Nemo tenetur se detegere: potenzialità espansive della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale sul sistema tributario
di Andrea Sciacca
Sommario: 1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021 - 2. Il diritto al silenzio nel sistema interno e sovranazionale - 2.1. Lo ius tacendi nel quadro della garanzia dell’art. 24, comma 2, Cost. e dell’art. 27, comma 2, Cost. - 2.2. SEGUE: Il diritto al silenzio oltre il ristretto ambito del processo penale - 3. La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti tributari volti ad irrogare sanzioni - 4. Diritto al silenzio e obblighi di collaborazione - 4.1. Le sanzioni tributarie - 4.2. Le sanzioni improprie - 4.2.1. L’inosservanza dell’ordine di esibizione disposto dal Giudice - 4.2.2. Le preclusioni probatorie.
1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021
Queste brevi riflessioni alla sentenza n. 84 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che consacra l’operatività del diritto al silenzio nel campo del diritto sanzionatorio generale, si prefiggono l’obiettivo di esaminare le ripercussioni della pronuncia nell’ordinamento tributario italiano, costellato da norme che non solo garantiscono all’Amministrazione Finanziaria un ampio potere di accesso alle informazioni ma che prevedono sanzioni per il contribuente nelle ipotesi di “rifiuto alla collaborazione”.
La questione sottoposta al vaglio della Consulta nasce dalla vicenda di un amministratore di società assoggettato a sanzione pecuniaria per non avere risposto alle “domande” della Consob su operazioni finanziarie sospette da lui compiute[1].
L’interessato aveva impugnato la sanzione, sostenendo di aver esercitato legittimamente il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.
La Corte di Cassazione, investita del caso, aveva sollevato nel 2018 questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies TUF, che prevede una sanzione da 50.000 a un milione di euro (nella formulazione vigente al momento del fatto addebitato al ricorrente) a carico di chi “non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia o della CONSOB”, senza alcuna eccezione in favore di chi sia già sospettato di avere commesso un illecito[2]. Con l’ordinanza n. 117 del 2019, la Corte Costituzionale, nella considerazione che la questione di legittimità proposta dalla Suprema Corte implicasse la valutazione di una pluralità di assetti normativi sia di matrice nazionale sia di diretta derivazione comunitaria, sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva”[3].
Con la sentenza del 2 febbraio 2021, causa C-481/19[4], la Corte di Giustizia chiariva che il diritto al silenzio è parte integrante dei principi dell’equo processo, così come riconosciuti dalla stessa Carta dei diritti fondamentali UE.
Tale diritto – proseguivano i giudici di Lussemburgo – opera anche nell’ambito di quei procedimenti all’esito dei quali possono essere irrogate sanzioni aventi carattere punitivo, come quelle previste nell’ordinamento italiano per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate.
La Consulta, rilevando che l’interpretazione della disciplina comunitaria fornita dalla Corte di Giustizia collima con la lettura del diritto al silenzio che la stessa Corte italiana aveva offerto nel proprio rinvio pregiudiziale, in armonia con le indicazioni provenienti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, con la pronuncia in commento dichiarava incostituzionale l’art. 187 quinquiesdecies citato, “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
Ad avviso della Corte italiana, dunque, dal diritto al silenzio discende l’impossibilità di punire una persona fisica che si sia rifiutata di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto dalla Banca d’Italia o dalla Consob, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o addirittura penale[5].
2. Il diritto al silenzio nel sistema interno e sovranazionale
Non v’è chi non veda nella commentata sentenza l’occasione per tracciare direttrici di sorprendente rilevanza in materia di diritto al silenzio anche nell’ordinamento tributario.
Tuttavia, prima di procedere allo studio del tema, si rivelano opportune alcune considerazioni di carattere generale e storico al fine di individuare le radici su cui poggia lo ius tacendi ed il terreno su cui esso si è sviluppato al fine di meglio comprenderne la vis espansiva.
2.1. Lo ius tacendi nel quadro della garanzia dell’art. 24, comma 2, Cost. e dell’art. 27, comma 2, Cost.
Quello del diritto al silenzio rappresenta uno dei temi classici, tra i più coinvolgenti e ricorrenti, nella storia del processo penale, in quanto corollario essenziale dei principi fondamentali, riconosciuti negli ordinamenti democratici, propri di un processo accusatorio che è, per l’appunto, imperniato sul nemo tenetur se detegere che è massima enunciata da Thomas Hobbes e recepita nel diritto inglese sin dal XVI secolo[6].
Già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione italiana, con la proclamazione dell’inviolabilità del diritto alla difesa di cui all’art. 24, comma 2, e del principio di presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, emerse con chiarezza una ritrovata sensibilità per la problematica relativa alla posizione dell’imputato e alle forme e limiti del suo diritto di (auto)difesa.
In tale contesto, la possibilità per un soggetto di invocare il “privilegio” contro l’auto-incriminazione rappresenta la principale facoltà sottesa al diritto di autodifesa passiva, cioè al diritto di non fornire elementi di prova in proprio danno, preferendo rimanere – totalmente o parzialmente – in silenzio, in luogo di rendere dichiarazioni, verosimilmente, autoincriminanti[7].
Sebbene nel nostro ordinamento sia ormai incontestabile che il diritto al silenzio sia un corollario del diritto fondamentale garantito dall’art. 24, comma 2, Cost.[8] (che, comunque, non riconosce espressamente la facoltà di non collaborare con l’autorità procedente), il testo costituzionale non fornisce alcuna precisazione circa le modalità o i confini del suo esercizio.
In ambito penale, tale privilegio trova, oggi, ampio riconoscimento nella disciplina codicistica. In particolare, a titolo esemplificativo, la persona sottoposta alle indagini preliminari deve essere avvertita che, salvo l’obbligo di dichiarare le proprie generalità e quant’altro valga ad identificarla (artt. 66, comma 1, c.p.p., 21 disp. att. c.p.p.), “ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda” (art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p.). Tale avviso è obbligatorio, a pena d’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’interrogato (art. 64, commi 3, lett. b) e 3-bis, c.p.p.)[9].
La regola descritta si applica durante ogni fase del procedimento penale, nella totalità degli atti costituenti formalmente un “interrogatorio” dell’indagato o dell’imputato; come pure in tutti quelli che risultano, sostanzialmente, ad esso assimilabili, in quanto possibili sedi di domande all’incolpato[10].
2.2. Segue: Il diritto al silenzio oltre il ristretto ambito del processo penale
Benché il privilegio contro l’auto-incriminazione sia nato e si sia sviluppato nel campo del processo penale, a partire dagli anni Ottanta, prima la Commissione e, dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo nonché la Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno intrapreso un articolato cammino nell’evidente tentativo di ampliare lo spettro di applicazione del diritto al silenzio e riconoscere un’anticipazione della tutela processuale posta dalla Convenzione EDU, nonché dal Patto sui diritti civili e politici, a fasi che precedono il momento della formalizzazione dell’accusa penale da parte degli organi inquirenti.
La ricerca della formula corretta che consentisse l’estensione delle garanzie sul “giusto processo” a contesti esterni – e precedenti – rispetto al processo, ha difatti permesso di guardare oltre il ristretto ambito del processo penale, determinando, così, la possibilità che il diritto al silenzio potesse applicarsi a settori in cui si ravvisa l’esercizio di meri poteri amministrativi di indagine e controllo nei confronti dei cittadini[11].
Pur nel rispetto delle esigenze di sintesi che si impongono in questa sede, si rende necessaria una rapida ricognizione delle principali “tappe” sul tema al fine di cogliere lo spunto logico-concettuale al quale la decisione in commento è ispirata.
La sentenza 84 del 2021 della Corte Costituzionale (a cui non si nega il carattere innovativo) si innesta in un percorso già intrapreso dalla stessa Consulta – nel dialogo con la Corte di Strasburgo – allorquando, con precedenti pronunce, aveva affermato che singole garanzie riconosciute in materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendono anche a tutte le sanzioni di natura punitiva.
Il presupposto di un simile approccio deve individuarsi nella consolidata giurisprudenza europea sulla nozione sostanziale di sanzione penale, basata sui parametri enucleati dalla sentenza Engel (c.d. Engel criteria)[12].
Ai fini dell’applicazione delle garanzie previste dalla Convenzione, sono infatti riconducibili alla materia penale tutte quelle sanzioni che, pur se non espressamente qualificate come penali dagli ordinamenti nazionali, hanno una connotazione afflittiva, sono rivolte alla generalità dei consociati e perseguono uno scopo repressivo e preventivo.
Tali criteri non trovano applicazione in via cumulativa, ma alternativa, sicché è sufficiente l’integrazione anche di uno solo di essi per giungere a considerare come lato sensu “penale” un illecito[13].
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha così offerto un’interpretazione autonoma della nozione di “accusa penale”[14]; approccio fatto proprio anche dalla Corte di Giustizia.
Sulla base di tali premesse concettuali, i Giudici di Strasburgo sono stati più volte chiamati a pronunciarsi sulla compatibilità con la Convenzione di procedimenti amministrativi non rispettosi delle garanzie da essa riconosciute tra cui, per l’appunto, il diritto al silenzio.
L’apertura alla più ampia tutela dell’esercizio del diritto a non autoincriminarsi, quale manifestazione delle garanzie previste dalla CEDU, fu tale da includere anche la materia tributaria[15].
Va segnalata, al riguardo, un’importante evoluzione della giurisprudenza europea.
Storicamente, le prime pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano inquadrato la questione sull’applicazione del diritto al silenzio alla materia fiscale, in assenza di una espressa disposizione, nell’ambito dell’art. 8 della Convenzione[16] il quale, nel disciplinare il “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, al secondo paragrafo, dispone che “non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Com’è noto, la Corte EDU ha escluso l’applicazione dell’art. 6 della Convenzione alle liti tributarie in quanto, attesa la natura pubblicistica del rapporto tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria, esse vertono su obbligazioni che, seppur di contenuto patrimoniale, riguardano doveri civici imposti in una società democratica[17].
A sostegno di tale impostazione milita un argomento di carattere letterale in quanto l’art. 6 prevede una serie di garanzie procedurali per i casi in cui vi sia una contestazione su “diritti e doveri di carattere civile” ovvero si verta “sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata” nei confronti della persona.
In tempi più recenti, la Corte EDU ha dimostrato un’insolita apertura rispetto al granitico orientamento espresso nella sentenza Ferrazzini[18], riconoscendo l’operatività di alcune prerogative del giusto processo – come quella del diritto al silenzio – anche in controversie di natura prettamente fiscale[19].
Invero, la Corte europea dei diritti dell’uomo, mutando prospettiva, ha ricondotto la questione nell’ambito dell’art. 6 della Convenzione, ritenendo che la posizione del contribuente sottoposto ad accertamento sia sostanzialmente equiparabile a quella del soggetto indagato in un procedimento penale.
Il licenziamento dell’art. 8 in favore dell’art. 6 della Convenzione, ha fatto sì che l’oggetto della tutela fosse non più di carattere sostanziale (diritto alla riservatezza) ma di natura eminentemente processuale (diritto di difesa)[20], sicché lo stesso art. 6 va, oggi, riconosciuto come parametro di legalità che il Legislatore ed Giudice tributario devono rispettare tutte le volte in cui la sanzione comminata dall’Amministrazione tributaria sia connotata dal carattere di afflittività[21].
3. La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti tributari volti ad irrogare sanzioni
Le argomentazioni addotte dalla Consulta nella sentenza del 30 aprile 2021 si pongono in soluzione di continuità con quanto affermato dalla giurisprudenza europea; a ben vedere, i parametri normativi nazionali e non richiamati, segnatamente, l’art. 24 Cost., l’art. 6 CEDU e gli artt. 47 e 48 CDFUE contribuiscono, complessivamente considerati, alla definizione della nozione di diritto di difesa e degli standard minimi di tutela per il suo esercizio.
Nel solco di detto corposo e ormai prevalente orientamento, può sostenersi che la difesa può realmente essere detta inviolabile solo ove sia garantita la libera scelta di tacere, in quanto non v’è dubbio che ove sussistesse un generale obbligo di rispondere secondo verità, altro non vorrebbe dire che riconoscere un obbligo di confessione. Affermare l’esistenza di un simile obbligo verso un’autorità diversa da quella giudiziaria, ma che a questa abbia l’obbligo di riferire, comporta un’innegabile esposizione a rischio di incriminazione.
Pur partendo dal dato acquisito con le recenti pronunce della Corte di giustizia UE, 2 febbraio 2021, C-481/19, DB c. Consob e della Corte costituzionale qui in commento, secondo cui il diritto al silenzio deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi, suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale, non può comunque affermarsi che le molteplici e complesse problematiche inerenti al sistema tributario possano tout-court dirsi risolte.
L’applicabilità del diritto in questione alla materia tributaria rimane, infatti, controversa sotto diversi profili.
Se in generale il diritto al silenzio, nella sua impostazione penalistica classica, implica, da un lato, che le autorità statali debbano esercitare i loro poteri di indagine senza ricorrere ad abusi o a coercizioni della volontà del soggetto imputato e, dall’altro, che l’indagato venga tutelato dalle illegittime pressioni delle stesse autorità sin dalla fase delle indagini per assicurare un equo processo, gli aspetti applicativi sono tutt’altro che di immediata soluzione.
Volere definire l’esatta portata del diritto al silenzio comporta l’analisi di quattro tradizionali problemi interpretativi: stabilire quale rischio legittimi l’attivazione di tale diritto; stabilire il contesto in cui possa essere esercitato tale diritto; stabilire quali siano le condotte consentite nell’esercizio di tale diritto; stabilire quali conseguenze giuridiche, quali regimi giuridici possano confliggere con tale diritto.[22]
Si può, oggi, affermare che la Consulta abbia dato puntuali risposte (solo) ad alcuni di tali quesiti rendendo, comunque, la materia tributaria potenzialmente fertile all’attuazione del principio del nemo tenetur quo detegere.
Una prima risposta all’interrogativo su quale sia il rischio al ricorrere del quale può essere invocato il privilegio contro l’auto-incriminazione si desume dalla condivisione, da parte della Corte costituzionale, dei principi espressi dalla giurisprudenza europea secondo cui le singole garanzie previste per la materia penale vadano estese alle sanzioni che derivano da procedimenti amministrativi, pur se non qualificate come penali dall’ordinamento nazionale, purché assumano una natura punitiva (secondo gli Engel criteria)[23].
Per quanto concerne il contesto in cui può essere esercitato il diritto al silenzio, ci si chiede(va) se esso è invocabile nel solo ambito del procedimento/processo penale o anche in una fase antecedente ed esterna a questo.
Superando la propria impostazione restrittiva, la Consulta, con la pronuncia in commento, ampliando lo spettro d’azione del diritto in esame, ha dato una risposta positiva alla seconda alternativa.
Decisivo, in tal senso, estendere la garanzia in capo a colui a cui vengono richiesti documenti o informazioni, indipendentemente dalla eventualità che gli sia già stata contestata la commissione di un reato[24].
Sostiene la Consulta, difatti, che il diritto al silenzio opera “nell’ambito di procedimenti amministrativi che – come quello che ha interessato il ricorrente nel giudizio a quo – siano comunque funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili, e siano suscettibili di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo”[25].
Per quanto concerne le condotte protette da tale diritto, considerato che il silenzio – alla luce di quanto fin qui esposto – va inteso come astensione dal “parlare” (o mostrare), vanno ritenute scriminate solamente le condotte omissive e non anche quelle positive quali, per esempio, le condotte di mendacio, o di falsificazione materiale o ideologica, ovvero di frode.
È, dunque, giustificato astenersi per non cooperare alla propria incriminazione ma non agire allo scopo di evitarla.
Così delineata, traslata nell’articolato ordinamento tributario (dagli obblighi di dichiarazione al contenzioso), tale facoltà riconosciuta al contribuente si rivela foriera di conseguenze di notevole impatto, posto che la normativa fiscale è fitta di obblighi di condotta (di collaborazione) che potrebbero portare ad una autodenuncia della commissione di illeciti.
Ne consegue che tutte le volte in cui la collaborazione che viene chiesta implichi l’esposizione al rischio di una conseguenza punitiva, il contribuente non può essere costretto, neppure mediante la minaccia di sanzioni per l’omessa collaborazione, a rivelare alcunché[26].
Rivelandosi di particolare complessità, e incidendo su fattispecie eterogenee, nel prosieguo verranno delineate le ipotesi che maggiormente (e potenzialmente) vengono “incise” dall’applicazione del diritto al silenzio.
4. Diritto al silenzio e obblighi di collaborazione
Quanto esposto finora offre un’utile piattaforma su cui sviluppare l’esame della normativa vigente nel nostro ordinamento tributario al fine di identificare perplessità e incertezze applicative provocate dell’esercizio del diritto a non autoincriminarsi.
Come anticipato, la normativa tributaria contiene numerose norme che prevedono, a fronte di oneri e obblighi di collaborazione (si pensi all’obbligo di dichiarazione, di autoliquidazione, di versamento, di tenuta della contabilità, ecc.), sanzioni per il contribuente che si rifiuti di adempiervi.
Indubbiamente il “peso” gravante sul contribuente costituito dalla presenza di tali obblighi non implica un problema di possibile conflitto con il diritto al silenzio.
Essi trovano il loro fondamento nell’art. 2 Cost., che impone l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, specificato poi dall’art. 53 Cost., e sono volti a far ostendere e rilevare la ricchezza e si pongono come strumentali al dovere gravante su ogni individuo di partecipare e concorrere alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva.
Il problema del diritto al silenzio non può dunque porsi rispetto agli obblighi dichiarativi e strumentali all’adempimento dei doveri tributari primari, in un momento in cui non può neppure astrattamente esistere una violazione, ma per gli eventuali doveri di collaborazione al controllo dell’avvenuto adempimento dei propri obblighi.
Sicuramente lo svolgimento dell’attività istruttoria da parte dell’Amministrazione finanziaria comporta un’intromissione nella sfera soggettiva del contribuente. Si tratta, tuttavia, di un’ingerenza che deve realizzare il giusto contemperamento fra opposte esigenze: da un lato, quella degli Uffici di ricercare e raccogliere dati ed elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, nonché ai fini dell’individuazione delle violazioni delle norme tributarie; dall’altro, quella del contribuente a che l’attività di indagine cui viene sottoposto sia svolta in modo legittimo, non travalichi i limiti imposti dalla legge e non arrechi pregiudizio a situazioni giuridiche soggettive.
Orbene, in taluni casi, può verificarsi la circostanza in cui l’adempimento da parte del contribuente dei doveri di collaborazione nei confronti dell’Amministrazione finanziaria nell’esercizio di poteri di accertamento e controllo, implichi per lo stesso contribuente l’obbligo di fornire informazioni riguardanti l’esistenza di fatti fiscalmente rilevanti; il disvelamento di tali informazioni assolve, com’è ovvio, la funzione di garantire il regolare svolgimento dell’attività di accertamento da parte dell’Ufficio, evitando che il contribuente possa, mediante azioni od omissioni, intralciarne l’esercizio.
Tuttavia, tale forma di collaborazione richiesta al contribuente non può ritenersi illimitata, al punto da porre il contribuente nella situazione di dover rendere dichiarazioni o esibire documenti che possano esporlo al rischio di “autoincriminarsi”.
Pertanto, se l’ordinamento tributario prevede degli obblighi di cooperazione ai controlli contra se, sono questi a poter confliggere con il diritto al silenzio, in quanto obblighi di collaborazione all’accertamento della commissione di eventuali violazioni proprie, già ipoteticamente avvenute[27].
L’impatto del diritto al silenzio, dunque, dovrebbe dispiegarsi soltanto rispetto a quelle fattispecie in cui il dovere di collaborare con l’autorità amministrativa è volto esclusivamente ad agevolare la funzione investigativa/accertativa/sanzionatoria della pubblica autorità.
Posta tale premessa, ci si deve chiedere se, in quali ipotesi ed in che misura può postularsi, all’interno del sistema di tutela dei diritti del contribuente, un generale diritto al silenzio invocabile allorché la risposta alla richiesta di informazioni o esibizione di documenti da parte dell’Amministrazione finanziaria risulti potenzialmente idonea ad esporlo al rischio di incorrere in sanzioni sia penali sia di natura amministrativa.
4.1. Le sanzioni tributarie
Si pone il problema, anzitutto, di coniugare il diritto al silenzio con le sanzioni pecuniarie, in materia di imposte dirette e IVA, disposte dal D.Lgs. n. 471/1997, agli artt. 9 e 11, per chi ometta di rispondere alle richieste istruttorie dell’Agenzia delle Entrate. Ci troviamo dinanzi a sanzioni punitive, in palese conflitto con il diritto a tacere e, pertanto, da ritenersi illegittime[28].
In tema di sanzioni dirette suscettibili di entrare nel fuoco di un possibile conflitto con il diritto in esame, è evidente che è il campo penale tributario (reati in materia di imposte sui redditi e IVA) quello che si espone maggiormente all’utilizzo della strategia difensiva del silenzio, che si rivela particolarmente efficace soprattutto nei casi in cui vi è consapevolezza, nel soggetto sottoposto a verifica, di essere colpevole di reati di notevole gravità.
Diversi interrogativi sulla compatibilità del diritto si pongono in relazione:
- all’art. 10, D.Lgs. n. 74/2000 che punisce chi occulta o distrugge scritture contabili o documenti di cui è obbligatoria la conservazione. La fattispecie di reato consiste, pertanto, nell’occultamento, totale o parziale, di documenti rilevanti ai fini fiscali.
- all’art. 11, D.L. n. 201/2011, che punisce trasmissioni mendaci, incomplete o semplicemente non veritiere di documenti necessari al completamento delle procedure d’accertamento;
- (per stretto collegamento) all’art. 216, comma 1, n. 2) R.D. n. 267/1942 (bancarotta fraudolenta) e alla fattispecie generale prevista all’art. 490 c.p. (soppressione, distruzione e occultamento di atti veri).
Va osservato che l’efficacia scriminante del diritto al silenzio va perimetrata con riguardo soltanto – per quanto già esposto al paragrafo precedente – alle condotte di omessa collaborazione, cioè condotte di natura omissiva: le condotte di distruzione delle scritture contabili vanno ben oltre la semplice omissione e quindi non appaiono coperte dal diritto al silenzio.
Analogamente, non si pongono in conflitto con la portata del diritto al silenzio le sanzioni previste per l’eventuale commissione di delitti di falso durante i controlli. Le condotte che integrano il falso, ideologico o materiale, vanno ben oltre l’omettere di cooperare.
Controversa è, invece, la configurazione delle condotte di occultamento[29] che, a ben vedere, si prestano a tratteggiare linee diametralmente opposte.
Potrebbe presentarsi la situazione in cui il contribuente soggetto a verifica fiscale possa “per strategia” rifiutarsi di produrre documenti richiesti con l’intenzione di potere invocare successivamente, in giudizio, la tutela del diritto al silenzio e, così, godere della copertura delle garanzie previste dalla Costituzione e dall’art. 6 CEDU, evitando di essere sanzionato.
Può affermarsi che non è concettualmente equiparabile una condotta negativa (omissiva) all’occultamento. In effetti, l’occultamento postula un’azione, una condotta positiva ulteriore rispetto a quella di non fornire o non indicare la collazione di documenti o atti richiesti consistente, per l’appunto, a spostare, a nascondere le scritture contabili dalla loro collocazione originaria in modo da sottrarla temporaneamente alla cognizione altrui.
Tuttavia – si potrebbe obiettare – è sufficiente ai fini dell’integrazione dell’occultamento il fatto che i documenti contabili non siano rinvenuti? È sufficiente che il contribuente non le fornisca o bisogna dimostrare che il contribuente le ha spostate rispetto a un luogo “fisiologico”?[30]
Tale onere, in questa prospettiva, spetterebbe all’Amministrazione finanziaria che, non potendo obbligare il contribuente alla consegna materiale dei documenti, neppure con la previsione di una sanzione[31], sarebbe costretta, per ovviarvi, ad approfondite indagini che richiedono l’aumento dell’attività ispettiva tributaria e di vigilanza.
In un contesto ancora così nebuloso, spetterà all’interprete stabilire e delineare la corretta interazione tra condotte di occultamento e diritto al silenzio.
Sicuramente, sul tema non va sottaciuto un interrogativo, che rimarrà senza risposta: qualora la domanda dell’Autorità dovesse riguardare (come nella maggior parte dei casi) documenti fiscali per cui ex legibus[32] è obbligatoria la tenuta e la conservazione, si delinea uno vero e proprio paradosso in cui, da un lato, il contribuente è giuridicamente obbligato a detenere tale materiale (con quale fine?) ma, dall’altro, ha facoltà di non esibirlo esercitando, attraverso una condotta “omissiva”, il diritto di difesa.
4.2. Le sanzioni improprie
Conseguenze maggiormente innovative potrebbero configurarsi rispetto alle c.d. sanzioni improprie.
Ci si deve interrogare sulla portata del diritto al silenzio rispetto a quelle conseguenze sfavorevoli, anche se non propriamente definite sanzionatorie, cui un contribuente è in astratto esposto qualora non collabori.
Sotto il profilo procedurale, la prima conseguenza, forse quella che più incide sul contribuente e che non può non essere classificata come sfavorevole, è l’applicazione da parte dell’Amministrazione del metodo di accertamento di tipo induttivo extracontabile di cui all’art. 39, co. 2, D.P.R. n. 600/1973[33] in conseguenza della mancata produzione nel corso di attività ispettive o indagini delle scritture previste dalla legge.
Al ricorrere delle circostanze di cui al citato art. 39, l’Amministrazione può determinare la ricchezza del contribuente sulla base di uno standard probatorio attenuato, ossia avvalendosi di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Potrebbe sostenersi, prima facie, che tale attenuazione, comportando conseguenze sfavorevoli al contribuente si porrebbe in contrasto con il diritto al silenzio esercitato dallo stesso.
In realtà, l’inquadramento della fattispecie in esame non è univoco.
Da un lato, la scelta di procedere all’accertamento della ricchezza con degli standard accertativi minori, potrebbe rivelarsi necessaria, proporzionata e ragionevole a fronte di un contesto probatorio povero[34].
Invero, se il silenzio è esercitato per l’esigenza di non autoincriminarsi, può ammettersi una minor garanzia di precisione dell’accertamento solo qualora la non collaborazione del contribuente abbia comportato un contesto conoscitivo scarso tale da legittimare accertamenti meno analitici e puntuali da parte degli Uffici.
Diversamente, sarebbe da considerare illegittimo l’accertamento disposto come sanzione conseguente alla mancata collaborazione a fronte di un quadro probatorio che permette un accertamento comunque più preciso perché, cosi operando, l’accertamento induttivo “punirebbe” il contribuente che vedrebbe accertata con imprecisione e approssimazione la propria ricchezza laddove tale verifica potrebbe essere fatta comunque in modo preciso e puntuale.
4.2.1. L’inosservanza dell’ordine di esibizione disposto dal Giudice
Altro settore che può essere interessato dalla portata del diritto al silenzio è quello relativo alle conseguenze giuridiche per l’inottemperanza all’ordine di esibizione di documenti disposto dal Giudice.
Si pensi all’art. 2711 c.c. che disciplina le ipotesi di comunicazione ed esibizione dei libri e delle scritture contabili. Le norme ivi contenute si collocano tra le regole sull’istruzione probatoria e completano la disciplina probatoria delle scritture contabili di cui agli artt. 210 e 212 c.p.c., espressamente dedicati all’esibizione delle prove e, in particolare, all’esibizione dei documenti.
L’inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti (nel caso dell’art. 210 c.p.c. ammesso nel processo tributario come strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa), integra un comportamento dal quale il giudice può, nell’esercizio di poteri discrezionali, desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116, comma 2, c.p.c.[35].
Per cui, sebbene le norme in tema di esibizione non contemplino sanzioni, l’inottemperanza all’ordine comporta delle conseguenze negative nei confronti della parte su cui grava tale onere, parte che potrebbe legittimamente decidere di non esibire i documenti richiesti, non collaborando ad una completa istruzione probatoria invocando il diritto al silenzio.
Sul tema è determinante stabilire, in mancanza di una sanzione (neppure astratta), fin dove possa “spingersi” il giudice nel valutare, ai fini del decidere, la mancata osservanza dell’ordine di esibizione e se le conseguenze siano tali da comportare una frizione con l’esercizio del diritto al silenzio.
4.2.2. Le preclusioni probatorie
Altro campo che si presta ad un esame di compatibilità con il diritto al silenzio è quello delle preclusioni probatorie, ossia la conseguenza per le condotte di omessa collaborazione di inutilizzabilità di documenti non esibiti durante le indagini amministrative nella successiva sede contenziosa[36].
L’esercizio del diritto a non autoincriminarsi potrebbe spingere il contribuente/indagato ad invocare tale privilegio anche sul piano procedimentale al fine di avvalersi del materiale probatorio non esibito durante le ispezioni nelle successive fasi di accertamento e contenzioso.
Bisogna domandarsi se, secondo tale lettura, il diritto al silenzio possa attaccare le preclusioni procedimentali di cui all’art. 32 D.P.R. n. 600/1973 e artt. 51 e 52 D.P.R. n. 633/1972.
Tali norme impediscono al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa in giudizio in conseguenza dell’omessa collaborazione giustificata, a monte, dalla scelta di non autoincriminarsi.
Quest’ultima prospettiva tratteggia scenari conflittuali nel nostro ordinamento, ponendosi in contrasto non solo con la normativa in materia di imposte e con il principio di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente[37], ma anche con il consolidato orientamento della Corte di cassazione[38], avallato dalla Corte costituzionale[39], secondo cui la mancata esibizione da parte del contribuente di documenti richiesti nel corso di ispezioni determina “l’inutilizzabilità” degli atti da parte del contribuente nel procedimento accertativo e contenzioso.
Sebbene le preclusioni di cui agli artt. 32, 51 e 52 citati non siano tecnicamente delle sanzioni, esse comportano innegabilmente una notevole limitazione alla strategia difensiva del contribuente e, pertanto, se ne può riconoscere la natura di sanzioni improprie.
Anche in questo caso è evidente la necessità di un corretto contemperamento fra opposte esigenze. Da un lato, la volontà dell’Amministrazione di scoraggiare l’inattività del contribuente o l’atteggiamento ostruzionistico; dall’altro, la posizione del medesimo contribuente sottoposto a verifica, chiaramente in situazione di soggezione, il quale non conosce ancora le contestazioni che verranno mosse nei suoi confronti e, legittimamente, modula la propria difesa.
Ne consegue che gli artt. 10 dello Statuto del contribuente e gli artt. 32 , 51 e 52 cit. non possono essere considerati in grado di rappresentare una disciplina generalizzata del contraddittorio anticipato che obbliga il contribuente alla collaborazione, con le conseguenze appena esaminate, ma dovranno essere applicati nel pieno rispetto della proporzionalità, coerenza e ragionevolezza che ampliano il diritto di difesa quale principio generale operante anche in ambito CEDU e UE, necessario ad assicurare una effettiva parità delle parti in ordine alla prova[40].
Secondo la lettura appena offerta, le preclusioni in esame si rivelano di dubbia legittimità e in contrasto col diritto di non cooperare alla propria incriminazione sancito dalle Corti internazionali e dalla Corte Costituzionale[41].
[1] Si veda tutta la vicenda riassunta nella sentenza n. 84 del 30 aprile 2021 della Corte costituzionale in materia di diritto al silenzio e c.d. sanzioni Consob.
[2] La Suprema Corte, con ordinanza n. 3831 del 16 febbraio 2018, sospendeva il giudizio, investendo la Corte Costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’articolo 187 quinquiesdecies T.U.F., nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. b), L. n. 62/2005, di recepimento della Direttiva 2003/6/CE (Market Abuse Directive), oggi sostituito dall’art. 30, par. 1, lett. b) Reg. UE n. 596/2014 (Market Abuse Regulation), in relazione agli articoli 24, 111 e 117 Cost., all’art. 6 CEDU nonché all’art. 47 CDFUE, nella parte in cui il predetto art. 187 quinquiesdecies sanziona la condotta consistente nella mancata tempestiva ottemperanza alle richieste di Consob o nella causazione di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza nell’ipotesi di contestazione di un illecito di abuso di informazioni privilegiate. La Cassazione sottolinea, infatti, come dalla lettura della Direttiva 2003/6/CE si evinca un generale obbligo di collaborazione con l’Autorità di vigilanza, la cui violazione deve essere sanzionata dallo Stato membro ai sensi dell’art. 14, par. 3, della direttiva medesima; evidenzia, altresì, come tale obbligo sia sancito anche dal MAR.
[3] Corte Costituzionale, ordinanza 6 marzo 2019, n. 117.
[4] Corte di Giustizia UE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[5] Ufficio Stampa della Corte Costituzionale, comunicato del 30 aprile 2021, Il “diritto al silenzio” vale anche nei confronti della banca d’Italia e della Consob.
[6] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, III ed., 1996, p. 623.
[7] P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 613.
[8] La giurisprudenza costituzionale sul riconoscimento della valenza costituzionale dello ius tacendi: C. cost., ord., 26 giugno 2002, n. 291; C. cost., sent., 2 novembre 1998, n. 361. Per la giurisprudenza di legittimità: Cass., Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9239, in CED Cass., n. 246233; Cass., Sez. V, 22 dicembre 1998, in CED Cass., n. 212618.
[9] Per uno studio organico ed esaustivo si rimanda a: V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel diritto penale italiano, Milano, 1972.
[10] P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, cit., p. 615.
[11] G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, p. 310 ss. Corte EDU, 17 dicembre 1993, Funke c. Francia; 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito; 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito; 21 aprile 2009, Marttinen c. Finlandia.
[12] Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, par. 82.
[13] Corte EDU, 21 febbraio 1983, Öztürk c. Germania.
[14] F. Buffa, Le principali questioni in materia tributaria, in Questione Giustizia, 2019, p. 522 ss.
[15] A.E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione Finanziaria, Torino, 2012, in Collana “Studi di diritto tributario”, p. 27 ss.
[16] Commissione europea dei diritti umani Hardy Spirlet c. Belgio, n. 9804/82, 7 dicembre 1992; Corte EDU, Miailhe c. France, n. 12661/87, 25 febbraio 1993, Cremieux c. France, n. 11471/85, 25 febbraio 1993.
[17] Corte EDU, 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia, par. 29. Si veda anche Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia; Corte EDU, 9 dicembre 2004, Schouden e Meldrum c. Olanda; Corte EDU, 13 gennaio 2005, Emesa Sugar c. Paesi Bassi.
[18] Solo per dovere di completezza si segnala la sentenza della Corte di Giustizia UE (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Commissione tributaria centrale, sezione di Bologna – Italia) – Ufficio IVA di Piacenza c. Belvedere Costruzioni Srl, 29 marzo 2012, causa C-500/10, che mette in discussione il consolidato orientamento della Corte EDU sull’inapplicabilità dell’art. 6 CEDU al processo tributario. Si afferma che “l’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione (nel caso di specie l’Iva) non può contrastare con il rispetto del principio del termine ragionevole di un giudizio il quale, in forza dell’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione e la cui tutela si impone anche in forza dell’art. 6, par. 1, della Cedu”. Sul rapporto tra materia tributaria e CEDU: A. Marcheselli, Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2013; A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo, Torino, 2016.
[19] Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila v. Filandia, in cui si afferma che una sanzione, pur non essendo qualificata come penale, avendo carattere afflittivo e deterrente, deve rispettare il principio del “giusto processo” statuito nell’articolo 6 CEDU e, in particolare, nel caso di specie, l’obbligo della pubblica udienza. Sul tema si rimanda a A.E. La Scala, I principi del “giusto processo” tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., n. 3, IV, 2007, 54 e ss.. Analogamente, la stessa Corte con sentenza 21 febbraio 2008, Ravon v. Francia, ha espresso il contrasto tra l’art. 6 CEDU e una disposizione domestica che abilita l’amministrazione finanziaria ad eseguire atti di ispezione domiciliare, in assenza di un controllo giurisdizionale effettivo.
[20] Sulla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia UE, si veda L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 45 – 48.
[21] N. Durante, Compatibilità dell’assetto ordinamentale della giustizia tributaria con l’art. 6 della CEDU, in “Relazione resa all’incontro di studio su “Rapporti contribuente-Fisco, tra giurisprudenza tributaria e Corte europea di Strasburgo – Novità fiscali – Rientro dei capitali – Autoriciclaggio”, organizzato a Catanzaro il 3 dicembre 2014, dalla Sezione Calabria dell’A.N.T.I. - Associazione nazionale tributaristi italiani”, p. 2.
[22] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria (spunti critici a margine di Corte cost. n. 84/2021), in Consulta Online, 2021 Fasc. II, p. 457.
[23] Corte cost., sent. n. 84/2021, par. 3.2 che richiama Corte cost., ord. n. 117/2019, p. 7.1 del considerato in diritto.
[24] Corte cost. sent. n. 84/2021, par. 2.2 del Considerato in diritto, “Anche a prescindere da tale considerazione, è peraltro decisivo il rilievo che il diritto al silenzio è qui invocato dal giudice rimettente quale garanzia in capo a colui che possa essere successivamente accusato di avere commesso anche solo un illecito amministrativo, ma suscettibile di dar luogo all'applicazione di una sanzione amministrativa dal carattere punitivo. Indipendentemente, dunque, dalla eventualità che nei suoi confronti venga effettivamente contestata la commissione di un reato”.
[25] Corte cost., sent. n. 84/2021, par. 3.5 del Considerato in diritto.
[26] A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, cit., pag. 116.
[27] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 461.
[28] A.E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione Finanziaria, cit. p. 24.
[29] Si potrebbe sostenere che il confine tra il rifiuto e l’occultamento sia molto incerto, soprattutto quando la condotta consista nella mera scelta di esibire determinati documenti piuttosto che altri, “ove l’incompletezza della risposta equivalga alla non rispondenza al vero”, così G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 311.
[30] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 463.
[31] G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 310. La Corte EDU, sent. 5 aprile 2012, Chambaz c. Svizzera, la Corte di Strasburgo ha riscontrato una violazione dell’art. 6 CEDU (e, in particolare, del diritto a non contribuire alla propria incolpazione) nell’imposizione di una sanzione di tipo pecuniario al ricorrente che, sottoposto a un procedimento accertativo di tipo fiscale, non aveva consegnato alla pubblica amministrazione i documenti richiesti, contenendo tale documentazione indizi di reità a suo carico.
[32] L’obbligo della tenuta e conservazione delle scritture contabili è espressamente previsto sia dalla normativa civilistica (art. 2214 ss. c.c.) sia tributaria (artt. 22 del D.P.R. n. 600/1973 e 8, comma 5, della legge n. 212/2000).
[33] Ai sensi dell’art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973, l’accertamento induttivo può essere esperito dall’Ufficio, oltre che in caso di contabilità inattendibile, anche nelle seguenti ipotesi: - quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più scritture contabili ovvero quando le scritture contabili non sono disponibili per causa di forza maggiore; - quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti dell’Ufficio ai sensi dell’art. 32, comma 1, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell’art. 51, comma 2, numeri 3) e 4) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
[34] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 464.
[35] Cassazione civile, Sez. I, 13.08.2004, n.15768.
[36] G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, p. 310 ss.
[37] Previsto dall’art. 10, Legge 27 luglio 2000, n. 212. Sul tema: A. Marcheselli, Il principio di buona fede e le preclusioni per i documenti sottratti alla verifica, in Corr. trib., 2010, 53.
[38] Cass., 17 giugno 2011, n. 13289; Cass., 13 aprile 2007, n. 8886; Cass., 28 gennaio 2002, n. 1030.
[39] La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 181/2007, ha escluso qualsiasi vizio di costituzionalità della normativa che prevede la decadenza dalla facoltà di dedurre documenti in giudizio in riferimento all’art. 53, comma 1, Cost., chiarendo che “la preclusione prevista dalla norma censurata, risolvendosi in un divieto di allegazione in giudizio dei dati e dei documenti non forniti dal contribuente in risposta all’invito dell’amministrazione finanziaria, opera sul piano esclusivamente processuale ed è perciò inidonea a menomare il principio di capacità contributiva”.
[40] G. Ingrao, La valutazione del comportamento delle parti nel processo tributario, Milano, 2008, p. 227
[41] A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, cit., pag. 119.