ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Buone notizie dalle Sezioni unite sulle nullità processuali (e sul rapporto tra norme e principi)
di Bruno Capponi
Le presenti, brevissime note non rappresentano un commento (neppure “a caldo”), quanto un convinto invito alla lettura della sentenza delle Sezioni Unite n. 36596/2021: lettura lieve, perché – pur risolvendo un contrasto interno alla Corte – gli argomenti vengono presentati in modo piano e conseguente, con chiarezza encomiabile; e al tempo stesso di notevole peso specifico, perché la sentenza potrebbe (il condizionale è d’obbligo) determinare l’attesa inversione di tendenza rispetto a quella giurisprudenza più “creativa” e “invasiva” a cui la Corte ci ha purtroppo abituati da quando princìpi astratti (o, se si preferisce, la concretizzazione di tali princìpi) sono entrati in competizione con le norme positive, e in particolare con quelle processuali.
Questa sorta di “conflitto” ha dato luogo a vari fenomeni: il più grave è quello della strisciante abrogazione di norme dal contenuto non dubbio (si pensi, per tutte, all’art. 37 c.p.c.), al fine di premiare la concretizzazione di un principio del quale la sentenza qui segnalata denunzia, giustamente, la «estremizzazione».
Altro fenomeno – una delle applicazioni è appunto quella su cui le Sezioni Unite hanno convincentemente pronunciato – è quello dello stravolgimento interpretativo consistente nell’aggiungere, a norme dal contenuto non dubbio, condizioni «deduttive o probatorie» delle quali in quelle norme non c’è alcuna traccia. E, nel caso specifico, non certo per dimenticanza o insipienza del legislatore bensì per la fondamentale ragione che «la diversa regola, che vuole necessario ai fini dell’apprezzamento della nullità processuale anche il riferimento a un pregiudizio effettivo “altro” rispetto a quello a tal fine considerato dal legislatore, non è in alcun modo presidiata nell’ordinamento processuale italiano, a differenza di quel che accade (per esempio) nell’esperienza dell’ordinamento francese (art. 114 del Nouveau code de procédure civile)».
Ecco una sentenza magistrale, in cui la Corte è corretta interprete del diritto positivo, che viene salvaguardato da fumose e opinabili interpolazioni riferite a princìpi il cui ruolo è quello di accompagnare, non di stravolgere l’interpretazione delle norme. Chapeau.
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La meritocrazia possibile: il sistema delle valutazioni della Scuola Superiore della Magistratura
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. Introduzione - 2. Come funziona il sistema di valutazioni dei corsi della Scuola - 3. Le conseguenze delle valutazioni sui contenuti dell’offerta formativa - 4. Le conseguenze delle valutazioni sulla selezione del corpo docente - 5. La responsabilizzazione dei discenti come presupposto ineludibile del funzionamento del sistema.
1. Introduzione
La realizzazione del criterio meritocratico per le valutazioni dei magistrati si presenta da sempre come particolarmente problematica, stretta com’è tra due esigenze contrapposte ed entrambe meritevoli di tutela.
La prima necessità è quella di non imbrigliare la discrezionalità di chi è preposto a tali valutazioni in vincoli troppo stringenti, che potrebbero portare ad un controllo ab externo della delicata attività dei rappresentanti del potere giudiziario; la seconda è quella di assicurare criteri di trasparenza ed oggettività per evitare che si sconfini nell’arbitrio o nell’autodichia.
Un ruolo non del tutto trascurabile nella trattazione del problema in esame si gioca da sempre sul tavolo della formazione, essendo questo uno dei campi che contribuiscono a formare i curricula dei magistrati e quindi indirettamente a influenzarne le carriere.
È pertanto naturale che ai temi della selezione e della valutazione del corpo docente della Scuola (relatori, tutor, esperti formatori e coordinatori) il Comitato Direttivo dedichi da sempre una cura e un’attenzione particolare.
In queste brevi note si descriverà come funziona questo sistema (e cosa non funziona o è migliorabile) e auspicabilmente si indicheranno i motivi che giustificano l’ambizioso titolo dello scritto.
2. Come funziona il sistema di valutazioni dei corsi della Scuola
Il sistema delle valutazioni, adottato dalla Scuola Superiore della Magistratura sin dalla sua istituzione ed interamente informatizzato in seguito allo scoppio della pandemia, è semplice e intuitivo: al termine di ogni sessione (corrispondente a mezza giornata) di corso viene reso disponibile ai discenti su Teams un modulo (form) contenente i nomi di coloro che hanno svolto la relazione o coordinato il gruppo di lavoro, con la possibilità di assegnare un voto da 1 a 10 e appositi spazi per esprimere osservazioni. Al termine del corso si possono valutare, allo stesso modo, gli organizzatori del corso (esperti formatori), i tutor (per i corsi MOT) e la Scuola stessa, giudicabile per gli aspetti organizzativi e contenutistici e per l’assistenza amministrativa, logistica e informatica fornita.
Le valutazioni così espresse sono facoltative (la loro compilazione non è requisito per ottenere l’attestato di partecipazione al corso) e del tutto anonime, per garantire la massima libertà di giudizio ai partecipanti ed eliminare ogni rischio di condizionamento alla serenità del giudizio: anche il più giovane appartenente ad un ufficio giudiziario può valutare liberamente il dirigente del luogo in cui lavora o gli esponenti apicali della magistratura giudicante e requirente, qualora se li trovi di fronte come docenti.
Gli esiti delle valutazioni così espresse sono accessibili – anche dopo la fine del corso e virtualmente a tempo illimitato - ai componenti del Comitato Direttivo; in particolare, il responsabile del corso ha l’onere di verificare costantemente la media ponderata dei voti di ciascun relatore e di leggere e valutare i giudizi espressi, individualmente e se occorre relazionarne alle riunioni plenarie del Comitato.
Si ottiene in questo modo un feedback, disinteressato e presumibilmente imparziale, in tempo reale non solo di ogni corso organizzato dalla Scuola Superiore ma più in generale dell’offerta didattica, che costituisce il cuore e il significato dell’esistenza del nostro organismo di formazione.
Gli effetti di questo monitoraggio, continuo e come si è detto assolutamente democratico, sono evidenti e influiscono virtuosamente in due direzioni, diverse ma complementari: i contenuti dell’offerta formativa e la selezione dei formatori.
3. Le conseguenze delle valutazioni sui contenuti dell’offerta formativa
Quanto all’offerta formativa, è possibile attraverso il sistema descritto ottenere un indice di gradimento, da parte dell’utenza a cui la formazione è rivolta, sull’argomento del corso e sui singoli approfondimenti scelti come argomento delle relazioni, sulla efficacia degli approfondimenti svolti nei gruppi di lavoro e nelle tavole rotonde, sulle metodologia scelta dai singoli relatori per approfondire gli argomenti loro affidati, sulla maggiore o minore utilità ed efficacia di un approccio maggiormente pratico o più teorico, sulla opportunità di affidare uno o più argomenti ad un confronto a due voci, sul gradimento del coinvolgimento di esponenti del mondo accademico, dell’avvocatura o di saperi esterni a quelli dei colleghi magistrati, sulla incisività dell’esperto formatore nel legare gli interventi e dirigere il dibattito, sullo spazio assegnato al dibattito stesso, sulla utilità di slides o altri sistemi di presentazione della relazione, sulla tempestività della consegna di un elaborato scritto da parte dei docenti…. l’elenco, tratto da suggerimenti e critiche espressi negli anni dai partecipanti ai corsi e consacrati nei form di valutazione, è potenzialmente infinito.
Questa messe di informazioni fluisce continuamente nelle scrivanie (virtuali) dei componenti del Comitato Direttivo ed è oggetto di valutazione attenta e di discussioni nelle riunioni dello stesso. Si tratta di strumenti indispensabili per aggiornare continuamente l’offerta formativa: sono innumerevoli le occasioni in cui il programma di un corso è stato ricalibrato da un anno all’altro in conseguenza delle valutazioni dei discenti dell’anno precedente o di altri corsi aventi ad oggetto simile.
Naturalmente si tiene conto della quantità delle osservazioni (una singola valutazione che ad esempio suggerisce di ampliare il tempo concesso al dibattito successivo alla relazione ha ovviamente un peso diverso da decine di giudizi dello stesso tenore) e della necessaria soggettività di ogni parere espresso: non è raro imbattersi in valutazioni di segno assolutamente contrario e persino tra loro incompatibili (è accaduto ad esempio che un relatore sia stato criticato da alcuni per la eccessiva genericità e da altri per l’eccessivo tecnicismo).
Questo fenomeno non deve sorprendere, né inficia l’attendibilità dei giudizi espressi, ma implica semplicemente che gli stessi devono essere letti cum grano salis e valutati complessivamente (se una valutazione dice “bianco” e venti valutazioni “nero” è facile comprendere quale sia il parere eccentrico, anche se le cose non sono sempre così semplici da decifrare).
Giova in tal senso, naturalmente, l’esperienza specifica di chi è chiamato alla ponderazione delle valutazioni medesime: in fondo, è questo uno dei punti fondamentali dell’attività del Comitato Direttivo e precisa responsabilità di ciascuno dei suoi componenti, e si tratta di un’attività a cui sono chiamati elementi altamente specializzati - da molto prima della nomina alla Scuola - nella gestione dell’attività di formazione (poiché proprio tale specializzazione maturata nel tempo è alla base della loro nomina al Direttivo).
Elemento non trascurabile è, in questo senso, il fatto che almeno uno dei componenti del Comitato assiste personalmente a tutte le sessioni del corso di cui è responsabile o corresponsabile, ed è dunque in grado di aggiungere la propria personale valutazione a quelle risultanti dai form.
Sulla base della combinazione di tutti questi elementi, i contenuti dell’offerta formativa vengono dunque aggiornati e si evolvono in continuazione.
Un recente studio commissionato al CNR in occasione del decennale della istituzione della Scuola Superiore ha dimostrato che il gradimento dei magistrati all’offerta formativa si è via via incrementato negli anni fino a raggiungere l’attuale picco di eccellenza: questo dato non riflette, presumibilmente, una maggiore attitudine dei componenti attuali del Comitato Direttivo rispetto a quelli dei Direttivi precedenti, ma è ad avviso di chi scrive frutto del progressivo affinarsi degli strumenti didattici e dei corsi in conseguenza di una decennale attenzione alle istanze e alle valutazioni dei partecipanti ai medesimi.
Parte importante del merito va dunque proprio a chi ha istituito questo sistema virtuoso e a chi, in questi dieci anni, lo ha mantenuto ed alimentato con la costante attenzione ai giudizi espressi.
4. Le conseguenze delle valutazioni sulla selezione del corpo docente
Per quanto attiene alla selezione dei formatori, possono essere svolte considerazioni di tenore analogo a quelle appena rassegnate: la scelta dei relatori, dei tutor, dei coordinatori e degli esperti formatori dei corsi passa, oltre che per la profonda attenzione ai curricula e alla attenta attività di selezione delle eccellenze espresse dai singoli uffici giudiziari (per i magistrati) o dai luoghi di provenienza (per gli esponenti del mondo accademico e in generale per i non magistrati) anche dalla certosina valutazione delle votazioni e dei giudizi espressi nei precedenti corsi in cui le persone da nominare sono state utilizzate.
In merito, va specificato che il parterre di ogni singolo corso è quasi sempre formato, per intuitive ragioni, da una parte di docenti già sperimentati e una parte di “esordienti”: i secondi servono a garantire il ricambio resosi necessario per motivi di età o altre ragioni (un certo numero di docenti ogni anno va in pensione o cambia funzione, ragion per cui può essere ritenuto preferibile sostituire gli stessi con altri docenti con esperienza più attuale nel settore da approfondire), mentre la conferma di docenti già sperimentati consente di assicurare al corso l’apporto di soggetti con esperienza diretta della formazione rivolta ai magistrati, pubblico giustamente tra i più esigenti del mondo della formazione.
La responsabilità della composizione dei relatori del corso spetta in via esclusiva al Comitato Direttivo (con l’ausilio, per i corsi di formazione permanente, dell’esperto formatore): tuttavia, lo sguardo critico ai form di valutazione, come detto, gioca un ruolo fondamentale nelle scelte.
Tra diversi curricula all’attenzione del Direttivo per il conferimento di un incarico, il miglior voto medio riportato in corsi precedenti di analogo tenore sovente fa la differenza, così come il riscontro dell’attitudine formativa o della chiarezza esplicativa dimostrate in altri corsi ed attestate dai form.
In questo modo si ottiene un doppio risultato: affinare costantemente il livello dei docenti coinvolti nelle attività della Scuola ed evitare, quasi naturalmente, ingerenze esterne diverse da quelle del merito.
Ognuno dei componenti sa infatti che proporre un nominativo che si riveli non altezza dei livelli di eccellenza di cui si è detto comporta la certezza della mancata conferma del medesimo ai corsi futuri, ed espone l’intero corso di cui è responsabile al rischio di un giudizio negativo che, va da sé, nessuno è disposto ad accollarsi.
Salva la inevitabile percentuale di errori insita in ogni attività, il sistema garantisce dunque – o dovrebbe garantire l’effettiva adozione della meritocrazia come criterio guida per la selezione dei docenti.
5. La responsabilizzazione dei discenti come presupposto ineludibile del funzionamento del sistema
L’aspetto forse più importante del sistema delle valutazioni in esame è che mette al centro effettivo i fruitori della formazione e non i dirigenti della macchina organizzativa.
Oltre che – auspicabilmente – meritocratico, è un sistema a carattere diffuso e che agisce per spinta orizzontale, in conformità non casuale con la struttura della magistratura disegnata dalla Carta Costituzionale.
Perché esso realizzi compiutamente i suoi obiettivi, occorre però uno sforzo di auto-responsabilizzazione da parte di tutti i suoi attori.
È in primo luogo necessario che si diffonda la piena consapevolezza della importanza della partecipazione mediante riempimento dei form.
Pigrizia, scarsità del tempo a disposizione (anche se la compilazione del form richiede pochi minuti), inconsapevolezza, scarsa dimestichezza con il mezzo informatico sono ostacoli da rimuovere per evitare che il partecipante al corso si disinteressi del fondamentale adempimento in esame.
La conseguenza è intuitiva: più è esiguo il numero di coloro che prendono parte a questo sistema, più lo si rende inefficace ed in definitiva elitario, proprio come accade in caso di astensione dal voto per le elezioni politiche o amministrative.
Ancora più perniciosi e assolutamente da evitare sono fenomeni del voto dato superficialmente o con leggerezza, da chi non ha ascoltato la relazione (perché distratto o assente “informalmente”, fisicamente o in spirito): sono stati riscontrati casi di relatori che hanno dato forfait all’ultimo momento (e il cui nome era dunque rimasto nei form) che sono stati oggetto di plurime dichiarazioni di voto, alcuni con esiti molto lusinghieri (forse una sorta di voto “di stima”) altri con trattamenti illogicamente severi.
Questi episodi, che a prima lettura possono essere considerati quasi di “colore”, vanno considerati con la massima serietà e stigmatizzati, poiché rischiano di inficiare la credibilità dell’intero sistema, minandone l’affidabilità che è il presupposto indefettibile perché possa essere preso come punto di riferimento.
In conclusione, si tratta di un sistema in qualche misura fragile, come tutti i sistemi democratici ed a gestione diffusa e sicuramente perfettibile.
Molto si può fare per esempio in termini di pubblicità e trasparenza degli esiti delle valutazioni, rendendone gli esiti facilmente accessibili e consultabili sul sito (almeno per quanto riguarda le valutazioni generali sul corso).
Parimenti, occorre certamente ampliare la partecipazione di tutti i magistrati alla continua opera di scouting che i componenti del Direttivo pongono in atto per l’emersione di nuovi elementi da valorizzare e coinvolgere nel corpo docenti.
Ma, va ribadito, l’efficacia di questo sistema meritocratico e la sua stessa sopravvivenza sono affidate ai protagonisti, ovvero - in un virtuoso rovesciamento rispetto agli schemi consueti – gli utenti del servizio, che ne sono responsabili insieme al Direttivo della Scuola.
A loro il compito di custodire questo prezioso strumento dedicando la giusta attenzione alle valutazioni, garantendone la perdurante validità come sistema meritocratico e vigilando sulla loro adeguata valutazione da parte degli affidatari pro tempore del servizio.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 9) Il muro che vorrei per uomo e donna
di Maria Cristina Amoroso
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Vi voglio insieme.
È arrivato il momento di invitare uomini e donne ad attivarsi in maniera più determinata nello spendersi in maniera unita per la parità e contro la violenza di genere, perché questa campagna culturale, non fatta propriamente all’unisono, non è stata in grado di scalfire i numeri surreali con i quali ancora oggi facciamo i conti nonostante gli sforzi profusi.
Ci vuole altro rispetto ai comunque irrinunciabili messaggi, abbiamo urgenza di un passo più veloce: un sentire comune che abbia quale precipitato comportamenti e non solo slogan poiché, come drammaticamente evidente, i femminicidi che coinvolgono tutti i ceti e tutte le fasce d’età non si fermano.
Sicuramente è necessario e adeguato continuare a mettere in discussione le innumerevoli sollecitazioni al vivere violento cui sembriamo esserci totalmente assuefatti, ma ancor di più vi è l’esigenza che uomini e donne, insieme, si facciano carico di superare dinamiche di coppia non più sostenibili.
Violenza di genere e relazioni distorte sono questioni intimamente collegate.
L’esercizio della violenza fisica o psicologica è una modalità insana di azione che si attiva a fronte di un qualsiasi fattore scatenante, una miriade fantasiosa di eventi, le c.d. “provocazioni”, che non sono mai realmente giustificative della messa a repentaglio dell’incolumità fisica altrui.
Il “violento” nella maggioranza dei casi non è tale esclusivamente nel rapporto con l’altro sesso o per il ruolo che gli attribuisce, lo è perché vive esercitando sempre e in tutti i contesti una palese o occulta manipolazione e prevaricazione.
E’ evidente, pertanto, che se non si lotta insieme per rendere non ordinaria la violenza nel linguaggio, nel fare comune, nei messaggi dei media e dei social, purtroppo, con facilità sempre maggiore, l’aggressività caratterizzerà anche e soprattutto la relazione tra generi, in particolar modo nei casi in cui uno degli esponenti si trovi in una situazione oggettiva di inferiorità o venga erroneamente considerato tale.
Se il discorso sembra, e forse lo è, banale laddove riferito alla violenza palese e percepibile, a mio avviso è meno scontato, ma ancor più imprescindibile che, insieme, si combatta la violenza occulta costituita dai modelli disfunzionali imposti continuamente all’uomo ed alla donna dall’attuale società, che li riducono a simulacri di persone.
L’uomo deve essere forte, di successo, con potere, soldi, influente con relazioni sociali importanti, competitivo sul lavoro, curato e seducente, perché “cacciatore”, sempre giovane e mai perdente in nessun campo. La donna deve essere infaticabile, infallibile, dedita esclusivamente al marito, o al compagno, e ai figli (quando esistenti), ma anche in carriera e soprattutto sempre sexy, categoria che oggi ha sostituito la bellezza (sic.).
Gabbie identitarie a ben vedere surreali, oltre che irrealizzabili, che, nei fatti, assecondiamo e tolleriamo non contrastandole, in parte perchè certamente collegate alle spinte più ancestrali, e meno spirituali, dell’essere uomo o donna e, in parte poiché in fondo, con una certa superficialità, le consideriamo, nella migliore delle ipotesi, innocue, nella peggiore addirittura positive e necessarie per la conduzione di una vita, sempre più pubblica che privata, appagante e divertente.
Limitazioni che, ignorate nel mondo “adulto”, si presentano in tutta la loro nocività nella dimensione dei più giovani, quando si insinuano nelle menti e nei gesti delle nuove generazioni attanagliandoli in ulteriori catene che prendono il nome di bullismo, anoressia, difficoltà di comunicazione, vuoto esistenziale, dipendenza dai social e pedofilia.
Che interazione può esserci tra esponenti di una umanità ai quali viene chiesto, in nome di una felicità esclusivamente materiale, di essere oggetto di desiderio, potere, successo, conquista, e non soggetti?
A queste condizioni lo spazio tra l’uno e l’altro viene riempito dalla sopraffazione, dall’utilizzazione per i propri scopi, dalla esibizione, dal controllo e dal dominio, generando rapporti che in quanto non nutriti dal rispetto diventano fonti di insoddisfazioni, conflitti e sofferenze a prescindere dal se sia l’uomo o la donna a rivestire il ruolo di “res” nella relazione.
Forse dovemmo iniziare a mettere via qualcosa e a colmare di nuovi contenuti l’essere uomo e l’essere donna, per poter beneficiare dei conseguenti legami e far brillare i ponti che, collegando modelli che sovrastano l’individualità, avvicinano fantasmi e non persone.
Meglio un muro.
Un muro da trasformare in un foglio bianco su cui scrivere non chi (o cosa) deve essere l’uomo o la donna nella società, e cosa sia doveroso che l’uno o l’altra faccia in base a copioni desueti, ma su cui appuntare chi è e quali sono le meraviglie racchiuse nell’essere umano incontrato, per redigere insieme le condizioni di una crescita comune paritaria e riguardosa di entrambe le identità, perché solo a queste condizioni possiamo sperare di ottenere un concreto miglioramento nella società.
Riscoprire la nostra unicità, e ritrovarsi in essa. Creare equilibri inediti, originali, con posizioni mutevoli a seconda delle necessità operative e della felicità di entrambi.
Così sarebbe più facile spostare un po’ di cose proprie per accogliere quelle di cui l’altro è portatore, recuperando l’essenziale dello stare insieme come quando, da bambini, non ci interessava chi doveva fare cosa, ma solo sapere
Chi sei?
Cosa ti piace?
Come ti posso fare felice?
Cosa posso fare per te?
Mi amerai per sempre?
Mangeresti una rana viva per salvarmi?
Un muro che da separazione diventa spazio vuoto sul quale uomini e donne possono disegnare a quattro mani nuovi e mobili confini.
Un’impresa epica, necessaria e da compiere in fretta, perché oltre a rovinare e a falciare molte vite la limitatezza degli schemi in cui ci siamo fatti congelare sta uccidendo anche l’amore.
Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20) di Clara Napolitano
Sommario: 1. Le ordinanze di rimessione e il caso sottoposto alla Plenaria. – 2. Sulla questione di giurisdizione: lineamenti di un contrasto giurisprudenziale. – 2.1. La rilevanza del potere amministrativo nell’elezione del plesso giurisdizionale competente. – 3. Nel merito dell’affidamento: l’apporto del privato al provvedimento, la riconoscibilità della sua illegittimità, la consapevolezza dell’impugnazione giurisdizionale. – 4. La rimproverabilità soggettiva dell’Amministrazione: margini sfocati e ricorso a principi generali di correttezza. – 5. Affidamento legittimo o incolpevole? Qualche considerazione conclusiva su un tema destinato a far discutere ancora.
1. Le ordinanze di rimessione e il caso sottoposto alla Plenaria.
Il Consiglio di Stato si pronuncia finalmente – in via, parrebbe, definitiva – sulla questione concernente il risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento derivante da annullamento di atto amministrativo ampliativo illegittimo.
Due i profili oggetto dell’esegesi del Giudice: quello relativo al plesso giurisdizionale competente a pronunciarsi sulla detta domanda risarcitoria; quello attinente al merito della questione, ovvero alle condizioni nelle quali – concretamente – possa ammettersi un affidamento la cui lesione merita d’esser risarcita dalla p.A. che abbia assunto, per converso, un atteggiamento “rimproverabile” ai sensi dell’art. 2043 c.c. per responsabilità aquiliana.
V’è da dirsi che l’Adunanza plenaria del Supremo consesso amministrativo è stata adìta da plurime ordinanze di rimessione[1], tutte accomunate da una prospettiva pubblicistica del problema: da più parti, dunque, si sollecitava un intervento ordinatore del Giudice amministrativo per dirimere la quaestio circa la giurisdizione competente a pronunciarsi sulle domande risarcitorie da lesione dell’affidamento, preferibilmente nel senso di attribuirle alla giurisdizione amministrativa; e si sono altresì cercati aspetti condivisi sulla reale consistenza dell’affidamento del privato beneficiario di un provvedimento amministrativo illegittimo.
Due in particolare tra queste ordinanze, in materia edilizia, concernevano l’affidamento del privato beneficiario di un titolo abilitativo annullato in sede giurisdizionale. Venivano, dunque, in rilievo, diversi profili: anzitutto quello del Giudice competente a pronunciarsi sulla richiesta risarcitoria di quel beneficiario (che nel giudizio di annullamento aveva assunto il ruolo di controinteressato, peraltro soccombente), stante la giurisdizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a., sulle «controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia»; in secondo luogo, quello relativo alle condizioni d’esistenza dell’affidamento del (già) beneficiario e della risarcibilità della relativa lesione.
Le due ordinanze seguivano percorsi parzialmente sovrapponibili, giungendo all’affermazione della giurisdizione del G.a. sulla domanda risarcitoria – nonostante il radicato e contrario avviso del Giudice ordinario e di parte degli organi della Giustizia amministrativa – a cagione del fatto che l’affidamento non è un diritto soggettivo autonomo, bensì una situazione giuridica che “segue” quella principale e che, dunque, va alla cognizione del G.o. o del G.a. a seconda che quest’ultima sia – rispettivamente – di diritto soggettivo o d’interesse legittimo. Nel merito, entrambe le ordinanze approdavano – pur con argomentazioni differenti – ad affermare che il privato beneficiario di un provvedimento ampliativo illegittimo potrebbevantare un affidamento tutelabile ove questo sia «incolpevole», dunque privo di qualunque mala fede o colpa, e – al contempo – l’Amministrazione non sia incorsa in un comportamento sanzionabile per violazione della correttezza, rimproverabile a titolo di responsabilità aquiliana. Entrambe le ordinanze escludevano, altresì, in radice che l’affidamento del privato potesse sorgere e concretizzarsi ove il provvedimento fosse stato oggetto d’impugnazione e di annullamento giurisdizionale[2].
La vicenda che ha dato la stura alla Plenaria è presto ricordata nei suoi tratti essenziali: le questioni sono sorte in un contenzioso promosso dalla parte ricorrente per la condanna dell’A.c. al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’annullamento del permesso di costruire a favore di una porzione di un lotto di terreno che ella aveva acquistato, ottenendo la voltura del titolo a edificare. L’annullamento di quest’ultimo era stato pronunciato – in precedente giudizio – su ricorso della proprietaria confinante, promosso nei confronti del dante causa della ricorrente. Risultato vano il tentativo dell’Amministrazione di sanare ai sensi dell’art. 38, D.P.R. n. 380/2001, la situazione di abusività dell’edificazione venutasi a creare in conseguenza dell’annullamento del relativo titolo, la ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni subiti per avere confidato in buona fede nella legittimità degli atti di pianificazione urbanistica e del conseguente permesso di costruire a suo favore poi annullati in sede giurisdizionale. La domanda è stata accolta in primo grado[3].
L’Amministrazione comunale, non costituitasi innanzi al Tar, ha proposto appello contestando sia la giurisdizione amministrativa nella controversia risarcitoria, in cui risulterebbe leso l’«affidamento che il privato avrebbe riposto nella legittimità del provvedimento impugnato da altri», sia i presupposti su cui si fonda la condanna al risarcimento pronunciata nei suoi confronti.
La IV Sezione, avendo ravvisato contrasti di giurisprudenza sia presso la Corte di Cassazione che presso il Consiglio di Stato, ha dunque rimesso alla Plenaria la questione, formulando i seguenti quesiti:
1) se la domanda di risarcimento del danno «formulata dall’avente causa del destinatario di una variante urbanistica» annullata in sede giurisdizionale, e da cui sia derivato l’annullamento dei conseguenti permessi di costruire sia devoluta alla giurisdizione amministrativa, e «più in generale» se questa «sussista sempre» quando si debbano verificare le conseguenze risarcitorie dell’annullamento di un atto amministrativo, tanto su domanda del ricorrente vittorioso che del controinteressato soccombente;
2) nel merito, quando possa ravvisarsi «un affidamento ‘incolpevole’ che possa essere posto a base di una domanda risarcitoria, anche in relazione al fattore ‘tempo’»;
3) in caso positivo, e dunque che «si sia in presenza di un affidamento ‘incolpevole’», «quando si possa escludere la rimproverabilità dell’Amministrazione».
Ne è derivata la sentenza qui in commento, che segna una nuova linea di confine nella giurisdizione sulla lesione dell’affidamento del privato e profila una configurazione un po’ più precisa dei presupposti di sussistenza di quel medesimo affidamento.
2. Sulla questione di giurisdizione: lineamenti di un contrasto giurisprudenziale.
Le osservazioni che qui seguiranno riguardano anzitutto il profilo preliminare della giurisdizione alla cui cognizione bisogna affidare le controversie concernenti la lesione dell’affidamento per annullamento di un atto amministrativo favorevole.
Sia consentito un rinvio a quanto già osservato, in termini ricostruttivi, in un precedente contributo[4].
Il conflitto sulla giurisdizione è stato ampiamente esplorato dalla dottrina[5], specie dopo le note ordinanze “gemelle” della Suprema Corte, nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, nelle quali quel Giudice ha decretato la sussistenza della giurisdizione ordinaria sulle controversie aventi per oggetto il risarcimento del danno da lesione dell’affidamento subìto dal beneficiario di un provvedimento amministrativo illegittimo annullato. Ciò in quanto, secondo la Cassazione, veniva in rilievo non un pubblico potere, bensì un “comportamento” a questo non connesso, complessivamente lesivo dell’affidamento, qualificato alla stregua di un «diritto soggettivo all’integrità patrimoniale»[6] e, come tale, rilevante ai fini della responsabilità per violazione dei principi di buona fede e correttezza[7] e rientrante nella giurisdizione ordinaria.
In altre parole, per la Corte di Cassazione, l’annullamento – in via di autotutela o giurisdizionale – del provvedimento favorevole priva i soggetti, che ne erano stati beneficiari, del diritto conseguito illegittimamente: il ripristino della legalità violata impedirebbe a costoro di accedere alla tutela demolitoria innanzi al G.a. e, dunque, anche alla tutela risarcitoria consequenziale e aggiuntiva alla prima.
A quel punto, l’avvenuto annullamento del provvedimento favorevole non rileverebbe quale esercizio di potere amministrativo (o giurisdizionale), e dunque non sarebbe idoneo a collocare dinanzi al G.a. la controversia che ne nasce: al contrario, esso rileverebbe solo quale “mero comportamento” assunto dall’Amministrazione che aveva rilasciato quel provvedimento illegittimo.
In altre parole, ove la p.A. abbia adottato un provvedimento favorevole ampliativo illegittimo e poi il Giudice amministrativo (su ricorso del controinteressato) o la p.A. medesima (in via di autotutela) lo abbiano poi annullato – ripristinando la situazione jure – l’intera sequenza comportamentale rileverebbe – per il solo beneficiario – quale atto illecito per violazione del principio neminem laedere, sussistendo i presupposti dell’art. 2043 c.c.. L’unica tutela invocabile per il (già) beneficiario (soccombente nel giudizio impugnatorio intrapreso dal suo controinteressato) sarebbe così quella risarcitoria fondata sull’affidamento, relativa a un danno «che oggettivamente prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere pubblico», fondandosi su doveri di comportamento in buona fede richiesti dall’ordinamento anche all’Amministrazione. Questa tutela, però – stante la mancanza di connessione tra il danno e il potere pubblico, e la consistenza di diritto soggettivo della situazione (affidamento) fatta valere – non sarebbe riconducibile alla giurisdizione del G.a., con conseguente riserva della relativa cognizione al Giudice ordinario[8].
Le critiche a questa lettura ne hanno evidenziato da subito d’incoerenza col sistema di tutela ordinato dalla Costituzione e dal codice del processo amministrativo sotto vari profili.
Anzitutto, quello della concentrazione delle tutele: non v’è ragione alcuna per separare le azioni da intraprendere (e i plessi giurisdizionali da adire) per ottenere ristoro dell’asserita lesione del proprio affidamento. A ben vedere, il vulnus al destinatario del provvedimento (prima) adottato e (poi) rimosso è stato causato non da un mero comportamento dell’Amministrazione che abbia violato i canoni di buona fede e correttezza come qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento; bensì dall’esercizio di un potere amministrativo illegittimamente ampliativo. Il pregiudizio è insomma causato anzitutto dall’adozione del provvedimento favorevole: ne consegue che l’azione caducatoria e quella risarcitoria – anche nel caso di annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole illegittimo – ricadono nella giurisdizione amministrativa, essendo comunque inerenti al cattivo esercizio del potere.
Il principio della concentrazione delle tutele è violato anche laddove ci si soffermi sull’orientamento della Cassazione, che consegna a due destini differenti la tutela del controinteressato danneggiato dal provvedimento ampliativo del quale ha chiesto l’annullamento; e la tutela del beneficiario (soccombente nel giudizio di annullamento) di quel medesimo provvedimento.
La Suprema Corte radica la giurisdizione in base al criterio della causa petendi, in ossequio al quadro costituzionale, ma lo fa intestando al controinteressato al provvedimento (ricorrente vittorioso nel giudizio di annullamento) un interesse legittimo oppositivo, la cui mancata soddisfazione nell’ambito procedimentale può essere anche risarcita dal G.a. nel giudizio instaurato con azione di condanna al risarcimento del danno; e, viceversa, intestando in capo al beneficiario del provvedimento (controinteressato processuale soccombente nel giudizio di annullamento) un interesse legittimo pretensivoillegittimamente soddisfatto, dal quale – a seguito dell’annullamento – residua esclusivamente un diritto soggettivo[9]asseritamente leso: l’affidamento. Situazione che lo conduce al Giudice ordinario[10].
La grande perplessità che l’orientamento della Cassazione porta con sé, peraltro – come si vedrà qui di seguito – prontamente sconfessata dal Giudice amministrativo, è che l’affidamento del privato costituisca una situazione soggettiva ex se, nella specie un diritto soggettivo: questo, indipendentemente dalla natura del rapporto principale dal quale quella lesione dell’affidamento deriva. Qualora mai la lesione derivasse da un illegittimo esercizio di potere amministrativo, questo sarebbe degradato a comportamento illecito presupposto ex art. 2043 c.c..
Ci si è chiesti, infatti, se davvero l’affidamento possa esser tenuto in separata considerazione rispetto alla vicenda amministrativa sottostante, tanto da affidarne la protezione a un organo giurisdizionale diverso rispetto a quello che ha il potere di cognizione su di essa: «è proprio incontrovertibile che l’affidamento sia un diritto soggettivo (o un interesse legittimo)? O meglio, è sicuro che esista un diritto all’affidamento o un diritto alla correttezza dell’azione amministrativa svincolato dalla vicenda amministrativa autoritativa? Cioè si è sicuri che la lesione dell’affidamento e la violazione della correttezza – che resta uno dei vizi di legittimità del procedimento amministrativo da tempi “sandulliani” e quindi costituisce un “parametro” del sindacato – diano invece luogo a posizioni soggettive autonome svincolate dalla vicenda sostanziale cui si riferiscono e idonee a essere riparate da un giudice diverso da quello della vicenda sostanziale? Cioè, si possono scorporare correttezza, non discriminazione, buon andamento, ecc. dal procedimento amministrativo e quindi dal luogo tipico di esercizio della funzione e di composizione tra interessi contrapposti? (Non si sottovaluti la normale trilateralità delle vicende sostanziali in esame e la potenziale plurioffensività dell’unica manifestazione del potere che si rinviene in esse). O piuttosto il giudice “ordinario” e naturale della funzione pubblica dovrebbe conoscere anche di quelle lesioni e di quelle violazioni provocate nell’esercizio del potere pubblico nell’ambito di una medesima vicenda sostanziale?»[11].
La Plenaria qui in commento fa propria questa opinione e chiarisce che l’affidamento non è una posizione giuridica autonomamente rilevante, ma è un quid pluris, che assume la natura del rapporto principale sul quale s’innesta. Nel caso di provvedimento ampliativo illegittimo poi annullato, in altre parole, il danno al suo beneficiario non è pervenuto dal “comportamento complessivo” dell’Amministrazione, bensì dall’illegittimo esercizio del potere.
Vediamo.
2.1. La rilevanza del potere amministrativo nell’elezione del plesso giurisdizionale competente.
La conseguenza di questo assunto è che l’affidamento – non essendo una situazione giuridica autonomamente configurabile – s’inserisce nella più nota dicotomia tra interessi legittimi e diritti soggettivi. Sicché esso assumerà la natura propria degli uni o degli altri a seconda che il rapporto principale rientri nell’una o nell’altra categoria.
Sicché, ove il rapporto principale abbia natura privatistica, anche la lesione dell’affidamento s’innesterà nell’ambito privatistico e si configurerà come lesione di un diritto soggettivo. Viceversa, ove il rapporto sottostante presenti caratteri pubblicistici, essa assumerà la natura di interesse legittimo.
Come noto, ciò che distingue un rapporto avente natura pubblicistica da uno avente natura privatistica sta nell’esercizio del potere pubblico. È per questo che la Plenaria attinge a piene mani a quel serbatoio giuridico costituito dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 204/2004 e 191/2006, le quali – è fatto notorio – hanno delineato un sistema di riparto nel quale la giurisdizione del G.a. – sia in sede di legittimità sia (in particolare) in sede esclusiva – è strettamente connessa alla veste autoritativa assunta dalla p.A. nel rapporto. Ciò che è facilmente identificabile allorquando l’Amministrazione esplichi la sua attività attraverso atti e provvedimenti formali; meno quando lo faccia tramite comportamenti: poiché in questa ipotesi «deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G.a. delle controversie relative a comportamenti collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere».
Sicché, per la Plenaria anche l’affidamento è soggetto al riparto di giurisdizione delineato dalla Costituzione e dalla Consulta nelle sue note pronunce: la sua lesione va alla cognizione del G.a. sia nel caso di richiesta risarcitoria derivante dall’annullamento di un atto o provvedimento ex art. 7 c.p.a., e dunque nella giurisdizione di legittimità sugli interessi legittimi; sia nel caso di azione risarcitoria intentata dal controinteressato processuale soccombente nei giudizi su quei rapporti nei quali interessi legittimi e diritti soggettivi sono indistinguibili, e cioè in giurisdizione esclusiva[12].
La rispondenza al sistema costituzionale di tutela è presto spiegata, anche facendo ricorso alla storia derivante dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo, in seguito alla cui emanazione è stato necessario che il Costituente creasse una «unità funzionale e non organica della giurisdizione nazionale»: v’è un Giudice naturale[13] per ciascuna delle due situazioni soggettive contemplate dalla Costituzione agli artt. 24 e 113 Cost., poiché al giudice ordinario spetta la cognizione sui diritti soggettivi e al giudice amministrativo quella sugli interessi legittimi, fatte salve le materie di giurisdizione esclusiva, in cui è concentrata presso quest’ultimo la tutela di entrambe le situazioni, poiché nelle «speciali materie» ex art. 103 Cost. queste si presentano inestricabilmente intrecciate.
Ciò in quanto – se la legge abolitrice del contenzioso amministrativo aveva assegnato ai Tribunali ordinari la cognizione dei diritti civili e politici, «comunque vi possa essere interessata la pubblica Amministrazione», lasciando la cura di tutti gli altri «affari non compresi» alla stessa p.A. – l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con la legge Crispi del 1889 aveva recuperato la dimensione giurisdizionale della tutela degli «interessi», affidandola al neonato Giudice amministrativo.
Il lungo cammino dell’ammissibilità della risarcibilità di quegli interessi – ove danneggiati dall’Amministrazione nell’esercizio del suo potere autoritativo – è poi passato attraverso diverse, faticose tappe, legislative e pretorie: dapprima esclusi dalla tutela risarcitoria, gli interessi legittimi sono stati ritenuti risarcibili per responsabilità oggettiva dell’Amministrazione nell’ambito degli appalti[14]; e solo dopo, a seguito della generalizzazione della loro risarcibilità in tutti gli ambiti d’esercizio del potere amministrativo, è stata loro accordata tutela risarcitoria derivante da responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.[15]. La relativa cognizione è transitata, peraltro, dal Giudice ordinario al Giudice amministrativo sia nella giurisdizione generale di legittimità, sia nelle materie di giurisdizione esclusiva, ove sussista il potere autoritativo della p.A.
Ma v’è un aspetto chiarito dalla Corte costituzionale proprio in relazione alla natura dell’azione risarcitoria: e cioè che «il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia”» attribuita alla giurisdizione del Giudice amministrativo, bensì «uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione»[16]. A stretto rigore se ne deve desumere che il risarcimento è una tecnica di tutela del Giudice amministrativo in giurisdizione generale di legittimità, che ad essere azionato per tale via, è l’interesse legittimo e non il diritto soggettivo[17].
Il risarcimento, in altre parole, non è oggetto di un diritto soggettivo, bensì un rimedio a tutela delle posizioni giuridiche tutte, siano esse di diritto soggettivo o d’interesse legittimo. Come tale, esso va chiesto al plesso giurisdizionale competente per la tutela della posizione giuridica sottostante. Dunque anche al G.a., poiché il giudizio amministrativo «assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto dell’esigenza, coerente con i princìpi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa»[18].
Un assetto, questo, confermato anche dal c.p.a., il cui art. 7, co. 1 e 7, assegna al G.a. la cognizione delle controversie «nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni»; e declina il principio fondamentale di effettività (sancito dall’art. 1 c.p.a.) nel senso che esso «è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi».
Ora, come detto l’affidamento rientra esattamente in questa dicotomia. Esso ha cittadinanza certo nei rapporti interprivatistici, nell’ambito dei quali peraltro nasce[19]. Ma, trattandosi di un principio generale più che di una situazione soggettiva autonoma, esso trova applicazione anche nei rapporti pubblicistici di diritto amministrativo: rilevando non come diritto soggettivo ex se, bensì come «principio generale dell’azione amministrativa»[20] che fa sorgere nel destinatario del provvedimento favorevole l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale atto.
In altre parole, ciò che viene in rilievo è la fiducia del privato beneficiario nella legittimità del provvedimento e dunque nella stabilità dei suoi effetti favorevoli: quella che viene protetta, allora, è la delusione della fiducia (mal)riposta nell’esercizio del potere favorevole.
Ne deriva che la giurisdizione è devoluta al G.a. perché la “fiducia” su cui riposava la relazione giuridica tra Amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce «non già ad un comportamento privato o materiale – a un “mero comportamento” – ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale l’Amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo»[21].
L’Adunanza plenaria è su questo estremamente chiara: ove l’Amministrazione “tradisca” la fiducia del privato che aveva confidato nella legittimità e nella stabilità degli effetti del provvedimento, lo fa nell’ambito dell’esercizio di un pubblico potere, dunque la giurisdizione va al Giudice amministrativo.
E non v’è distinzione tra il beneficiario e il controinteressato al provvedimento ampliativo illegittimo: è col medesimo atto amministrativo, che l’Amministrazione può aver danneggiato tanto l’uno quanto l’altro, pertanto non v’è ragione di assegnare la giurisdizione circa le richieste risarcitorie a due Giudici diversi[22].
D’altra parte, che l’affidamento sia situazione accessoria rispetto al rapporto amministrativo principale è dimostrato anche dal dato normativo. Lo analizza correttamente la Plenaria: l’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990, per il quale i «rapporti tra il cittadino e la pubblica Amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede»[23].
Si tratta di una disposizione che prende atto del mutamento del procedimento amministrativo da segreto e unilaterale a partecipato e paragiurisdizionale. Si deve cioè ormai tener conto del fatto che il provvedimento che conclude la diacronia procedurale di atti – sia stata avviata essa su istanza di parte od officiosamente – è una vera e propria decisione partecipata[24]. I suoi effetti sono, sì, unilaterali. Ma vengono da una determinazione che la p.A. assume insieme al privato.
Questo ha due conseguenze fondamentali: sul piano provvedimentale, che la decisione è l’effetto della partecipazione al processo creativo sia della p.A. sia del privato; sul piano comportamentale, che entrambe le parti sono tenute a rispettare i principi della buona fede e della correttezza nel rapporto pubblicistico che si crea[25]. Il quale si nutre anche del principio fondamentale dell’affidamento: senza per questo vestirsi di natura interprivatistica.
A questo proposito è utile il richiamo a un noto precedente del Consiglio di Stato[26] che ha statuito la sussistenza della responsabilità precontrattuale della p.A. in caso di revoca di un bando di gara: nonostante la revoca possa esser legittima, il piano della responsabilità ne è completamente svincolato. È dunque ben possibile che l’Amministrazione agisca legittimamente, ma violando canoni di correttezza e buona fede, risultando così responsabile ex art. 1337 c.c. Da un unico esercizio di potere possono derivare conseguenze autonome: legittimità del provvedimento e illiceità del comportamento. Entrambi, però, vanno valutati sotto il profilo pubblicistico, perché connessi – appunto – all’esercizio di potere. E la responsabilità è affermata proprio per la lesione dell’affidamento delle imprese che hanno partecipato alla gara e hanno incolpevolmente confidato nel suo buon esito e nella stabilità degli effetti dell’aggiudicazione, condizionando anche loro altre scelte imprenditoriali. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la legittimità – o anche la doverosità – di un provvedimento di revoca[27]: è oggetto d’esame autonomo, che s’innesta però pur sempre in un rapporto di natura pubblicistica perché connotato da un agire autoritativo dell’Amministrazione.
In questa prospettiva, l’affidamento del privato «si proietta sulla positiva conclusione del procedimento, e dunque sull’attuazione dell’interesse legittimo di cui il medesimo [privato] è portatore, ma che diventa in sé tutelabile in via risarcitoria se l’amministrazione con il proprio comportamento abbia suscitato una ragionevole aspettativa sulla conclusione positiva del procedimento. E ciò a prescindere dal fatto che il bene della vita fosse dovuto ed anche se si accertasse in positivo che non era dovuto»[28]: ai fini dell’affermazione di una responsabilità della p.A. nella lesione dell’affidamento bisogna dunque guardare non tanto la legittimità o meno del provvedimento ampliativo; bensì il tenore comportamentale dell’Amministrazione stessa, la quale può aver suscitato una “ragionevole aspettativa” sulla favorevole conclusione del procedimento.
Si parla, dunque, del comportamento pubblicistico dell’Amministrazione: ne deriva che resta competente, in aperto contrasto con l’orientamento consolidato della Cassazione[29], il Giudice amministrativo sia nella giurisdizione generale di legittimità (tanto per provvedimenti tanto per atti e comportamenti) sia nella giurisdizione esclusiva.
3. Nel merito dell’affidamento: l’apporto del privato al provvedimento, la riconoscibilità della sua illegittimità, la consapevolezza dell’impugnazione giurisdizionale.
L’Adunanza plenaria si diffonde, poi, sui requisiti che devono sussistere perché l’affidamento del privato possa dirsi “legittimo”. O meglio, per usare proprio le parole del Collegio, “incolpevole”.
Anche qui bisogna fare un piccolo passo indietro all’ordinanza di rimessione. La Sezione rimettente aveva, infatti, espresso un’opinione molto rigorosa sui requisiti dell’affidamento, escludendo che esso possa configurarsi ogni qualvolta la p.A. annulli un proprio provvedimento favorevole illegittimo o – su impugnazione del controinteressato – lo faccia il Giudice. Optando per una valutazione caso per caso, il Giudice aveva dunque ritenuto che il privato dovesse versare inequivocabilmente in una situazione di buona fede soggettiva e di assenza di colpa: tale ritenendosi lo stato di chi ha ragione di confidare nella legittimità del provvedimento a sé favorevole, restandone invece esclusa l’ipotesi d’impugnazione giurisdizionale o di illegittimità riconoscibile.
La posizione espressa dalla Sezione rimettente era particolarmente rigida poiché si rifaceva al principio di autoresponsabilità del privato, attribuendo a costui una determinante efficacia causale dell’illegittimità del provvedimento: non si può dolere dell’annullamento (da parte della p.A. o del Giudice) chi abbia contribuito – con la propria istanza «oggettivamente non accoglibile» – a dar vita al provvedimento illegittimo.
Secondo la Sezione, concedere il risarcimento del danno da lesione dell’affidamento significava sgravare il privato dalla sua corresponsabilità: addirittura, dargli la possibilità di beneficiare della compensazione economica risarcitoria derivante dal (giusto) annullamento del provvedimento illegittimo alla cui emanazione egli stesso aveva contribuito.
La lettura aveva suscitato anche qualche perplessità: se non altro perché conduceva al risultato opposto, ovvero accrescere il peso della responsabilità sul privato, lasciando invece totalmente deresponsabilizzata l’Amministrazione[30].
Perplessità che è stata colta dall’Adunanza plenaria, la quale ha smorzato l’efficacia causale dell’istanza inaccoglibile del privato, richiamando il ruolo di garanzia dell’Amministrazione per l’interesse pubblico tutelato. In altre parole, vero è che il privato può presentare una istanza oggettivamente non suscettibile d’accoglimento e non può quindi giovarsi – nemmeno indirettamente, in via risarcitoria – del vantaggio indebitamente percepito; è però anche vero che l’Amministrazione ha un ruolo altrettanto determinante laddove abbia – erroneamente – accolto l’istanza e provveduto favorevolmente, venendo meno al suo compito di proteggere l’interesse pubblico intestatole[31].
In questo senso l’Adunanza plenaria parla di affidamento «incolpevole»: basato cioè su una situazione di apparenza costituita dall’Amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato.
Quindi, per un verso il privato non può avvantaggiarsi indebitamente degli effetti del provvedimento illegittimo, chiedendo il risarcimento della “delusione” della sua aspettativa di stabilità: poiché, se così fosse, la tutela risarcitoria compenserebbe il bene della vita perso, non certo il suo affidamento[32].
Per altro verso, ove però la sua aspettativa sia “ragionevole” perché indotta dall’Amministrazione medesima senza colpa di costui, allora la tutela risarcitoria interverrebbe a ristorare il convincimento ragionevole che quel vantaggio spettasse al privato.
Si deve, dunque, guardare al grado di colpa dell’Amministrazione: che muta a seconda che il vizio del provvedimento sia manifesto o comunque riconoscibile dal privato. È noto che la responsabilità della p.A. nell’ambito della sua attività provvedimentale segue i criteri dell’art. 2043 c.c. e si è ormai assestata su un “adattamento” della responsabilità aquiliana, tale per cui la c.d. colpa d’apparato è presunta nel caso di atto illegittimo, ma si tratta di presunzione semplice, superabile dalla p.A. adducendo la prova contraria dell’errore scusabile[33].
Rientra tra le fattispecie d’errore scusabile anche l’illegittimità manifesta del provvedimento: che consente di ritenere che il privato ne potesse pertanto essere consapevole e, quindi, di escludere o attenuare la colpa dell’Amministrazione.
Infatti, poiché percepibile ictu oculi, questa patologia marchiana esclude in radice un affidamento tutelabile: lo conferma la giurisprudenza sul risarcimento del danno chiesto proprio a seguito dell’adozione di atti di autotutela su provvedimenti illegittimi, la cui ragionevolezza è tarata sul «tipo di vizio che affligge l’atto»[34].
Insomma, ci devono essere circostanze che obiettivamente giustifichino l’aspettativa sul risultato utile (o sulla conservazione dell’utilità ottenuta) serbata dal privato. Se questa si regge solo su un intimo animus, contrario a dati che invece suggeriscono la prevedibilità dell’esito demolitorio, non è risarcibile.
Nessun automatismo per il risarcimento della lesione dell’affidamento. Né in senso positivo, collegandolo alla sola buona fede soggettiva del privato; né in senso negativo, addossando a costui il costo dell’improvvido accoglimento di una sua istanza non accoglibile.
Quanto, poi, al rilievo sull’elemento soggettivo dell’affidamento dell’impugnazione giurisdizionale del provvedimento. Anche qui le osservazioni della Plenaria sono generate dal rigido argomentare della Sezione rimettente: chi esegue un provvedimento per sé vantaggioso a dispetto della sua impugnazione da parte del controinteressato sostanziale, e dunque a dispetto del giudizio caducatorio instauratosi, «lo fa a suo rischio e pericolo».
È probabile che le parole della Sezione abbiano inteso colpire coloro che fraudolentemente, nonostante la – anzi, proprio a causa della – impugnazione del provvedimento, vi diano esecuzione sì da non poter poi, nelle more del giudizio, ridurre in pristino la situazione.
Di certo, quanto meno nella fattispecie dell’impugnazione di titoli edilizi, la Plenaria ha avallato questa lettura, per la quale l’instaurazione del giudizio caducatorio da parte di chi vi abbia interesse deve avvenire «senza indugio»[35], poiché il decorso del tempo è idoneo a consolidare l’affidamento del beneficiario; se ne deduce che, viceversa, la tempestiva impugnazione del titolo edilizio interrompe quel lasso temporale d’inerzia e impedisce che venga a configurarsi un affidamento tutelabile del privato.
Pertanto, con l’esercizio dell’azione di annullamento quest’ultimo è posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce – per un verso – a escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto, e addirittura da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro verso porta a ipotizzare un affidamento tutelabile prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.
Si resta piuttosto perplessi da questa ricostruzione: se non altro perché essa sembra non tener conto della presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo, la quale trova il suo fondamento nel principio generale di certezza del diritto in ossequio al quale l’atto amministrativo – pur (asseritamente) invalido – produce i suoi effetti giuridici dalla sua emanazione e il ricorso non è idoneo a sospenderne l’efficacia salvo l’accoglimento di una specifica domanda in tal senso del ricorrente.
Paradossalmente, il controinteressato sostanziale (ricorrente) potrebbe non inoltrare al Giudice istanza sospensiva cautelare e il beneficiario dell’atto (controinteressato processuale) potrebbe comunque non portarlo a esecuzione, nonostante la sua presunzione di legittimità, pena la perdita di un diritto al risarcimento, nel caso di soccombenza, per lesione dell’affidamento.
4. La rimproverabilità soggettiva dell’Amministrazione: margini sfocati e ricorso a principi generali di correttezza.
Di contro all’attenzione prestata all’affidamento del privato, le considerazioni sul comportamento dell’Amministrazione si fanno più rapide e meno puntuali.
C’è un presupposto necessario, già accennato più sopra: la responsabilità dell’Amministrazione da comportamento o da provvedimento è ancorata al paradigma extracontrattuale, dunque è contraddistinta dalla colpa d’apparato, eliminabile con la dimostrazione dell’errore scusabile.
Ne deriva che, in assenza dell’errore scusabile, l’Amministrazione è ritenuta responsabile dell’affidamento ingenerato nel privato, ove costui dimostri di versare in condizioni di buona fede soggettiva e oggettiva.
È l’infiltrazione del principio di responsabilità dell’Amministrazione nel procedimento amministrativo: principio che assume pienamente, oggi, valenza sostanziale, e che già dovrebbe ritenersi presente nell’attività amministrativa dal rinvio che l’art. 1, l. n. 241/1990 opera ai principi del diritto comunitario[36].
Eventuali condotte “riparatorie” della p.A. non valgono, poi, ai fini dell’esclusione della sua responsabilità: al contrario, se l’Amministrazione adotta iniziative di qualunque genere per difendere il provvedimento – o i suoi effetti – per tenere indenne il privato dall’eventuale annullamento, questo comportamento non rientra tra le scusanti. Esso è idoneo a rafforzare l’affidamento, e quindi ad aggravare la delusione in caso di annullamento dell’atto.
L’impianto argomentativo dell’Adunanza plenaria impone, pertanto, di considerare il comportamento dell’Amministrazione non soltanto per ciò che concerne il suo contributo alla formazione del provvedimento illegittimo, ma anche per quanto riguarda la sua condotta successiva alla sua adozione.
Come a dire che, ove la p.A. abbia emanato un atto favorevole contra legem, difenderlo resistendo nell’eventuale giudizio instaurato non la esimerà dal dover risarcire al suo beneficiario il danno per lesione dell’affidamento, ove costui sia in completa buona fede: né il fatto che egli si sia costituito in giudizio in qualità di controinteressato al ricorso – e dunque anche lui per difendere quel provvedimento – può in alcun modo attenuare la rimproverabilità del comportamento dell’Amministrazione[37].
5. Affidamento legittimo o incolpevole? Qualche considerazione conclusiva su un tema destinato a far discutere ancora.
Non v’è dubbio che la pronuncia qui in commento abbia determinato l’avvio di una nuova querelle in tema di giurisdizione sul danno da lesione del legittimo affidamento.
Il fulcro centrale della questione diventa – più che la causa petendi, la quale finora aveva condotto a una discutibile distinzione tra interesse legittimo oppositivo deluso e interesse legittimo pretensivo non soddisfatto – l’esercizio di potere autoritativo o meno.
La Plenaria ha chiarito che sussiste la giurisdizione amministrativa ogni qualvolta il privato lamenti la lesione del suo affidamento derivante – in via immediata o mediata – dall’esercizio di potere pubblico: perché il legittimo affidamento non è una situazione a sé stante, non è un diritto scorporabile dal rapporto amministrativo sottostante. È un principio applicabile a tutti i rapporti e la sua tutela – risarcitoria – è uno strumento ulteriore che si aggiunge all’armamentario del Giudice amministrativo.
L’Amministrazione può bensì deludere l’aspettativa di un privato e per questo esser giudicata dal Giudice ordinario, ma solo quando detta delusione avvenga nell’alveo di un rapporto jure privatorum, per esempio quando la p.A. agisca, come qualunque soggetto di diritto, tramite contratto o qualunque altro strumento che escluda l’uso del potere ma involga le dinamiche del consenso paritario.
Viceversa, quando la delusione dell’aspettativa privata avvenga nell’alveo di un rapporto la cui instaurazione è legata all’esercizio di potere pubblico autoritativo, non v’è spazio per la giurisdizione ordinaria: il rapporto di base è sperequato, gli interessi sono asimmetrici, tanto che l’affidamento del privato non è riposto in un comportamento specifico della p.A. nei suoi confronti, bensì nella legittimità del provvedimento e nella stabilità dei suoi effetti.
Da questo assunto deriva un’osservazione, sulla scia di autorevole dottrina[38].
E cioè che forse il richiamo all’incolpevolezza dell’affidamento potrebbe non essere appropriato, poiché quel concetto è imbevuto di paritarietà interprivatistica.
Nel diritto civile la tutela dell’affidamento si rende necessaria laddove questo, ingenerato dal comportamento altrui che ha fatto nascere un’aspettativa, sia stato poi causa anche di una determinata condotta, rivelatasi pregiudizievole: è ciò che rende l’affidamento “incolpevole”. Viceversa, nei rapporti pubblicistici le cose sono molte diverse. Perché il rapporto amministrativo ha una forma determinata, non vige il principio di libertà: e la forma è quella degli atti amministrativi soggetti allo scrutinio di legittimità secondo i principi che regolano l’attività amministrativa. Sono principi «connotati in senso obiettivo, che non danno spazio alla valutazione dei fattori di ordine personale che sono spesso determinanti per l’insorgere dell’affidamento “incolpevole” nei rapporti tra i privati»[39]. Sicché, nel diritto amministrativo, quell’affidamento – più che incolpevole – è “legittimo”.
Il richiamo a categorie interprivatistiche denota dunque lo sforzo di sganciare la tutela dell’affidamento da quella della legittimità dell’azione amministrativa: provando a far convivere due realtà – quella legata a parametri di soddisfazione dell’interesse pubblico e quella legata alla riparazione della delusione (non dell’interesse privato, bensì) dell’aspettativa – che sono rette da due regole d’ingaggio differenti.
La p.A., che agisce in via d’autorità ed è dunque sottoposta al vaglio della legittimità dei suoi provvedimenti, è trattata anche come un soggetto privato, che nulla “deve”, ma comunque tenuta al rispetto del principio più ampio di correttezza.
Sicché, un’Amministrazione che si espone all’adozione di un provvedimento ampliativo illegittimo deve stare attenta due volte, anzi tre: all’annullamento (sanzione costitutiva), al risarcimento del controinteressato e del già beneficiario deluso.
Il rischio paralisi è più che evidente: ricadendo così nella prassi dell’Amministrazione difensiva che preferisce restare inerte. In barba a ogni intervento legislativo che invece mira all’azione, quale che essa sia.
Seguono alcuni palliativi: un’approfondita disamina della effettiva legittimità dell’affidamento, con uno scrutinio dei parametri oggettivi e soggettivi di assoluta buona fede del privato; la concomitante possibilità per l’Amministrazione di fornire la prova dell’errore scusante per evitare la rimproverabilità della colpa d’apparato.
In ciò giocano un ruolo fondamentale le due eccezioni che escludono in radice qualunque affidamento e dunque la logica del caso per caso: l’impugnazione del provvedimento dinanzi al G.a. da parte del suo controinteressato e la riconoscibile illegittimità.
Se l’uno è comunque un parametro oggettivo, che rende prevedibile l’annullamento e dunque impedisce il formarsi di una vera e propria “delusione” o “sorpresa” del privato beneficiario; l’altro resta ancora piuttosto fumoso, peraltro nuovamente rischiando di sovrapporre il piano della legittimità dell’atto (che risponde a interessi pubblici e principi legislativi) con quella della buona fede del privato deluso (che risponde invece a parametri comportamentali diversi dalla sfera della legittimità).
Questo secondo aspetto, in particolare, è destinato, nell’opinione di chi scrive, a nuovi arresti giurisprudenziali che ne definiscano i contorni. Quello, di cui in apertura, in punto di giurisdizione, è invece in aperto contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite, alle quali – senza alcun velo – la Plenaria “lancia” la sfida. Ci penserà, dunque, un ricorso per motivi di giurisdizione ex art. 111 Cost., a riaprire la querelle tra Giudice ordinario e amministrativo.
Alla prossima puntata.
[1] Cons. Stato, II, ord. 9 marzo 2021, n. 2013, in Giustiziainsieme.it con nota di C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato, 27 aprile 2021; Cons. Stato, II, ord. 6 aprile 2021, n. 2753; Cons. Stato, IV, 11 maggio 2021, n. 3701, in Giustiziainsieme.it, con nota di G. Capra, La lesione dell’affidamento: i dubbi sulla giurisdizione e sulla tutela del privato, 2021.
V’è da sottolinearsi, peraltro, che l’ordinanza Cons. Stato, II, n. 2753/2021, cit., concerneva prettamente la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale derivanti dall’annullamento in sede giurisdizionale dell’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico di lavori: pronunziava dunque sulla responsabilità della pubblica Amministrazione per l’affidamento suscitato nel destinatario di un provvedimento ampliativo illegittimamente emanato e poi annullato, con particolare riguardo all’ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture, successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale. Sull’ordinanza si è pronunciata l’Adunanza plenaria con sentenza del 29 novembre 2021, n. 21, la quale ha affermato il principio secondo cui «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa». In altre parole – in disparte il profilo della giurisdizione, non oggetto di vaglio giurisprudenziale – la p.A. nella veste di stazione appaltante può incorrere in una responsabilità precontrattuale per violazione dei canoni di correttezza e buona fede indipendentemente dalla legittimità del suo operato. Principio, questo, già fortemente affermato in Cons. Stato, Ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6, più volte richiamata anche nella Plenaria qui in esame, la n. 20/2021.
[2] Su questo punto le argomentazioni assumono percorsi profondamente differenti. Per la II Sezione, non vi potrebbe essere affidamento tutelabile laddove il provvedimento ampliativo sia annullato dal Giudice perché dal potere giurisdizionale non si può pretender nulla: non v’è affidamento da riporre nell’Autorità giurisdizionale, la quale agisce esercitando un potere terzo e imparziale vòlto a dirimere le controversie e non a bilanciare interessi. Viceversa, per la VI Sezione l’affidamento del beneficiario non è tutelabile laddove il provvedimento sia stato impugnato – e annullato dal G.a. – in quanto la mera impugnazione è di per sé un fattore di conoscibilità dell’illegittimità dell’atto e l’annullamento di quest’ultimo non è un evento imprevedibile, tale da “deludere” il beneficiario/controinteressato processuale.
[3] Tar Marche, 6 maggio 2020, n. 268, il quale ha ravvisato la «colpa d’apparato» dell’Amministrazione comunale, consistita nell’adozione dell’illegittima variante urbanistica e il nesso di causalità tra questa e il relativo annullamento in sede giurisdizionale: la ricorrente infatti «aveva acquistato il terreno per realizzarvi una dimora estiva» e «non avrebbe verosimilmente acquistato un terreno di cui non era possibile la trasformazione edilizia». La sentenza di primo grado ha quindi condannato il Comune al risarcimento dei danni consistenti nel maggior valore del terreno acquistato correlato alla sua illegittima destinazione edificatoria e nelle spese sostenute per l’edificazione e per la successiva demolizione del fabbricato su di esso realizzato.
[4] C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione, cit.
[5] V. in proposito, G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Riv. giur. ed., n. 5/2016, pp. 483 ss.; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss.; F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento, in Federalismi.it, n. 24/2011; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, n. 7/2011; P. Chirulli, Responsabilità da comportamento. Report annuale 2011, in Jus Publicum, www.jus-publicum.com, 2011; da ultimo – più in generale sulla tutela dell’affidamento alla luce degli ultimi arresti giurisprudenziali della Cassazione – v. anche M. Filippi, Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione: riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza, in Giustiziainsieme.it, 11 febbraio 2021.
[6] Così Cass., SS.UU., ord. 4 settembre 2015, n. 17586: «L’azione di risarcimento dei danni per l’affidamento incolpevole del beneficiario del provvedimento amministrativo emesso illegittimamente e poi rimosso per annullamento in autotutela divenuto definitivo o per annullamento in sede giurisdizionale spetta alla giurisdizione del G.o.; il solo fatto che nella fattispecie rilevi l’agire della p.a. che ha portato all’adozione del provvedimento favorevole illegittimo non giustifica che la lesione che si manifesta ex post quando tale provvedimento viene rimosso, e fa sorgere eventuale diritto al risarcimento del danno da affidamento incolpevole, sia riferibile all’interesse legittimo che il beneficiario aveva in relazione a quell’agire, e ciò in quanto quell’interesse pretensivo non era già l’interesse all’agire legittimo della p.A., bensì quello all’emanazione del provvedimento ampliativo, che è stato, sia pure illegittimamente, soddisfatto. Ciò che viene in rilievo successivamente all’annullamento è piuttosto il diritto soggettivo all’integrità patrimoniale, con conseguente giurisdizione del G.o.». A commento di quest’ordinanza, cfr. M. Sinisi, Annullamento della concessione per la realizzazione e gestione di un porto turistico, in Riv. giur. ed., n. 5/2015, pp. 1059 ss.
[7] Cass., SS.UU., ord. 22 giugno 2017, n. 15640, statuisce che la responsabilità da annullamento in autotutela della p.A. non ricade né nella responsabilità aquiliana né in quella contrattuale, pur essendo più vicina a quest’ultima a causa del “contatto” qualificato tra le parti; la posizione giuridica ricoperta dal privato, peraltro, non ricadrebbe nell’interesse legittimo ma sarebbe «assimilabile» al diritto soggettivo.
[8] Le perplessità espresse sul punto, all’epoca dell’emanazione delle ordinanze, da M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno, cit., p. 11, sono chiare e condivisibili, poiché «il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico e coerentemente la lesione che esso arreca deve essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo: tanto più se esso ha già conosciuto in sede cognitoria della sua legittimità (su ricorso del terzo leso nel suo interesse oppositivo o del destinatario leso dal suo annullamento d’ufficio)». Questo a meno che la situazione di legittimo affidamento non sia considerata diritto soggettivo, tutelabile innanzi al Giudice ordinario: orientamento, questo, progressivamente consolidatosi negli anni successivi.
[9] Peraltro deve darsi atto di un’attenta opinione secondo la quale l’interesse legittimo pretensivo risulterebbe leso anche dall’illegittima adozione di un provvedimento ampliativo: secondo C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss., spec. p. 569-570: «l’interesse legittimo vantato dal cittadino [...] è sempre il medesimo, e cioè è la pretesa ad un provvedimento (non solo) favorevole (ma anche) frutto dell’attività legittima dell’amministrazione […]. […] l’interesse legittimo non può essere disgiunto dalla legittimità del provvedimento». Viceversa, secondo F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, p. 462 ss., la legittimità del provvedimento ampliativo è una qualità affatto indifferente per il privato destinatario, il quale più semplicemente mira al conseguimento e alla stabilità degli effetti di quel provvedimento.
[10] Vi sarebbe interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi all’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene. Una lettura, questa, che porta inevitabilmente il titolare di un interesse pretensivo illegittimamente insoddisfatto a rivolgersi al G.a. per il danno derivante dall’illegittimo diniego, mentre il titolare di un interesse oppositivo all’eventuale annullamento d’ufficio a rivolgersi al G.o. per chieder il risarcimento dei danni: situazioni soggettive che potrebbero riguardare tanto i destinatari dei provvedimenti quanto i controinteressati, non essendo certo infrequente che un medesimo provvedimento, frutto di un medesimo unico esercizio di potere, generi interessi contrastanti nei soggetti che ne subiscono gli effetti diretti o riflessi. Cfr. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., n. 2/2011, p. 896 ss., spec. p. 809.
[11] F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito, cit., p. 9.
[12] Queste le parole d’apertura della parte in diritto della Plenaria in commento: «sussiste la giurisdizione amministrativa tanto sulle domande aventi ad oggetto le conseguenze risarcitorie dell’annullamento di un atto amministrativo, in sede di giurisdizione generale di legittimità, quanto nel caso di specie, in cui la domanda risarcitoria sia proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione nella materia “urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio”, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), del codice del processo amministrativo» (corsivo originale).
[13] M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., n. 1/2010, pp. 143 ss., per il quale il diritto amministrativo è una branca giuridica d’esistenza necessaria, poiché è l’unico nato per regolare rapporti squilibrati, fondati su interessi diseguali, con l’intento di perequarli e garantire il privato nei confronti del potere amministrativo; conseguentemente, questi rapporti hanno un loro Giudice naturale: «il giudice amministrativo, così come già evidenziava l’antica giuspubblicistica, si può giustificare come giudice speciale non nella veste odiosa, per la mentalità giuridica moderna, del giudice ratione personae, bensì del giudice ratione materiae: la materia o la specialità è appunto il diritto amministrativo. È questo il vero tradizionale fondamento dell’esistenza di questo giudice che, infine, nonostante il sempre mistificatorio riferimento alle posizioni soggettive, ha riconosciuto il nostro giudice delle leggi, qualificando il giudice amministrativo come “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica” (Corte cost. n. 191/2006 e n. 140/2007)».
[14] Il riferimento è alla Direttiva c.d. Rimedi, 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, e all’art. 13, l. n. 142/1990:«1. I soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all’Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. 2. La domanda di risarcimento è proponibile dinanzi al giudice ordinario da chi ha ottenuto l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo».
[15] Queste, in estrema sintesi, le tappe dopo il 1992:
– d.lgs. n. 80/1998, con attribuzione della giurisdizione sul risarcimento danno al Giudice amministrativo;
– Cass. SS.UU., 22 luglio 1999, n. 500, che ha. riconosciuto nell’interesse legittimo una situazione giuridicamente rilevante di natura sostanziale, concernente il «bene della vita» connesso all’esercizio del potere, sentenza che ha ritenuto ammissibile la domanda volta a ottenere il risarcimento del danno derivante dall’illegittimo esercizio del potere, a prescindere dall’azione impugnatoria contro l’atto causativo del danno, attribuendo quindi la relativa giurisdizione al Giudice ordinario;
– l.n. 205/2000, con la quale il legislatore, per la prima volta in modo esplicito, ha riconosciuto la risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, attribuendone la giurisdizione al Giudice amministrativo, senza nulla specificare in ordine alla questione, affrontata e risolta positivamente dalla sentenza n. 500, circa l’ammissibilità di un’azione risarcitoria proposta in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria;
- art. 30, d.lgs. n. 104/2010, che finalmente positivizza l’autonomia dell’azione risarcitoria per lesione d’interessi legittimi e ne attribuisce la cognizione al Giudice amministrativo sia nella giurisdizione di legittimità sia in quella esclusiva.
[16] Corte Cost., n. 204/2004, passim. Ne consegue che «l’attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola (avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi olim di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l’art. 13 l. 19 febbraio 1992 n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost.».
[17] Così, G. Montedoro, Il danno ingiusto nella prospettiva del Giudice amministrativo, in Quest. giust., n. 1/2018.
[18] Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140.
[19] Come da Plenaria, «l’affidamento è un istituto che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata. Dell’affidamento sono applicazioni concrete, tra le altre, la “regola possesso vale titolo” ex art. 1153 cod. civ., l’acquisto dall’erede apparente di cui all’art. 534 cod. civ., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l’acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente ex artt. 1415 e 1416 cod. civ., il cui denominatore comune consiste nell’attribuire effetti all’atto compiuto dalla parte che in buona fede abbia pagato o contrattato con chi ha invece ricevuto il pagamento o alienato senza averne titolo».
[20] Cons. Stato, VI, 13 agosto 2020, n. 5011: nel caso di specie – revoca del finanziamento di un’opera pubblica e conseguente declaratoria d’illegittimità dell’atto di esproprio per la sua realizzazione – il Collegio ha attribuito la giurisdizione al G.o., ma sottolineando che l’affidamento non è né un «diritto all’integrità patrimoniale» né, più in generale, un diritto, bensì un principio generale che può trovare collocazione anche nell’attività amministrativa.
[21] Queste le parole della Plenaria in commento.
[22] La richiesta di tutela dell’affidamento asseritamente leso dev’essere dunque vagliata dal G.a. sia che esso sia stato pregiudicato da un provvedimento, sia da un comportamento, purché nell’esercizio di potere autoritativo. E ciò sia che si verta dell’interesse del soggetto leso dal provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il risarcimento del danno alternativamente o (come più spesso accade) cumulativamente all’annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo all’interesse del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento. Anche quest’ultimo, infatti, vanta nei confronti dell’amministrazione un legittimo interesse alla sua conservazione, non solo rispetto all’azione giurisdizionale del ricorrente, ma anche rispetto al potere di autotutela dell’amministrazione stessa.
[23] Comma aggiunto dall’art. 12, comma 1, lettera 0a), l. 11 settembre 2020, n. 120; di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali».
[24] Come ricorda F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015, «il legislatore degli anni novanta ha peraltro rinforzato il procedimento, generalizzando il principio del contraddittorio e della partecipazione. Qui i Maestri ci insegnano che quando ciò avviene la manifestazione di volontà dell’amministrazione tende a strutturarsi come decisione propriamente intesa, con l’effetto di consumazione del relativo potere». Il che ha reso per diverso tempo difficilmente inquadrabile il fondamento unilaterale del potere di autotutela amministrativa.
[25] Così la Plenaria: «tale dovere comportamentale si rivolge sia all’amministrazione sia ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento, qualificando in termini giuridici una relazione che è e resta pubblicistica, sia pure nell’ottica di un diritto pubblico in cui l’autoritatività dell’agire amministrativo dà vita e si inserisce nel corso di un rapporto in cui doveri comportamentali e obblighi di protezione sono posti a carico di tutte le parti. E non sembra, in tale contesto, che i princìpi che regolano il rapporto siano espressione di autonome situazioni soggettive autonome, se non avulse, dalla posizione delle parti; si deve piuttosto ritenere che si tratti di doveri imposti alle parti, e in primis all’amministrazione, a salvaguardia delle situazioni soggettive coinvolte, che, in quanto afferenti a quel rapporto, non mutano la loro natura e la loro consistenza».
[26] Cons. Stato, Ad. plen. 5 settembre 2005, n. 6.
[27] M. Renna, Responsabilità della pubblica Amministrazione: a) profili sostanziali, in Enc. dir., Annali IX, p. 806: «la legittimità, e financo la doverosità, di un intervento in autotutela non è incompatibile con la contrarietà a buona fede del contegno precontrattuale della pubblica amministrazione complessivamente considerato. Tra liceità della condotta e legittimità degli atti non sussiste, infatti, un nesso di necessaria corrispondenza. Ciò in ragione del fatto che la condotta, pur allorquando si estrinsechi nell’emanazione di una serie di atti (e dunque non nel compimento di mere azioni materiali: v. il paragrafo precedente), non si identifica con la mera sommatoria degli atti medesimi, ma si sostanzia anche, e forse soprattutto, della complessa trama delle interrelazioni tra questi».
[28] Cons. Stato, Ad. plen., n. 20/2021, cit.
[29] Il Collegio, consapevole della frizione creatasi con la statuizione di questo principio di diritto, non lascia peraltro sotto traccia questa consapevolezza, tradottasi in un atto di forza: «Il possibile contrasto del principio di diritto come sopra affermato in punto di giurisdizione con l’orientamento certamente prevalente della Corte regolatrice potrà essere vagliato in sede di eventuale impugnazione ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione delle sentenze di questo Consiglio, le quali sono nel frattempo tenute all’osservanza del principio di diritto (salva nuova rimessione) ai sensi dell’articolo 99 cod. proc. amm.».
[30] G. Capra, La lesione dell’affidamento, cit.: «L’Amministrazione, lungi dall’essere un soggetto incapace per il quale l’ordinamento deve apprestare una particolare tutela, occupa una posizione che genera di per sé un affidamento – lato sensu inteso – in capo ai cittadini, vieppiù quando riscontra l’istanza del privato con un provvedimento espresso».
[31] Per prendere a prestito le parole della Plenaria: «Va considerato al riguardo che, sebbene al privato sia riconosciuto il potere di attivare il procedimento amministrativo e di fornire in esso ogni apporto utile per la sua conclusione in senso per sé favorevole, egli lo fa all’esclusivo fine di realizzare il proprio utile. È peraltro sempre l’Amministrazione a rimanere titolare della cura dell’interesse pubblico concreto, alla cui attuazione è tenuta; se dunque l’interessato consegue il provvedimento favorevole, è perché l’Amministrazione lo ha ritenuto conforme al primario interesse pubblico. Gli istituti partecipativi introdotti nella più recente legislazione, a partire dalla legge n. 241 del 1990, e la recente positivizzazione dei doveri di correttezza e buona fede non hanno fatto venir meno il carattere unilaterale del provvedimento amministrativo e soprattutto, anche con riferimento ai moduli consensuali, la sua inerenza all’esercizio di un potere correlato alle finalità istituzionali, tipizzate per legge, di cui l’amministrazione è titolare e responsabile».
[32] In questo senso anche G. Capra, La lesione dell’affidamento, cit.
[33] Sul punto v. il contributo di E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, in Giustiziainsieme.it, 2021.
[34] V. in proposito M. Immordino, Risarcimento del danno e obbligo della pubblica amministrazione di annullare un proprio atto inoppugnabile su istanza del privato interessato, in S. Perongini (a cura di), Al di là del nesso autorità/libertà: tra legge e amministrazione, Torino, 2017, pp. 255 ss.
[35] Tar Lazio, II, 8 maggio 2018, n. 5112: «Il principio della certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta, quindi, che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura; pertanto sono state individuate una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell'intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato e delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extra-processuale, sussiste, a carico dell'interessato, un onere di attivarsi giudizialmente senza indugio, tenuto conto anche del fatto che resta in ogni caso salva la possibilità per il ricorrente di proporre eventuali motivi aggiunti, a seguito di una successiva e più approfondita analisi di tutta la documentazione rilevante ai fini della causa. Ne deriva che il vicino che intenda avversare un intervento edilizio ha il preciso onere di attivarsi tempestivamente secondo i canoni di buona fede in senso oggettivo, senza differire colposamente o comunque senza valida ragione l’impugnativa del relativo titolo alla fine dei lavori, quando ciò non sia oggettivamente necessario ai fini ricorsuali».
[36] Per A. Bartolini, Principio eurounitario di responsabilità e legge n. 241 del 1990, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 2/2021, pp. 143 ss.: «La responsabilità ha […] carattere sostanziale ed è un modo diverso di garanzia, che arricchisce la tutela dell’amministrato. In questo quadro la legge generale è proprio la sede di queste garanzie e tutele, che vanno dagli interessi partecipativi lungo il procedimento, alle garanzie in tema di trasparenza, ai rimedi amministrativi di autotutela, fino alla disciplina delle condizioni sostanziali di invalidità (nullità, annullabilità, cui si aggiunge di recente l’inefficacia). Poiché la tutela risarcitoria si configura come garanzia alternativa ai rimedi in forma specifica, pare, appunto, che la sua sede naturale sia proprio la legge 241. Ecco perché si deve ritenere che l’art. 1, colmando una lacuna del legislatore, attragga a sé il principio europeo di responsabilità come canone regolatore dell’attività amministrativa disfunzionale».
[37] La precisazione si rende necessaria perché, secondo la sezione rimettente, la costituzione in giudizio del beneficiario dell’atto quale controinteressato processuale per difenderlo ne impedirebbe, poi, la domanda risarcitoria in ossequio al principio di non contraddizione. La Plenaria smentisce questo assunto, poiché difendere la legittimità di un provvedimento è fatto del tutto indipendente dalla liceità del comportamento dell’Amministrazione, da valutarsi – su un piano separato – a seguito della sentenza di annullamento.
[38] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, pp. 823 ss.
[39] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo, cit., passim, che così prosegue: «nel caso dell’annullamento d’ufficio – che è considerato caso esemplare di tutela dell’affidamento – la tutela giurisdizionale dell’affidamento leso non ripara il danno patrimoniale ma, annullando il provvedimento lesivo, tende ad assicurare la corretta valutazione degli interessi implicati nella vicenda amministrativa, considerati nella loro consistenza obiettiva. La diversa tecnica di tutela riflette la diversa configurazione dell’affidamento nei rapporti tra i privati e nel rapporto con l’autorità amministrativa. Nel rapporto amministrativo l’interesse materiale cui è finalizzata la tutela dell’affidamento non riceve protezione diretta: quell’interesse sarà soddisfatto se il confronto tra gli interessi in gioco risulterà favorevole al privato, secondo la logica della tutela dell’interesse legittimo che si correla al potere amministrativo discrezionale».
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