 (rilevanza delle violazioni ai – soli - fini delle spese [7]) e quelle di altra Commissione ministeriale più risalente (Mura: si trattava per la precisione del Gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali, 2016/2017) secondo i cui lavori, facenti esplicito riferimento nel proposto nuovo art.140 disp att. c.p.c. ai Protocolli stipulati tra gli organi apicali di magistratura ed avvocatura, “Il solo mancato rispetto delle previsioni dei protocolli non è motivo di inammissibilità dell’atto o di altra conseguenza a carico delle parti” [8]. La Commissione Luiso da parte sua ricorda che “anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna” è parso opportuno inserire nella legge delega la previsione secondo cui, per quanto riguarda gli atti di parte, la violazione di tali principi non potesse comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità dell’atto, bensì rilevare ai fini della liquidazione delle spese.
Il requisito del “raggiungimento dello scopo” di cui all’emendamento presentato pare allora l’elemento differenziale, col richiamo di un’espressione consolidata. A voler essere pessimisti, si potrebbe però anche ipotizzare che possibili equivoci interpretativi potranno nascere proprio sulla definizione di raggiungimento dello scopo… quando un richiamo secco a) a riferimenti determinati e univoci (per es.: “specifiche tecniche e limiti redazionali”) e b) a conseguenze obbligate (“rilievo ai fini della liquidazione delle spese”) li avrebbe eliminati alla radice. Quale sarebbe infatti l’atto che “ha raggiunto lo scopo” benchè non redatto secondo le indicazioni del caso ? quello che ha invertito per errore materiale/informatico il contenuto di campi predisposti nello schema ? l’atto troppo lungo ma alla fine comprensibile ? Avrei seguito piuttosto una regola aurea della Formula Uno di parecchi anni fa (quando contava la meccanica, e non l’elettronica): “quel che non c’è non si rompe”.
Fatto sta che chiarezza e concisione dovrebbero così entrare ufficialmente nel codice, incidendo in buona misura sulle abitudini di avvocati e giudici.
Se questo è il contesto, come si colloca allora il Programma di Gestione ?
Trovo che si possa constatare un notevole allineamento con il movimento culturale delineato.
Ci si può subito dichiarare d’accordo con la premessa della parte dedicata alla motivazione dei provvedimenti (§ 11.1) : “L’impegno di tutti i protagonisti della giurisdizione per realizzare i principi costituzionali in tema di giusto processo richiede, anche nel prossimo triennio, una rinnovata attenzione al tema della motivazione dei provvedimenti e del linguaggio”, e con l’immediato riferimento all’art.111 Cost.. Ma dove chi scrive sente una consonanza assoluta è quando legge (§ 11.2) che “Il giusto processo è, quindi, anche un giudizio ben comprensibile, posto che il controllo sull’esercizio della giurisdizione non si attua soltanto in via endo-processuale, attraverso i rimedi apprestati dai codici di rito civile e penale rispetto alle decisioni del giudice, ma si realizza anche attraverso la comprensione della giurisdizione da parte del cittadino, nel cui nome la giustizia viene amministrata.”
Qual è infatti lo scopo di chiarezza e concisione ? la comprensibilità. E si poteva già concludere che, per l’avvocato nel processo, la comprensibilità si declina in due modi: come strumento di persuasione, e come strumento di trasparenza; nella seconda accezione intendendosi come trasparenza anche l’obbligo deontologico di una corretta informazione dapprima verso il cliente, e poi verso il giudice, se è vero ciò che leggiamo nella legge 247/2012 e nel Codice deontologico. E cioè che uno degli scopi primari dell’ordinamento forense è la tutela dell’affidamento della collettività; ciò che anche meglio si apprezza nel riferimento della Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo (e nel Codice degli avvocati europei, entrambi adottati dal C.C.B.E.) al “rispetto dello Stato di Diritto e contributo alla buona amministrazione della giustizia”. Che questa esigenza sia affermata a chiare lettere nell’invito del Primo Presidente ai giudici di Cassazione non può quindi che consolidare l’opinione che all’interno del sistema giustizia i valori essenziali siano condivisi, o debbano esserlo, da tutti gli operatori. Da notare che anche l’altro profilo (la persuasione) è ben presente nel documento, e forse ovviamente, quando richiama l’accresciuto valore del “precedente” nella logica nomofilattica della S.C.: il tema è chiaramente e sinteticamente (evviva!) così riassunto: “Nell’attuale assetto costituzionale, la certezza del diritto oggettivo e la parità di trattamento dei cittadini sono gli obiettivi assegnati alla Corte di cassazione le cui decisioni, mediante l’autorevolezza e la persuasività del discorso giustificativo, possono assicurare l’uniformità della giurisprudenza, valore fondamentale per l’ordinamento”. Direbbe il padre Dante: Parole non ci appulcro. L’esposizione del tema è svolta soprattutto a proposito della motivazione dei provvedimenti, come naturale, e si esprime con robuste conclusioni: “La chiarezza può e deve favorire la qualità della risposta giudiziaria, obiettivo cui il giusto processo deve tendere non meno di quanto miri alla celerità. La sintesi è il mezzo per assicurare la chiarezza… La corretta e sintetica struttura della motivazione aiuta la progressione logica del ragionamento, evita inutili ripetizioni, favorisce un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice.
La redazione di atti e provvedimenti improntati a sinteticità e chiarezza e contenenti una solida argomentazione deve costituire il parametro per una nuova modalità di scrittura che contribuisca a dare attuazione ad alcuni principi costituzionali”.
Non solo ai colleghi giudici di legittimità si rivolge però il Primo Presidente: ricorda infatti anche agli avvocati che “la chiarezza e la sinteticità degli atti contribuiscono ad assicurare una più sollecita risposta da parte del giudice: è indubbio, infatti, che l’eccessiva lunghezza degli atti processuali danneggia, in primo luogo, proprio la parte che ha ragione e che, nel ritardo, vede leso il proprio diritto di difesa…”, e a chiusura del cerchio, con perfetta congruità con quanto sinora ho tentato di tratteggiare, sottolinea che quel vizio “Può danneggiare anche, indirettamente, la collettività, poiché la giurisdizione è una risorsa limitata della quale occorre razionalizzare l’impiego”. Verrebbe voglia di dire: Quod erat demonstrandum.
Può rimanere, in conclusione, solo una incertezza: parliamo tanto di chiarezza e concisione, ma le definizioni ? Se rimangono clausole generali, la loro efficacia precettiva ne risentirà alquanto. D’altro canto, ci vuole coraggio a tentare una definizione teorica (non fosse altro che per la mole di studi su tali argomenti e la necessità di una valutazione comparata con altri ordinamenti) mentre è più facile immaginare una serie di norme che – incidendo su struttura (ricordiamoci anche che nel P.C.T. la “forma” influenza direttamente il “contenuto”), limiti dimensionali, “leggibilità” grafica dell’atto – ne agevoli l’applicazione pratica. Per applicare un principio, un criterio, però, non si può fare del tutto a meno di un chiarimento in linea astratta. Quel coraggio, allora, l’hanno avuto gli Osservatori sulla Giustizia civile nel documento del 2017 ricordato, quando in esergo ai 12 Principi delle Linee Guida per la redazione di atti e provvedimenti in maniera chiara e sintetica hanno pur cercato di darle, quelle definizioni, che qui pertanto voglio ripetere anche per cercare di diminuire lo scetticismo di chi – giustamente – non crede più a parole vuote:
“CHIAREZZA
La chiarezza degli atti processuali, di parte e del giudice, attiene all’agevole comprensione del testo, che deve seguire un lineare ordine argomentativo, evitando ripetizioni, espressioni gergali, termini desueti, periodi e frasi lunghe, punteggiatura approssimativa, forme verbali passive.
E’ preferibile impiegare nessi di coordinazione, anziché di dipendenza, fra due o più proposizioni.
SINTETICITA’
La sinteticità degli atti, di parte e del giudice, è un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra la mole delle questioni da esaminare e la consistenza dell’atto chiamato ad esaminarle”.
Come si ricordava nelle Note esplicative alle Linee Guida, “La stringata definizione della CHIAREZZA è il portato delle ricerche linguistiche in ambito giuridico degli ultimi vent’anni, in ambito non solo italiano; mentre la definizione di SINTETICITÀ è tratta da C. Stato, sez. III, 12.6.2015, n. 2900, secondo la quale più precisamente “L’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito [c.p.a.], non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola”.
Alla fine, qualsiasi esito finale abbia il maxi emendamento (proprio Francesco Luiso ricordava di recente in un webinar come la regola aurea sarebbe quella di studiare le leggi solo dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale…) resto nella ferma convinzione che quello che ho definito come il movimento culturale verso chiarezza e concisione nella scrittura giuridica, in specie processuale, sia inarrestabile; ma dovrà esser governato – oltre che dalla Costituzione - dal buon senso, per non cadere in una tentazione a due facce: da quella dei giudici, di strumentalizzare novità normative come “trappole” formali, e, da quella degli avvocati, di gridare alla compressione del diritto di difesa, quando (riprendo ancora la relazione del Primo Presidente) “La richiesta di atti difensivi di lunghezza contenuta, quindi, non va a detrimento del diritto di difesa né preclude l’esposizione esauriente dei fatti e delle argomentazioni. Al contrario, è la trattazione prolissa a indebolire l’efficacia dell’atto: adottare una dimensione adeguata significa rendere effettivo il diritto di difesa, eliminando tutto ciò che è superfluo e, soprattutto, poco chiaro”. Buon senso e duro lavoro[9]: non ci sono scorciatoie, nel processo.
[1] Si tratta ovviamente di quanto scrisse Martin Niemöller sull’avvento del nazismo, spesso attribuite a Brecht.
[2] in questa Rivista un primo commento a cura di B.CAPPONI, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n.1662/S/XVIII, incidentalmente scettico sui temi qui in esame; seguito da quelli dello stesso B.CAPPONI e A.PANZAROLA, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, e di G.SCARSELLI, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/s/XVIII di riforma del processo civile.
[3] Sia consentito il rinvio, ad es., a “Efficienza e comprensibilità come obiettivi deontologici nel linguaggio del civilista” di chi scrive, in “Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali” a cura di A. Mariani Marini e F. Bambi, Pisa University Press, 2013, 69 ss.
[4] Si leggono in https://www.questionegiustizia.it/doc/doc_4_atti_e_provvedimenti.pdf (consult.23.5.2021); v, il mio “Le Linee Guida 2017 degli Osservatori sulla Giustizia Civile sulla redazione degli atti in maniera chiara e sintetica”, in www.judicium.it.
[5] Sia consentito però notare che nel nuovo articolato proposto, nell’art.163 c.p.c. l’indicazione non è riportata, a differenza che nell’art.167, dove lo è, ma chiaramente ai fini del principio di non contestazione. In compenso (…) l’attore deve indicare specificamente mezzi di prova e documenti, mentre al convenuto simile ingiunzione non è rivolta. Come diceva Totò, peraltro, queste son quisquilie, bazzecole, pinzillacchere, sciocchezzuole.
[6] Al riguardo le sfiduciate note di B.CAPPONI e A.PANZAROLA, Questioni e dubbi cit., a mio parere eccessivamente negativi sull’esperienza dei Protocolli.
[7] Nuova licenza richiesta per il rinvio del lettore a “La scrittura degli atti processuali ed il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi”, in www.judicium.it.
[8] Si leggono tra l’altro in https://www.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2017/01/decretosinteticitaATTIprocessuali.pdf (consult.23.5.2021); ma quegli stessi lavori della Comm.Mura prevedevano poi per il giudizio di Cassazione l’introduzione di un ultimo comma all’art.385 c.p.c., secondo il quale “la corte può ridurne o aumentarne l’importo fino ad massimo del 20% se le parti non si sono attenute, nella redazione degli atti difensivi, a criteri di chiarezza e sinteticità”. Del resto, non contiene l’art.4 del D.M. 55/2014, tra i vari criteri per la liquidazione delle spese, quello del “pregio difensivo” ? e non si è data un’indicazione in tal senso con la modifica dello stesso articolo (D.M. N.37/2018) con l’aumento premiale per gli atti telematici “navigabili” ?
[9] Tutti conoscono, tanto che ho ritrosia a rinnovare la citazione, quanto scriveva Pascal nella 16a delle Lettere provinciali: "Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve".
Scrivere meno e meglio, cioè in modo chiaro e conciso, richiede più tempo e fatica: non il contrario.
Sull’efficacia del provvedimento d’urgenza che ha sospeso parte della proclamazione degli eletti del CNF
di Giuliano Scarselli
“E’ insito nel sistema un principio per il quale la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione”.
PROTO PISANI, Rilevanza costituzionale del principio secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, Foro it., 1985, I, 1881.
1. All’esito delle elezioni del componenti del CNF tenutasi alla fine del 2018, taluni avvocati impugnavano dinanzi al TAR Lazio la proclamazione con cui il CNF aveva proclamato gli eletti.
Il TAR Lazio si dichiarava carente di giurisdizione in favore del giudice ordinario, e la causa veniva allora riassunta dinanzi al Tribunale di Roma con procedimento sommario ex art. 702 bis c.p.c.
In corso di causa i ricorrenti richiedevano altresì al Tribunale di Roma provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. volto a sospendere gli effetti della proclamazione, e il Tribunale di Roma, con ordinanza del 13 marzo 2020, accoglieva il ricorso cautelare, e sospendeva “gli effetti della proclamazione a Consigliere Nazionale forense degli avvocati…………”.
Svolto il giudizio di merito in primo grado, previa dichiarazione di difetto di legittimazione delle associazioni forensi e del Ministero della Giustizia, e previa dichiarazione di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata da alcuni dei resistenti, il Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e dichiarava “gli avvocati…………..ineleggibili alla carica di consigliere del Consiglio Nazionale forense”.
I resistenti interponevano appello alla decisione di primo grado e chiedevano inoltre la sospensione cautelare ex art. 283 c.p.c. degli effetti della ordinanza di primo grado pronunciata ex art. 702 quater c.p.c.
La Corte di Appello di Roma, con ordinanza del 17 maggio 2021, premesso che il procedimento non ha ad oggetto una condanna bensì l’accertamento di uno status, dichiarava inammissibile la richiesta ex art. 283 c.p.c. delle parti appellanti, poiché gli “effetti eventualmente esecutivi solamente riflessi e non immediati, peraltro rimessi alla valutazione di altri soggetti, non consentono un ampliamento del perimetro di applicabilità dell’istituto di cui all’art. 283 c.p.c.”.
2. Si chiede, dunque, ciò premesso, se il provvedimento della Corte di Appello di Roma, nella misura in cui, sostanzialmente, ha dichiarato priva di effetti immediati l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. possa aver come ulteriore conseguenza il venir meno (anche) degli effetti del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
E io ritengo, per le ragioni che vado ad esporre, che gli effetti della misura cautelare ex art. 700 c.p.c. non siano venuti meno a seguito della pronuncia della Corte di Appello di Roma.
3. In primo luogo, la durata e l’efficacia delle misure cautelari pendente il processo è disciplinata dall’art. 669 novies c.p.c.
Si legge in tale disposizione al 3 comma che: “Il provvedimento cautelare perde efficacia.se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso”. Il 1 comma invece precisa che il provvedimento cautelare può perdere efficacia se entro sessanta giorni non è iniziata la causa di merito (fatto che tuttavia non riguarda la presente fattispecie) oppure se: “successivamente al suo inizio si estingue”[1].
Dunque, la legge è precisa al riguardo: ottenuta una misura cautelare in corso di causa, la stessa perde efficacia solo se una pronuncia di merito a cognizione piena dichiara inesistente il diritto controverso, oppure se il giudizio di merito si estingue[2]. E in questo contesto, è opinione comune che l’inefficacia dei provvedimenti cautelari non possa darsi se non per eventi menzionati dall’art. 669 novies c.p.c. stante un principio di tassatività delle ipotesi[3].
Poiché, allora, nel nostro caso non esiste una sentenza di merito che abbia dichiarato inesistente il diritto delle parti ricorrenti, ma, anzi, il provvedimento che ha chiuso il procedimento ex art. 702 bis c.p.c. ha confermato l’ineleggibilità dei consiglieri nazionali forensi interessati, e poiché il giudizio di merito non si è estinto, essendo evidentemente ancora pendente dinanzi alla Corte di Appello di Roma, si deve concludere che la misura cautelare concessa ex art. 700 c.p.c. del 13 marzo 2020 in RG 1275-1/2020, è ancora efficace e produttiva di effetti, poiché nessuna fattispecie tra quelle previste dall’art. 669 novies c.p.c. si è realizzata.
4. Ne’, d’altro canto, si può ritenere che, al di là della disciplina dell’art. 669 novies c.p.c., il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. ha perso egualmente efficacia a seguito della definizione della lite in primo grado connessa alla successiva pronuncia della Corte di Appello di Roma ex art. 283 c.p.c.
Per l’esattezza, chi volesse invece sostenerlo, potrebbe argomentare che, una volta pronunciato il provvedimento di merito definitivo del giudizio di primo grado (ordinanza ex art. 702 quater c.p.c.), la misura cautelare ex art. 700 c.p.c. non esiste più ed è assorbita da detta ordinanza che ha chiuso il procedimento; dopo di che, poiché la Corte di Appello di Roma ha statuito che detta ultima ordinanza di merito ex art. 702 quater c.p.c. non produce effetti esecutivi in quanto avente ad oggetto l’accertamento di uno status e non una condanna, nessun provvedimento effettivo/esecutivo sussisterebbe allora più: - non l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. perché espressamente dichiarata non esecutiva dalla Corte di Appello di Roma; - e non l’ordinanza ex art. 700 c.p.c. in quanto assorbita dall’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. che, a sua volta, non ha effetti esecutivi.
Orbene, questo ragionamento, che a qualcuno potrebbe venir in mente di fare, non può però, in verità, a mio parere, essere fatto:
a) in primo luogo perché esso contrasterebbe con il principio di tipicità delle ipotesi di inefficacia delle misure cautelari disciplinate nell’art. 669 novies c.p.c., atteso che quella disposizione prevede il venir meno della misura cautelare a seguito di pronuncia di primo grado di rigetto, non di accoglimento; cosicché immaginare la stessa cosa anche con riferimento alla pronuncia di accoglimento comporterebbe la creazione di una nuova caducazione della misura non espressamente prevista, e contrasterebbe con la ratio della stessa norma, che è quella di sottrarre il provvedimento a chi ha torto, non di far venir meno la tutela cautelare a chi ha ragione.
b) Ma, in ogni caso, l’assorbimento della misura cautelare, in tanto può immaginarsi, in quanto il provvedimento di accoglimento riesca sotto ogni profilo a contenere quello cautelare, ovvero ne abbia tutte le caratteristiche; poiché, se così non è, è evidente che nessun assorbimento può essere dato, in quanto lo stesso altrimenti cancellerebbe quelle peculiarità cautelari che non vi sono nel provvedimento di merito[4].
Si dice che l’assorbimento si ha con “l’esaurimento della funzione cautelare che li caratterizza”[5].
E si dice, conseguentemente, che il c.d. assorbimento si ha solo quando vi sia identità di decisum tra misura cautelare e merito, e solo quando la pronuncia di merito abbia effetti esecutivi al pari della misura cautelare che deve andare ad assorbire[6]; fuori da ciò, nessun assorbimento vi è, e la misura cautelare resta viva anche dopo la definizione del giudizio di primo grado.
Nel nostro caso, pertanto, il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. deve considerarsi non assorbito dall’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c., in quanto:
a) il decisum del provvedimento ex art. 700 c.p.c. è diverso da quello dell’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c.; il provvedimento d’urgenza “sospende gli effetti della proclamazione a Consigliere Nazionale forense degli avvocati…………”; l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. “dichiara gli avvocati…………..ineleggibili alla carica di consigliere del Consiglio Nazionale forense”; dal che, par evidente, le decisioni dei due provvedimenti non si sovrappongono; uno è di sospensione e l’altro è di accertamento; uno, dunque, non in grado di contenere l’altro.
bb) Inoltre, l’ordinanza ex art. 702 quater non ha effetti esecutivi, mentre il provvedimento ex art. 700 c.p.c. ha l’attitudine esecutiva/attuativa di tutte le misure cautelari ex art. 669 duodecies c.p.c.
5. Una volta rilevato, così, che il provvedimento d’urgenza non può dirsi assorbito e/o venuto meno con l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c., va da sè che la decisione della Corte di Appello di Roma ex art. 283 c.p.c. è irrilevante rispetto all’autonoma efficacia del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
Per l’esattezza, la richiesta di una sospensione ex art. 283 c.p.c. è anch’essa, se si vuole e sostanzialmente, una misura cautelare/sommaria[7].
Ciò significa che, nel caso di specie, sussistono due misure cautelari/sommarie: una ex art. 700 c.p.c., l’altra ex art. 283 c.p.c.
E l’una non incide sull’altra, poiché una misura cautelare non è mai in grado di interferire su altra misura cautelare, almeno che la successiva misura cautelare non sia richiesta (anche) ai sensi dell’art. 669 decies c.p.c., ovvero quale provvedimento di revoca o modifica della prima misura cautelare, e questa revoca e/o modifica della prima misura cautelare risulti espressamente dal tenore letterale della seconda misura cautelare.
Ma poiché nel nostro caso questo non è, in quanto la misura della Corte di Appello di Roma non è certamente chiesta in revoca e/o modifica del provvedimento ex art. 700 c.p.c. ne’ niente in modo espresso sussiste su ciò, si deve dunque ribadire che trattasi di due misure distinte e parallele, di cui una non è in grado di produrre conseguenze sull’altra.
6. Ne’ vi è contraddittorietà logica tra il provvedimento ex art. 700 c.p.c. e l’ordinanza ex art. 283 c.p.c., tale da ritenere parimenti venuto meno il primo provvedimento.
Premesso che le misure cautelari non perdono efficacia secondo un generico principio di contraddittorietà, non v’è comunque alcuna contraddizione tra i due provvedimenti: il provvedimento d’urgenza ha sospeso gli effetti della proclamazione; il provvedimento ex art. 283 c.p.c. ha escluso che la dichiarazione di illegittimità della proclamazione sia provvisoriamente esecutiva.
Ciò significa che la ineleggibilità si avrà solo con il passaggio in giudicato, ma questo non contrasta con la necessità che in via cautelare debba sospendersi la proclamazione degli eletti fino a quel passaggio in giudicato; solo, evidentemente, in questi casi, il provvedimento d’urgenza tenderà ad avere una vita più lunga, perché maggiore è normalmente il tempo in cui il diritto controverso ha bisogno di essere cautelato se il provvedimento di merito che chiude il giudizio in primo grado non gode della provvisoria esecuzione.
7. E ancora, il fatto che l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. non sia provvisoriamente esecutiva non intacca ne’ inficia l’attitudine esecutiva/attuativa del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
Sono due provvedimenti distinti e separati, che tali restano e devono restare.
Secondo un insegnamento che risale a Giuseppe Chiovenda[8], a fronte di ogni azione giudiziale di merito, sia questa di accertamento, oppure costitutiva, oppure di condanna, se vi è pericolo imminente di un pregiudizio irreparabile, può esser chiesta una misura che cauteli il diritto fatto valere in giudizio[9], e questa cautela ben può, ed anzi, deve, per il raggiungimento del suo scopo, avere effetti esecutivi/attuativi a prescindere dagli effetti che possa avere poi il provvedimento di merito che definisce il giudizio di primo grado.
Ciò è confermato:
a) da un punto di vista pratico, o della ratio della misura, dalla circostanza che un provvedimento cautelare ha un senso se produttivo di un effetto immediato, che costituisce infatti condizione coessenziale e imprescindibile alla stessa misura cautelare;
b) e da un punto di vista normativo dall’art. 669 terdecies c.p.c. il quale, statuendo che “il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento”, indirettamente asserisce che tutte le misure cautelari godono sempre di una forza esecutiva propria.
Non fosse così, in tutte le controversie, ad esempio, aventi ad oggetto diritti della persona, non si potrebbe mai chiedere provvedimenti cautelari conservativi o anticipatori perché inseriti in contesti ove la decisione di primo grado non è normalmente provvisoriamente esecutiva; invece è questo un settore dove le misure cautelari abbondano, perché, come detto, la circostanza che la sentenza di primo grado non sia provvisoriamente esecutiva, non impedisce alla misura cautelare di godere egualmente di una autonoma e pronta forza di attuazione.
8. Dunque, in estrema sintesi:
a) un provvedimento d’urgenza può essere richiesto e concesso anche a fronte di un giudizio avente ad oggetto un diritto della personalità o uno status, ovvero anche a fronte di diritti che vengono decisi con provvedimenti di merito che non godono della provvisoria esecuzione.
b) Questo niente toglie alla esecutività della misura cautelare concessa in quel contesto; la misura cautelare, anche in quel contesto, e per sua struttura, è sempre idonea alla esecuzione/attuazione ai sensi degli artt. 669 duodecies e terdecies c.p.c.
c) In queste ipotesi, inoltre, la pronuncia di merito di accoglimento che chiude il processo in primo grado non assorbe, e non fa venir meno, la misura cautelare concessa in corso di causa, in quanto tal provvedimento di merito non è capace di interamente contenere l’oggetto e gli effetti della misura cautelare.
d) Dal che, l’autonomia della misura cautelare rispetto alla decisione di merito rende poi irrilevante alla prima ogni decisione ex art. 283 c.p.c.
e) La misura cautelare, così, ai sensi degli artt. 669 novies e decies c.p.c. può venir meno solo: a) dinanzi ad una sentenza di merito che neghi il diritto cautelato; b) a seguito dell’estinzione del processo; c) a fronte di nuova misura cautelare che espressamente la revochi o la modifichi; d) ed infine, ovviamente, a fronte del formarsi della cosa giudicata sul diritto già oggetto di cautela. Non altro.
9. Non contraddice tutto questo, infine, la recente pronuncia Cass. 7 ottobre 2019 n. 24939, per la quale: “La tutela cautelare dei diritti fatti valere, in un giudizio di condanna o di accertamento costitutivo, si può concretare in una misura di salvaguardia dell'effetto esecutivo che ne può derivare, volto a rendere possibile la soggezione del debitore alla sanzione esecutiva, ma tale tutela cautelare non può generare l'effetto dichiarativo o la costituzione giudiziale di un diritto - effetto che certamente può derivare solo dalla sentenza”.
La decisione, infatti, attiene al contenuto del provvedimento cautelare e non alla sua efficacia; e, come può vedersi, semplicemente avverte che la misura cautelare può assolvere solo la funzione di assicurazione del diritto, ma non può anticiparlo ne’ dichiararlo in via preliminare, visto che tale effetto “certamente può derivare solo dalla sentenza”[10].
Ma questo è conforme a quanto avvenuto in questa vicenda.
Il provvedimento d’urgenza in questione, infatti, non ha dichiarato ineleggibili i componenti, e dunque non ha anticipato qualcosa che può discendere solo dalla sentenza.
Il provvedimento d’urgenza del Tribunale di Roma si è solo preoccupato della “salvaguardia del diritto costituendo”; e, a cautela del diritto azionato, ha sospeso i consiglieri da ritenere ineleggibili, senza dichiararli tali, e quindi senza anticipare il giudizio di merito.
Tutto questo, tuttavia, ripeto ancora, non ha niente a che vedere con l’efficacia e la durata della misura cautelare anticipatoria concessa ex art. 700 c.p.c., che resta, appunto, quella indicata.
[1] Da ricordare che il 1° comma dell’art. 669 novies c.p.c. non si applica, o è di dubbia applicazione, in base all’art. 669 octies, 6° comma c.p.c., al nostro caso, che ha ad oggetto un provvedimento d’urgenza.
La questione non è tuttavia centrale nell’economia del problema trattato.
Precisamente, se ci atteniamo all’aspetto formale, secondo il quale il provvedimento cautelare pronunciato dal Tribunale di Roma è un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., allora dovremmo convenire che lo stesso gode di una stabilità ancora maggiore di quella descritta nel testo, ovvero che sopravvive addirittura ad una eventuale estinzione del processo, e ciò per la mancata applicazione del 1° comma dell’art. 669 novies c.p.c. disposta dall’art. 669 octies, 6° comma c.p.c.
Se viceversa facciamo prevalere la sostanza alla forma, e riteniamo che il provvedimento, ancorché pronunciato ex art. 700 c.p.c., ha contenuto di sospensione, e quindi ha natura cautelativa e non anticipatoria, allora l’estinzione del processo lo coinvolge e lo fa venir meno ai sensi del 1° comma dell’art. 669 novies c.p.c. (questa, personalmente, è la mia opinione, conforme ora a Cass. 7 ottobre 2019 n. 24939).
In ogni caso, niente muta rispetto al problema qui affrontato.
[2] Ovviamente, poi, ogni misura cautelare perde altresì efficacia con il formarsi della cosa giudicata, ovvero con la definizione del giudizio sul diritto relativamente al quale la misura cautelare, evidentemente, svolge una funzione strumentale.
Non è comunque questo un aspetto che rileva a fronte del problema posto.
[3] Così Cass. 21 agosto 2007 n. 17778, per la quale i provvedimenti cautelari perdono efficacia solo nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 669 novies c.p.c. “essendo prevista la caducazione del provvedimento nelle sole ipotesi tassative di cui all'art. 669 novies c.p.c.”.
[4] Così MERLIN, Il processo cautelare, Padova, 2011, 455: “Certamente, la sentenza di accoglimento, dotata per legge di immediata efficacia esecutiva, dovrebbe di norma assorbire ogni esigenza di tutela dell’attore vittorioso. Tuttavia occorre considerare le ipotesi in cui la sentenza non è dotata di immediata efficacia esecutiva. Ed in tali casi mi pare non possono nutrirsi ragionevoli dubbi nell’accogliere la soluzione favorevole alla sopravvivenza della misura cautelare”.
[5] In questo senso Cass. 28 aprile 2006 n. 9936; Cass. 11 marzo 2004 n. 4964; Cass. 27 dicembre 1993 n. 12787; Cass. 29 ottobre 1992 n. 11770; Cass. 27 luglio 1992 n. 9008, le quali tutte considerano il c.d. assorbimento subordinato a dette condizioni.
Nello stesso contesto logico si inserisce, a mio avviso, anche Cass. 4 giugno 2008 n. 14765, che, seppur dichiari venuto meno un sequestro a seguito di sentenza di merito di accoglimento, lo fa sullo base del principio del “raggiungimento dello scopo”.
[6] V. anche, sul punto, RECCHIONI, I procedimenti cautelari, Torino, 205, 646, per il quale: “Mi parrebbe quindi necessario, riguardata la vicenda giudiziale nella sua complessità, se il provvedimento finale sia capace di fornire protezione immediata a tutti i profili possibili della vicenda, anche prima del suo passaggio in giudicato o meno; e in questa seconda ipotesi, concludere per la permanenza in vita della misura cautelare che, dunque, può considerarsi fonte concorrente o meglio ausiliare o di complemento dell’altra”.
[7] Sulla natura cautelare dei provvedimenti ex art. 283 c.p.c. v. Cass. 21 febbraio 2007 n. 4024 e Cass. 1 marzo 2005 n. 4299, per le quali: “L'ordinanza, emessa ai sensi dell'art. 283 c.p.c. ha carattere provvisorio e cautelare”. Natura cautelare, normalmente, si attribuisce poi a tutti i provvedimenti di sospensione, quali la sospensione dell’esecuzione (Cass. 10 marzo 2006 n. 5368), la sospensione delle delibere assembleari di società o di condominio (Cass. 2 marzo 1999 n. 1748), ecc……..
[8] Ricordo in proposito PROTO PISANI, Rilevanza costituzionale del principio secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, Foro it., 1985, I, 1881, in nota alla celebre pronuncia, che vedeva come relatore Virgilio Andrioli, Corte Cost., 28 giugno 1985 n. 190.
[9] V. PAGNI, Provvedimenti d’urgenza, voce dell’Enc. Giur. Sole 24 Ore, XII, 492: “Non dissimile è l’ulteriore problema dell’ammissibilità di una tutela atipica volti ad assicurare gli effetti della pronuncia di mero accertamento…….essa potrebbe estendersi ad abbracciare i casi in cui il ricorso si traduca in una sorta di inibitoria, volta a vietare al resistente quel comportamenti che un domani andrebbero ad infrangersi contro il dictum giudiziale passato in giudicato”.
[10] Da rilevare, comunque, che tutta la riflessione della Corte è dovuta alla necessità di decidere se un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. di sospensione di una delibera assembleare (e quindi di un provvedimento cautelare che possiamo ritenere analogo a quello del Tribunale di Roma qui in esame) sopravvive o meno all’estinzione del processo; e la Corte di Cassazione, con questa pronuncia, ha ritenuto che non vi sopravviva; e io, personalmente, concordo con questa decisione, che tuttavia, come già fatto presente in nota n. 1, non ha rilevanza al fine del tema qui dibattuto.
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