ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Un errore procedurale nel labirinto delle questioni di costituzionalità, in tema di titolo esecutivo
di Giorgio Spangher
Un giudice dell’esecuzione deve decidere di una pena relativamente ad un soggetto al quale viene revocata la sospensione condizionale effetto di un patteggiamento applicato quando è stato ritenuto erroneamente maggiorenne e definito con sentenza passata in giudicato.
Ritenendo che l’ordinamento non prevede un adeguato strumento per rimediare all’errore, solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 670 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25 primo comma e 117 primo comma Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 5, § 1, lett. a e 4 della Cedu, nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni.
Con la sentenza n. 2 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato la questione non fondata in relazione a tutti i profili sollevati dal giudice a quo, soprattutto in relazione alla dedotta questione di nullità assoluta per difetto di competenza funzionale, così da far dichiarare nullo il titolo esecutivo, per poi procedere ad un nuovo giudizio innanzi al competente tribunale per i minorenni.
Al di là della corretta prospettazione della tipologia di invalida, è evidente che un accoglimento di questo profilo avrebbe determinato in termini di sistema, come non manca di sottolineare la Corte, “gravi squilibri nei meccanismi della rilevazione delle nullità, così come disegnati dal Codice di procedura penale”.
Del resto, la Corte non manca di sottolineare come il giudice a quo espressamente ritenga, con motivazione più o meno ampia, che alcune ipotesi alternative, pur prospettate nel corso del processo, avesse ritenuto di non sollevarle. Il riferimento è alla possibile operativa della revisione ed all’inquadramento della questione nel novero dell’inesistenza (radicale).
Se in relazione al primo profilo, i giudici costituzionali non mancano di evidenziare che la questione avrebbe dovuto essere oggetto della prospettazione della Corte d’appello, quanto al secondo i giudici costituzionali evidenziano qualche possibile “apertura”, sottolineando la decisa opzione del giudice a quo per la questione di nullità dell’art. 670, comma 1, c.p.p.
A superare i riferiti limiti di rilevabilità, secondo la Corte, non potrebbero essere addotte neppure le nullità relative a diritti fondamentali, essendo queste già ricomprese tra le ipotesi di invalidità previste dalla disciplina codicistica.
In questa stessa prospettiva non potrebbero rilevare neppure le violazioni di garanzie costituzionali come quella, pur sostenuta dal giudice a quo, della lesione del principio del giudice naturale di cui all’art. 25 Cost., pur non mancando numerose decisioni costituzionali che collocano in questo ambito la posizione del giudice minorile.
Inoltre la Corte, pur essendo in questi ultimi tempi emersa una progressiva erosione del giudicato, in relazione al tema delle prove illegali, non manca di sottolineare come le decisioni in materia siano riconducibili ad interventi giurisprudenziali legati a situazioni di sopravvenienza costituzionalmente rilevata, con conseguente esclusione di “interventi a ritroso del giudice dell’esecuzione”.
Complessivamente, quindi, secondo la Corte deve ritenersi che l’irrevocabilità della res iudicata sia un fisiologico argine rispetto alla possibilità di interventi correttivi, una volta che siano intervenute le decisioni dei giudici chiamati anche a verificare su iniziativa delle parti eventuali errori procedurali.
Pur nella piena percezione dei termini della questione – senza evocare quanto previsto dal comma 4 dell’art. 24 Cost. – la Corte costituzionale, nella consapevolezza delle non secondarie ricadute che un’eventuale decisione di accoglimento potrebbe determinare, si muove nel solco dei termini nei quali il giudice a quo ha proposto la questione, secondo la logica delle rime obbligate o baciate, tenendo presenti i limiti che essa ed il diritto vivente hanno già fissato in punto di erosione del giudicato.
Sotto questo profilo, dalla lettura della motivazione sembrerebbe possibile affermare che ove la questione fosse stata prospettata nei termini dell’inesistenza (come sostenuto dalla difesa) l’esito avrebbe potuto essere diverso, ovvero, forse poteva lo stesso giudice di sorveglianza determinarsi in tal senso. È noto, infatti, che l’inesistenza, concepita ai tempi delle nullità relative, sanabili – perché non riconosciute – costituiva (1930) lo strumento per ovviare a gravi patologie processuali e come l’introduzione nel 1955 delle nullità assolute ne avesse ridimensionato la presenza,
Invero, la residualità delle situazioni di inesistenza - vizio di natura giurisprudenziale - non avrebbe messo in discussione l’esigenza per la Corte ed il sistema di preservare l’autorità del giudicato e l’assorbimento da parte della sentenza definitiva soprattutto delle cause di nullità ancorché assolute che, seppur insanabili, si afferma essere “coperte” dal giudicato.
Significativo, in tal senso, il passaggio della motivazione nella quale la Corte sottolinea come il giudice a quo sollecita questa Corte ad intervenire con una pronuncia additiva sul testo dell’art. 670, comma 1, c.p.p., che consenta al giudice dell’esecuzione di dichiarare (non già la “mancanza” o l’“inesistenza”, bensì) la nullità del titolo esecutivo, sulla base di un vizio esso stesso qualificato dal rimettente in termini di “nullità”.
Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale: il pensiero dei Maestri e gli argomenti dell’interprete tra esegesi e sistema
di Paolo Spaziani
La responsabilità contrattuale non solo è l’istituto centrale del diritto delle obbligazioni ma assume una posizione di rilievo nell’intero sistema del diritto privato. L’asperrima questione dell’individuazione del fondamento di questo istituto sembra disorientare la dottrina più recente ed espone la giurisprudenza al rischio di soluzioni che si riconducono a linee evolutive non sempre reciprocamente coerenti. È appena trascorso un secolo dalla pubblicazione del celebre saggio di Giuseppe Osti Sull’impossibilità della prestazione. Da allora, profondi itinerari dogmatici sono stati tracciati dai grandi Maestri della nostra scienza. L’interprete moderno ha l’opportunità (ma anche la responsabilità) di non disperdere questa eredità, cercando in essa, con le proprie forze, ma anche con il patrimonio di idee e di pensiero che si rinviene ripercorrendo le preclare tracce di quegli itinerari, gli argomenti esegetici e sistematici che conducono al sentiero della ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale.
Ai Maestri
Sommario: 1. Il fondamento della responsabilità contrattuale: disorientamenti dottrinali e risposte giurisprudenziali su un problema ancora aperto. - 2. Le pronunce giurisprudenziali che accedono alla tesi della struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale. - 3. Le pronunce giurisprudenziali che, in senso contrario, esprimono l’esigenza di contenere il sacrificio del debitore entro limiti di normalità e ragionevolezza. - 4. La qualificazione giurisprudenziale dell’inadempimento quale fenomeno oggettivo, estraneo al profilo soggettivo della colpa. - 5. Il pensiero dei Maestri. Lo stato della riflessione dottrinale sullo scorcio dell’800 e agli inizi del 900. - 6. Le teorizzazioni oggettive: Giuseppe Osti, Emilio Betti, Luigi Mengoni. - 7. Le teorizzazioni soggettive: Michele Giorgianni, Cesare Massimo Bianca. - 8. La responsabilità per inadempimento come responsabilità fondata sulla colpa. - 9. L’argomento esegetico. - 10. L’argomento sistematico. - 11. Il contenuto dell’obbligazione e la struttura della fattispecie di responsabilità per inadempimento.
1. Il fondamento della responsabilità contrattuale: disorientamenti dottrinali e risposte giurisprudenziali su un problema ancora aperto
Circa tre anni or sono, il 14 dicembre 2018, in un convegno organizzato in ricordo di Giuseppe Osti nel centenario della pubblicazione del celebre saggio sulla Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione[1], Cesare Massimo Bianca tornava ad interrogarsi sulla natura della responsabilità contrattuale e ci invitava a seguirlo alla ricerca del fondamento dell’istituto[2], sul rilievo – così si chiudeva la sua relazione – che «l’identificazione [del contenuto dell’obbligazione] e del fondamento della responsabilità contrattuale è un problema ancora aperto come lo era al tempo del ricordato centenario del saggio dell’Osti»[3].
Che si tratti di un problema ancora aperto, lo dimostra l’attuale stato della giurisprudenza di legittimità, le cui soluzioni, non sempre reciprocamente coerenti, dimostrano una linea evolutiva incerta, in cui si riflettono gli orientamenti (ma anche i disorientamenti) della attuale riflessione dottrinale sull’argomento, la quale, inseguendo il commento dell’ultima sentenza – spesso svolto con metodo demolitivo e non con fiducia di apporto critico costruttivo – sembra avere abbandonato il respiro sistematico che aveva caratterizzato le elaborazioni dei Maestri (da Giuseppe Osti a Cesare Massimo Bianca) in favore di una propensione, squisitamente esegetica, all’analisi frammentaria e casistica.
2. Le pronunce giurisprudenziali che accedono alla tesi della struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale
Dalle pronunce giurisprudenziali, per un verso, emerge l’esigenza di porre un limite al sacrificio del debitore, dal quale deve bensì esigersi l’impiego delle energie e dei mezzi adeguati al soddisfacimento dell’interesse del creditore (art.1174 c.c.) ma non qualsiasi sacrificio personale od economico.
Per altro verso, le stesse pronunce manifestano la tendenza a ribadire la struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale, quale fattispecie che, a differenza dell’illecito aquiliano, non è connotata dalla colpa e – tendenzialmente, anche se non sempre – si esaurisce nel fatto obiettivo dell’inadempimento, quale fatto contenente in sé la lesione dell’interesse creditorio.
Questa tendenza si riscontra nelle pronunce con cui – evidentemente, sotto l’influenza della dottrina che predica l’espulsione dai requisiti della fattispecie sia dell’elemento (obiettivo) della causalità materiale che dell’elemento (subiettivo) della colpa – è stata posta la distinzione tra obbligazioni di dare o facere non professionale e obbligazioni di facere professionale[4].
Secondo queste pronunce, la struttura pluralistica tradizionale della fattispecie di responsabilità contrattuale rimarrebbe concettualmente e funzionalmente integra soltanto nelle obbligazioni di facere professionale mentre verrebbe parzialmente meno nelle obbligazioni di dare e in quelle di facere non professionale.
In queste ultime, infatti, non sarebbe funzionalmente identificabile il danno-evento, quale elemento costitutivo autonomo derivante causalmente dall’inadempimento (causalità materiale), poiché l’evento lesivo, traducendosi nella lesione dell’interesse creditorio cui la prestazione deve corrispondere (art. 1174 c.c.) finirebbe per coincidere con l’inadempimento. Di conseguenza, allegare l’inadempimento significherebbe già allegare il danno-evento che ne è derivato poiché entrambi si risolverebbero, in sostanza, nella mancata corrispondenza della prestazione all’interesse creditorio. Ma poiché l’inadempimento non deve essere provato dal creditore, spettando al debitore la prova dell’adempimento, il danno-evento (la causalità materiale) rimarrebbe fuori dal tema di prova del creditore, il quale sarebbe chiamato a dimostrare soltanto la causalità giuridica, e cioè la sussistenza delle conseguenze pregiudizievoli (danni-conseguenze) cagionate dall’evento lesivo.
La causalità materiale tornerebbe invece ad assumere un’autonomia funzionale (e, dunque, a richiedere una specifica allegazione e una specifica prova) nelle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali, poiché in queste la lesione dell’interesse creditorio al diligente esercizio della professione nell’osservanza delle relative leges artis (lesione nella quale si traduce l’inadempimento) non concreta di per sé il danno-evento, che si integra soltanto con la lesione del (diverso) interesse primario del cliente (interesse alla guarigione, nell’obbligazione del medico; alla vittoria della causa, in quella dell’avvocato) cui l’interesse corrispondente alla prestazione rimasta inesattamente adempiuta era strumentale.
Solo nell’ambito di tali fattispecie di responsabilità, pertanto, il danno-evento, quale lesione dell’interesse finale, costituirebbe un quid pluris rispetto all’inadempimento (lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c.) e sarebbe possibile, dunque, individuare tra i due requisiti costitutivi della fattispecie uno scollamento logico (ed eventualmente anche cronologico) che deve essere saldato dal nesso di causalità materiale.
Alla luce di tali rilievi, si delineano, con riguardo alle due tipologie di obbligazioni, due fattispecie di responsabilità strutturalmente diverse in relazione alla diversa morfologia del rapporto di causalità: a) nella fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di facere professionale, esso rapporto continua a scindersi nei due segmenti della causalità materiale e della causalità giuridica e di entrambi deve fornire la prova il creditore; b) invece, nella fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di dare o di facere non professionale, il rapporto medesimo si esaurisce nel solo nesso di causalità giuridica, poiché non è ravvisabile un danno-evento autonomamente configurabile rispetto al fatto di inadempimento, riducendosi conseguenzialmente l’area del tema di prova del creditore.
Il problema del nesso causale cessa, dunque, di costituire oggetto di una questione attinente soltanto alla ripartizione dell’onere della prova tra le due parti del rapporto obbligatorio e diviene una discriminante strutturale della fattispecie di responsabilità contrattuale, la cui morfologia muta al mutare della tipologia dell’obbligazione assunta.
3. Le pronunce giurisprudenziali che, in senso contrario, esprimono l’esigenza di contenere il sacrificio del debitore entro limiti di normalità e ragionevolezza
L’esigenza di mantenere entro limiti di normalità e ragionevolezza il sacrificio del debitore emerge, invece, dall’evoluzione degli orientamenti della giurisprudenza della Corte di cassazione (evoluzione in corso da circa un ventennio e apparentemente lontana dall’avviarsi ad approdare a soluzioni definitive) in ordine alla regola di ripartizione dell’onere della prova degli elementi costitutivi della responsabilità per inadempimento[5].
La stessa esigenza, inoltre, è alla base del ridisegnato regime della responsabilità per il fatto degli ausiliari (art. 1228 c.c.), operato dalla giurisprudenza della Terza Sezione civile della Suprema Corte sempre in relazione a fattispecie di responsabilità medica soggette alla disciplina anteriore a quella introdotta dalla legge n. 24 del 2017, ma con implicazioni di carattere generale.
La Cassazione, precisamente, nell’affrontare la questione della ripartizione interna del carico dell’obbligazione risarcitoria verso il paziente, nell’ipotesi di responsabilità solidale del medico autore del fatto dannoso (tenuto ai sensi dell’art. 1218 c.c.) e della struttura in cui il primo presta la sua opera (obbligata ai sensi dell’art. 1228 c.c.), è giunta a configurare la responsabilità contrattuale fondata sul rischio connesso all’appropriazione dell’attività altrui per i propri fini su un piano nettamente diverso rispetto alla responsabilità extracontrattuale fondata sull’omologo rischio.
Diversamente dalla responsabilità ex art. 2049 c.c. (che integra pacificamente una responsabilità oggettiva per fatto altrui), quella ex art. 1228 c.c. è stata infatti espressamente – ma innovativamente e, per certi versi, sorprendentemente – qualificata come responsabilità soggettiva per fatto proprio, sul rilievo che, a differenza del fatto del preposto, quello dell’ausiliario, espressamente qualificato come doloso o colposo, rileverebbe come fatto del debitore, in quanto intraneo alla sua sfera giuridica[6].
La finalità perseguita (escludere l’integralità della rivalsa del condebitore forte e applicare, salva la prova contraria, il principio di pari responsabilità di cui agli artt. 1298, secondo comma, e 2055, terzo comma, c.c.[7]) giustifica forse, sul piano economico, la ricostruzione operata dalla Corte di cassazione, ma essa resta comunque difficilmente spiegabile sul piano dogmatico, non potendo desumersi dal carattere doloso o colposo del fatto dell’ausiliario, la natura colposa della responsabilità del debitore, il quale risponde sulla base di un presupposto oggettivo (il rischio connesso con l’appropriazione dell’altrui attività per i propri fini) e non già in ragione della propria negligenza o imprudenza nella scelta del (o nella vigilanza sul) soggetto incaricato dell’esecuzione della prestazione.
La diretta imputazione del fatto dell’ausiliario al debitore, poi, oltre ad evocare la superata figura della responsabilità organica (la quale, proiettata fuori dalla peculiare fattispecie della responsabilità sanitaria, nella generalità dei rapporti obbligatosi verrebbe inconcepibilmente a trovare operatività anche nei casi in cui debitore ed ausiliario sono due persone fisiche)[8], conduce ad un corto circuito concettuale, poiché finisce per individuare il limite della responsabilità debitoria in un impedimento (l’impossibilità oggettiva della prestazione) incompatibile con il riconoscimento della sua natura colposa.
Per comprendere appieno tale contraddittoria implicazione dell’orientamento giurisprudenziale in esame, può essere opportuno ricordare che la regola generale della responsabilità per il fatto degli ausiliari non era contemplata dall’ordinamento privatistico ante c.c. 1942, il quale prevedeva siffatta responsabilità solo in tema di appalto (art. 1644 c.c. 1865) e di trasporto (art. 398 c. comm. 1882); peraltro, la prevalente dottrina soleva ammettere la sussistenza di un generale principio della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario (analogo a quello successivamente codificato nell’art. 1228 c.c. 1942) sulla base della norma che rendeva il debitore responsabile per l’inadempimento che non fosse derivato da una causa estranea a lui non imputabile (art. 1225 c.c. 1865) e della conseguente configurazione del fatto dell’ausiliario come fatto non estraneo alla sfera giuridica del debitore[9].
Il fondamento della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario veniva dunque individuato nella medesima norma (l’art.1225 c.c. 1865) in cui si ravvisava il limite stesso della responsabilità per inadempimento; il debitore, in sostanza, rispondeva del fatto dell’ausiliario perché questo fatto, pur traducendosi in un impedimento all’esatta esecuzione della prestazione, non integrava l’impossibilità oggettiva della stessa, cioè l’impossibilità derivante da una causa estranea al debitore medesimo e (quindi) a lui non imputabile.
La Corte di cassazione, nell’affermare che il fatto doloso o colposo dell’ausiliario rileva come fatto del debitore, sembra essere tornata ad una concezione del fondamento della responsabilità per il fatto dell’ausiliario molto vicina a quella maturata nel vigore del codice del 1865. Ma la circostanza che il debitore risponde del fatto doloso o colposo dell’ausiliario in quanto impedimento non estraneo alla sua sfera giuridica (e quindi non integrante l’impossibilità oggettiva della prestazione) non appare compatibile con la qualificazione della medesima responsabilità in termini di responsabilità soggettiva (cioè fondata sulla colpa), in relazione alla quale il limite dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile (e quindi liberatoria) dovrebbe essere individuato, invece, in qualsiasi impedimento – anche di carattere soggettivo – non prevedibile né superabile con la diligenza ordinariamente richiesta in ordine all’obbligazione assunta.
4. La qualificazione giurisprudenziale dell’inadempimento quale fenomeno oggettivo, estraneo al profilo soggettivo della colpa
L’adesione alla tesi della struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale, quale fattispecie esaurentesi nell’inadempimento (vicenda contenente in sé la lesione dell’interesse creditorio), si è tradotta, in una recentissima pronuncia della Terza Sezione civile, nell’affermazione del principio di diritto secondo il quale «nella responsabilità contrattuale, a differenza di quella aquiliana, la colpa non è elemento costitutivo della fattispecie, poiché non integra un criterio di accertamento dell’inadempimento – che, in quanto fenomeno oggettivo di mancata attuazione della regola contrattuale, resta estraneo al profilo soggettivo della colpa – ma piuttosto dell’imputabilità che ha impedito l’adempimento, sicché essa, non rilevando in sede di istituzione della responsabilità ma sul versante dell’esonero da essa, costituisce tema di prova del debitore che opponga il fatto estintivo dell’obbligazione diverso dall’adempimento»[10].
La colpa del debitore – soggiunge la pronuncia in esame – risiede, pertanto, non nell’inadempimento ma «nel non aver impedito che una causa, prevedibile, ed evitabile, rendesse impossibile la prestazione». Essa «non è fatto costitutivo della responsabilità, ma attiene alla conservazione della possibilità di adempiere».
In questa decisione, la prima delle due contrastanti tendenze giurisprudenziali, più sopra illustrate, raggiunge il suo estremo, poiché la Suprema Corte mostra esplicitamente di voler tornare alla teoria di Giuseppe Osti.
In questa teoria, infatti, assume posizione centrale la distinzione (che la pronuncia in esame – attraverso la chiara penna del suo valoroso estensore – rievoca e condivide) tra due distinti obblighi del debitore: quello di eseguire la prestazione (dalla cui violazione deriva la responsabilità per inadempimento vera e propria, quale responsabilità di natura oggettiva, prescindente dalla colpa); e quello di non renderla impossibile (dalla cui violazione deriva una responsabilità – non per inadempimento ma – per aver causato l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta, la quale presuppone bensì una colpa, ma una colpa estranea al contenuto della specifica obbligazione, perché consistente nella «inosservanza di un particolare dovere di diligenza collegato ad ogni rapporto obbligatorio»[11]).
La recentissima decisione appena ricordata si aggiunge, dunque, alla rilevante serie di pronunce che, pur vantando chiarezza, precisione e talora perfino raffinatezza negli argomenti e nelle soluzioni giuridiche che sorreggono le singole decisioni, dimostrano tuttavia che vi è ancora difformità di orientamenti in ordine alla questione della natura della responsabilità contrattuale e della struttura della relativa fattispecie.
Dinanzi a questo scenario, non sembra fuori luogo, allora, riaccostarsi, con predisposizione di discepoli, all’eredità scientifica lasciataci dagli scritti di alcuni grandi Maestri, per trarre dal loro insegnamento indicazioni utili a proseguire nel cammino della ricerca del fondamento di un istituto che assume una posizione di rilievo non solo nello specifico ambito del diritto delle obbligazioni, ma verosimilmente nell’intero sistema del diritto privato.
5. Il pensiero dei Maestri. Lo stato della riflessione dottrinale sullo scorcio dell’800 e agli inizi del 900
Nel saggio pubblicato nel 1918, Giuseppe Osti espose la sua concezione che attribuiva alla responsabilità per inadempimento natura di responsabilità oggettiva, quale responsabilità che prescinde dalla colpa, da cui il debitore viene liberato solo se si verifica un impedimento all’esecuzione della prestazione che assume i caratteri dell’impossibilità oggettiva e assoluta.
Questa concezione, che avrebbe avuto una influenza decisiva sulla formulazione della regola di responsabilità contrattuale nel nuovo codice civile del 1942, era però rivolta non solo al futuro, ma anche al passato, poiché intendeva sottoporre a revisione critica (di qui il titolo del saggio) le dottrine, di carattere soggettivo, che erano fiorite sullo scorcio dell’800 e agli inizi del 900.
Tali dottrine avevano avuto la propria ragione storica nei tumultuosi avvenimenti sociali e politici della fine del diciannovesimo secolo e avevano trovato humus favorevole sia nella scuola tedesca che in quella francese.
I codici liberali avevano recepito l’idea del Pothier, secondo cui il debitore è liberato soltanto dall’impossibilità assoluta della prestazione, la quale può materialmente verificarsi unicamente nelle obbligazioni di dare cose determinate e nelle obbligazioni di fare[12].
Questa idea – che nei rapporti commerciali aventi ad oggetto cose generiche, poneva il rischio della perdita della merce, per qualsiasi causa, in capo al debitore – presupponeva che nel sistema capitalistico l’ordinato svolgimento dei traffici potesse contare sia sulla pace sociale che sull’ordine internazionale.
L’idea entrò in crisi quando sia l’una che l’altro ricevettero turbamento a causa, rispettivamente, dei movimenti operai e della guerra: tali situazioni proiettavano il debitore di cose generiche in una condizione di particolare pericolo di pregiudizio, in quanto egli era tenuto non solo ad affrontare i rischi rientranti nella normale alea contrattuale, ma anche i rischi eccezionali, derivanti da cause indipendenti dalla sua sfera giuridica.
Il tentativo di individuare impedimenti, che pur non integrando ipotesi di impossibilità assoluta della prestazione, potessero tuttavia avere efficacia esimente per il debitore, portò a valorizzare l’aspetto soggettivo della responsabilità, dandosi così rilevanza alla diligenza nell’adempimento[13].
Nella dottrina francese, questa tendenza scientifica trovò la sua più rilevante attuazione nella formulazione, ad opera del Demogue[14], della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.
Questa distinzione – che era stata precorsa nel saggio dell’Osti e che riprendeva, mutandone la denominazione, la distinzione in esso contenuta tra obbligazioni di diligenza e obbligazioni di risultato – non era fondata (come lo sarebbe stata nelle successive teorizzazioni) sulla diversità del regime di responsabilità (soggettiva per le prime e oggettiva per le seconde), ma esclusivamente sulla diversità del contenuto della prestazione, da cui derivava una maggiore o minore difficoltà nell’assoluzione dell’onere probatorio spettante al creditore.
L’idea di fondo, infatti, che denotava una netta presa di distanza dal pensiero del Pothier, era quella che la responsabilità per inadempimento fosse, in generale, fondata sulla colpa del debitore e che di questa colpa, intesa come elemento costitutivo della fattispecie, dovesse sempre dare la prova il creditore, nel momento in cui agiva per il risarcimento del danno.
La diversità, quindi, stava solo nel diverso grado di difficoltà nell’assolvere all’onere probatorio, giacché, mentre nelle obbligazioni di risultato al creditore era sufficiente dimostrare il mancato raggiungimento di esso (nel che era implicita la prova della colpa), invece nelle obbligazioni di mezzi egli era tenuto a provare in positivo la violazione della regola della diligenza nell’adempimento[15].
La tendenza alla soggettivizzazione della responsabilità contrattuale si manifestò anche nella dottrina tedesca.
Il tradizionale insegnamento secondo cui l’idea prospettata dal Savigny individuava l’impedimento liberatorio del debitore nell’impossibilità obiettiva della prestazione[16] trae fondamento dal rilievo che il Maestro tedesco si rifaceva all’autorità dei precedenti romanistici, ed in particolare al noto passo di Venuleio, ove, nell’attribuire validità giuridica ed efficacia vincolante alla promessa assunta in mancanza della disponibilità di denaro, si riconosceva portata esimente agli impedimenti naturali, ma non alla mera difficoltà personale di eseguire la promessa[17].
Va tuttavia evidenziato che si deve proprio alla dottrina tedesca dello scorcio dell’800, l’inserimento della diligenza nella struttura del rapporto obbligatorio, sia pure non ancora nel senso di criterio oggettivo di determinazione della prestazione[18], ma piuttosto nel senso di modalità conformativa soggettiva del dovere del debitore. Nella teorizzazione dell’Hartmann, ad es., l’utilizzazione, in sede di adempimento, delle energie e dei mezzi richiesti dalla buona fede, è sufficiente perché si possa ritenere adempiuto il dovere debitorio, a prescindere dalla concreta realizzazione dello scopo dell’obbligazione e (quindi) dell’interesse creditorio[19].
Nella dottrina italiana del tempo la concezione soggettiva della responsabilità contrattuale fu recepita nell’elaborazione di Nicola Coviello, il quale intese il riferimento al “caso fortuito”, contenuto nell’art. 1226 c.c. 1865, in senso soggettivo, quale impedimento non superabile con la dovuta diligenza (casus= non culpa)[20].
La congerie culturale, in cui vide la luce il saggio dell’Osti, vedeva dunque il sopravvento dell’idea che attribuiva rilevanza al giudizio di colpa, la quale aveva progressivamente soppiantato la rigida concezione oggettiva di memoria pothieriana.
Alla revisione critica di questa idea fu indirizzato lo sforzo dogmatico del Maestro bolognese.
6. Le teorizzazioni oggettive: Giuseppe Osti, Emilio Betti, Luigi Mengoni
La teoria dell’Osti era fondata sull’esegesi di due norme del codice civile del 1865, l’art. 1225 e l’art. 1226: il primo onerava il debitore che volesse liberarsi dalla sua responsabilità della prova che l’inadempimento era stato determinato da una «causa estranea a lui non imputabile»; il secondo attribuiva efficacia esimente alla sopravvenienza di «una forza maggiore o di un caso fortuito».
In base a queste due norme, l’Osti individuò il limite della responsabilità debitoria nella prova dell’impossibilità oggettiva e assoluta.
L’impossibilità oggettiva è l’impedimento che non dipende da cause inerenti alla sfera della persona e dell’economia del debitore ma da cause estranee alla stessa e, quindi, a lui non imputabili.
L’impossibilità assoluta è l’impedimento invincibile e insuperabile (non da parte del solo debitore ma da parte di chiunque) con qualsiasi sforzo umano e con qualsiasi mezzo economico.
Finché questi due limiti non si integrino – finché, cioè, la prestazione non divenga oggettivamente ed assolutamente impossibile – il debitore è tenuto ad eseguirla, non potendo invocare, in senso liberatorio, le sopravvenienze che abbiano reso più difficile l’adempimento, quand’anche esso richieda mezzi economici sproporzionati rispetto a quelli contemplati dal vincolo contrattuale originariamente assunto.
Il fondamento di questa concezione risiede nel rilievo che il debitore non può pretendere di trasferire sul creditore i rischi della propria economia individuale, sicché, per quanto oneroso possa essere divenuto l’impegno assunto in conseguenza di eventi sopravvenuti al sorgere dell’obbligazione, esso deve essere assolto.
Efficacia esimente possono invece avere gli impedimenti che esulano dalla sfera individuale del debitore purché assumano carattere assoluto, cioè siano invincibili e insuperabili da parte di qualunque persona. In tal senso alla nozione di caso fortuito si attribuisce una connotazione oggettiva del tutto diversa da quella assunta nella teorizzazione soggettiva del Coviello[21].
L’individuazione di questo fondamento permise all’Osti di escludere completamente la rilevanza della colpa dalla fattispecie di responsabilità per inadempimento.
Nella teorizzazione del Maestro bolognese, peraltro, la colpa torna nuovamente in giuoco allorché dalla responsabilità per inadempimento vera e propria si passa alla responsabilità per aver causato (o per non avere impedito) la sopravvenuta impossibilità della prestazione[22].
Quando il debitore provoca l’impossibilità assoluta della prestazione o non evita una causa prevedibile ed evitabile che determina tale impossibilità, risponde non per inadempimento (giacché non vi può essere responsabilità per l’inadempimento di una obbligazione estinta) ma per aver provocato (commissivamente od omissivamente) l’estinzione dell’obbligazione. Titolo di responsabilità, qui, è la colpa, intesa come violazione del dovere generale di diligenza collegato ad ogni rapporto obbligatorio, dunque estraneo al contenuto specifico dell’obbligazione estinta.
Questa specificazione della teorica dell’Osti è stata ritenuta di difficile comprensione ed è stata criticata già dalla dottrina contemporanea[23].
Essa, peraltro, ad avviso di chi scrive, ha una notevole rilevanza sistematica, come si vedrà più avanti.
La caratterizzazione dell’impedimento liberatorio come assoluto, nel senso sopra precisato, consente di distinguere la formulazione dell’Osti da quelle degli altri Maestri che hanno aderito alla stessa concezione della responsabilità contrattuale come responsabilità prescindente dalla colpa.
Queste ulteriori formulazioni, infatti, pur inserendosi nel genus delle teorie oggettive della responsabilità per inadempimento, si pongono nella prospettiva di temperarne il rigore.
Esse introducono il concetto di impossibilità (pur sempre oggettiva, ma) relativa.
Nella formulazione di Emilio Betti, l’impedimento liberatorio va individuato in relazione al tipo di obbligazione assunta.
Fermo restando che non rilevano gli impedimenti attinenti alla persona o all’economia del debitore (non potendosi attribuire efficacia liberatoria all’impossibilità soggettiva) e fermo restando che nessun impedimento rilevante può configurarsi nelle obbligazioni generiche (ove l’esecuzione della prestazione resta sempre possibile), il debitore è responsabile se l’impedimento, pur avendo reso più oneroso il sacrificio richiestogli, può comunque essere superato attraverso uno sforzo che può ritenersi ricompreso nell’impegno di cooperazione dovuto in base al tipo di vincolo obbligatorio assunto. Reciprocamente, egli è liberato se, per essere superato, l’impedimento richiede uno sforzo superiore a quello tipicamente dovuto in relazione a quella data specie di obbligazioni.
Per il Betti, l’impossibilità liberatoria andrebbe dunque individuata, non già nell’impedimento non superabile da alcuno con qualunque sforzo umano ed economico (impossibilità assoluta), ma nell’impedimento non superabile con lo sforzo richiesto dal tipo di obbligazione assunta (impossibilità relativa)[24].
Nella formulazione di Luigi Mengoni, l’impedimento liberatorio va individuato in relazione alla buona fede.
Il debitore è liberato se l’adempimento richiede mezzi che, secondo una valutazione di buona fede, egli non è tenuto ad impiegare.
Anche in questa teorizzazione l’impossibilità liberatoria non cessa di essere oggettiva (in quanto non si attribuisce rilievo agli impedimenti individuali) ma può qualificarsi relativa, in quanto l’efficacia esimente dell’impedimento non è subordinata alla sua assoluta insuperabilità con qualsiasi sforzo, ma alla non esigibilità, secondo buona fede, del sacrificio necessario per superarlo[25].
Sia la teorizzazione del Betti che quella del Mengoni furono oggetto di critiche da parte dell’Osti.
Questi, infatti, in un saggio pubblicato 36 anni dopo quello del 1918, divenuto altrettanto celebre, ribadì vigorosamente la concezione della responsabilità debitoria sino al limite dell’impossibilità oggettiva ed assoluta.
Sull’assunto che il nuovo codice civile, nell’art. 1218, aveva sicuramente recepito quella concezione, l’Osti intese denunciare le «deviazioni dottrinali» in cui erano incorsi numerosi autori che, pur a fronte del mutato testo legislativo, avevano nondimeno continuato ad attribuire rilevanza alla colpa del debitore inadempiente[26].
L’Osti, però, prese posizione anche sulla tesi del Betti (cui, anzi, prestò «particolare attenzione critica»[27]), e, sia pure in modo marginale, su quella del Mengoni, illustrata nel recentissimo Studio critico sulle obbligazioni di mezzi e di risultato, sebbene queste tesi gravitassero all’interno della concezione oggettiva della responsabilità.
Individuando l’impedimento liberatorio in quello non superabile con l’impegno di cooperazione esigibile dal debitore in relazione al tipo di obbligazione assunta, il Betti avrebbe confuso la responsabilità per inadempimento con quella per impossibilità sopravvenuta imputabile al debitore, fondata sulla colpa.
Analogamente il Mengoni, introducendo il riferimento allo sforzo esigibile secondo buona fede, avrebbe confuso l’impossibilità della prestazione, quale causa di esonero della responsabilità del debitore, con la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, che riguarda, non già l’obbligazione in sé, ma la sua fonte contrattuale.
Secondo il Maestro bolognese, infatti, quando in ragione di eventi sopravvenuti al sorgere dell’obbligazione, la prestazione dovesse subire un aggravio economico talmente eccessivo da rendere inesigibile lo sforzo del debitore, il rimedio a disposizione di quest’ultimo, ove ne ricorressero tutte le condizioni, sarebbe quello della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, mentre egli non potrebbe invocare l’impossibilità liberatoria della prestazione, che rimarrebbe sempre possibile, sia pure a costo dell’impiego di mezzi anomali e di un sacrificio economico sproporzionato.
La critica rivolta dall’Osti al Mengoni, in ultima analisi, riguarda la surrettizia introduzione di cause estintive dell’obbligazione di fonte contrattuale diverse dalla impossibilità della prestazione, le quali, però, operano sull’obbligazione solo indirettamente, in quanto incidono, anzitutto, sul sinallagma contrattuale (e sempre che se ne verifichino tutte le condizioni legislativamente previste), sicché esse vanno tenute distinte dall’impossibilità della prestazione quale causa di estinzione del rapporto obbligatorio in sé considerato, a prescindere dalla sua fonte[28].
Questa critica, peraltro, trova un limite concettuale nella circostanza che essa tende a dimostrare un risultato (il carattere necessariamente assoluto dell’impossibilità liberatoria), che coincide con il presupposto da cui prende le mosse; la presunta confusione, rimproverata al Mengoni, tra impedimenti che incidono sulla possibilità della prestazione e vicende che incidono sul sinallagma contrattuale, infatti, può ritenersi effettivamente esistente soltanto se la necessità del carattere assoluto dell’impossibilità liberatoria si accetta come punto di partenza del ragionamento.
Se, invece, l’impossibilità si individua già nell’impedimento che, per essere superato, richiede l’impiego di mezzi che esulano dallo sforzo dovuto dal debitore, il verificarsi di sopravvenienze comportanti un simile aggravio non dovrebbe inquadrarsi nella categoria della eccessiva onerosità sopravvenuta, ma nella categoria dell’impossibilità[29].
7. Le teorizzazioni soggettive: Michele Giorgianni, Cesare Massimo Bianca
Si suole ripetere che nel dettare la nuova disciplina dell’inadempimento il codice civile del 1942 avrebbe integralmente recepito la concezione dell’Osti, sancendo il principio della responsabilità debitoria sino al limite dell’impossibilità oggettiva ed assoluta[30].
A questo assunto credette in primo luogo lo stesso Osti, il quale, sul presupposto che nel nuovo art. 1218 c.c. fossero state recepite le sue idee, denunziò, con il saggio del 1954, le “deviazioni dottrinali” degli studiosi che, nonostante tutto, continuavano a dare rilevanza alla colpa del debitore.
Le vigorose critiche del maestro bolognese non risparmiarono autori che costituivano il gotha della civilistica italiana, come il Barassi, il Candian, il Messineo, il Torrente, il Trabucchi. Come si è visto, inoltre, ricevettero critiche anche coloro – come il Betti e il Mengoni – che, pur aderendo alla concezione oggettiva, avevano tentato di mitigarne il rigore.
Paradossalmente, invece, non fu sottoposta a critica la tesi che un giovane studioso avrebbe esposto qualche anno più tardi, la quale, più di altre, si sarebbe mostrata idonea a fornire un’interpretazione alternativa della nuova disciplina codicistica e a minacciare scientificamente il fondamento dell’idea dell’Osti.
Lo studioso era Michele Giorgianni e la sua tesi che, pur essendo stata elaborata sin dalla seconda metà degli anni cinquanta, sarebbe stata compiutamente esposta nel classico volume sull’inadempimento, uscito nel 1975, non poteva essere presa in considerazione dall’Osti nel saggio del 1954.
Neppure successivamente, tuttavia, il Maestro bolognese si occupò ex professo della teoria del Giorgianni, limitandosi a semplici segni di dissenso.
Le ragioni di questo comportamento ci sono state svelate da un altro grande Maestro, che del Giorgianni era stato discepolo, Cesare Massimo Bianca.
«Le ragioni del dissenso – ci dice il Bianca – erano profonde in quanto la concezione del Giorgianni si poneva in netta antitesi rispetto alla concezione della responsabilità oggettiva, ma forse la grande stima che l’Osti aveva per il Giorgianni lo indusse a risparmiargli le pesanti critiche rivolte ad altri autori»[31].
Nella riflessione del Giorgianni, l’art.1218 pone bensì la regola della responsabilità debitoria sino al limite dell’impossibilità «assoluta ed obiettiva», ma questa regola non costituisce la regola generale di disciplina dell’inadempimento. Essa si applica, invece, soltanto a quel pur «vasto territorio» di rapporti in cui l’inadempimento si manifesta nella forma dell’impossibilità sopravvenuta, costituito dalle obbligazioni «aventi per oggetto la consegna di una cosa certa e determinata», nonché dall’obbligazione di custodire la cosa depositata. La prestazione che forma oggetto di queste obbligazioni, infatti, consiste principalmente nell’evitare il perimento della cosa che deve essere consegnata o restituita, e cioè proprio nell’impedire il verificarsi dell’impossibilità oggettiva e assoluta.
In tutti gli altri rapporti obbligatori, in cui l’inadempimento si manifesta «attraverso un’azione del debitore, ovvero attraverso una attività non idonea a soddisfare integralmente l’interesse del creditore», la responsabilità del debitore deve essere determinata in applicazione del criterio della colpa, di cui all’art. 1176 c.c., in quanto «in tali rapporti la regolamentazione dell’adempimento viene data … attraverso l’indicazione dello sforzo che il debitore è tenuto a compiere per soddisfare l’interesse del creditore»[32].
A Cesare Massimo Bianca si deve la riaffermazione della regola della colpa come regola generale di determinazione della responsabilità per inadempimento.
Secondo il caro Maestro, l’assunto secondo cui l’art. 1218 avrebbe recepito la concezione oggettiva, sarebbe infondato, giacché, al di là dell’intenzione subiettiva del legislatore, nella sua formulazione positiva la norma si limiterebbe ad indicare come esimente di responsabilità l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, senza ulteriormente precisare se tale impossibilità debba rivestire i caratteri dell’assolutezza e dell’oggettività (come vorrebbe la tesi dell’Osti) o se possa già ravvisarsi in qualsiasi impedimento non prevedibile né superabile con la diligenza richiesta dalla legge e dalla natura del rapporto (come già aveva anticipato, sullo scorcio delll’800, il Coviello)[33].
Il dubbio sul significato del riferimento normativo all’impossibilità sopravvenuta va sciolto – continua il Bianca – individuando il contenuto assunto dalla norma nella sua concreta operatività, e cioè cogliendo la regola di diritto effettivo che presiede al giudizio di responsabilità contrattuale, di cui sono indice le concrete applicazioni giurisprudenziali.
L’analisi giurisprudenziale, che il caro Maestro conduce in modo sistematico sugli orientamenti di legittimità (con particolare riferimento ai tipi di rapporti obbligatori in relazione ai quali con maggiore vigore è stata affermata l’operatività del principio di responsabilità oggettiva, come le obbligazioni generiche, le obbligazioni pecuniarie e le obbligazioni di risultato[34]) indurrebbe a ritenere che, nel diritto effettivo, l’impossibilità liberatoria si identifica con «l’impedimento non prevedibile né superabile con la dovuta diligenza».
Tenendo conto del significato in cui l’art.1218 è stato recepito nella concreta realtà dell’ordinamento e della portata che esso ha effettivamente assunto nelle decisioni dei giudici, dovrebbe, dunque, addivenirsi all’enunciazione di un principio unitario, valevole per ogni tipo di obbligazione: il principio per cui il debitore risponde perché in colpa.
8. La responsabilità per inadempimento come responsabilità fondata sulla colpa
Il principio per cui il debitore risponde perché in colpa costituisce il fondamento dell’istituto generale della responsabilità contrattuale nel nostro ordinamento.
Il rilievo posto a fondamento della tesi opposta – formulato nel senso che «ogni soggetto sopporta i rischi della propria economia individuale»[35], di guisa che il debitore non potrebbe pretendere di trasferire i suoi rischi a carico di un terzo – è dogmaticamente inesatto, poiché trasferisce sul piano dell’obbligazione il principio del rischio del proprietario (casum sentit dominus), estendendo una regola che disciplina i rapporti giuridici fondati su situazioni soggettive finali ai rapporti giuridici fondati su situazioni soggettive strumentali, come il diritto di credito.
Nella situazione finale che contraddistingue la proprietà, al carattere assoluto del diritto del proprietario corrisponde, in capo agli altri soggetti dell’ordinamento (erga omnes) una situazione soggettiva passiva indifferenziata di astensione. Si comprende, dunque, che l’eventuale distruzione del bene che forma oggetto del diritto comporta un pregiudizio che ricade sul proprietario (determinando l’estinzione o la modificazione della situazione soggettiva attiva di cui egli è titolare) e il rischio di tale evento non può essere trasferito sui terzi.
Invece, nella situazione strumentale che contraddistingue il credito quale diritto relativo, grava sul debitore una situazione soggettiva passiva di obbligazione che gli impone un dovere di cooperazione, in funzione del soddisfacimento dell’interesse del creditore.
Il debitore, quindi, non può pretendere di trasferire sul creditore (come su qualsiasi altro terzo) i rischi di eventi che estinguano o modifichino le proprie situazioni soggettive attive (ad es. la distruzione della sua azienda) ma quando tali eventi incidano sulla possibilità di eseguire la prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio, oltre a verificarsi un pregiudizio che ricade nella sfera giuridica del debitore, si verifica un ulteriore pregiudizio che ricade direttamente nella sfera giuridica del creditore, perché modifica la sua situazione soggettiva attiva di credito, compromettendo o rendendo più difficile il conseguimento della prestazione. La questione se debba essere sopportato dal debitore un rischio di pregiudizio ulteriore, ricadente sulla sfera giuridica del creditore, non può essere risolta, allora, applicando il principio del rischio del proprietario, poiché l’applicazione di tale principio condurrebbe alla soluzione opposta rispetto a quella formulata dai fautori della tesi della responsabilità oggettiva: proprio perché il rischio deve rimanere sul titolare del diritto e non può essere trasferito a terzi, esso dovrebbe essere sopportato dal creditore.
Non si tratta, quindi, di stabilire se il debitore può trasferire ad altri i rischi della sua economia ma di stabilire, tutt’al contrario, in quali limiti il creditore può pretendere che sia sopportato dal debitore un pregiudizio che riguarda il proprio diritto.
Tale questione deve essere risolta, non in applicazione del principio del rischio del proprietario, ma in applicazione della disciplina dell’obbligazione[36]: poiché il soddisfacimento dell’interesse del creditore viene realizzato grazie all’adempimento del dovere di cooperazione del debitore, occorre, infatti, stabilire i limiti di tale dovere, e cioè chiarire quale sia il sacrificio economico e personale che l’adempimento dell’obbligazione richieda a seguito di impedimenti sopravvenuti[37].
9. L’argomento esegetico
Escluso il fuorviante riferimento al principio del rischio del proprietario, l’esame della disciplina dell’obbligazione conduce ad individuare il fondamento della responsabilità contrattuale nel principio della colpa.
In tal senso, militano anzitutto ragioni desumibili dalla diretta esegesi della norma deputata a tale disciplina. Conformemente a quanto rilevato da Cesare Massimo Bianca, va infatti ribadito che l’assunto secondo il quale l’art. 1218 c.c. abbia recepito la concezione oggettiva, non trova riscontro nella formulazione della norma, la quale onera il debitore di fornire la prova liberatoria dell’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, ma non qualifica affatto tale impossibilità come oggettiva ed assoluta.
Si può dire, anzi, che lungi dal recepire la tesi dell’Osti, la formulazione della regola, si presenta, sul piano squisitamente esegetico, di più difficile decifrazione rispetto ai suoi precedenti normativi, dal momento che non è stato ripetuto il riferimento alla causa estranea alla sfera del debitore contenuto nell’art. 1225 c.c. 1865, in base al quale si era potuta agevolmente escludere l’efficacia esimente degli impedimenti cc.dd. individuali.
Se, dunque, un indice esegetico volesse trarsi dalla differenza tra l’attuale e la vecchia formulazione delle regole codicistiche in tema di responsabilità contrattuale, esso dovrebbe essere piuttosto inteso in senso inverso al recepimento della tesi dell’Osti: il mancato riferimento al carattere necessariamente estraneo dell’impedimento liberatorio potrebbe, infatti, aver dato ingresso, tra le cause di esonero della responsabilità, anche alla impossibilità c.d. soggettiva.
Del resto, il riferimento al limite dell’assolutezza e dell’oggettività si mostrava inappagante proprio nel momento in cui, nella sua più coerente applicazione, giungeva ad escludere l’efficacia esimente di impedimenti superabili con una attività illecita o con il sacrificio dell’integrità personale del debitore, in quanto impedimenti non estranei alla sua sfera, e dunque rientranti, a rigore, nell’ambito dell’impossibilità soggettiva.
Di tale eccessiva implicazione lo stesso Osti si affrettò a prevenire il rischio, avvertendo che il carattere dell’assolutezza va riferito all’impossibilità che non può essere superata da nessuno sforzo umano lecito, e che nelle obbligazioni di fare infungibile la sopravvenuta inettitudine della persona del debitore (per malattia fisica o mentale) determina un impedimento di carattere oggettivo (e dunque liberatorio), perché collegato al contenuto intrinseco della prestazione[38].
Nella concezione oggettiva, un altro limite dell’affermazione circa la presunta irrilevanza della colpa, si manifesta proprio nel momento in cui si verifica la fattispecie liberatoria.
Quando, infatti, si integra l’impedimento estraneo alla sfera del debitore e insuperabile da chiunque, il debitore stesso è liberato, non per assenza di colpa, ma per impossibilità oggettiva e assoluta; dunque, non perché è stato superato il limite del sacrificio esigibile ma perché nessun sacrificio potrebbe ormai consentire la realizzazione dell’intesse creditorio, sicché l’obbligazione deve ritenersi estinta.
Qui, l’Osti avverte che non possono essere messi sullo stesso piano, sotto il profilo della responsabilità, il debitore incolpevole e il debitore colpevole. Egli, dunque, come già si è veduto, distingue l’ipotesi in cui l’impossibilità (oggettiva e assoluta) non dipenda da una condotta commissiva od omissiva del debitore dall’ipotesi in cui sia stato proprio il debitore a dare causa o a non evitare l’impossibilità. Solo nel primo caso il debitore è veramente liberato dall’impossibilità verificatasi, mentre nel secondo egli è ancora responsabile. Secondo l’Osti, però, non si tratterebbe della responsabilità per inadempimento (venendo in considerazione una obbligazione ormai estinta) ma di una responsabilità per l’impossibilità sopravvenuta[39].
Si tratta di una superfetazione concettuale. In questa ipotesi, infatti, il debitore risponde per avere causato l’impossibilità oggettiva ed assoluta della prestazione (condotta commissiva) o «per non avere previsto e/o evitato l’operare della causa»[40] (evidentemente, prevedibile ed evitabile) che l’ha determinata (condotta omissiva). Il metro per misurare la prevedibilità o l’evitabilità della causa è, secondo l’Osti, il dovere di diligenza, sia pure estraneo al contenuto della specifica obbligazione estinta, ma collegato «ad ogni rapporto obbligatorio»[41].
La violazione di questo dovere di diligenza integra la colpa. Il debitore, in altre parole, risponde se l’impedimento che ha determinato l’impossibilità della prestazione, da lui non impedito o evitato, poteva essere superato con la diligenza richiesta in relazione ad ogni rapporto obbligatorio; egli, invece, è liberato se tale impedimento era insuperabile con quella stessa diligenza.
Il rilievo che il carattere “oggettivo” della responsabilità per inadempimento non sarebbe intaccato da questa specificazione della teorica dell’Osti[42], non sembra fondato.
È vero, infatti, che l’Osti «tende a distinguere» la vera e propria responsabilità per inadempimento da quella che egli chiama responsabilità per l’impossibilità sopravvenuta; così come è vero che egli tiene a precisare che in questa seconda ipotesi viene in considerazione una colpa estranea al contenuto dell’obbligazione ormai estinta.
Tali precisazioni non mutano, peraltro, la sostanza del giudizio di responsabilità, che resta un giudizio fondato sulla colpa, intesa in senso oggettivo quale obiettiva deviazione da un modello comportamentale ordinariamente adeguato.
La circostanza che il modello comportamentale rimasto oggettivamente inosservato non sia quello richiesto in relazione alla specifica obbligazione ma quello richiesto in relazione «ad ogni rapporto obbligatorio», non conferisce alla colpa in questione il carattere di colpa extracontrattuale (come nella polemica espressione del Segré, ripresa dal Mengoni e dal Castronovo), ma rafforza anzi la connotazione soggettiva del giudizio di responsabilità per inadempimento, quale giudizio fondato sulla colpa nella generalità dei rapporti obbligatori[43].
10. L’argomento sistematico
Nel concludere la ricordata relazione al convegno in ricordo del centenario del saggio dell’Osti, Cesare Massimo Bianca riconosceva l’attualità del suo insegnamento, soprattutto per averci consegnato l’«idea fondamentale … che la responsabilità contrattuale è il correlato del contenuto dell’obbligo cui è tenuto il debitore»[44].
Ed in effetti l’Osti, ancora nel saggio del 1954, evidenziava che «il fondamento e i limiti della responsabilità del debitore per inadempimento dell’obbligazione non sono se non l’aspetto negativo del vincolo in cui si riassume il contenuto del rapporto»[45].
Tale insegnamento è prezioso perché indica all’interprete il sentiero sistematico per giungere all’individuazione del fondamento (e, con esso, dei limiti) della responsabilità contrattuale. Solo l’individuazione, in positivo, del contenuto dell’obbligazione, consente infatti, di individuare altresì, in negativo, il fondamento della responsabilità per il mancato adempimento di essa.
Il contenuto (o l’oggetto) dell’obbligazione è la prestazione, la quale varia a seconda delle diverse tipologie di obbligazioni, ma può generalmente definirsi come il programma materiale o giuridico che il debitore è tenuto a svolgere per realizzare l’interesse del creditore, al quale deve corrispondere (art.1174 c.c.).
Il contenuto di questo programma è determinato dal titolo, dagli usi e dalla legge. Quest’ultima, in particolare, non solo ne fissa i necessari elementi costitutivi, da cui dipende l’esistenza stessa dell’obbligazione (patrimonialità, liceità, possibilità, determinatezza o determinabilità: artt.1174 e 1346 c.c.), ma concorre alla predetta determinazione attraverso criteri generali (valevoli per tutte le obbligazioni) e criteri particolari.
Criterio legale generale di determinazione della prestazione è la diligenza (art.1176 c.c.), la quale indica l’intensità dello sforzo che può pretendersi dal debitore in funzione del soddisfacimento dell’interesse del creditore.
In tal senso, la tradizionale espressione, ancora significativamente presente nel nostro codice (secondo cui il debitore deve generalmente osservare la diligenza del buon padre di famiglia o quella professionale valutata in relazione alla natura dell’attività esercitata), può essere tradotta nel principio per cui il debitore è tenuto all’impiego normalmente adeguato, in conformità ad oggettivi canoni sociali e professionali di comportamento, dei mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse del creditore.
Il criterio della diligenza, così come costituisce, in positivo, il criterio legale fondamentale di determinazione della prestazione obbligatoria, allo stesso tempo integra, in negativo, il criterio per la formulazione del giudizio di responsabilità nell’ipotesi in cui essa rimanga ineseguita.
Il debitore, precisamente, è responsabile quando abbia mancato allo sforzo volitivo e tecnico ordinariamente richiestogli, tenendo una condotta inosservante degli standards di comportamento socialmente e professionalmente dovuti in base all’obbligazione assunta. Egli invece è liberato se si sono verificati impedimenti che, pur non assurgendo all’ipotesi estrema dell’impossibilità oggettiva ed assoluta, non erano prevedibili né superabili mediante quello sforzo.
Il giudizio di colpa, intesa in senso oggettivo quale obiettiva difformità dal modello di condotta ordinariamente diligente, costituisce, in negativo, il fondamento della responsabilità per inadempimento, come il criterio della determinazione in base alla normale diligenza, costituisce la manifestazione, in positivo, del fondamento del vincolo obbligatorio.
L’obbligazione è infatti socialmente intesa quale vincolo improntato a limiti di normalità e ragionevolezza, come dimostra anche la limitazione del risarcimento al danno prevedibile, se l’inadempimento non dipende da dolo del debitore (art. 1225 c.c.).
Il creditore, quindi, può pretendere l’impegno di cooperazione normalmente e ragionevolmente adeguato alla realizzazione del suo interesse, ma non può esigere un sacrificio che oltrepassi il limite della diligenza ordinariamente dovuta in ordine all’obbligazione assunta[46].
La prova dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile richiesta al debitore dall’art. 1218, corrisponde, pertanto, alla prova dell’impedimento non prevedibile e non superabile con la dovuta diligenza: si tratta, in una parola, della prova dell’assenza di colpa.
La necessità di guardare al contenuto dell’obbligazione per individuare, come suo correlato, il fondamento della responsabilità per inadempimento, induce, sul piano squisitamente interpretativo, ad una lettura reciprocamente integrata degli artt. 1176 e 1218 c.c.
In tale prospettiva, mentre va osservata l’esortazione dell’Osti a considerare l’art.1218 come applicabile a tutte le obbligazioni[47], non può invece essere condivisa la sua idea che tale disposizione costituisca l’unica regola deputata alla disciplina della responsabilità per inadempimento, così come altrettanto incondivisibile appare l’idea, parzialmente diversa, del Giorgianni, secondo cui bisognerebbe distinguere le obbligazioni di dare cose certe e determinate (cui si applicherebbe l’art. 1218) dalle altre obbligazioni (in cui il giudizio di responsabilità dovrebbe essere formulato sulla base dell’art.1176).
Il giudizio di responsabilità deve infatti essere un giudizio unitario, in relazione al quale le tralatizie distinzioni tra le diverse tipologie di obbligazioni assumono una rilevanza solo descrittiva e classificatoria, che tiene conto della diversità del contenuto della prestazione, ma alle quali non corrispondono altrettanti singolari statuti di responsabilità[48].
La lettura dell’art. 1176 e dell’art.1218 come norme reciprocamente integrantisi quali criteri di determinazione della prestazione e quali criteri di responsabilità, va ulteriormente arricchita, sul piano dell’interpretazione sistematica, con il necessario rilievo che deve darsi alle ulteriori disposizioni recate dalla disciplina codicistica dell’obbligazione e, in particolare, a quelle contenute nel capo sull’inadempimento.
Tra queste ultime rilevano, anzitutto, l’art. 1225 e l’art. 1227, primo comma.
La prima disposizione, nel limitare il risarcimento al danno prevedibile se l’inadempimento non dipende dal dolo del debitore, implicitamente assume che la nascita dell’obbligazione risarcitoria presuppone quanto meno la colpa.
La seconda disposizione, nel prevedere la riduzione del risarcimento in ipotesi di concorrente fatto colposo del creditore, subordina la rilevanza causale di questo fatto alla circostanza che esso sia “colposo”.
11. Il contenuto dell’obbligazione e la struttura della fattispecie della responsabilità per inadempimento
Se, nella prospettiva dell’idea fondamentale tramandataci dall’Osti, si consideri la responsabilità contrattuale come correlato del contenuto dell’obbligazione, la colpa deve essere intesa come elemento strutturale della fattispecie di responsabilità.
La prestazione del debitore, infatti, quale oggetto del rapporto obbligatorio, ne integra un elemento costitutivo, al pari delle due posizioni correlative di credito e di debito, nonché dell’interesse del creditore, cui deve corrispondere (art. 1174 c.c.).
La diligenza, dunque, riguardata come criterio legale di determinazione della prestazione, entra nella struttura del rapporto obbligatorio; riguardata come criterio di responsabilità, entra nella struttura della relativa fattispecie.
Non può essere pertanto condivisa la recente affermazione giurisprudenziale secondo cui la colpa, «non rilevando in sede di istituzione della responsabilità ma sul versante dell’esonero da essa, costituisce tema di prova del debitore che opponga il fatto estintivo dell’obbligazione diverso dall’adempimento» [49].
L’impedimento opposto dal debitore è giustamente indicato quale fatto estintivo dell’obbligazione, in quanto incide sulla prestazione, rendendola impossibile. Ma la colpa, da cui dipende l’imputabilità o meno dell’impedimento (e quindi la sua efficacia esimente), è elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità.
In altre parole, non bisogna cadere nell’equivoco di confondere la struttura del rapporto obbligatorio con la struttura della fattispecie di responsabilità per inadempimento. Il debitore, chiamato alla prova liberatoria dall’art. 1218, oppone anzitutto l’impedimento che ha reso impossibile la prestazione, il quale rileva come fatto ulteriore, avente carattere estintivo della fattispecie integrativa del rapporto obbligatorio, poiché incide su uno dei suoi elementi costitutivi (la prestazione), privandolo di un requisito legale necessario (la possibilità). Il debitore, inoltre, oppone che quell’impedimento non era prevedibile né superabile con la dovuta diligenza: questa seconda allegazione non corrisponde alla deduzione di un fatto ulteriore avente carattere estintivo (o modificativo o impeditivo) del rapporto obbligatorio, ma alla deduzione della mancanza della colpa, quale elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, la cui sussistenza è, però, legalmente presunta e dunque sottratta alla regola ordinaria di ripartizione dell’onere probatorio.
L’invenzione dell’elemento della colpa nella fattispecie di responsabilità contrattuale consente di affermare che anche questa fattispecie, come quella dell’illecito aquiliano, ha una struttura pluralistica.
La struttura pluralistica, deve aggiungersi, è integrata non solo dalla presenza della colpa (da intendersi, beninteso, non quale reprensibile stato psicologico del soggetto, ma quale obiettiva inosservanza della diligenza ordinariamente dovuta secondo un modello sociale o professionale di condotta), ma anche dalla scissione degli elementi propriamente obiettivi della fattispecie nei diversi momenti del fatto (l’inadempimento), del danno (nelle due species di danno-evento e danni-conseguenza) e del nesso causale (nei due segmenti della causalità materiale e della causalità giuridica).
La tesi sostenuta in dottrina (ed in parte recepita, come si è veduto, in giurisprudenza), secondo la quale nella struttura dell’illecito contrattuale non troverebbe spazio la causalità materiale, non può essere condivisa.
La configurazione della struttura della fattispecie di responsabilità come fattispecie monistica (costituita dal solo inadempimento quale vicenda oggettiva di mancata attuazione della regola obbligatoria e di lesione dell’interesse creditorio) non appare compatibile, infatti, con la previsione di un rimedio giudiziale (l’azione di risarcimento del danno) diverso dall’azione di adempimento e – limitatamente alle obbligazioni derivanti da contratti sinallagmatici – dall’azione di risoluzione del contratto. La circostanza che, invece, il rimedio risarcitorio possa sempre essere utilizzato unitamente agli altri due rimedi contro l’inadempimento (tra i quali invece sussiste un rapporto di alternatività: art. 1453 c.c.) dimostra che i presupposti dell’uno e degli altri rimedi sono diversi, richiedendosi, per quello risarcitorio, oltre l’inadempimento imputabile (cioè colpevole), anche il danno, che deve necessariamente essere legato all’inadempimento dal rapporto di causalità materiale.
Il rilievo che il nesso di causalità che interessa la responsabilità contrattuale non è solo quello giuridico ma anche quello materiale, trova poi un’esplicita conferma positiva nel disposto dell’art. 1227, primo comma, c.c., che stabilisce una riduzione del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare” il danno, ritenendosi tradizionalmente[50] che tale disposizione, a differenza di quella contenuta nel secondo comma del medesimo articolo, si riferisca al “danno-evento” e non al “danno-conseguenza”.
La tesi che vorrebbe escludere la causalità materiale dalla fattispecie di responsabilità contrattuale ritiene che, nella relativa disciplina, diversamente che in quella della responsabilità aquiliana, ove il debitore non riesca a fornire la prova liberatoria prevista dall’art. 1218 (e solo allora), si porrebbe unicamente un problema di causalità giuridica, ovvero della quantificazione dell’entità del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Questa ricostruzione si infrange, peraltro, sul rilievo logico che la prova del rapporto di causalità giuridica presuppone necessariamente l’individuazione, quale suo primo elemento, dell’evento lesivo, il quale intanto assume importanza quale causa delle conseguenze negative, in quanto costituisca a sua volta la conseguenza dell’inadempimento.
Si conferma pertanto l’autonoma rilevanza del nesso di causalità materiale quale elemento generale della fattispecie della responsabilità contrattuale, di cui deve ribadirsi la struttura soggettiva e pluralistica con riguardo alla generalità dei rapporti obbligatori.
L’esigenza di assegnare un fondamento unitario al giudizio di responsabilità impone anzitutto il superamento delle recenti classificazioni giurisprudenziali che delineano fattispecie di responsabilità strutturalmente diverse in relazione alla diversa morfologia del rapporto di causalità.
[1] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 e ss.; 313 e ss., 417 e ss.
[2] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, in Riv. dir. civ., 2019, 1277 e ss.
[3] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1294.
[4] Cfr., ad es., Cass. 11 novembre 2019, nn. 28991 e 28992.
[5] Questa evoluzione, che trova evidenza soprattutto nelle pronunce della Terza Sezione civile in tema di responsabilità professionali – e specialmente in tema di responsabilità medica – può essere così sinteticamente riassunta: a) agli inizi del secolo il tradizionale contrasto sul tema della ripartizione dell’onere probatorio (tema che vedeva diviso l’orientamento maggioritario, il quale muoveva dalla necessità di tenere rigorosamente conto della struttura della fattispecie, dall’orientamento minoritario, il quale invocava l’armonizzazione del regime dei diversi rimedi contro l’inadempimento dell’obbligazione) era stato composto dando prevalenza all’indirizzo minoritario (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533); b) questa pronuncia aveva comportato uno sbilanciamento dell’onere probatorio a favore del creditore (esonerato dalla prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento) e a sfavore del debitore, richiesto di provare l’esatto adempimento; c) lo sbilanciamento era aumentato alla luce dei successivi arresti, i quali avevano statuito che il debitore non solo avrebbe dovuto provare l’esatto adempimento ma, nell’ipotesi in cui non vi fosse riuscito, avrebbe dovuto dimostrare l’irrilevanza causale dell’eventuale inesatto adempimento (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577); d) tale sbilanciamento aveva creato ripercussioni economico-sociali specialmente nei casi in cui la prova dei requisiti costitutivi della fattispecie di responsabilità si presenta più complessa, vale a dire nelle responsabilità professionali e, in particolare, nel delicatissimo campo della responsabilità medica, ove la posizione sfavorevole e processualmente svantaggiata del debitore (medico e struttura sanitaria) e la conseguente proliferazione di pronunce di accertamento della responsabilità e di condanna al risarcimento del danno in favore dei pazienti, aveva generato effetti negativi sia sulla spesa pubblica (cresciuta a dismisura per effetto dell’aumento degli oneri assicurativi) sia sulla tutela del diritto alla salute, messa in pericolo dal deprecabile fenomeno della c.d. medicina difensiva; e) sull’onda di queste ripercussioni – e verosimilmente anche in ragione del recente intervento legislativo (l. n. 24 del 2017) che ha dichiaratamente indicato la sua ratio proprio nell’esigenza di rimediare agli effetti indesiderati del prevalso orientamento giurisprudenziale – la Corte di cassazione ha fatto registrare negli ultimi tempi un notevole revirement, in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio, riconducendo la prova di quello più sfuggente tra i requisiti costitutivi della fattispecie di responsabilità contrattuale (il nesso causale) nell’ambito dell’onere gravante sul creditore (tra le altre: Cass. 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704, Cass. 20 agosto 2018, n. 20812; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. 11 novembre 2019, n. 28989).
[6] Cass. 11 novembre 2019, n. 28987 e, ancor più perspicuamente, Cass. 20 ottobre 2021, n. 29001: «In tema di responsabilità medica, nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, la responsabilità della struttura sanitaria, integra, ai sensi dell’art.1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario, la quale trova fondamento nell’assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall’utilizzazione di terzi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l’imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell’art.2049 c.c.; pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l’azione di rivalsa, e salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell’evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall’altro, l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell’adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati».
[7] La giurisprudenza muove dal presupposto che l’art. 2055 c.c. trovi applicazione in tutte le ipotesi di responsabilità solidale: dunque non solo nell’ipotesi di solidarietà passiva ex delicto, o mista (ex delicto e ex contractu), ma anche in quella esclusivamente ex contractu. Peraltro, il criterio della ripartizione in misura paritaria in base alla presunzione di cui al terzo comma della disposizione in esame, non troverebbe applicazione nel caso di concorso tra responsabile oggettivo e responsabile per colpa; dunque, con particolare riferimento al concorso tra la responsabilità del medico e quella della struttura nel settore della responsabilità sanitaria, ove la seconda fosse chiamata a rispondere sulla base di un criterio di imputazione riconducibile alla responsabilità oggettiva, beneficerebbe, verso il medico, responsabile per colpa, di un diritto di regresso integrale, ritenuto inconciliabile con il rischio di impresa da essa assunto.
È agevole, peraltro, osservare che non vi è alcun ostacolo dogmatico a ritenere operativa la presunzione di cui all’art. 2055, terzo comma, c.c. anche nell’ipotesi di responsabilità oggettiva del corresponsabile, venendo in considerazione un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde dall’accertamento, in concreto, dalla colpa del coobbligato. In altre parole, non dovrebbe essere il responsabile per colpa, nel momento in cui è convenuto in regresso dal responsabile oggettivo che abbia adempiuto all’obbligazione risarcitoria, a dover eccepire e provare la sussistenza, in concreto, anche della colpa dell’adempiente, al fine di sgravarsi di una parte del carico della prestazione; al contrario, dovrebbe essere il responsabile oggettivo, che agisce per l’integralità della rivalsa, ad allegare e provare la sua assenza di colpa, vincendo la presunzione di cui al terzo comma dell’art. 2055 c.c.
[8] Per il sostanziale superamento di questa figura anche nel settore (che costituirebbe il suo proscenio naturale di operatività, grazie alle elaborazioni fondate sull’applicazione dell’art. 28 Cost.) della responsabilità della pubblica amministrazione per gli illeciti commessi dai pubblici dipendenti, v. Cass., Sez. Un., 16 maggio 2019, n. 13246.
[9] In tal senso v., ad es., F. Ferrara, Responsabilità contrattuale per fatto altrui (1903), in Scritti giuridici, II, Milano 1954, e V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma 1915, 336.
[10] Cass. 2 dicembre 2021, n. 38089. Il provvedimento, redatto con esemplare perspicuità e con pregevolezza di precisione dottrinale, ricorda che «è stato scritto che “la pretesa di affiancare al sindacato di inadempimento un ordine di valutazione imperniato sulla regola di condotta della diligenza equivale ad introdurre un secondo livello di normatività del tutto superfluo: l’obbligazione contiene già al suo interno i criteri di imputazione del danno da inadempimento, identificandoli nella mancata o inesatta attuazione del contenuto della prestazione”».
[11] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 418.
[12] R.J. Pothier, Traité des obligations, in Oeuvres de R.J. Pothier, Bruxelles, 1829, 36.
[13] Per riferimenti alla situazione storica e agli sconvolgimenti politici e sociali che, sullo scorcio del secolo diciannovesimo, concorsero ad abbandonare la «concezione rigida della responsabilità contrattuale» fondata sulla elaborazione del Pothier, cfr. C.M. Bianca, Diritto civile 5, La responsabilità, Milano 2012, 20.
[14] R. Demogue, Traité des obligations en général, I, Sources des obligations, V, Paris, 1925, 538 e ss.
[15] In tal senso, per l’interpretazione della distinzione enunciata dal Demogue come fondata sulla minore o maggiore semplicità della prova della colpa del debitore, v. G. D’Amico, nella relazione tenuta al medesimo convegno celebrativo del centenario del saggio dell’Osti richiamato al par. 1, il cui testo (dal titolo La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti) è pubblicato in Riv. dir. civ., 2019, 1 ss., part.11.
[16] C.F. Savigny, Le obbligazioni (tr. it. di G. Pacchioni), Torino, 1912, 357.
[17] (Liber I stipulationum), in D.45.1.137.4. Per riferimenti, cfr. C.M. Bianca, diritto civile, 5, cit., 18, nota 14.
[18] Così, invece, nella dottrina moderna, C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1990, 90.
[19] G. Hartmann, Die Obligation. Untersuchungen über ihren Zweck und Bau, Erlangen, 1875, 249.
[20] N. Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla estinzione delle obbligazioni, Lanciano, 1895, 12.
[21] Per il rilievo che quando l’Osti parla di mezzi per l’adempimento si riferisce (non già all’impiego dei mezzi adeguati al soddisfacimento dell’interesse creditorio, secondo un modello di comportamento diligente, ma) proprio e solo all’onere economico che il debitore deve sostenere, il quale, secondo la sua concezione, «è giusto che ricada» sempre sul debitore, con l’unico limite dell’impedimento «non superabile da alcuno», v. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 2 e, ivi, nota 2. Il D’Amico aggiunge che in questa teorizzazione l’Osti si era riallacciato all’orientamento del Polacco e del Ferrara (già richiamato, supra, al par. 3) nell’interpretazione delle norme contenute negli artt. 1224, 1225 e 1226 c.c. 1865, in contrapposizione alle concezioni del Coviello e del Chironi, che affermavano la rilevanza della colpa nella responsabilità per inadempimento.
[22] Per il rilievo che nella concezione dell’Osti, neppure l’impossibilità oggettiva e assoluta libera il debitore se essa deriva da sua colpa, v. C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 14.
[23] Puntualmente richiamata da G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 14 e, ivi, nota 28, il quale identifica la colpa che contraddistingue la ostiana figura della responsabilità per impossibilità sopravvenuta come “colpa extracontrattuale” rievocando la polemica espressione del Segré (G. Segré, Sulla teoria dell’impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1919, I, 760).
[24] E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, 107: «l’impossibilità deve intendersi come relativa», avuto riguardo «al tipico impegno di cooperazione».
Nella prospettiva del Betti si sono posti, successivamente, Francesco Galgano (F. Galgano, in Contr. e impr., 1989, 32) e, di recente, Fabrizio Piraino (F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 630), il quale, peraltro, non riferisce il parametro della valutazione dell’impossibilità liberatoria al tipo o alla specie di obbligazione assunta, ma «al contenuto del piano dell’obbligazione».
[25] L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, I, 185. La tesi è stata successivamente ribadita dal Maestro trentino nella storica Voce Responsabilità contrattuale, in Enc. dir. XXXIX, Milano, 1988. All’agevole obiezione che non viene chiarito il significato della buona fede richiamata, «e quindi non è chiarito come questa dovrebbe segnare la linea di confine tra ciò che il creditore può pretendere e ciò che non può pretendere» (così C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 17), il Mengoni replica che «il contenuto delle clausole generali, in quanto consistente in una direttiva che rinvia il giudice a standards sociali, si sottrae a determinazioni concettuali secondo la tecnica definitoria della fattispecie» (L. Mengoni, Responsabilità contrattuale, cit., 1086).
Nella medesima prospettiva del Mengoni si pone C. Castronovo, La responsabilità per inadempimento da Osti a Mengoni, in Europa e dir. priv., 2008, 1 e ss., part. 26, il quale rimprovera all’impossibilità assoluta di marca ostiana, l’essere espressione di una ideologia positivista ostile all’utilizzo delle clausole generali e preclusiva di ogni apertura all’introduzione della discrezionalità del giudice.
[26] Di qui il titolo dello storico saggio: G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. proc., 1954, 593 e ss.
[27] Così C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1279.
[28] Per il rilievo che l’Osti considera l’obbligazione «astratta dal titolo da cui essa deriva», mentre il Mengoni «considera la prestazione (che forma oggetto dell’obbligazione) senza disgiungerla dalla fonte da cui essa scaturisce», v. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 5, il quale ne fa derivare l’implicazione che, ampliando in tal modo il concetto di impossibilità, la tesi del Mengoni si traduce in una sostanziale elusione della normativa sulla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, in quanto tale rimedio viene reso operativo, pur in assenza di tutti i presupposti di legge. Per evitare questa implicazione, occorrerebbe, dunque, restringere il concetto di impossibilità, ritenendo che la c.d. impossibilità “relativa” altro non sia che un’ipotesi di «assenza dell’obbligo», perché «non esisteva ab origine l’obbligo di eseguire la prestazione oltre un certo limite che risulta superato alla luce delle “sopravvenienze”».
[29] Per tali rilievi v. C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1283, il quale esemplifica con riguardo al caso di scuola dell’anello caduto in fondo al mare, recuperabile con l’impiego di mezzi anomali e con un costo particolarmente gravoso per il custode tenuto alla sua restituzione. In tal caso, la qualificazione della prestazione come prestazione divenuta eccessivamente onerosa o come prestazione divenuta impossibile dipende dal fatto di accedere, rispettivamente, alla concezione dell’impossibilità assoluta (la prestazione sarebbe ancora possibile e il rimedio utilizzabile, ricorrendone le condizioni, sarebbe quello della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta) o alla concezione dell’impossibilità relativa (la prestazione sarebbe divenuta impossibile e l’obbligazione sarebbe estinta, residuando soltanto la necessità di accertare se l’impossibilità sia stata determinata da causa imputabile o meno al debitore).
[30] Questo assunto (recentemente ribadito, ad es., da G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 1) sembra trovare conferma nella Relazione al c.c., n.571, secondo cui l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, oggetto della prova liberatoria del debitore, prevista dall’art.1218, consisterebbe nella «impossibilità della prestazione in sé e per sé considerata. Di guisa che non può, agli effetti liberatori, essere presa in considerazione l’impossibilità di adempiere l’obbligazione originata da cause inerenti alla persona del debitore o alla sua economia».
[31] Così C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1283.
[32] M. Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975, 228 e ss., part.236.
[33] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1281-1282; Più in generale, Id., Diritto civile, 5, cit., 24.
[34] C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 28 e ss.: l’indagine è allargata all’esame dei cc.dd. «impedimenti giurisprudenzialmente tipizzati» e all’esame delle interpretazioni giurisprudenziali delle norme specifiche dettate nella disciplina dei principali contratti tipici. Nella recente relazione al convegno celebrativo del centenario del saggio dell’Osti, l’analisi giurisprudenziale è stata ripetuta tenendo presenti le diverse fenomenologie dell’inadempimento, quale adempimento inesatto, ritardo e inadempimento definitivo (C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1286-1294).
[35] G. Osti, Deviazioni dottrinali ecc., cit., 614.
[36] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1284: «il pregiudizio che cade sul creditore viene traslato sul debitore non per effetto del rischio del proprietario ma per effetto della disciplina dell’obbligazione».
[37] C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 16.
[38] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 217.
[39] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 418.
[40] Così G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 14.
[41] G. Osti, ult. cit.
[42] V. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 15.
[43] In realtà, l’impossibilità sopravvenuta assume rilievo autonomo dall’inadempimento soltanto allorché non sia imputabile alle parti del rapporto obbligatorio (artt.1256 e 1463 c.c.). Quando invece essa sia imputabile al debitore, come nella distinzione dell’Osti, rientra tra i rimedi contro l’inadempimento e comporta l’obbligo del risarcimento del danno sulla base di un giudizio di responsabilità fondato sulla colpa. Nella prova liberatoria, spettante al debitore sulla base dell’art. 1218 c.c., è compresa la prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore. Il principio trova una consolidata applicazione giurisprudenziale nella responsabilità extracontrattuale attraverso la regola della causa successiva ipotetica, ma che esso non sia estraneo alla responsabilità contrattuale lo dimostra il fatto che la sua “positivizzazione” si rinviene proprio nel diritto delle obbligazioni, attraverso la configurazione di quello che la vecchia dottrina identificava come l’istituto della “perpetuatio obligationis” e che il codice del 1942 ha incluso tra gli effetti della mora debendi (art.1221).
[44] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1294.
[45] G. Osti, Deviazioni dottrinali ecc., cit., 614.
[46] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1285: «chi si obbliga nei confronti altrui assume un impegno normalmente adeguato al soddisfacimento dell’interesse del creditore, non quindi l’impegno a soddisfare tale interesse a costo di qualsiasi sacrificio personale od economico e anche della propria rovina».
[47] Sul punto, v. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 18.
[48] La tendenza dell’ordinamento ad assegnare un fondamento unitario al giudizio di responsabilità, è rilevata dal Di Majo (cfr. A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja e Branca, artt. 1175-1176, Bologna, 1988, 454).
[49] Cass. 2 dicembre 2021, n. 38089.
[50] Cfr. già Cass. 9 gennaio 2011, n. 240.
Disorientamenti sul controllo preliminare della competenza nell’esecuzione forzata (in difesa dei giudici dell’esecuzione)
di Bruno Capponi
Sommario: 1. Principi generali sul controllo preliminare della competenza tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata - 2. Perché la Cassazione giudica il g.e. non legittimato a richiedere il regolamento d’ufficio in caso di conflitto (art. 45 c.p.c.) e come tale “regola” possa risultare compatibile con l’art. 50 c.p.c. - 3. Problemi particolari posti dall’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. nelle espropriazioni presso terzi a carico della p.a. (l’arte di fare confusione) - 4. L’auspicio è che la Cassazione restituisca al giudice dell’esecuzione il potere di essere anzitutto il giudice della propria competenza.
1. Principi generali sul controllo preliminare della competenza tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata
Chiunque ricorderà che, nel sistema originario del codice, l’incompetenza nell’esecuzione forzata dava luogo a una nullità, accertata la quale (a seguito del vittorioso esperimento di un’opposizione agli atti o anche di rilievo ex officio[1]) il processo si arrestava e l’azione esecutiva avrebbe dovuto essere di nuovo esercitata senza nessuna salvezza degli atti compiuti[2].
Dopo la modifica dell’art. 38 c.p.c. realizzata dalla legge 353/1990, il principio del controllo preliminare della competenza è stato esteso anche al processo esecutivo, con riferimento alla prima udienza dinanzi al g.e.[3]
La legge 69/2009 – pur non modificando il regime delle decisioni sulla competenza – ha stabilito che esse siano date sempre con ordinanza e non con sentenza, salvo che non sia contestualmente deciso anche il merito o parte di esso. Il g.e. non pronuncia mai sentenza ma sempre ordinanza e tale regola, che preesiste ed è indipendente dalla novella del 2009, ha finito – prescindendo da qualsiasi disegno e verosimilmente dalla volontà stessa del legislatore – per omologare nel processo dichiarativo e in quello esecutivo la forma delle decisioni sulla sola competenza.
La stessa legge 69 cit. ha introdotto l’art. 186 bis disp. att. c.p.c., secondo il quale i giudizi di merito di cui all’art. 618, comma 2, c.p.c. debbono essere trattati e decisi da un magistrato, addetto al medesimo ufficio, diverso dal g.e. (inteso quale persona fisica).
Nell’espropriazione presso terzi, la Cassazione[4] ha da tempo iniziato ad affermare l’applicabilità non soltanto dell’art. 38 ma anche dell’art. 50 c.p.c., e pertanto la declinatoria del g.e., che deve indicare il giudice o i giudici ritenuti (alternativamente) competenti, prelude alla riassunzione del processo esecutivo con salvezza degli atti di parte (in primo luogo del pignoramento) sebbene compiuti dinanzi a un ufficio incompetente.
Sempre nell’espropriazione presso terzi, il legislatore recente (legge 162/2014, che ha introdotto l’art. 26 bis c.p.c.) ha stabilito che il foro competente è quello della residenza, domicilio, dimora o sede del debitore (non più del terzo); salvo che nelle espropriazioni contro la p.a., ove il criterio è quello della residenza, domicilio, dimora o sede del terzo debitore. Va detto che tale regola (comma 1 dell’art. 26 bis) non è un esempio di chiarezza[5], vuoi perché non identifica con esattezza quali siano le «pubbliche amministrazioni»[6], vuoi perché contiene una formula di salvezza delle «leggi speciali», senza ovviamente identificarle[7]. In concreto, in base a questa versione iniziale della norma (v. infra § 3 per qualche cenno alla sua nuova lezione), la competenza dell’ufficio esecutivo può derivare dal luogo in cui viene esercitato il servizio di tesoreria (art. 1 bis legge 720/1984) ma anche essere individuata sulla base del criterio di collegamento dato da residenza, domicilio, dimora o sede del creditore procedente grazie al combinato disposto degli artt. 54 r.d. n. 2440 del 1923, 278, comma 1, lett. d), 287 e 407 r.d. n. 827 del 1924.
Da tempo, la Cassazione afferma che i giudizi che sorgono, incidentalmente all’esecuzione forzata, in forma di opposizione (ex artt. 615, 617 e 619 c.p.c.) hanno sempre una struttura bifasica: alla fase sommaria trattata dinanzi al g.e. si contrappone una fase di merito introdotta dalla parte interessata per il tramite di un termine perentorio di riassunzione (o prosecuzione) che sempre il g.e. deve assegnare al termine della fase sommaria che invariabilmente gli compete.
Il principio Kompetenz-Kompetenz vuole che ogni giudice sia in primo luogo giudice della propria competenza: il che dovrebbe comportare la necessità, per ogni giudice e così anche per il g.e., di adottare un provvedimento (quale che sia la sua forma) definitivo sulla propria competenza[8], salva la possibilità di controlli successivi.
Senonché, la Cassazione afferma senza ripensamenti – per tutte, v. Sez. VI – 3, Ord. 13 settembre 2017, n. 21185 – che «la specialità della disciplina del procedimento esecutivo non consente, neppure in via analogica, una assimilazione dei vizi e delle irregolarità concernenti la procedura espropriativa a quelli propri del giudizio ordinario di cognizione, ivi compresi i vizi di competenza relativi alla individuazione del g.e., con la conseguenza che sono inapplicabili alla ordinanza di diniego o di affermazione della competenza, emessa dal Giudice della esecuzione, i diversi rimedi impugnatori previsti per i provvedimenti emessi nel giudizio di cognizione, tra i quali deve ricomprendersi anche il regolamento necessario di competenza ex artt. 42 e 323 c.p.c., dovendo eventuali vizi che riguardano detto provvedimento del g.e. essere fatti valere, oltre che attraverso l’istanza di revoca, solo attraverso il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi, atteso che l’errore sulla competenza può essere considerato come rientrante nel concetto di “irregolarità” di cui all’art. 617 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. 3, Ord. n. 17444 del 30/08/2004; Sez. 6 – 3, Ord. n. 17462 del 23/07/2010; Sez. 6 – 3, Ord. n. 16292 del 26/07/2011; Sez. 6 – 3, Ord. n. 16292 del 26/07/2011), con conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso per regolamento necessario ex art. 42 c.p.c., dovendo ulteriormente precisarsi che, ove, tuttavia, il regolamento di competenza sia stato (inammissibilmente) comunque proposto, si determina la sospensione del decorso del termine per proporre opposizione agli atti esecutivi, fino alla data di comunicazione del deposito dell’ordinanza di decisione del regolamento di competenza».
2. Perché la Cassazione giudica il g.e. non legittimato a richiedere il regolamento d’ufficio in caso di conflitto (art. 45 c.p.c.) e come tale “regola” possa risultare compatibile con l’art. 50 c.p.c.
L’orientamento, da ultimo ricordato, è alla base anche della decisione che si commenta: la quale ha escluso, in capo al g.e. ad quem con ciò conformandosi a una consolidata giurisprudenza di legittimità mai ridiscussa[9], la possibilità di richiedere il regolamento d’ufficio per risolvere un conflitto insorto tra giudici dell’esecuzione, cioè tra giudici che rilevano d’ufficio, con ordinanza, la propria incompetenza.
Il fondamento dell’orientamento è nel fatto che la declinatoria del g.e. (così come il provvedimento positivo) non viene considerata una decisione sulla competenza bensì atto “meramente ordinatorio” interno al processo esecutivo, mentre la “questione di competenza” vera e propria sarà introdotta soltanto ove siano le parti a impugnare quell’atto con lo strumento di controllo ordinario delle attività esecutive: l’opposizione ex art. 617 c.p.c. Una norma ad hoc – l’art. 187 disp. att. c.p.c. – avverte che le sentenze che definiscono le opposizioni agli atti «sono sempre soggette a regolamento di competenza», sebbene non sia affatto chiara la ragione fondante di questa regola[10].
Sulla propria competenza non decide il g.e. ma il giudice dell’opposizione agli atti, soltanto se sia una parte del processo esecutivo a sollecitare il controllo.
Si tratta di una costruzione ragionevole?
Vediamo se vi sia conflitto con i principi, di varia origine, indicati nel paragrafo che precede.
La prima regola a saltare è senz’altro quella della Kompetenz-Kompetenz: l’art. 186 bis disp. att. c.p.c. è chiarissimo nell’indicare che il giudice-persona fisica che conosce il merito dell’opposizione agli atti deve essere diverso dal g.e., come diverso è il contesto, impugnatorio, dell’opposizione agli atti in rapporto all’esecuzione forzata in cui è stato compiuto l’atto attaccato[11]; a nulla varrebbe osservare che esecuzione e opposizione sono trattate all’interno del medesimo tribunale (con evaporazione della questione di competenza) essendo evidente che la sentenza di opposizione agli atti viene emessa in sede di controllo di un (a dire il vero fantasmatico, secondo la S.C.) provvedimento del g.e. sulla propria competenza. Inoltre, al g.e. ad quem è precluso il controllo della propria competenza nell’unica forma possibile, il regolamento d’ufficio, con la conseguenza che soltanto un’iniziativa di parte potrebbe introdurre quel controllo in una sede di regolamento (diversa, ovviamente, da quella dell’art. 45 c.p.c.). E del resto lo stesso g.e. che per primo di pronuncia, declinando la propria competenza, non adotterebbe un provvedimento sulla competenza ma si limiterebbe ad avviare un sub-procedimento (o fase “preparatoria”) che potrebbe condurre a una pronuncia sulla competenza soltanto ove la parte interessata proponga l’opposizione agli atti avverso quel provvedimento “interno” e “non decisorio”. Sotto più punti di vista, quindi, si può affermare che il g.e. non è il giudice della propria competenza, ma anzi la relativa questione degrada, proprio perché e in quanto da lui conosciuta, a livello dei rilievi “meramente ordinatori” del procedimento, che per definizione non sono decisori. Continuando il parallelo col trattamento riconosciuto al provvedimento del g.e. a quo, non sarà il g.e. ad quem ma, casomai, il giudice che definisce l’opposizione agli atti a poter sollevare il conflitto d’ufficio: sempre che tale conclusione si giudichi compatibile col testo dell’art. 187 disp. att., che letteralmente richiama «gli articoli 42 e seguenti del codice» e non anche l’art. 45, che è istituto diverso.
Altra regola destinata a trovare la sua eccezione è quella della forma del provvedimento sulla sola competenza: quella della ordinanza, in generale introdotta dalla legge 69/2009, è destinata a non essere osservata nel nostro caso, perché l’opposizione agli atti è definita invariabilmente con sentenza anche laddove decida soltanto questioni di competenza. Il legislatore del 2009 non ha pensato ad adeguare il testo dell’art. 187 disp. att., né quello dell’art. 618 c.p.c., alla nuova regola generale (affermata, non c’è dubbio, soprattutto per il processo dichiarativo).
Il sistema, nel quale si iscrive la decisione in commento, è comunque destinato a entrare in conflitto con la regola della bifasicità applicata all’opposizione agli atti. Infatti, in prima udienza (ma va considerato che spesso la prima udienza dell’esecuzione coincide con quella dell’opposizione da proporsi in un termine perentorio) il g.e., d’ufficio o su sollecitazione della parte interessata, può dichiarare con ordinanza la propria incompetenza, indicando il giudice o i giudici competenti qualora una riassunzione sia possibile (sempre, direi, nel presso terzi). Non vogliamo sembrare amanti delle complicazioni inutili, ma certamente la declinatoria potrebbe conoscere un destino diverso a seconda che il rilievo avvenga d’ufficio ovvero accogliendo un’opposizione di parte (qualificabile agli atti, sebbene spesso l’incompetenza venga eccepita con l’opposizione all’esecuzione). Nel primo caso, il rilievo d’ufficio dà luogo a un provvedimento opponibile ex art. 617 c.p.c.[12]; nel secondo, l’art. 618, comma 2, c.p.c. prevede che il g.e. «in ogni caso» debba «fissa(re) un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito», che certamente sarà trattato dal medesimo tribunale (ma da giudice-persona fisica diverso). La prassi dei tribunali, tuttavia, tende a omologare i due casi: in esito tanto al rilievo d’ufficio, quanto all’opposizione agli atti la declinatoria chiude il processo esecutivo e il g.e., anche se richiesto, non si preoccuperà di fissare quel termine di prosecuzione nel merito che «in ogni caso» l’art. 618, comma 2, gli imporrebbe di assegnare[13]. La ragione è, tutto sommato, evidente: checché ne dica la Cassazione parlando di provvedimento “meramente ordinatorio” e “non decisorio”, con la declinatoria il giudice si spoglia della procedura e dal suo provvedimento inizia a decorrere il termine perentorio per la riassunzione dinanzi a un altro giudice. Ciò, detto diversamente, significa che la declinatoria non è considerata alla stregua di un provvedimento sommario coordinabile con la successiva fare di merito, come avviene per la sospensione ex art. 624 c.p.c.: il g.e. che dichiara la propria incompetenza lo fa con un provvedimento che suona sempre definitivo, e che del resto gli compete – torniamo alla prima regola – in applicazione del generalissimo principio Kompetenz-Kompetenz. E però proprio così in effetti non è, e se ne accorge la parte che intenda impugnare la declinatoria pronunciata dal g.e. a definizione della fase sommaria dell’opposizione agli atti: il regolamento necessario non è proponibile, e se il g.e. si rifiuti di fissare il termine di prosecuzione nel merito (perché per lui la questione è definitivamente regolata) la sua pronuncia resta per aria, e l’unico modo per coltivare l’esecuzione è quello di riassumere dinanzi al giudice indicato come competente. In questo modo, una decisione “meramente ordinatoria” e “non decisoria” che non riguarda la competenza finisce per avere una “forza” ben maggiore della decisione sulla competenza, avverso la quale è esperibile il regolamento. Dunque, se il g.e. intendesse rispettare davvero l’orientamento della Cassazione non dovrebbe mai pronunciare con ordinanza la propria incompetenza nella fase sommaria di una opposizione (comunque qualificata), ma dovrebbe rimettere la questione al giudice della fase di merito di quell’opposizione.
D’altra parte un altro decisivo rilievo, connesso ma autonomo, non può sfuggire: se la declinatoria del g.e. non fosse un provvedimento sulla competenza, cosa mai potrebbe legittimare la chiusura in rito del processo esecutivo e la riassunzione dinanzi al g.e. indicato come competente? Quel g.e. potrebbe fondatamente eccepire che il meccanismo della riassunzione presuppone una decisione sulla competenza, difettando la quale difetta anche il potere di riassumere il processo esecutivo: una simile decisione è data soltanto dalla sentenza che definisce l’opposizione agli atti. Il rilievo impedirebbe la riassunzione e si tornerebbe al fenomeno quale conosciuto all’origine: la declinatoria fotografa una nullità insanabile che si estende agli atti di parte; l’azione esecutiva non può proseguire e va esercitata ex novo.
3. Problemi particolari posti dall’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. nelle espropriazioni presso terzi a carico della p.a. (l’arte di fare confusione)
Si è detto che il fenomeno incompetenza-riassunzione si osserva particolarmente nell’espropriazione presso terzi; esso di frequente riguarda la p.a., che non è il miglior pagatore presente sul mercato. Con l’art. 26 bis c.p.c. (versione 2014), il legislatore si è preoccupato da un lato di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutte le esecuzioni a carico della p.a. (tesoriere la Banca d’Italia), dall’altro lato di contenere i fenomeni di forum shopping: la regola è che «la competenza territoriale non può che radicarsi presso la tesoreria del luogo in cui si colloca il rapporto che rappresenta la radice del credito»[14]. Si tratta di una relazione bilatera, perché da un lato c’è la sezione di tesoreria che ha in carico il rapporto, dall’altro lato il titolare del credito il quale deve essere residente o domiciliato nella provincia corrispondente alla sede della sezione di tesoreria (si richiamano gli artt. 1182, comma 3, c.c.; 54 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440; 278, comma 1, lett. d), 287 e 407, r.d. 23 maggio 1924, n. 827)[15] ma ciò vale sul presupposto che agisca in executivis il titolare del rapporto che deve coincidere col soggetto contemplato nel titolo come creditore; invece, in caso di cessione del credito – frequentissima così come sono frequentissime le cartolarizzazioni dei crediti della p.a., di realizzazione difficile ma certa – la relazione è destinata a saltare, perché il criterio della residenza o domicilio del creditore procedente non individua più la sezione che ha in carico il rapporto. A quel punto il rischio è che il criterio di competenza territoriale finisca per introdurre surrettiziamente una limitazione di responsabilità della p.a., posto che una sezione di tesoreria che non ha in carico il rapporto non potrà che rendere una dichiarazione negativa.
Insomma, chi ha scritto l’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. nell’anno di grazia 2014 (un arruffone che non merita la nostra gratitudine) non sembra aver avuto per obiettivo quello di fare definitiva chiarezza sull’aspetto delicato della competenza per territorio, peraltro inderogabile, nelle esecuzioni presso terzi a carico della p.a.: il riferimento all’art. 413, comma 5, c.p.c. ha sollevato addirittura il dubbio circa l’identificazione della natura del credito e non delle p.a.[16], identificazione che peraltro risulta non dallo stesso art. 413 bensì dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; il riferimento generico alle «leggi speciali» apre un piccolo vaso di Pandora che finisce per rendere piuttosto difficoltosa l’individuazione del tribunale territorialmente competente, specie nel caso, frequente, di circolazione del credito.
Ultima puntata, per il momento: la legge 206/2021 (che contiene norme di delega e due sole norme dirette: una di esse novella l’art. 26 bis, comma 1, l’altra modifica l’art. 543 c.p.c. e non interessa direttamente il nostro tema) prevede – art. 1, comma 29 – che «all’art. 26-bis, comma 1, c.p.c., le parole: “il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede” sono sostituite dalle seguenti: “il giudice del luogo dove ha sede l’Ufficio dell’avvocatura distrettuale dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”». Fermo che il vero problema applicativo della norma deriva dall’immutato inciso «salvo quanto disposto dalle leggi speciali», il meno che possa dirsi è che l’interprete potrebbe essere autorizzato a pensare che il nuovo criterio di competenza trova applicazione nelle sole procedure in cui la p.a. è difesa dall’Avvocatura e che, in ogni caso, il legislatore del 2021 ha perso l’occasione di chiarire, con una norma non di rimbalzo, cosa debba intendersi per «una delle pubbliche amministrazioni». Evidentemente, in materia la confusione viene apprezzata più della chiarezza, forse per dar modo alla p.a. di ritardare ulteriormente i pagamenti dovuti con l’appoggio di quella giurisprudenza secondo cui l’art. 1284, comma 4, c.c., non trova applicazione all’interno dell’esecuzione[17].
4. L’auspicio è che la Cassazione restituisca al giudice dell’esecuzione il potere di essere anzitutto il giudice della propria competenza
Come di recente già notato[18], è stato il meccanismo della riassunzione a evidenziare i problemi che nell’esecuzione derivano dal controllo della competenza (soprattutto per territorio e soprattutto nell’espropriazione presso terzi). Quel meccanismo presuppone decisioni sulla competenza, ma la Cassazione insiste nell’affermare che il g.e. non può adottare decisioni sulla competenza. È un diverso giudice (quello dell’opposizione agli atti) l’unico titolare del controllo, ma tale diverso giudice non può che essere investito dalla parte: non potrà certo il g.e. proporre l’opposizione agli atti avverso un proprio provvedimento o avverso il provvedimento di un altro g.e., e in questo contesto appare perfettamente logico che il giudice ad quem non possa sollevare d’ufficio il conflitto di competenza: vuoi per la ragione che il giudice a quo non ha il potere di decidere sulla propria competenza, vuoi per la ragione che lui stesso, a sua volta, è istituzionalmente privo di quel potere. L’art. 45 c.p.c. è implicitamente abrogato: alla cassazione non sembra interessare che il g.e. ad quem non possa in alcun modo contestare la propria competenza.
A ben vedere, l’unico controllo indiretto che il giudice ad quem potrebbe compiere della propria competenza sarebbe quello di disconoscere il vincolo che gli deriva dalla pronuncia del g.e. a quo: se il destinatario non ha un potere di controllo, non si vede perché il mittente dovrebbe avere il potere di declinare la propria competenza con effetti vincolanti. A questo punto, come nel gioco dell’oca si torna nella casella di partenza: l’esecuzione è improseguibile, e l’azione esecutiva va nuovamente esercitata con perdita degli effetti del pignoramento compiuto.
La cosa più bizzarra è che la Cassazione non nega che anche nell’esecuzione forzata vi sia il controllo preliminare sulla competenza, ma – si legge nella decisione in commento, che replica una frase d’uso – «tale controllo, sulla base delle argomentazioni desumibili dall’art. 187 disp. att. c.p.c., si estrinseca in prima battuta non già direttamente sul provvedimento del giudice dell’esecuzione negativo della propria competenza o affermativo di essa, bensì, essendo impugnabile tale provvedimento con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c., attraverso l’impugnazione con il regolamento di competenza necessario della pronuncia del giudice dell’opposizione agli atti esecutivi di accoglimento o di rigetto della stessa opposizione agli atti e, quindi, rispettivamente, di dissenso dalla valutazione del giudice dell’esecuzione negativa o affermativa della propria competenza sull’esecuzione forzata oppure di condivisione di quella valutazione, dovendosi tanto la sentenza di accoglimento che di rigetto intendersi impugnabili ai sensi dell’art. 187 disp. att. c.p.c., in quanto sentenze che decidono riguardo alla competenza sull’esecuzione forzata». Argomento dal quale sembrerebbe ricavarsi che l’abrogazione in via interpretativa dell’art. 45 c.p.c. nei rapporti tra g.e. è conseguenza dell’applicazione dell’art. 187 disp. att.: quanto dire che l’unico provvedimento sulla competenza è quello avverso il quale è prevista l’esperibilità del regolamento (artt. 42 e seguenti). Senza apparentemente avvedersi che le vere vittime di questa singolare costruzione sono proprio i giudici dell’esecuzione, cioè coloro che per definizione non sono legittimati a proporre l’opposizione agli atti e che proprio per questa ragione (sic!) perdono il potere di effettuare il controllo preliminare della propria competenza.
[1] A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, VII ed., Milano, 2019, 305 ss.
[2] V., per tutti, G. Verde – B. Capponi, Profili del processo civile. 3. Processo di esecuzione e procedimenti speciali, Napoli, 2006, 23 ss.
[3] Mi permetto di rinviare a Note in tema di rapporti tra competenza e merito. Contributo allo studio dell’art. 38 c.p.c., Torino, 1997, 193 ss. In giur. V., per tutte, Cass. Sez. III, 24 ottobre 2018, n. 26935.
[4] V., ad es., Cass. Sez. III, 24 ottobre 2018, n. 26935. In dottrina v. G. Tota, In tema di translatio judicii e connessione nel processo di espropriazione presso terzi, in Riv. dir. proc., 2008, 1567 ss.
[5] Con l’Ord. 4 aprile 2018, n. 8172, la Cassazione ha deciso che l’art. 26 bis, comma 1 «quando allude alla disciplina di leggi speciali come idonea a stabilire il foro dell’esecuzione forzata per espropriazione di crediti in danno delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 413, comma 5°, dello stesso codice, attribuisce alla regola desumibile dalla legge speciale il valore di regola esclusiva rispetto a quella fissata dallo stesso comma 1 con riferimento al luogo in cui il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Ne discende che, dovendo fra le disposizioni di leggi speciali cui allude il suddetto comma 1 comprendersi quella della legge n. 720 del 1984, art. 1 bis, il significato del rinvio a tale norma si deve intendere nel senso che con esso si sia voluto fare riferimento a detta previsione, sia in quanto individuatrice nel cassiere o tesoriere del soggetto (debitor debitoris) che deve pagare per conto delle amministrazioni pubbliche, cui detta norma si applica, sia in quanto individuatrice del luogo del pagamento in quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra la p.a. ed il cassiere o tesoriere, con la conseguenza che tale luogo si deve considerare in via esclusiva come il foro dell’espropriazione presso terzi di crediti a carico di tali pubbliche amministrazioni, restando esclusa, per il caso che cassiere o tesoriere sia una persona giuridica, la possibilità di procedere all’esecuzione alternativamente anche nel luogo della sua sede, ove tale luogo sia diverso da quello in cui opera l’articolazione della persona giuridica che ha in carico in concreto il rapporto avente ad oggetto le funzioni di cassa o di tesoreria ed in cui, dunque, la concreta funzione di cassiere o tesoriere sia svolta per la pubblica amministrazione secondo gli accordi con essa presi».
[6] L’art. 413, comma 5, c.p.c., richiamato dall’art. 26 bis, comma 1, non contiene alcuna specifica elencazione delle pubbliche amministrazioni, categoria che può evidentemente enuclearsi dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001: la stessa Ord. n. 8172/2018, cit., ha statuito che «per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300».
[7] Sulle difficoltà introdotte da tale riferimento v., ad es., A. Auletta, L’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, collana Teoria e pratica del diritto, Milano, 2020, passim.
[8] V., da ultimo, B. Sassani, Giudice dell’esecuzione e declaratoria di incompetenza, in www.judicium.it dal 19 ottobre 2021.
[9] V. anche per riferimenti A.M. Soldi, op. cit., 308.
[10] Sulle non chiare ragioni che indussero il legislatore del 1940 a stendere tale norma v. R. Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, 466 ss., il quale prende in esame, per escluderla, l’ipotesi di sottoporre a regolamento la sentenza che decide sulla competenza non del giudice dell’opposizione, bensì del g.e. In altro luogo della stessa monografia (pag. 399 ss.), Oriani osserva che il regolamento di competenza può svolgere un’utile funzione in tema di qualificazione dell’opposizione (ad es., se si tratti di opposizione all’esecuzione o agli atti), con conseguente diversità del giudice dinanzi al quale riassumere il giudizio dopo la pronuncia della Cassazione.
[11] B. Sassani, op. loc. cit.
[12] V., ad es., Trib. Roma, sez. III civ., 18 marzo 2021, giudice Guariniello, B.A. c. Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in Plurisonline.
[13] V. infatti il caso che ha originato il commento di B. Sassani, op.loc.cit., caso nel quale il g.e., dopo aver dichiarato la propria incompetenza nella fase sommaria dell’opposizione agli atti, si è rifiutato di assegnare il termine per la prosecuzione dell’opposizione nel merito.
[14] Così S. Leuzzi, Espropriazione forzata dei crediti nei confronti degli enti pubblici e competenza per territorio, in www.inexecutivis.it dal 18 giugno 2020.
[15] V. Cass. 10 maggio 2011, n. 10198.
[16] Ciò è stato escluso dalla giurisprudenza: v., per tutte, la già citata ord. 4 aprile 2018, n. 8172.
[17] I Tar, in sede di giudizio di ottemperanza (l’esecuzione amministrativa), non hanno invece dubbi: gli interessi commerciali si possono richiedere col ricorso di ottemperanza (che equivale all’atto di precetto), ritenuto “domanda giudiziale”, per l’intera durata del giudizio esecutivo e sino alla liquidazione del dovuto da parte dell’amministrazione (T.A.R., Puglia, Lecce, 5 settembre 2016, n. 1361; Tar Puglia-Lecce, sent. n. 1167/2018).
[18] B. Sassani, op. loc. cit.
“...Una giustizia che ricuce e ripara; che non si nutre di odio, che non cede alla reazione vendicativa, ma che vive innanzitutto di ricerca di verità...”.
La relazione annuale al Parlamento della Ministra Cartabia
Pubblichiamo la Relazione annuale della Ministra della Giustizia presentata nell’aula del Senato il 19 gennaio scorso. Da essa emerge il contesto nel quale, fra forze politiche portatrici di diverse sensibilità eppure accomunate da un forte senso di responsabilità hanno via via preso corpo, incuneandosi tra la persistente crisi pandemica e l’esigenza di approntare con celerità le misure di attuazione del PNRR per una giustizia più rapida ed efficiente, imponenti riforme di sistema in ambito penale - legge di riforma del processo - e civile - legge delega n. 206/2021, insolvenza, Tribunale per le persone - alcune delle quali ancora in fase di definizione, altre in itinere - direttiva UE sul whistleblowing, giustizia tributaria - ed altre ancora che sembrano dalla Relazione porsi come obiettivi primari ed immediati nel futuro delle scelte di indirizzo ministeriale. Fra queste, oltre alla indilazionabile riforma dell'ordinamento giudiziario e del CSM, quelle di una giustizia sempre più riparativa, attenta alle vittime come alle condizioni carcerarie. Una giustizia con una forte vocazione europea che non per questo non perde l'impronta domestica quando essa si pone al servizio dei diritti fondamentali. Tutto questo in un processo osmotico che arricchisce il piano interno di nuovi strumenti di tutela di matrice sovranazionale - lotta al riciclaggio, presunzione di innocenza, acquisizione di tabulati telefonici - ed al contempo guarda con attenzione agli interessi europei attraverso la nuova lente della Procura europea - EPPO - "frutto della profetica intuizione" di Giovanni Falcone.
1. Introduzione
Illustre Presidente,
Onorevoli deputate e deputati – senatrici e senatori
Permettetemi di introdurre questa relazione sull’amministrazione della giustizia, richiamando una lettera tra le numerosissime indirizzate al Ministro della giustizia. Era l’8 marzo scorso ed ero da poco insediata.
«Illustre Signora Ministro,
Le scrivo questa lettera pubblica per chiedere il Suo conforto, affranta dalla morte sul lavoro di mio figlio Roberto [avvenuta quattro anni prima] e dall’impossibilità di vedere celebrato il processo in tempi ragionevoli.
Ho settantacinque anni e sono vedova. Roberto, il più piccolo dei miei figli, era il mio sostegno in tutto, aveva trentadue anni e viveva con me. […]
Il nostro processo […] non si riesce a celebrare, nonostante rientri in quelli cosiddetti a trattazione prioritaria […]. Il Tribunale […] non è in grado […] di poter far svolgere in sicurezza i processi con più parti a causa della carenza di aule attrezzate, risorse e personale e per questa ragione in un anno e mezzo, da quando è iniziato il dibattimento, a causa di continui rinvii è stato sentito solo uno dei circa venti testimoni. Con questa cadenza il processo di primo grado durerà numerosi anni […].
Sono sicura che morirò prima di vedere la fine di questo processo […] senza poter sapere come e da chi è stato ucciso mio figlio […]
Le scrivo come madre, vedova e umile cittadina, per chiedere il Suo conforto e, nei limiti delle Sue possibilità e competenze, di approfondire la disastrosa realtà di quel tribunale.
Prima di morire, vorrei poter andare sulla tomba di mio figlio Roberto per dirgli che la giustizia terrena ha fatto il Suo corso».
La storia di questa anziana madre è una storia paradigmatica e dà voce a tanti altri cittadini, vittime e imputati. E anche a tanti imprenditori e lavoratori.
È per ciascuno di loro che l’azione del Ministero della giustizia è stata orientata con determinazione verso un obiettivo che ho ritenuto cruciale: riportare i tempi della giustizia entro limiti di ragionevolezza. Come chiede la Costituzione; come chiedono i principi europei: il principio della ragionevole durata del processo e gli altri principi costituzionali ed europei che presidiano la corretta amministrazione della giustizia sono scritti per questo – per rispondere all’esigenza di chi, come questa anziana madre, attende dai nostri uffici giudiziari “una parola di giustizia” (P. Ricoeur).
Processi irragionevolmente lunghi rappresentano un vulnus per tutti. Per gli indagati e per gli imputati, che subiscono oltre il necessario la «pena del processo» e il connesso effetto di stigmatizzazione sociale. Per i condannati, che si trovano a dover eseguire una pena a distanza di tempo, quando ben possono essere – e per lo più sono – persone diverse da quelle che hanno commesso il reato. Per gli innocenti, che hanno ingiustamente subito oltre misura il peso di un processo che può aver distrutto relazioni personali e professionali. E soprattutto per le vittime e per la società, che non ottengono in tempi ragionevoli un accertamento di fatti ed eventuali responsabilità, come è doveroso in un sistema di giustizia che aspiri ad assicurare la necessaria coesione sociale.
La lettera di quella anziana madre ci indica dove in molti casi si annidano i problemi che ostacolano il lavoro di magistrati e avvocati. Quel processo per incidente sul lavoro – drammaticamente numerosi nel nostro Paese – stentava a partire essenzialmente per una carenza di spazi adeguati, risorse umane e strumentali.
I grandi e nobili principi costituzionali ed europei hanno bisogno di solido realismo e di pragmatica concretezza per non ridursi a vuota retorica. Come sarebbe stato il maxiprocesso di Palermo, senza quell’aula bunker la cui costruzione fu favorita dall’allora Guardasigilli, Mino Martinazzoli? I grandi principi hanno bisogno di organizzazione e di risorse; hanno bisogno di magistrati, hanno bisogno di uomini e donne nelle cancellerie, oltre che nelle aule d’udienza; hanno bisogno di strumenti informatici funzionanti; hanno bisogno di edifici agibili.
E questo è esattamente e principalmente lo sforzo che il Ministero della giustizia sta compiendo - in linea di continuità con l’azione del precedente governo, che aveva predisposto un piano straordinario di assunzioni - per assicurare le necessarie risorse umane, materiali, strumentali, per permettere alle procure e ai giudici lo svolgimento della loro altissima funzione.
«Spettano al Ministero della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia», recita l’articolo 110 della Costituzione. Il compito del Ministro è quindi di servizio alla funzione del giudicare, servizio a tutti i suoi attori: procuratori, giudici, avvocati. E soprattutto è servizio ai cittadini.
2. Il contesto
L’anno della giustizia 2021 è stato guidato in larga misura dai due fattori di contesto che hanno dominato in tutto il “sistema paese”:
a. la pandemia
b. la pianificazione PNRR e la sua prima attuazione.
Due elementi che da un lato hanno posto continui imprevisti, sfide e problemi, ma dall’altro hanno anche offerto una serie di opportunità e di spinte al cambiamento.
Le emergenze si sono susseguite senza interruzione: e quest’ultima ondata di contagi ha acuito ulteriormente le criticità. Ma ogni giorno abbiamo cercato nuovi rimedi ai sempre nuovi problemi, abbiamo ricominciato, abbiamo incessantemente re-inventato il nostro modo di lavorare.
Mi sia consentito di cogliere questa occasione per ringraziare sentitamente magistrati, avvocati, personale amministrativo, la polizia penitenziaria e tutto il personale degli istituti penitenziari, i volontari che hanno continuato a far funzionare la macchina della giustizia e dell’esecuzione penale, con spirito di adattamento e senza sottrarsi a rischi non trascurabili.
Anche per la continuità di altre fondamentali attività “ordinarie” sono serviti impegno e creatività e capacità di riorganizzazione. Era indispensabile rimettere in moto le prove di esame per l’avvocatura, i concorsi per l’accesso in magistratura – uno per 310 posti è avvenuto la scorsa estate e il bando per altri 500 nuovi magistrati è stato aperto nelle scorse settimane; e poi i concorsi per l’ingresso di altro personale: sono ripartiti la scorsa settimana gli orali per il concorso a 2242 posti di funzionari, sospeso per Covid; occorreva reinventare le modalità dei colloqui, delle visite e delle varie attività lavorative, culturali ed educative in carcere, per citare solo alcune delle emergenze recenti.
Emergenze di oggi e piani per il futuro, due distinti e congiunti livelli d’azione di questi mesi.
Mentre l’emergenza sanitaria premeva, con tutte le sue imperiose criticità, abbiamo messo a punto progetti e riforme strutturali a lungo termine, connessi agli obiettivi e alle opportunità offerte dal piano nazionale di ripresa e resilienza, in modo da avviare il nostro sistema giustizia verso le grandi linee di modernizzazione concordate con le istituzioni europee.
Come sappiamo, abbiamo l’impegno di ridurre del 40% il tempo medio di durata dei procedimenti del civile; e del 25% per il penale entro un arco temporale di cinque anni. Questo è stato il punto di accordo dopo settimane di trattative con Bruxelles.
Ad oggi, possiamo senza dubbio dire di aver conseguito – e invero superato – gli obiettivi previsti per il 31 dicembre 2021, che annoveravano l’approvazione delle leggi di delega in materia di processo civile e di processo penale; gli interventi in tema di insolvenza e l’avvio del reclutamento per l’Ufficio per il Processo.
3. Uno sguardo d’insieme
Uno sguardo d’insieme a quest’anno di intenso lavoro, ricco di impegni e traguardi lascia emergere tre chiavi di lettura.
La prima potrebbe essere definita così: dalla crisi una opportunità. Ovvero: dalle misure emergenziali, riforme strutturali. Un indirizzo di questa amministrazione, infatti, è stato quello di cogliere le opportunità nella situazione di crisi in cui la pandemia ci ha posti, valutando quali misure, anche tra quelle imposte dalla contingenza, potranno tradursi in modifiche strutturali.
Si pensi alle modalità di accesso alla professione di avvocato, ma anche alle nuove modalità di svolgimento delle udienze (sia civili che penali) e, più in generale, alla accelerazione della transizione digitale nei palazzi di giustizia e negli istituti penitenziari.
È in questa prospettiva, del resto, che deve essere colto il significato delle riforme prospettate con il PNRR anche per la giustizia. All’Italia non si chiedono interventi “tampone” destinati a esaurirsi nell’orizzonte temporale del Piano, ma uno sforzo preordinato ad un miglioramento definitivo.
Del resto, sappiamo bene che la modernizzazione e l’efficienza del sistema giudiziario incidono direttamente sulla solidità economica del Paese: tra gli studi, uno recente di Banca d’Italia stima che la riduzione della durata dei processi di circa il 15% porti all’aumento di almeno mezzo punto percentuale del PIL. E inoltre la maggiore efficienza del sistema giudiziario stimola gli investimenti interni ed esterni e indirettamente migliora le condizioni di finanziamento per famiglie e imprese. Anche questa la posta in gioco, dunque.
Il fattore “Europa” è la seconda chiave di lettura. L’anno della giustizia è stato dominato da un orizzonte europeo. Non solo per le attività connesse al PNRR, ma anche per il rilievo di numerose altre iniziative che l’Unione europea sta promuovendo nel settore della giustizia.
Sotto questo profilo non si può non rimarcare come l’istituzione della Procura europea – EPPO – e il suo effettivo avvio offrano un nuovo strumento fondamentale per il contrasto ai reati finanziari, alle frodi fiscali, alla corruzione e ad ogni uso illecito di finanziamenti europei, molto spesso veicolo di interessi delle mafie e della criminalità organizzata di varia natura.
Come ho già avuto occasione di osservare, la Procura europea rappresenta una innovazione lungimirante e necessaria nel momento in cui ingenti quantità di fondi europei stanno per essere messi in circolazione. “Follow the money”: l’ha insegnato a tutti Giovanni Falcone, il primo a comprendere già nel lontano 1991 la necessità di proteggere gli interessi finanziari dell’Europa. E l’istituzione della procura europea, con i suoi 22 procuratori delegati in Italia, è frutto della profetica intuizione del grande magistrato italiano, il cui sacrificio continua a dare frutti a trent’anni dalla strage di Capaci, che ricorderemo a maggio, seguita a luglio da quella di via D’Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino.
Sempre di matrice europea sono altri importanti interventi normativi, approvati per dare attuazione ad impegni assunti nell’ambito dell’Unione europea come:
- la normativa in materia di lotta al riciclaggio;
- quella sulla presunzione di innocenza;
- quella relativa all’ uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario (regolamentando così la costituzione on line delle società a responsabilità limitata e delle società a responsabilità limitata semplificate).
Dobbiamo, invece, ancora perfezionare il recepimento – ed è necessario farlo il prima possibile – della direttiva sul whistleblowing, prezioso strumento di contrasto alla corruzione, in parte già presente nel nostro sistema grazie agli interventi normativi varati nel 2012 e nel 2017.
Siamo inoltre intervenuti sulla disciplina dell’acquisizione dei tabulati telefonici a fini di indagine, in ossequio ai principi fissati dalla Corte di Giustizia dell’Unione.
Tra le altre importanti iniziative prese sulla scia degli stimoli provenienti dall’Europa, ricordo anche quello sulla magistratura onoraria, che attendeva una risposta da troppo tempo: con un intervento reso possibile grazie alla disponibilità e alla sensibilità del Governo che ha messo a disposizione le necessarie risorse e di tutte le forze politiche in Parlamento, con la legge di bilancio siamo riusciti ad avviare una stabilizzazione per migliaia di magistrati onorari, che per anni hanno prestato il loro servizio – essenziale per il buon funzionamento degli uffici giudiziari – in una condizione di totale assenza di tutele lavorative (malattia, maternità, ferie), più volte stigmatizzata dalle istituzioni europee.
Accanto alla trasformazione dello ‘straordinario’ in ‘strutturale’ e al fattore ‘Europa’, c’è poi una terza chiave di lettura che viene dall’esperienza di questi mesi: la centralità del fattore organizzativo.
Come ben sapete, la giustizia è stata interessata da alcune importanti riforme normative, che questo Parlamento ha approvato superando le non irrilevanti divergenze di vedute e di sensibilità e lasciando prevalere il senso di responsabilità verso il bene comune e il primario interesse del paese.
Ma ciò che mi preme sottolineare è che le riforme del processo civile e del processo penale che abbiamo approvato necessitano di poggiare saldamente su una imponente ristrutturazione dell’organizzazione del servizio giustizia, accompagnata dalla immissione di ingenti risorse umane e materiali. Organizzazione e
capitale umano sono la condizione di fattibilità delle riforme. Per questo prima di ripercorrere brevemente i principali capitoli delle riforme normative approvate nel corso di quest’anno, vorrei attirare la vostra attenzione sulla riorganizzazione del settore giustizia attualmente in corso.
4 Parte prima: risorse e organizzazione
4.1 L’ufficio per il processo
L’innovazione più rilevante, il «pivot» della nuova organizzazione della giustizia, è l’Ufficio per il processo, che porterà nei nostri uffici giudiziari migliaia di giovani giuristi in ausilio al lavoro dei magistrati.
Non serve che richiami in questa sede, quanto questo modello di organizzazione – anzi: questa diversa concezione del lavoro giudiziario – sia diffusa nel contesto internazionale; non soltanto nell’accezione più tradizionale, consolidata soprattutto nell’esperienza nordamericana e nelle giurisdizioni supreme, dell’assistente legato al giudice da uno stretto vincolo fiduciario; ma anche in quella che, sul modello francese, guarda proprio ad una diversa struttura organizzativa diffusa su tutti i livelli della giurisdizione.
Per il sistema italiano, la diffusione generalizzata dell’ufficio del processo, dopo anni di proficua sperimentazione in molti distretti di Corte d’Appello, comporta un vero e proprio cambio di paradigma, perché segna il passaggio dal lavoro individuale a quello di squadra.
Più volte in questi mesi nel dibattito pubblico si è stigmatizzata una visione “efficientistica” della giustizia. Mi preme rimarcare che il lavoro di squadra, se ben organizzato e ben condotto, non solo incrementa l’efficienza della giustizia, migliorandone i tempi, ma ne favorisce la qualità. Non c’è competizione, né tanto meno
contraddizione, tra efficienza e qualità della giustizia, ma reciproco sostegno nel quadro dell’Ufficio per il processo.
Il primo contingente di 8171 giuristi è già stato selezionato con i concorsi che hanno visto la partecipazione di circa 67.000 candidati e che si sono svolti lo scorso autunno – con il prezioso supporto del Dipartimento della Funzione Pubblica che ringrazio sentitamente. Così il 14 febbraio, 200 giovani giuristi entreranno in servizio in Cassazione ed il 21 febbraio altri 8000 circa prenderanno servizio in tutti gli uffici giudiziari d’Italia. È bene notare che si tratta di un importante potenziamento delle risorse umane: accanto a circa 9000 magistrati in servizio si troveranno ben 8.171 giuristi-assistenti. Un aiuto potenzialmente molto rilevante.
Nelle prossime settimane seguirà un altrettanto cospicuo contingente di tecnici (5.410), che dovrà supportare l’Ufficio per il processo nei suoi compiti di data entry, di rilevazione statistica e di analisi organizzativa, e altri compiti di supporto dell’azione gestionale dei vertici giudiziari e amministrativi degli uffici.
Stiamo lavorando con la Scuola superiore della magistratura e con la Scuola nazionale dell’amministrazione – che ringrazio per la collaborazione – per offrire un’adeguata formazione non solo al personale selezionato, ma anche ai vertici degli uffici giudiziari che sono chiamati a un enorme sforzo di riprogettazione delle proprie strutture, per poter destinare proficuamente le nuove risorse umane ai bisogni specifici di ogni tribunale, corte o sezione.
La stabilizzazione dell’Ufficio per il processo prevista dalle leggi di riforma del processo penale e di quello civile, con contingenti già muniti di copertura finanziaria, garantirà nel tempo la presenza di questa nuova struttura in tutte le articolazioni degli uffici giudiziari – dalle procure ai tribunali di sorveglianza, dai tribunali per i minorenni fino alla Corte di cassazione.
Dunque, questa grande innovazione andrà oltre l’orizzonte del PNRR ed è destinata a cambiare il volto organizzativo dei nostri uffici giudiziari.
4.2 Il Dipartimento per la transizione digitale e la statistica
All’Ufficio per il processo si affianca l’istituzione, quale misura generale di rafforzamento dell’organizzazione per la giustizia, di un nuovo Dipartimento del Ministero della Giustizia che si occuperà della transizione digitale e della statistica. Al Dipartimento saranno affidati, tra l’altro, la gestione dei processi e delle risorse connessi alle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della innovazione; la gestione della raccolta, organizzazione e analisi dei dati relativi a tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia; l’implementazione delle procedure di raccolta dei dati e della relativa elaborazione statistica e il monitoraggio dell’efficienza del servizio giustizia con particolare riferimento alle nuove iscrizioni, alle pendenze e ai tempi di definizione dei procedimenti negli uffici giudiziari.
Permettetemi qui di soffermarmi un istante sulla centralità di una corretta «cultura del dato» e della sua trasparenza, anche per il buon andamento dei servizi relativi alla giustizia.
Gli obiettivi della riduzione dei tempi dei processi non si conseguiranno d’un tratto. Ne siamo tutti consapevoli. Abbiamo posto le basi e avviato un processo virtuoso, ma il suo completamento richiederà tempo. Sarà un processo graduale, che dovrà essere accompagnato da una costante rilevazione dell’andamento dei tempi di ciascun ufficio giudiziario in modo da poter intervenire tempestivamente per rispondere con risorse più adeguate a esigenze emergenti, per rimuovere ostacoli imprevisti e per affrontare tanti problemi che, realisticamente, non mancheranno.
Per questo è indispensabile, anche nel settore della giustizia, sviluppare politiche pubbliche fondate sul dato e sulla sua trasparenza e costantemente verificate sulla base dell’esperienza statisticamente elaborata.
Partire dai dati è essenziale per scongiurare il rischio di interventi ad impronta emozionale, improvvisati e inadeguati ai bisogni e alla loro dimensione effettiva. Inoltre, misurare con regolarità e accuratezza i risultati dell’azione trasformatrice è necessario per predisporre tempestivi interventi correttivi e integrativi. In questa direzione vanno le continue sollecitazioni che arrivano dalla Commissione europea.
A questo scopo occorre assicurare una formazione specifica dei dirigenti degli uffici e predisporre misure di incentivazione delle scelte organizzative più efficaci.
Come abbiamo imparato in questi mesi, garantire una misurazione accurata degli impatti è il presupposto imprescindibile della fiducia delle istituzioni europee nella nostra capacità di uscire dalla crisi congiunturale e colmare quei vuoti strutturali della valutazione dell’andamento della giustizia che tanto scoraggiavano gli investitori.
Inoltre, è un dovere di trasparenza verso i cittadini comunicare in maniera chiara i dati che alimentano le decisioni pubbliche e il loro impatto qualitativo e quantitativo; è un dovere verso i cittadini e un impegno di democrazia, che nel tempo rinsalda la fiducia reciproca tra istituzioni e cittadinanza: la fiducia, un bene di cui c’è immenso bisogno.
Permettetemi di condividere una piccola esperienza degli scorsi mesi: in una riunione internazionale di investitori e operatori economici interessati alle riforme della giustizia in corso in Italia, mi è stata posta la seguente domanda:
«Quando potremo tornare ad investire in Italia, certi che i tempi della giustizia saranno davvero comparabili a quelli degli altri Paesi?». Queste domande sono
ineludibili e sono il sintomo di quanto gli osservatori internazionali siano attenti alle riforme nel nostro paese e a quella della giustizia in particolare, tanto che – tra gli altri – la tedesca Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung) – ha invitato gli investitori “a volgere lo sguardo verso l’Italia”. A domande come queste non possiamo offrire risposte evasive, generiche o, peggio, ingannevoli. L’unica risposta credibile, che in quella occasione mi sono sentita di dare, è questa: «Il tempo lo deciderete voi. Noi vi assicureremo di poter avere a disposizione tutti i dati e tutti gli elementi per fare le vostre valutazioni in piena trasparenza e accessibilità».
L’istituzione del nuovo Dipartimento presso il Ministero contribuirà a sviluppare questa «cultura del dato» con la possibilità di accedere direttamente alle stime di tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia, anche a quelli raccolti dagli uffici giudiziari, con il dovere di renderli accessibili, nel pieno rispetto, ovviamente, delle esigenze della riservatezza delle indagini e della tutela dei dati personali.
Il monitoraggio dei tempi dei processi è particolarmente sentito nel settore penale. Per questo la legge delega di riforma prevede la costituzione, già avvenuta a dicembre, di un Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, con il compito di effettuare una verifica periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione, nel rispetto dei canoni del giusto processo.
Questo comitato di monitoraggio ha al suo interno un’unità dedicata ai reati contro la pubblica amministrazione: da parte nostra, come delle istituzioni europee c’è una costante preoccupazione sulla piaga della corruzione, che richiede continua attenzione. Questo comitato di monitoraggio ha al suo interno un’unità dedicata ai reati contro la pubblica amministrazione: da parte nostra, come delle istituzioni europee c’è una costante preoccupazione sulla piaga della corruzione, che richiede continua attenzione, per la sua
capacità di «divorare le risorse pubbliche» e «minare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini», come ebbe a sottolineare il presidente della Repubblica.
4.3 La digitalizzazione
L’istituzione del nuovo Dipartimento rispecchia anche l’attenzione alla digitalizzazione, che non implica soltanto la semplice dematerializzazione degli atti cartacei in tutti i procedimenti civili e penali, ma consente un nuovo sistema di organizzazione delle forme processuali e potenzia gli strumenti di conoscenza a disposizione delle procure e dei giudici. La qualità della digitalizzazione, eventualmente coadiuvata da un equilibrato supporto di strumenti di intelligenza artificiale nel rispetto dei principi della Carta etica adottata dalla CEPEJ nel 2018, condiziona già oggi e condizionerà sempre di più la qualità della risposta dei servizi della giustizia, e la sua tempestività.
Menziono, tra i tanti interventi in corso, due esempi: il recentissimo avvio del nuovo applicativo “SIAMM Pinto digitale”: una piattaforma per le procedure di pagamento degli indennizzi dovuti per la violazione della ragionevole durata del processo.
E poi, nel quadro della spinta alla digitalizzazione del processo penale, voglio citare un progetto per risolvere il nodo dei cosiddetti «tempi del carrello», i tempi – a volte davvero troppo lunghi – di transito del procedimento da un grado all’altro del giudizio. Un tempo che in talune realtà si misura in termini di mesi, se non di anni. Un tempo solo sprecato, a danno di tutti. Ebbene, questo progetto, selezionato dalla Dg Reform della Commissione europea, punta a risolvere il problema dei «tempi di attraversamento del fascicolo» e potrà portare un grande beneficio proprio alla durata dei giudizi di appello, uno degli snodi più critici del sistema.
Per questo, il Ministero della Giustizia – avvalendosi anche della preziosa collaborazione del Ministro per l’innovazione tecnologica e la
transizione digitale e di tutto il suo staff – svolge una costante attività di ricerca e sviluppo finalizzata all’individuazione di sempre aggiornate tecnologie e infrastrutture applicate alla giustizia. Il compito è immane, anche perché l’accelerazione verso una necessaria modernizzazione degli strumenti convive con gli interventi indifferibili per la risoluzione dei problemi informatici quotidiani, dovuti anche alla obsolescenza e alla frammentazione di quelli già in essere.
Tutto questo per iniziare a scrivere una nuova pagina per la modernizzazione della giustizia, grazie all’interazione tra riforme normative, investimenti, e nuove forme di organizzazione. Una congiuntura senza precedenti, un’occasione che vogliamo cogliere in tutte le sue potenzialità.
4.4 Il metodo
Prima di passare a illustrare, brevemente, le riforme normative approvate nel corso dello scorso anno, permettetemi di concludere questa parte della mia esposizione dedicata agli interventi organizzativi con una notazione di metodo.
Sin dall’inizio del mio mandato ho cercato di assicurare che il Ministero della giustizia operasse in sinergia con tutti gli attori del sistema giustizia: CSM, Scuola superiore della magistratura, singoli uffici giudiziari, avvocatura, università.
La collaborazione istituzionale è un principio costituzionale e una buona regola da seguire per il regolare funzionamento di ogni ramo dell’amministrazione. Ma nell’ambito dell’amministrazione della giustizia è una esigenza imperativa, in considerazione del fatto che i principi di indipendenza e di autonomia del potere giudiziario e dei singoli magistrati accentuano la necessità di coltivare il coinvolgimento e il coordinamento fra tutti i protagonisti.
Più volte ho avuto modo di sottolineare come il raggiungimento dei target concordati con la Commissione europea per l’abbattimento dell’arretrato e la riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti non può prescindere da un’azione responsabile e coordinata di tutti i soggetti coinvolti. Per questo negli scorsi mesi ho iniziato a visitare personalmente gli uffici giudiziari, per conoscere, discutere e raccogliere dal territorio le indicazioni dei principali problemi e approntare soluzioni condivise, per garantire al meglio l’impostazione e l’avvio dell’Ufficio per il processo e l’orientamento delle strutture rispetto agli obiettivi del PNRR.
Nella stessa prospettiva, un ruolo fondamentale è stato svolto dal Comitato paritetico nel quale si sono incontrati e s’incontrano con cadenza settimanale rappresentanti del Ministero della giustizia e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nella stessa ottica, merita una segnalazione il Protocollo tra Ministero-CSM-Scuola Superiore della Magistratura sulla formazione dei dirigenti degli uffici giudiziari.
Una relazione virtuosa si sta sviluppando con l’università: a titolo esemplificativo ricordo, nell’ambito del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020, il finanziamento per oltre 51 milioni di euro di
6 macro-progetti proposti da 57 atenei statali, dislocati in tutto il territorio nazionale, per la diffusione dell’Ufficio per il processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato.
5 Parte seconda: Le riforme
Mi soffermo ora, per sommi capi, sui tratti salienti delle importanti riforme normative approvate dal Parlamento negli scorsi mesi. Queste riforme si innestano, come abbiamo visto, sulle solide e concrete fondamenta della ristrutturazione straordinaria della macchina amministrativa della giustizia, in vista del primario obiettivo della riduzione dei tempi dei processi e dell’arretrato. Conosco bene quanta fatica e quanta disponibilità è stata chiesta a tutte le forze politiche per trovare un terreno su cui convergere. Queste riforme sono figlie del contesto straordinario in cui sono nate: di un Governo sostenuto da una maggioranza amplissima, di “unità nazionale”, con sensibilità al suo interno molto distanti sulla giustizia. Ma è sempre stata sorretta dalla comune responsabilità per l’interesse del Paese. E questo ha sostenuto il cammino – a tratti complesso – delle riforme, nella ricerca si un’equilibrata sintesi. E di questo ringrazio davvero tutte le forze politiche.
5.1 Penale
Un momento di centrale importanza nel percorso di riforma della giustizia è stato indubbiamente rappresentato dall’approvazione della legge di riforma del processo penale (l. 27 settembre 2021, n. 134). La legge approvata dal Parlamento intende coniugare obiettivi di maggiore efficienza del sistema con il rispetto delle fondamentali garanzie e principi costituzionali in materia penale.
L’impianto della riforma poggia su due pilastri.
Da un lato incide sulle norme del processo penale, operando sulle varie fasi – dalle indagini fino al giudizio in Cassazione – allo scopo di creare meccanismi capaci di sbloccare possibili momenti di stasi, di incentivare i riti alternativi, di far arrivare a processo solo i casi meritevoli dell’attenzione del giudice.
D’altro lato, la riforma prevede interventi sul sistema penale – dalla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione
del procedimento con messa alla prova dell’imputato, all’estinzione delle contravvenzioni per condotte riparatorie, alla procedibilità a querela, alla pena pecuniaria e alle pene sostitutive delle pene detentive brevi – capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale.
Questa parte della riforma è il prodotto di una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale, che si orienta verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato, per radicare, invece, l’idea diversa e costituzionalmente orientata che la “certezza della pena” non è la “certezza del carcere”. È in questa prospettiva che va quindi colta la valorizzazione laddove possibile – delle pene alternative alla reclusione, che – come ormai ampiamente dimostrato – portano ad una drastica riduzione della recidiva. Ne beneficiano i singoli, ne beneficia la società.
Peraltro, la riforma della giustizia penale non si preoccupa solo dell’efficienza del sistema, ma anche della sua effettività, altrettanto importante nell’azione di prevenzione e contrasto di ogni forma di criminalità. Uno dei fattori di ineffettività del sistema è da sempre rappresentato dalla prescrizione del reato, specie quando interviene a processo in corso ed è determinata dalla lentezza del processo stesso. Come ben sapete, è stata confermata dal Parlamento la regola che, con la riforma del 2019, ha previsto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Con la riforma del 2021, sono stati apportati alcuni correttivi a garanzia dell’imputato, introducendo, nei giudizi di impugnazione, il nuovo istituto della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi. Un ponderato meccanismo che prevede proroghe dei termini, sospensione degli stessi, esclusione di alcuni reati e un regime transitorio che assicura una graduale entrata in vigore, in modo da consentire agli uffici giudiziari di organizzarsi adeguatamente e di avere a disposizione tutte le risorse umane, materiali e tecnologiche di cui abbiamo parlato sopra, per
arrivare all’obiettivo di portare tutti i processi a sentenza definitiva, con l’accertamento delle responsabilità e il ristoro delle vittime, ma nel rispetto di tempi ragionevoli.
Sono i dati e le statistiche che fotografano la situazione attuale – con 22 Corti d’Appello che sono già nei tempi della legge Pinto o leggermente al di sopra – insieme ai forti investimenti e alla ristrutturazione organizzativa in corso a permetterci di dire che questo obiettivo è realistico.
In ogni caso, il monitoraggio statistico dell’andamento dei tempi nei singoli uffici giudiziari consentirà di intervenire tempestivamente, per assicurare le risorse e l’assistenza necessarie nei luoghi dove si ravvisassero motivi di criticità lungo il percorso. Il Ministero è al servizio degli uffici giudiziari: lo è sempre e lo è ancor di più per un rinnovamento così importante, reso possibile dall’eccezionalità di questo momento storico.
In materia di giustizia penale, tra le riforme ancora da attuare non possiamo dimenticare quella sul 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, che so essere di prossima discussione in Commissione giustizia alla Camera: a maggio scadranno infatti i 12 mesi di tempo dati dalla Corte costituzionale al Parlamento per intervenire sulla materia, nel rispetto dei principi costituzionali e salvaguardando le specificità e le esigenze del contrasto soprattutto alla mafia e alla criminalità organizzata in generale.
Non posso concludere questa parte sulla giustizia penale senza un cenno al fatto che uno dei fili rossi che legano le trame della riforma è quello della riparazione dell’offesa e dell’attenzione alle vittime. Si spiega così il grande – e il più innovativo – capitolo della riforma, dedicato alla giustizia riparativa. La giustizia riparativa è già una realtà nel nostro paese, e si è sviluppata in via sperimentale almeno da quando – nel 2015 – è stato istituito il Dipartimento per la giustizia
minorile e di comunità. Si è ispirata ai principi internazionali e alle buone prassi già disponibili in altri paesi.
La legge delega n. 134/2021 prevede l’ingresso della giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento, oltre che nella fase della esecuzione penale, e consentirà di implementare una disciplina organica, individuando modelli uniformi sul territorio nazionale, e una formazione adeguata di tutti gli operatori.
Ma sull’importanza strategica di questo capitolo tornerò in conclusione.
5.2 Civile
Anche la riforma del processo civile – ora legge delega n. 206 del 2021 – punta a fornire risposte più celeri alle esigenze quotidiane dei cittadini e delle imprese, intervenendo su un doppio binario: da un lato, valorizzando e perfezionando gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie – i cosiddetti ADR – al fine di deflazionare il carico dei tribunali favorendo soluzioni consensuali dei conflitti; dall’altro, agisce sulle procedure, con interventi mirati e circoscritti, nell’ottica della semplificazione e della riduzione dei tempi “morti”.
Riduzione della domanda, razionalizzazione della risposta.
Il primo pilastro della riforma è, dunque la valorizzazione delle forme alternative di giustizia già sperimentate.
In primo luogo, la riforma mira a potenziare la formazione dei mediatori, in modo da valorizzare la loro professionalità e, dunque, la loro autorevolezza.
Inoltre, viene incentivata la mediazione demandata dal giudice che, nella pratica, è quella che ha avuto maggiori possibilità di successo.
Infine, insieme ad adeguati incentivi fiscali per il ricorso alle ADR, si prevede – con una norma che non esiterei a definire “di civiltà” – il beneficio del patrocinio a spese dello Stato anche per la mediazione e la negoziazione assistita, sì da consentire un più agevole ricorso a tali strumenti extragiudiziari anche a soggetti in precarie condizioni economiche.
Il secondo pilastro della riforma è una puntuale serie di modifiche al giudizio ordinario di cognizione, senza scalfire alcuna garanzia.
La riforma mira a realizzare una maggiore concentrazione delle attività processuali nell’ambito della prima udienza di comparizione delle parti e di trattazione della causa. Questo è stato un aspetto a lungo discusso e più volte ridisegnato, per giungere a un equilibrato contemperamento delle esigenze di efficienza del processo ed effettività dei diritti di difesa delle parti.
Il sistema attuale andava corretto in quanto svilisce la funzione della prima udienza e disincentiva l’attenta preparazione dei fascicoli sia per le parti sia per il giudice.
Sotto altro profilo, sono stati introdotti dei meccanismi di filtro, sia per il giudizio di primo grado sia per quello di appello, che consentiranno di definire immediatamente le cause che risultino fondate ovvero manifestamente infondate.
Tra le innovazioni introdotte dalla riforma sottolineo, per importanza, un istituto del tutto nuovo per l’ordinamento italiano, denominato «rinvio pregiudiziale in Cassazione» e ispirato ad esperienze di successo come quella francese o quella della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Attraverso questo meccanismo, si offre al giudice del merito la possibilità di sospendere il giudizio per richiedere alla Corte di cassazione un chiarimento interpretativo su un punto controverso di diritto. Oggi la Cassazione interviene solo alla fine e i suoi interventi interpretativi – nomofilattici, come diciamo in gergo giuridico – possono provocare la necessità di ripetere i processi basati su un diverso orientamento, con grande dispendio di tempo e di energie. L’istituto del rinvio pregiudiziale valorizza invece il ruolo “nomofilattico” della Corte di cassazione, facilita l’uniformità dell’interpretazione giuridica e quindi la certezza del diritto, con un importante effetto deflattivo. Attivando precocemente il rinvio pregiudiziale, si previene infatti la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali.
5.3 Riforma insolvenza
All’attuale emergenza provocata dalla pandemia è legato un altro intervento normativo che si è reso indispensabile: la riforma delle norme sull’«insolvenza» delle imprese.
L’obiettivo è quello di offrire nuovi e più efficaci strumenti agli imprenditori per sanare quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l’esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili.
La conservazione dell’impresa – intesa come valore produttivo e, dunque, come centro che crea non solo utili, ma anche posti di lavoro e ricchezza per il Paese – è stata l’elemento ispiratore del decreto legge 24 agosto 2021, n. 118 che ha operato su due direttrici: l’introduzione di un nuovo strumento di ausilio alle imprese in difficoltà, di tipo negoziale e stragiudiziale, e la modifica della legge fallimentare con l’anticipazione di alcune disposizioni del codice della crisi ritenute utili ad affrontare la crisi economica in atto.
Il cuore della nuova normativa dell’insolvency è la «composizione negoziata della crisi». Si tratta di un percorso volontario, attraverso il quale l’imprenditore, lontano dalle aule giudiziarie, in assoluta riservatezza, si rivolge a un esperto, terzo e imparziale.
L’esperto è una nuova figura professionale, in grado, di favorire le trattative, di aiutare l’imprenditore di ogni dimensione a superare la crisi e di assicurare la continuità dell’impresa, a beneficio di tutti: dello stesso imprenditore, dei suoi creditori, come dei lavoratori.
Sotto altro profilo, sono stati introdotti sistemi di allerta, sia interni sia esterni all’azienda, demandati a creditori pubblici qualificati, affinché l’imprenditore in crisi possa per tempo avvalersi di questo strumento.
Questo processo riformatore troverà conclusione nel corso del 2022, con l’entrata in vigore del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza,
opportunamente modificato attraverso il completo recepimento della direttiva UE 1023/2019 sulle ristrutturazioni.
In prospettiva. occorrerà modificare il sistema dei reati fallimentari, a cui sta già lavorando una Commissione di esperti insediata presso il Ministero.
5.4 Minorile-famiglia
Troppi i casi di violenza sulle donne, troppi i femminicidi, troppe le violenze sui bambini, troppi i drammi che originano in ambito domestico di cui abbiamo notizia quotidianamente. “Una vera barbarie”, ha giustamente detto qualcuno di voi.
Il contenzioso nell’ambito delle relazioni familiari sta crescendo e si fa sempre più complesso: cause di separazione si intrecciano a denunce di violenza domestica, specie nei confronti delle donne, o ad azioni del giudice a protezione dei minori. Troppo spesso un insufficiente coordinamento tra le autorità procedenti – tribunale per i minorenni, tribunale ordinario civile, giudice penale, giudice tutelare – rende inefficace l’intervento di tutti. E riduce la possibilità di intuire e prevenire conseguenze anche fatali. Di qui l’esigenza di intervenire con una profonda riforma delle procedure e dell’organizzazione giudiziaria, innanzitutto per incrementare le garanzie processuali dei soggetti fragili e allo stesso per tutelare l’operato dei giudici minorili, su cui troppo spesso sono ricadute le carenze complessive del sistema.
Senza entrare nei vari aspetti di questo importante capitolo della riforma, sia sufficiente qui ricordare che nella legge delega 206 del 2021 è stato disegnato un rito unificato, al posto di una molteplicità di procedimenti tra loro eterogenei, spesso causa di incertezze, e sono state meglio precisate le necessarie forme di coordinamento tra autorità giudiziarie, con un’attenzione speciale per i casi sospetti di violenza domestica. L’impegno collettivo contro la violenza di genere va sviluppato in tutte le strade possibili ed è sempre e soprattutto impegno a prevenire i reati: in questo senso deve essere ricordato il disegno di legge
recentemente approvato dal Consiglio dei ministri volto a rafforzare gli strumenti di prevenzione, a completamento di quelli già previsti nel Codice Rosso.
Tornando al diritto di famiglia e dei minori, si aggiunga che con una delega di più ampio respiro – da attuarsi entro il 31 dicembre del 2024 – si è prevista la fondamentale innovazione dell’istituzione di un unico organo giudiziario, il «Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie», articolato in Sezioni circondariali e in Sezioni distrettuali, che andrà ad accorpare tutte le competenze oggi ripartite tra Tribunali ordinari (ivi compresi i Giudici tutelari) e Tribunali per i minorenni, facendo tesoro della grande esperienza dei giudici minorili e valorizzandone ancor di più la specializzazione in un nuovo e più razionale contesto ordinamentale. In sintesi, si tratta di una riforma che, eliminando ripetizioni, sovrapposizioni, discrasie nell’azione delle varie autorità giudiziarie oggi competenti, riduce il contenzioso e incrementa le tutele per minorenni e famiglie, nelle sue varie accezioni.
5.5 Le riforme in fase di elaborazione
Delega penale, delega civile, minori e diritto di famiglia, insolvenza: sul piano delle riforme tanto lavoro è stato fatto; molto altro lavoro ci attende.
Le più importanti riforme normative sono state approvate in forma di legge delega e dunque richiedono di essere attuate attraverso l’adozione dei decreti legislativi delegati, entro la fine del 2022. Questo stabiliscono gli impegni del PNRR. Tuttavia, conto di poter sottoporre alle Camere gli schemi dei decreti legislativi di attuazione, per i pareri necessari, molto prima della scadenza. Cinque gruppi per il penale e sette per il civile sono già alacremente al lavoro per la loro elaborazione e redazione.
Sappiamo bene che all’appello manca ancora un altro fondamentale e atteso capitolo: la riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM, che il Presidente della Repubblica e alcune forze politiche hanno ancora di recente sollecitato. Il disegno di legge delega è già
incardinato alla Camera su iniziativa del precedente Governo, e – come abbiamo fatto per tutte le altre riforme – intendiamo presentare emendamenti governativi. Nel corso dell’autunno, dopo l’approvazione della delega penale e quella della delega civile, abbiamo avuto più occasioni di confronto con i responsabili giustizia delle varie forze politiche – e abbiamo avuto più interlocuzioni con ANM, CSM e avvocatura – per addivenire a proposte di emendamenti da presentare alla Camera, che sono oggi all’attenzione del Governo.
Gli emendamenti intervengono su vari aspetti del disegno di legge all’esame della Camera e riguardano, tra l’altro: il sistema elettorale, la composizione e il funzionamento del CSM; il conferimento degli incarichi direttivi, le valutazioni di professionalità, il collocamento fuori ruolo, il concorso per l’accesso in magistratura e il rapporto tra magistrato e cariche elettive.
Sono certa che nelle prossime settimane potremo progredire nella scrittura anche di questo atteso capitolo di riforma, che il PNRR ci impegna ad approvare entro il 2022. La Camera ha già calendarizzato la discussione in aula e quella scadenza dovrà essere rispettata. Per parte mia continuerò, come ho fatto nei mesi scorsi e come ben sanno tutti coloro con cui ho avuto interlocuzioni sul tema, a dare la mia massima disponibilità per accelerare il corso di questa riforma e per sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi del Governo.
Entro il 2022 dovremo portare a termine anche la riforma della giustizia tributaria, a cui stiamo lavorando insieme al Mef.
6 Parte terza: ordinamento penitenziario e attività internazionale
6.1 Penitenziario
Quanto al carcere, come ho avuto già modo di osservare, la pandemia ha fatto da detonatore di questioni irrisolte da lungo tempo. Questi anni sono stati durissimi. Le tensioni, le paure, le incertezze, l’isolamento che tutti abbiamo sperimentato erano e sono amplificati dentro le mura del carcere. Per tutti: per chi lavora in carcere e per chi in carcere sconta la sua pena.
Se vogliamo farci carico fino in fondo dei mali del carcere – in primo luogo perché non si ripetano mai più episodi di violenza, ma più ampiamente perché la pena possa davvero conseguire la sua finalità, come prevista dalla Costituzione – occorre concepire e realizzare una strategia che operi su più livelli: gli improcrastinabili investimenti sulle strutture penitenziarie, un’accelerazione delle assunzioni del personale, una più ricca offerta formativa per il personale in servizio e la diffusione dell’uso delle tecnologie, tanto per le esigenze della sicurezza, quanto per quelle del “trattamento” dei detenuti.
7 Osservazioni conclusive
Permettetemi di concludere con qualche osservazione proprio su questo capitolo della giustizia riparativa che di certo è il più innovativo per il nostro sistema.
La giustizia riparativa non è uno “strumento di clemenza”.
Né tanto meno esprime un “pensiero debole” in materia penale.
Al contrario: è uno strumento molto esigente che chiede al trasgressore di assumersi tutta la sua responsabilità di fronte alla vittima e di fronte alla comunità, attraverso incontri liberamente concordati, con l’aiuto di un terzo che favorisce il riconoscimento della verità dell’accaduto.
Permettetemi di rubarvi ancora un minuto per un piccolo esempio che ha riguardato la comunità di Sarno, cittadina del salernitano, che ha vissuto un importante percorso di giustizia riparativa, che voglio citare tra i tanti già esistenti. L’incendio del bosco vicino alla cittadina aveva messo in grave pericolo gli abitanti. Rabbia e paura hanno attraversato la comunità alla scoperta che all’origine del rogo c’era un gesto sconsiderato di un loro concittadino. Uno dei gravi e numerosi incendi dolosi che ogni estate depauperano il nostro territorio
e mettono in pericolo la popolazione. Il colpevole ha scontato la sua pena, ma all’uscita dal carcere come tornare in quella comunità? Un percorso di mediazione ha portato l’autore del reato e la sua famiglia prima ad incontrare l’amministrazione comunale, poi l’intera collettività. Incontri in cui gli abitanti hanno raccontato il loro vissuto, ma hanno anche ascoltato le scuse, cariche di vergogna, di chi aveva provocato quel drammatico evento. Quell’uomo ha contribuito a ricostruire il bosco distrutto e con questo gesto ha impresso un nuovo corso alla sua vita, riaccolto nella sua comunità.
Con la giustizia riparativa l’ordinamento si apre alla possibilità di un sistema giudiziario in grado di domare la rabbia della violenza e di ricostruire legami civici tra i cittadini. E più in generale, la giustizia riparativa contribuisce a coltivare una cultura della ricomposizione dei conflitti, della ricostruzione dei legami feriti, della ricerca dei punti di possibile reciproca comprensione, sulla scorta di esperienze straordinarie che la storia ci ha consegnato – come quella della Commissione verità e riconciliazione di Nelson Mandela e Desmond Tutu che ha posto fine all’era dell’Apartheid in sud-Africa – e sulla scorta delle numerose feconde sperimentazioni che il nostro Paese già conosce.
Questa è la concezione della giustizia che mi sta a cuore e che ritroverete in filigrana in tutti gli interventi di riforma che qui ho in sintesi ripercorso. Una giustizia che ricuce e ripara; che non si nutre di odio, che non cede alla reazione vendicativa, ma che vive innanzitutto di ricerca di verità.
Questa è la giustizia su cui sono stata chiamata a riflettere proprio nel luogo della massima ingiustizia che la nostra storia abbia conosciuto, quel binario 21 della stazione centrale di Milano da cui partivano i treni per Auschwitz.
In una delle giornate più intense vissute da Ministro, sono stata invitata dalla senatrice a vita, Liliana Segre, e da lei accompagnata fino a quei vagoni da cui bambina partì, insieme al padre e a migliaia di altri ebrei, verso “l’ignota destinazione” del campo di concentramento. Quelle atrocità di cui oggi tutto il mondo si vergogna – e che tra qualche giorno ricorderemo nel giorno internazionale della memoria – sono state alimentate dall’indifferenza, dalle piccole e grandi discriminazioni, dai discorsi d’odio, dall’idea dell’altro come nemico.
Coltivare una idea della giustizia che sappia ricomporre i conflitti e preservare i legami personali e sociali, che sappia unire più che dividere; che tuteli i più fragili e tenda sempre all’interesse comune è quello che ho inteso perseguire in quest’anno (quasi) di servizio al Ministero della Giustizia. Nella convinzione che questa è la più grande urgenza del nostro tempo e che questo è lo spirito che ci trasmette la nostra Costituzione.
Il primo e più grave tra tutti i problemi continua ad essere il sovraffollamento: ad oggi su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114%. È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assi più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero.
Con l’attuazione della legge delega in materia penale si svilupperanno le forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi. E questo darà sollievo anche alle troppo congestionate strutture penitenziarie. Può essere interessante sottolineare che già oggi sono più numerosi coloro che scontano la pena – in vario modo – fuori da un carcere: oltre 69mila a fronte di circa 54mila detenuti. Queste 69.140 persone per l’esattezza al 31 dicembre 2021 sono in carico agli uffici della esecuzione penale esterna, UEPE; aggiungendo i procedimenti tuttora pendenti, diventano oltre 93mila i fascicoli in corso presso questi uffici, con una media di procedimenti per funzionario pari a 105 Si compone infatti di solo 1.211 unità il personale per l’esecuzione penale esterna per adulti
È evidente la necessità di potenziare questo settore e le forze politiche hanno avuto la sensibilità di sottolinearlo in un ordine del giorno, approvato a margine della legge di bilancio, impegnando il Governo ad incrementare il personale dedicato all’esecuzione penale esterna.
Naturalmente occorre fare molto anche per le strutture edilizie.
Alcune non sono degne del nostro Paese e della nostra storia. Venerdì scorso, sono stata al carcere di Sollicciano a Firenze e ho potuto vedere di persona le condizioni indecorose di questo, come di altri istituti, nonostante la manutenzione straordinaria in atto. Indecoroso e avvilente per tutti. E non a caso, sono tantissimi gli episodi di autolesionismo, mentre questo 2022 registra già drammaticamente cinque suicidi. Vivere in un ambiente degradato di sicuro non aiuta i detenuti nel delicato percorso di risocializzazione e di certo rende più gravoso il già impegnativo lavoro di chi ogni mattina varca i cancelli del carcere per svolgere il suo lavoro.
Il tema degli spazi richiede anzitutto interventi finalizzati a garantire le essenziali condizioni di decoro e igiene, ma implica anche un ripensamento dei luoghi, in modo che essi non siano solo “contenitori stipati di uomini”, ma ambienti densi di proposte. Attività, cultura, e soprattutto lavoro. Solo così si assolve appieno al valore costituzionale della pena, che non può essere un tempo solo di attesa (del fine pena), ma di ricostruzione. E in questa prospettiva – mi piace ricordare – si sono mossi i lavori della Commissione sull’architettura
penitenziaria che al mio arrivo al Ministero stava terminando il suo compito, con fecondi suggerimenti.
In quest’ottica, nell’ambito dei fondi complementari al PNRR, è stata prevista la realizzazione di otto nuovi padiglioni. Si tratta di ampliamenti di istituti già esistenti, che riguardano tanto i posti disponibili – le camere – quanto gli spazi trattamentali: questo è un aspetto su cui abbiamo corretto precedenti progetti. Nuove carceri, nuovi spazi, non può significare solo nuovi posti letto.
Oltre alle risorse del PNRR, per il triennio 2021-2023, abbiamo anche previsto circa 381 milioni per le indispensabili ristrutturazioni e l’ampliamento degli spazi.
Da mesi, mi sto adoperando molto – insieme al Ministro della Salute e al Ministro per gli affari regionali e agli altri attori istituzionali – anche sull’urgente tema della salute mentale in carcere. È un dramma enorme, ma mi fa piacere segnalare che è in costante calo il numero dei detenuti in attesa di entrare nelle REMS: erano 98 nell’ottobre 2020, divenuti 35 nella stessa data del 2021.
Carenze di spazi, carenze di personale. Insieme al DAP, stiamo da tempo lavorando anche per invertire la tendenza alla grave diminuzione del personale che si è verificata nel corso degli anni. Siamo riusciti a far ripartire i concorsi, che si erano arrestati per le limitazioni dovute all’emergenza pandemica e che, proprio in queste settimane, si stanno perfezionando.
A breve prenderanno servizio complessivamente 1.650 allievi agenti; altri 1.479 arriveranno dal concorso bandito lo scorso ottobre e si prevede di bandirne un altro per circa 2.000 posti quest’anno. E rimando alla relazione depositata, per un quadro completo delle cifre che riguardano tutte le figure professionali.
Occorre anche investire di più nella formazione, per tutto il personale e, in particolare, per quello della Polizia penitenziaria. Sono gli stessi agenti a chiederlo, come giustamente mi ripetono in continuazione i sindacati.
La Polizia penitenziaria svolge un compito complesso e delicatissimo, ancora troppo poco conosciuto. Oltre all’esercizio della tradizionale funzione della vigilanza e della custodia, la Polizia penitenziaria è quotidianamente accanto al detenuto nel percorso rieducativo, come vuole la nostra Costituzione. Vigilare e accompagnare. Occorrono fermezza e sensibilità umana e, soprattutto, altissima professionalità per svolgere un compito tanto affascinante quanto difficile. Il lavoro in carcere non può essere lasciato all’improvvisazione o alle doti personali.
In questi mesi, ho raccolto molte testimonianze che raccontano quanto sia stata decisiva la presenza di un agente per segnare una svolta nella vita di un detenuto: basterebbe leggere la storia di un ragazzo della periferia milanese raccontata nel libro Ero un bullo, un giovane che, a partire da un passato criminale, tra carcere minorile e rieducazione in comunità, è arrivato a laurearsi e a diventare educatore in quella stessa comunità che lo aveva ospitato e accompagnato. Una pagina importante di quella storia è stata scritta dall’agente di polizia penitenziaria che lo faceva lavorare. Una storia di speranza – e, credetemi, non è l’unica! Una storia che ci dice che i nostri costituenti non erano dei sognatori.
Lo scorso 17 dicembre, la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, da me istituita per proporre soluzioni che possano contribuire a migliorare la qualità della vita nell’esecuzione penale, ha concluso i suoi lavori e rassegnato molte proposte per il miglioramento concreto della “quotidianità penitenziaria”, con un focus particolare sulla gestione della sicurezza, sull’impiego delle tecnologie, sulla tutela della salute, sul lavoro e sulla formazione professionale dei detenuti, e sulla formazione del personale.
Grandi potenzialità ci sono offerte dalle nuove tecnologie: video sorveglianza, bodycam, sistemi anti-droni, già esistenti in alcuni istituti, colloqui a distanza, lezioni e conferenze online, ma anche totem per segnalare esigenze dei detenuti, archiviando la famosa “domandina”, simbolo di una vetusta concezione del carcere. E così anche nuove forme per le prenotazioni dei colloqui dei familiari e soprattutto telemedicina e fascicolo sanitario elettronico: grazie alla disponibilità del Ministro per la transizione tecnologica si stanno progettando molti interventi che possono anche diventare altrettante occasioni di lavoro per i detenuti.
6.2 L’attività internazionale
In questi mesi, molto abbiamo lavorato anche sulla, invero poco conosciuta, dimensione internazionale e sovranazionale dell’attività del Ministero della giustizia, fondamentale per far crescere e consolidare gli standard di tutela dei diritti fondamentali e nel contempo coltivare una cooperazione giudiziaria internazionale rafforzata, indispensabile strumento contro gravi fenomeni criminali di dimensione transnazionale.
In questa cornice internazionale, vorrei richiamare la collaborazione con l’UNODC per i lavori di pubblica utilità dei detenuti in Messico e altri Paesi del centro America.
Vorrei ricordare anche gli accordi bilaterali sottoscritti con alcuni Stati – come l’Albania – per permettere ai detenuti, laddove ci siano le condizioni, di scontare la pena nel loro Paese di origine.
Mi preme qui ricordare la decisione del governo francese di dare il via libera – dopo anni di attesa – all’iter di estradizione per sette persone condannate in via definitiva per gravissimi reati commessi negli anni di
piombo, che avevano trovato rifugio Oltralpe. La Francia ha così per la prima volta accolto le richieste dell’Italia e rimosso ogni ostacolo al giusto corso della giustizia su fatti che rappresentano una ferita profonda nella storia della Repubblica. In quell’occasione, ebbi modo di rivolgere un pensiero, che oggi voglio rinnovare, a tutte le vittime degli anni di piombo e ai loro familiari “rimasti per così tanti anni in attesa di risposte”.
Nel quadro degli intensi rapporti con gli Stati Uniti, si inseriscono poi i più recenti sforzi per trovare una soluzione adeguata al caso del nostro connazionale Enrico Forti, culminati con una missione a Washington nel corso della quale ho fornito all’Attorney General i chiarimenti richiesti sul rispetto da parte italiana della Convenzione di Strasburgo del 1983. Ho potuto così reiterare di persona, nella scia di quanto già fatto dal precedente governo, la richiesta di poter trasferire il nostro concittadino in Italia per l’esecuzione della pena vicino all’anziana madre a cui ho raccontato personalmente gli sviluppi della missione.
Naturalmente ci stiamo adoperando per assicurare alle nostre autorità giudiziarie ogni supporto perché possa svolgersi il processo sul caso Regeni.
Un legame ventennale – in particolar modo con la provincia di Herat – ha portato poi anche il Ministero della Giustizia ad intervenire, accanto agli altri Dicasteri competenti, nell’ambito della crisi afghana. Non potevamo e non volevamo dimenticarci soprattutto di quei magistrati e avvocati che così tanto avevano collaborato con le autorità italiane, durante la nostra presenza in Afghanistan. E ci siamo adoperati per far avere protezione internazionale a figure particolarmente a rischio, con l’avvento del nuovo regime.
Tra queste, l’ex Procuratore generale della Provincia di Herat, Mareya Bashir: una figura di primo piano nella difesa dei diritti delle donne e nella costruzione di uno stato di diritto nella sua terra, in collaborazione con il nostro paese. A lei il Presidente della Repubblica ha conferito la cittadinanza italiana per meriti speciali.
L’impegno del Ministero della Giustizia a favore del popolo afghano continuerà con iniziative di monitoraggio del rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto e con azioni intese a rafforzare la lotta al traffico di stupefacenti, congiuntamente ai partner europei, in seno al Consiglio d’Europa e in ambito ONU.
Nel quadro delle iniziative assunte a livello sovranazionale vorrei ricordare la Conferenza del Ministri della giustizia dei Paesi membri del Consiglio d’Europa su Criminalità e giustizia penale. Il ruolo della giustizia riparativa in Europa, che si è tenuta il 13 e 14 dicembre scorsi a Venezia, nella splendida cornice della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista.
La Conferenza è stata il primo evento di livello ministeriale della presidenza italiana del Consiglio d’Europa e vi hanno preso parte, insieme al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, 40 delegazioni.
Questa importante iniziativa ha portato alla approvazione di una Dichiarazione comune – la Dichiarazione di Venezia sulla giustizia riparativa – che nei giorni scorsi è stata adottata dai massimi organi del Consiglio d’Europa.
Con la Dichiarazione di Venezia, tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa si sono impegnati a sviluppare un nuovo paradigma della giustizia penale, complementare a quella tradizionale, che muove dall’esigenza di coinvolgere attivamente, in percorsi guidati da mediatori professionisti, il reo e la vittima, ma anche la comunità di riferimento, con l’obiettivo fondamentale di riparare e restaurare i legami sociali lacerati dal reato, di responsabilizzare l’autore dell’offesa, ma anche quello di porre le basi per una futura e più consapevole ripresa delle relazioni nei contesti di appartenenza.
Le ricadute sono tangibili, ben chiare e ben documentate dagli studi internazionali svolti sul campo: riduzione della recidiva, alleggerimento dei procedimenti penali, nuova centralità per la vittima lasciata troppo spesso solo sullo sfondo dei procedimenti giudiziari. E troppo spesso sola con il suo dolore.
Pensare la fiducia nel diritto. Intorno a “Le legge della fiducia. Alle radici del diritto” di Tommaso Greco (Laterza, 2021)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. «Là dove abbonda la sfiducia, sovrabbonda il diritto». O no? – 2. Goodbye, Kelsen! – 3. Non sanzione, ma fiducia. Il diritto come creatore di aspettative. – 3.1. (Segue). Doveri senza sanzioni? – 4. L’esperienza della fiducia: filosofia, economia. – 5. Fratelli tutti. - 6. Conclusioni.
1. «Là dove abbonda la sfiducia, sovrabbonda il diritto». O no?
Apparentemente (l’avverbio – lo si vedrà subito – è importante), e secondo il senso comune, diritto e fiducia sono termini antitetici. O l’uno, o l’altra. Apparentemente, c’è bisogno di diritto laddove fiducia non c’è, e viceversa. Esistono le complesse regole del diritto contrattuale, le forme scritte, le firme autenticate, le date certe, i notai, perché non ci basta con-fidare nell’altrui spontaneo adempimento: non ci si fida della semplice promessa. Esiste il diritto penale, con il suo apparato sanzionatorio, perché non ci basta sperare nell’altrui buona condotta: non ci si fida che l’altro terrà il comportamento sperato spontaneamente. Di converso, le relazioni più autentiche e genuine sono quelle meno giurisdizionalizzate o quelle che si situano direttamente fuori dalle mura del diritto. Non abbiamo bisogno di regole giuridiche quando c’è in gioco l’amicizia o l’amore. Una ben nota espressione definiva tradizionalmente la famiglia «un’isola che il mare del diritto può solo lambire»[1]. Non chiediamo, normalmente, firme, garanzie, caparre, testimoni, etc. quando interagiamo con i nostri cari, con i nostri affetti; semplicemente con-fidiamo in loro. Là dove abbonda la sfiducia, sovrabbonda il diritto – potremmo dire, ricalcando la struttura del celebre verso neotestamentario[2].
Il senso comune esprime pertanto l’idea di un diritto corruttore. Il diritto sarebbe un male (necessario, ma comunque male) che corrode ciò che tocca, che s-personalizza e allontana. Il diritto servirebbe tra sconosciuti, dove ci sono buone, anzi ottime, ragioni per dif-fidare, guardare con sospetto, procedere con circospezione (la cautela è il sintomo più evidente della mancanza di fiducia) o quando gli antichi buoni rapporti sono oramai irrimediabilmente guastati (“ci parliamo più solo tramite i nostri avvocati”): ecco il posto del diritto. Male necessario – dicevo - perché sembrerebbe radicato nella natura umana, la quale, se non proprio irrimediabilmente cattiva e malvagia, sarebbe egoisticamente orientata al perseguimento del proprio interesse a scapito di quello altrui, sarebbe per natura portata ad approfittarsi delle situazioni e delle debolezze dei nostri simili. «If men were angels, no government would be necessary», scrisse James Madison[3]; la necessità di un governo, dell’autorità (e quindi del diritto) deriverebbe esattamente dal nostro essere moralmente imperfetti, nemici e ostili gli uni con gli altri. Molti filosofi del diritto, a questo proposito, in un famoso esperimento mentale, si sono chiesti che ruolo avrebbe il diritto, e soprattutto la coercizione che lo accompagna, in una società formata da sole creature angeliche o da santi[4]. Sono le storture umane che impediscono che i rapporti siano basati solo sul fidarsi l’uno dell’altro, come in un Eden, e richiedono diritto, e quindi forza, violenza. Nelle società rette dal diritto, la coercizione e la minaccia avrebbero per intero sostituito la fiducia.
Ma le cose stanno realmente così? Davvero diritto e fiducia sono termini mutualmente esclusivi, e il primo non ha nulla a che vedere con la seconda? È a questa capitale domanda che Tommaso Greco si propone di rispondere nel suo recente libro “La legge della fiducia. Alle radici del diritto” (Laterza, 2021)[5]. La risposta avanzata è vigorosamente negativa, e non potremmo essere più d’accordo. Le argomentazioni contenute nel volume sono frecce che colpiscono al cuore inveterate ricostruzioni del fenomeno giuridico – spesso, come accennato, fatte proprie anche dal senso comune - che si basano sul “paradigma sfiduciario” (o “machiavellismo giuridico”, come viene chiamato nel libro), che rappresenta una vera e propria teoria antropologica negativa e cinicamente pessimistica sull’uomo, ritenuto un essere fondamentalmente, e forse suo malgrado, amorale, egoista, incapace di altruismo se non quando questo si allinea al suo proprio vantaggio, e pertanto bisognoso di esser guidato solo dal bastone. O così, almeno, andrebbero considerati gli uomini per cautela. Tale paradigma – che l’Autore esamina approfonditamente e critica - nel corso del tempo ha convinto pensatori eterogenei quali Machiavelli, ne Il principe, Hobbes, nel Leviatano, con il suo homo lupus, Herman Melville, nel romanzo Billy Budd, il von Jhering de Lo scopo del diritto, Oliver Wendell Holmes Jr. (il padre del Realismo Giuridico Americano), con il suo sguardo sul diritto del bad man, dell’uomo cattivo, e molti altri nomi illustri [6]. Parafrasando Ricoeur, possiamo chiamare questi i “Maestri della sfiducia”[7]. Ebbene, tutto ciò ha finito per fornire una potente giustificazione, anche politica, alla sfiducia.
Tommaso Greco, invece, dimostra che lungi dal rappresentare l’ovvio contrario del diritto, la fiducia è anzi necessaria e presupposta al suo corretto operare. Se c’è fiducia – forse - può anche non esserci diritto, ma non è vero l’opposto: se c’è diritto, c’è anche necessariamente fiducia. Il diritto esige fiducia – fiducia innanzitutto che quest’ultimo sia rispettato. «Il diritto - leggiamo nell’Introduzione – ci chiede di fidarci l’uno dell’altro, e lo fa nel momento in cui stabilisce quali sono i diritti e i doveri reciproci all’interno di una qualsiasi relazione da esso regolata»[8]. Senza fiducia, tutto il diritto è impotente: per quanto ve ne sia, per quanto forte e minaccioso sia, non raggiungerà mai il suo fine.
L’A. non si abbandona, in questo, a un ingenuo ottimismo. La tesi del libro non è affatto quella per la quale il diritto potrebbe reggersi soltanto sulla fiducia o che l’ordine sociale sia interamente pensabile soltanto con le categorie di un modello solamente fiduciario, e pertanto che dobbiamo lasciarci del tutto alle spalle, dimenticarci la dimensione coercitiva e violenta del diritto. Vi è, infatti, la piena consapevolezza che qualsiasi sistema, già solo minimamente complesso, necessita di meccanismi sanzionatori per far fronte al sopruso, alla prevaricazione, alla prepotenza del forte contro il debole. Ma questo aspetto, così tanto, anzi troppo, rimarcato, è ben lungi dall’esaurire tutta la complessità del fenomeno giuridico. Non bisogna dimenticare che la vita del diritto si svolge in grandissima parte fuori dalla minaccia, fuori dall’uso della forza. Essa si svolge in quella immensa rete – più solida di quanto siamo portati a pensare - di aspettative (autenticamente giuridiche) reciprocamente soddisfatte che chiamiamo società.
La fiducia così intesa opera e agisce, quindi, dal di dentro. Non è un’area esterna che ne delimita i confini, che de-finisce l’àmbito propriamente giuridico da quello etico, amicale, personale. La fiducia è, invece, per così dire, il carburante stesso della giuridicità[9]. In questo, metodologicamente parlando, l’analisi proposta non è (per forza, o solo) normativa; non ci dice tanto che il diritto deve essere fiducia, ma che il diritto è, e non può non essere, fiducia. Senza fiducia il diritto è destinato a dissolversi internamente in quanto diritto.
2. Goodbye, Kelsen!
Vale la pena soffermarsi su questo punto assai profondo relativo all’esser dentro della fiducia, al suo situarsi all’interno del diritto stesso, formandone parte costitutiva necessaria. In che senso preciso questo può dirsi? Il libro affronta questo snodo nei Cap. III e IV, che costituiscono passaggi centrali nell’architettura delle argomentazioni.
Partiamo da un interrogativo fondante. Che struttura ha il diritto? La risposta più semplice e immediata che corre alla mente è che il diritto opera essenzialmente comandando dall’alto e dando a questi comandi la cogenza derivante dalla sanzione. Il comportamento A è dovuto (solo) perché esiste la sanzione B, e se A non verrà tenuto, vi sarà applicazione di B, da parte dei funzionari statali preposti, proprio così come il diritto, la legge, vuole e prevede.
Con la nostra copia de “La dottrina pura del diritto” di Kelsen tra le mani, leggiamo:
“[L]a dottrina pura del diritto (…) sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello stato, cioè la pena e l’esecuzione forzata civile e amministrativa e che, solo per questo, il fatto condizionante viene qualificato come illecito e quello condizionato come conseguenza dell’illecito. Ciò che fa sì che un determinato comportamento umano valga come illecito, come delitto nel più ampio senso della parola, non è affatto una qualità immanente (…), ma è solo ed esclusivamente il fatto che nella proposizione giuridica tale comportamento sia posto come condizione di una conseguenza specifica e che l’ordinamento giuridico positivo reagisca a questo comportamento con un atto coattivo»[10]. (Enfasi nostra).
Nessun obbligo senza sanzione (come si nota: non necessariamente penale), quindi, per Kelsen. Al più, senza minaccia, ci troviamo dinnanzi a esortazioni, raccomandazioni, desideri; ma, privi di qualsivoglia mordente come sono, si potrebbero anche quasi lasciar da parte, ignorare. Non c’è posto nell’universo kelseniano di un diritto soft; questo è sempre hard.
Ora, questa costruzione basata interamente sull’intimidazione – fatta propria non solo da Kelsen, ma anche, ad es., precedentemente, in Inghilterra da John Austin, nella sua command theory of law o, per certi aspetti, da Rudolf von Jhering - è, nella migliore delle ipotesi, incompleta. A parte il fatto che le norme giuridiche, nel loro complesso, fanno anche molte altre cose, oltre a comandare o vietare: permettono e autorizzano, costituiscono, istituiscono, definiscono, orientano (si pensi ai princìpi), e via dicendo. A parte tutto ciò, la definizione puramente imperativistica e coercitiva del diritto, quella che illumina il solo aspetto “verticale”, che dall’autorità va al cittadino – quella che ci porta a domandare “e se non lo faccio, cosa mi capita?”, per intenderci - a tacer d’altro, lascia in ombra il fatto concreto che nessun sistema giuridico che miri ad essere effettivo può reggersi solo sulle spalle della sanzione, e quindi del timore e della paura[11].
3. Non sanzione, ma fiducia. Il diritto come creatore di aspettative
Per comprendere questo punto occorre domandarsi allora non solo quale sia la struttura del diritto (come agisce) ma anche la funzione (cioè in vista di quale fine operi), che è quella di creare aspettative di conformità, cioè “fiduciose attese” nel comportamento altrui. Questa è quella che viene detta dimensione orizzontale della giuridicità – spesso tralasciata nelle più classiche speculazioni giusfilosofiche, e sulla quale il libro insiste, invece, giustamente molto, così come altri lavori precedenti dello stesso A.[12] – e che si esprime non nei confronti non dell’autorità, ma del prossimo.
Il diritto dice che chi non adempie un contratto subirà le conseguenze giuridiche che la legge fa dipendere dall’inadempimento. Mi aspetto, pertanto, che la controparte adempierà. Mi fido. (E viceversa: è bene che io tenga fede al contratto, innanzitutto, perché l’altro contraente si aspetta così; si fida). Il diritto ci dice che chi attraversa un incrocio con l’auto nonostante il semaforo sia rosso, subirà la sanzione prevista. Mi aspetto, pertanto, che il guidatore si fermerà. Mi fido. (E viceversa: io mi fermerò all’incrocio perché, innanzitutto, il pedone si aspetta così; si fida). «Per quanto lo si voglia negare, non possiamo non attenderci dagli altri, almeno in un primo momento, che si comportino secondo quanto è loro prescritto. Nella normalità della vita sociale (…) abbiamo delle aspettative, e le aspettative implicano una qualche fiducia nel fatto che verranno soddisfatte»[13]. E ancora: «Quando si sia varcata la soglia che separa una relazione sociale da una relazione giuridica (…) non si entra affatto immediatamente nella minacciosa dimensione del diritto verticale e coattivo. Il nostro primo pensiero è che si debba adempiere – e ci aspettiamo che si adempia – alle reciproche obbligazioni».[14]
Possiamo dire che un ordine giuridico nel quale tutte le norme sono sistematicamente violate e le sanzioni altrettanto sistematicamente applicate è sì un ordine dove il diritto viene formalmente rispettato (la sanzione-conseguenza segue sempre correttamente all’illecito-causa: tutto avviene secondo quanto previsto), ma non è un ordine funzionale al vivere comune. È solo nelle maglie delle aspettative reciprocamente soddisfatte che si danno le condizioni per la prosperità umana, il “fiorire dell’uomo” (lo human flourishing, come dicono i teorici anglosassoni), inteso come il fine ultimo di ogni diritto.
Si tratta allora di de-enfatizzare il momento della conseguenza e di spostare l’accento sul precetto, e di porsi quindi il problema dei destinatari delle norme: non solo, o comunque non prioritariamente, i funzionari chiamati ad applicare la sanzione (i poliziotti, i giudici, gli ufficiali giudiziari) - come Kelsen riteneva - ma innanzitutto noi stessi, il prossimo. La disposizione che punisce l’omicidio è violata sia nel caso in cui la polizia o i giudici non applichino la sanzione quando questa è dovuta sia quando – e anzi, prioritariamente! - l’omicidio viene commesso.
Il diritto, quindi, agisce sì (anche) tramite sanzioni, ma possiamo tranquillamente affermare che l’applicazione del castigo non è ciò che il diritto innanzitutto vuole. È anzi vero il contrario. Dal punto di vista dell’effettività, ciò che il diritto vuole è piuttosto che la sanzione non sia applicata, e che il comportamento primario venga, innanzitutto, tenuto, spontaneamente. La sanzione risulta essere quindi un dopo, il comportamento prescritto un prima. È quest’ultimo che ha la precedenza. In buona sostanza: non il comportamento A è dovuto perché esiste una sanzione B, ma la sanzione B esiste perché il fatto A è già dovuto. La sanzione presuppone la normatività, non la stabilisce.
Nelle parole dell’A.:
«se assumiamo il punto di vista del diritto – di un ordinamento che ha come obiettivo quello di essere concretamente seguito dai consociati – i rapporti tra obbligo e sanzione funzionano meglio se li pensiamo invertiti rispetto a quanto facciamo comunemente: se cioè pensiamo alla sanzione come ad una conseguenza della violazione di un obbligo preesistente. È proprio perché si è venuti meno ad un obbligo che si può (anzi, si deve) essere sanzionati: se non manteniamo questo ordine finiamo per “scambiare l’effetto per la causa”»[15].
L’obbligo pre-esiste quindi alla sanzione. È il capovolgimento totale del messaggio kelseniano.
Ora, se non è in virtù della sanzione che dobbiamo obbedienza al diritto, in nome di cosa, allora, la dobbiamo? Ma in nome della norma, della legge stessa! Questa la tanto semplice quanto convincente risposta. «Molto semplicemente – condensa Tommaso Greco - “un obbligo esist[e] quando esiste una norma che lo pone”»[16].
Una importantissima chiarificazione va però a questo punto fatta. Per l’A., in nessun modo la considerazione appena espressa comporta un dovere morale di ubbidire al diritto sempre e comunque, solo in virtù del suo esser diritto, purchessia. «Dal fatto che l’obbligo esista in virtù della norma (…) non discende necessariamente la conclusione che sia sempre giusto ubbidire a quella norma, mettendo in atto il comportamento che la norma richiede»[17]. E ancora: «un conto è riconoscere (…), altro conto è accettare»[18].
Anzi, sarà proprio l’insistenza sulla dimensione intrinsecamente e necessariamente relazionale del diritto - quella che guarda all’Altro nella sua prossimità - che permette a Tommaso Greco di recuperare una visuale apertamente assiologica del fenomeno giuridico, e quindi di argomentare quando è giusto disobbedire al diritto ingiusto (v. il cenno in queste Conclusioni).
3.1. (Segue). Doveri senza sanzioni?
Da quanto detto, nascono due interrogativi. Possono esistere autentici doveri giuridici sforniti di conseguenze in caso di violazione? E sarebbe immaginabile, pertanto, un intero sistema giuridico senza sanzioni?
Alla prima domanda, sulla scia delle argomentazioni del libro, possiamo dare risposta positiva; e la tecnica, sebbene eccezionale, non è sconosciuta al diritto italiano[19]. Solo un esempio tratto dal diritto processuale civile: l’art. 374 c.p.c. (rubricato “Pronuncia a sezioni unite”) al comma 3, c.p.c. stabilisce che «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Rimette, cioè deve rimettere (obbligo, dovere). La previsione, evidentemente, vuole evitare che una sezione della Corte decida un ricorso in senso contrario a quanto già stabilito, precedentemente e sulla medesima questione, dalle Sezioni Unite; il legislatore ha quindi voluto che, qualora la sezione semplice ritenga di non conformarsi al principio di diritto adottato dal più ampio collegio, si astenga dal decidere, ma investa le Sezioni Unite per una nuova pronuncia. E se ciò non accade? E se i giudici decidono ugualmente? Di sanzioni (in questo caso, processuali) non c’è ombra (cosicché la sentenza va ritenuta perfettamente valida), ma ciò non implicherebbe negare l’esistenza di un autentico dovere giuridico di rimessione.
Più difficile invece immaginare una risposta positiva alla seconda domanda, se sia cioè immaginabile un intero ordine giuridico privo di sanzioni. Come già detto al principio, esisterà infatti sempre la prevaricazione, alla quale l’ordinamento deve porre rimedio. Come l’A. stesso, d’altronde, ammette, «in mancanza di qualsiasi sanzione istituzionalizzata si rischierebbe che i forti prevalgano sui deboli e ogni possibilità di un ordinamento giuridico sarebbe seriamente compromessa (…). In questo senso (…) non si può non accogliere l’idea dell’uso della forza come momento fisiologico e non patologico né eventuale dell’esperienza giuridica”»[20].
Non si tratta perciò tanto di illustrare come tutte le acquisizioni dei “Maestri della sfiducia” siano da archiviare, se non proprio da gettare, quanto di evidenziare come le loro ricostruzioni fossero parziali e incomplete.
4. L’esperienza della fiducia: filosofia, economia
S’è detto che il diritto crea aspettative, cioè fiduciose attese, e che queste aspettative reciproche sono orizzontali: abbiamo - e contemporaneamente diamo - aspettative nei confronti del nostro prossimo (“aspettativa” è parola bellissima; spesso se ne ha paura, perché comporta inesorabilmente un’etica della responsabilità e della cura: ma il discorso qui già rischia di condurci troppo lontano). Allargando lo sguardo oltre il diritto, notiamo che l’aspettativa è costitutiva della relazione interpersonale, e quindi poi, via via, sociale e comunitaria. Non si può dire che vi è relazione dove non si sono create aspettative, e quindi fiducia.
Ora, la filosofia da sempre ci dice che l’uomo è costitutivamente relazione (è animale sociale, se vogliamo); e dato che la relazione è fiducia, ne consegue che l’esistenza quotidiana dell’uomo è essa stessa fiducia. La fiducia, per quanto frustrata, delusa, ingannata, messa alla prova, è infatti esperienza immemore dell’essere umano. Il filosofo Salvatore Natoli, che si è occupato a fondo delle implicazioni filosofiche della fiducia, ci ricorda come questa è sperimentata fin dalla nostra originaria venuta al mondo, dalla nascita, e struttura e marca il nostro divenire. Nasciamo, e non ci resta altra opzione che af-fidarci. La fiducia si situa pertanto all’origine del nostro essere-al-mondo, del nostro esser-ci, e va quindi pensata, in primo luogo, come “stato originario della condizione umana” [21]. Siamo in grado di accordarla, nel corso della nostra vita, perché, in primo luogo, ne abbiamo già fatto esperienza. Ancora: la filosofa Michela Marzano, Autrice anche lei di lavori sulla necessità individuale e sociale della fiducia, argomenta non solo che «se nessuno si fidasse di nessuno (…) non sarebbe nemmeno possibile prendere in considerazione l’idea stessa di una comunità», ma anche che, senza fiducia, «è la sopravvivenza stessa dell’individuo a essere in pericolo. Come potrei accettare di nutrirmi – si chiede - senza fidarmi del fatto che ciò che acquisto e mangio non è tossico? Come potrei uscire di casa la mattina se non fossi sicuro di ritornarci la sera?»[22].
Senza retorica alcuna, la fiducia, allora, va pensata come l’acqua nella quale siamo immersi e nuotiamo, già esistenzialmente; la sua diminuzione, o perdita, equivale a una pericolosa auto-menomazione di ciò che rende possibile il flusso della vita.
Fin qui sul piano strettamente filosofico.
C’è poi un’altra grande area dell’esperienza umana che dimostra l’assoluta centralità e il bisogno della fiducia, nel senso costitutivo del termine, ed è quella dell’economia. L’economia è, costitutivamente, fiducia; non è pensabile al di fuori di un paradigma fiduciario. Non si tratta, anche qui, come nel libro di Tommaso Greco, di argomentare un vago desiderio normativo, una speranza, un ideale (l’economia dovrebbe basarsi sulla fiducia; è bene che nell’economia ci sia più fiducia, ecc.), ma di prender atto che la natura stessa dell’economia è strutturalmente fiduciaria. Pensiamo al denaro, inteso nella sua duplice natura di mezzo di scambio e di risparmio: in quanto creazione sociale, e non naturale, si regge interamente sulla fiducia dei partecipanti. Non c’è altro sostegno all’infuori di questa. Una banconota vale ciò che vale perché è creduta valere dagli appartenenti al contesto economico di riferimento: ognuno di noi, nell’utilizzarla, confida (si fida) che tutti gli altri, a loro volta, confideranno (si fideranno) nel valore dell’oggetto-banconota, e così via. In termini più rigorosi, ontologicamente, si dice che il denaro – così come tante altre cose che formano il nostro mondo sociale - si fonda sull’intenzionalità collettiva: esiste in quanto è creduto esistere[23]. Superfluo evidenziare che con l’espressione “intenzionalità collettiva” non si intende altro che la fiducia. Senza questo carburante che alimenta il meccanismo degli scambi, privati del loro sostegno fiduciario, il crollo sarebbe velocissimo, come certi contesti di mercato, purtroppo, ben conoscono, con le conseguenze socialmente devastanti che ciò comporta.
Tutto questo è di immediata rilevanza anche per il discorso nel diritto: nell’economia come nella giuridicità, la relazione orizzontale, tra pares, conta molto di più di quella verticale.
5. Fratelli tutti
Dietro tutto ciò - dietro il riconoscimento cioè dell’essenzialità costitutiva della fiducia per il nostro stare al mondo, dell’essenzialità del piano orizzontale in qualsiasi ordine sociale - ci sta un’etica ben precisa ed esigente, questa sì normativa, agli antipodi del tanto cinico quanto fallace supposto realismo del modello sfiduciario. È un’etica che chiama al riconoscimento della fratellanza del prossimo. In questo, non è difficile scorgere, pur nella diversità di ispirazioni e fini, un orizzonte comune tra il modello fiduciario fatto proprio nel libro da Tommaso Greco e l’Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco[24]. A questo importante lavoro, peraltro, Tommaso Greco stesso si richiama brevemente in un passo del libro, dove insiste sulla fraternità (che è qualcosa di più della fratellanza), definita «misconosciuto valore rivoluzionario» (è la Cenerentola tra le sorelle Liberté, Égalité, Fraternité, o, nelle parole di Eligio Resta, la “parente povera” del progetto nascente dalla Rivoluzione illuminista[25]), ma implicitamente contenuto nello spirito della Costituzione italiana[26]. La fraternità viene in quel passaggio accostata alla solidarietà, questo sì principio autenticamente giuridico ed espressamente costituzionale (art. 2 Cost.), declinato nella sua triplice dimensione di politica, economica e sociale.
Il tema, ovviamente, non può essere svolto qui adeguatamente, ma solo accennato. Valga soltanto la considerazione che è nell’Enciclica “Fratelli tutti” che troviamo una delle più attuali dimostrazioni che l’uomo è – fenomenologicamente - persona (qualcuno, non qualcosa) tra persone; individuo, ma non atomo. L’uomo non una pura singolarità. È in quel documento che troviamo l’esplicitazione dell’antropologia per la quale l’Altro, in quanto anch’egli persona, pur nella sua irriducibile e insuperabile differenza, è non una minaccia, non un antagonista in una gara, ma un potenziale; non un concorrente, ma una occasione di continuo approfondimento e comprensione (di me stesso, soprattutto). L’etica che sta alla base dell’Enciclica non sopprime, ma anzi esalta le differenze, le quali chiedono riconoscimento in quanto tali. “Io sono l’Altro”[27]. Ora, questo riconoscimento fraterno dell’Altro implica anche la nostra corresponsabilità nei suoi confronti (come la parabola del Buon Samaritano insegna, collocata al centro delle riflessioni dell’Enciclica). E la responsabilità è l’altra faccia della fiducia: da un lato, siamo responsabili della fiducia che gli altri ci hanno accordato, dall’altro è possibile affidarci solo ove viga un senso di responsabilità.
Sono connessioni e legami concettuali complessi, che non possono se non essere qui abbozzati, ma che vale la pena pensare a fondo, nella loro unità, fino alla radice.
6. Conclusioni
Il libro di Tommaso Greco si caratterizza per ricchezza tematica (in questa nostra incompleta riflessione ne sono stati tralasciati vari aspetti, che meriterebbero approfondimento e discussione: uno su tutti, il ruolo di un “diritto per princìpi”, e non solo “di regole”, e il nesso con un modello fiduciario[28]), rigore argomentativo, e la “complessa semplicità” del linguaggio in cui è scritto (il volume si rivolge tanto al giurista esperto come al cittadino curioso). Il messaggio è chiarissimo, e torniamo ancora una volta a sottolinearlo: «dis-occultare» - questa l’efficace parola che l’A. stesso usa[29] – la dimensione orizzontale, relazionale, fraterna, solidale, collaborativa, responsabile, del diritto, e contemporaneamente distogliere lo sguardo dal suo aspetto verticale, egoista, interessato e opportunista, coercitivo, declinato in termini di obbedienza e castigo. Il messaggio è quello di pensare a una giuridicità diversa rispetto a quella dove l’unica domanda che conta è “… e se non ubbidisco, cosa mi succede?”. L’ardua gestione giuridica dell’emergenza pandemica (nella quale al diritto, meccanismo pur sempre imperfetto, si è chiesto molto, forse troppo) ha reso palese che tralasciare il carattere orizzontale delle regole, ciò che in primis ci dobbiamo gli uni agli altri in quanto comunità, non funziona[30].
Ora, non c’è dubbio che la fiducia sia anche un habitus culturale, non sempre – ahimè - adeguatamente sviluppato nel contesto italiano. Nelle pagine finali, l’A. ricorda due esempi concreti “esteri” (ma non solo), episodi tratti dal suo personale vissuto, in cui il senso di responsabilità è venuto prima della paura della sanzione, in cui cioè i soggetti hanno rispettato la tal regola giuridica a prescindere da un calcolo tra costi e benefici[31]. Lascio al lettore leggerli. A questi voglio solo aggiungere - per affinità - che quando mi trovavo in Svizzera, a Losanna, per un periodo di ricerca durante il mio dottorato, mi è capitato di stupirmi di come, nei pressi delle fermate degli autobus, vi fossero distributori aperti e incustoditi di giornali e quotidiani, dai quali i frettolosi passanti potevano attingere liberamente, salvo immettere la moneta dovuta in un apposito contenitore. Mi stupivo di come le persone, pur potendo facilmente impadronirsi del giornale gratuitamente, non lo facessero, non perché rischiassero concretamente qualcosa (non c’era l’ombra di controllori nei paraggi) ma perché non sarebbe stato giusto. L’autorità si fidava, e così i cittadini.
C’è poi ancora un ultimo punto che voglio accentuare a conclusione.
Abituarci a pensare questa dimensione orizzontale – dice infine Tommaso Greco – rammentare cioè che il nostro interlocutore è l’Altro, e che non è tanto nei confronti dello Stato che dobbiamo responsabilità, ma nei confronti del prossimo, è un buon antidoto anche contro le degenerazioni del diritto. Quando è la regola stessa del diritto a misconoscere fondamentalmente questa relazionalità costitutiva, quando è la norma stessa, non i suoi destinatari, a dimenticare la necessaria fratellanza - quando in una parola, è il diritto a essere ingiusto - allora saranno già presenti, nel corpo sociale, gli anticorpi per rilevare (sentire) dal basso l’ingiustizia e rendere la norma lettera morta. La disobbedienza civile è, in questi casi, la risposta: «[s]e un regolamento di una mensa scolastica comunale stabilisce che non si deve dar da mangiare al bambino la cui famiglia non abbia pagato la retta, chi sarà a dover applicare quella regola?»[32]
Non so dire se in queste affermazioni ritroviamo, in sottofondo, una eco giusnaturalista, o se l’Autore la definirebbe tale. Sicuramente ritroviamo un criterio, importante e prezioso, per separare il diritto giusto da quello ingiusto: il che merita tutta la nostra attenzione.
[1] A. C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali della facoltà giur. di Catania, 1948, III, 57.
[2] Il riferimento è Romani 5, 20 («dove abbondò il peccato, sovrabbondò anche la Grazia»).
[3] The Federalist, n. 51 (1788), in C. Rossiter (a cura di), The Federalist Papers, New York, 1961, 322.
[4] Sulla questione sono innumerevoli le fini ricostruzioni da parte dei filosofi analitici del diritto. Celebri gli esempi di John Finnis, in Natural Law and Natural Rights, Oxford, 1995, 269 e di Joseph Raz, in Practical Reason and Norms, Oxford, 1999, 159 (entrambi gli Autori, peraltro, riservano un importante ruolo al diritto anche in siffatte società). Più di recente, v. K. E. Himma, Can There Be Law in a Society of Angels?, in Id., Coercion and the Nature of Law, Oxford, 2020, Cap. 10. Ripercorre il problema, ora, L. Miotto, From Angels to Humans: Law, Coercion, and the Society of Angels Thought Experiment, in 40, Law & Philosophy, 2021, 277 e seg.
[5] Il libro ha avuto, giustamente, una risonanza assai ampia. Tra i molti commenti e recensioni, v., recentissimamente, e per tutti, F. Corigliano, La fiducia: tra politica e diritto, in Diritto & Questioni Pubbliche, 2021, 211 e seg.
[6] Cfr. i Cap. I, 3 e seg. (“Fiducia vs diritto?”) e Cap. II, 14 e seg. (“«…e che abbiano a usare sempre la malignità nello animo loro». Alle radici del modello sfiduciario”).
[7] Fu Paul Ricoeur a definire Marx, Nietzsche e Freud “Maestri del sospetto”.
[8] T. Greco, op. cit., Introduzione, IX.
[9] T. Greco, op. cit., Cap. IV, 88 e seg. (“La fiducia dentro il diritto”).
[10] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it. a cura di R. Treves, Torino, 1963, 43 (Par. intitolato Il diritto come norma coattiva). Sulla riconduzione di questo paradigma a Kelsen, e poi anche allo Jhering de Lo scopo nel diritto, v., ampiamente, Greco, op. cit., Cap. III (che cita, nel medesimo senso, altri e importanti passi di Kelsen, tratti sia dalla Teoria generale del diritto e dello Stato (1945) sia dalla stessa Dottrina pura del diritto (1960), nella traduzione di Mario Losano, Torino, 1966).
[11] A tacer d’altro – va detto - perché vi è anche la critica logica per la quale il considerare giuridici solo quei precetti assistiti da una sanzione comporta un regresso all’infinito (l’applicazione della sanzione presuppone, a sua volta, l’applicazione di una ulteriore sanzione in caso di mancata applicazione della (prima) sanzione, e così via). Per questa critica, già peraltro conosciuta a Kelsen stesso, T. Greco, op. cit., Cap. III.
[12] Cfr., ad es., T. Greco, Relazioni giuridiche. Una difesa dell’orizzontalità del diritto, in Teoria e critica della regolazione sociale, 2014, 9 e seg.; Id., Paolo Grossi, teorico del diritto orizzontale, in Riv. di filosofia del diritto, 2016, 47 e seg.
[13] T. Greco, Le legge della fiducia, cit., 90.
[14] Ibidem, 96.
[15] T. Greco, op. cit., 49 (che cita, a proposito, F. Viola, La teoria del diritto come pratica sociale e la coercizione, in 2, Persona y derecho, 2019, 55).
[16] T. Greco, op. cit., 188 (citando F. Poggi, Concetti teorici fondamentali, Pisa, 2013, 93).
[17] T. Greco, op. cit., 56.
[18] Ibidem, 56 – 57.
[19] Di solito si fa l’esempio dell’ (ora) art. 315 bis c.c. (rubricato Diritti e doveri del figlio), comma 3, nella parte in cui stabilisce che “il figlio deve rispettare i genitori”, come paradigma di “norma imperfetta”, cioè priva di sanzione. A queste possono accostarsi quelle norme che sì prevedono una sanzione, ma questa è talmente piccola, leggera, da non rappresentare una valida minaccia e quindi incentivo (il punto è di scottante attualità: si pensi all’introduzione dell’obbligo vaccinale per far fronte alla pandemia da Covid-19 per i soggetti maggiori di cinquanta anni, di cui al Decreto Legge 7 gennaio 2022, n. 1, obbligo assistito da una (lieve) sanzione amministrativa pecuniaria pari a 100 euro; è evidente che non è sull’aspetto sanzionatorio che dobbiamo soffermarci, ma semmai, sul messaggio simbolico, o, meglio ancora, responsabilizzante). Secondo la visione qui fatta propria, queste disposizioni sono senza dubbio giuridiche. Non accogliamo, pertanto, la ricostruzione che faceva, tra gli altri, il Pugliatti, sulla linea, evidentemente, del positivismo kelseniano (Gli istituti del diritto civile, I, 1, ora in Scritti giuridici, Vol. II (1937 – 1947), Milano, 2010, 764): «Ma fu ed è facile rilevare che se la sanzione è un elemento costitutivo essenziale delle norme giuridiche, parlare di norme giuridiche imperfette, cioè prive di quell’elemento essenziale, è commettere un errore terminologico e consacrare una contraddizione logica, poiché non si dovrebbe parlare di norme giuridiche imperfette, sibbene di norme non giuridiche. Se la coercibilità si intende nel senso da noi proposto, allora si può veramente affermare che essa costituisce una qualità essenziale delle norme giuridiche».
[20] T. Greco, op. cit. 51 (che trae l’ultimo virgolettato da Riccobono, La vocazione critica della teoria del diritto europeo e la questione dei valori, in F. Cerrato, M. Lalatta Costerbosa (a cura di), L’Europa allo specchio. Identità, cittadinanza, diritti, Bologna, 2020, 133). «Non si tratta – scriverà poi più avanti l’A, nel Cap. VI, Per una cultura giuridica responsabile – di sostituire la convinzione alla costrizione, lo spontaneo adempimento all’ubbidienza forzata. Una tale sostituzione può dar luogo facilmente a equivoci…».
[21] S. Natoli, Il rischio di fidarsi, Bologna, 2017. Di Natoli, v. anche la Lezione Magistrale, disponibile su YouTube, intitolata Sulla fiducia. Egli, nell’argomentare questo punto relativo alla fiducia originaria, si richiama – assai evocativamente – all’arte, e in particolare alle suggestive rappresentazioni della “Madonna del Latte” (definita «icona universale della maternità, ma anche dell’affidamento») e alla preghiera dell’Angelo Custode, figura archetipa della protezione («in breve – scrive Natoli, Il rischio di fidarsi, cit., 8 – ci fidiamo perché radicati in una certezza originaria, di cui cifra simbolica – la più nota – è l’«Angelo Custode» della devozione cristiana, colui al quale la Pietà divina ci ha affidato: me tibi commissus pietate superna, illumina, custodi, rege et guberna»).
[22] Traggo i passi da M. Marzano, Avere fiducia, Milano, 2012 (Introduzione). Della medesima A., v. anche Cosa fare delle nostre ferite? La fiducia e l’accettazione dell’altro, Trento, 2012.
[23] A questo tema si è in particolare dedicata la riflessione del filosofo statunitense John Searle (già conosciutissimo per i suoi studi sulla costruzione della realtà sociale). Di questo A. cfr., da ultimo, in italiano, scritto a quattro mani insieme al filosofo torinese Maurizio Ferraris, Il denaro e i suoi inganni (a cura, e con un saggio, di A. Condello), Torino, 2018.
[24] “Lettera Enciclica Fratelli Tutti del Santo Padre Francesco sulla fraternità e l'amicizia sociale”, disponibile in https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html. Sul punto, cfr. i contributi di F. Savagnone, “Fratelli tutti” e la sfida della fraternità, in Giustizia Insieme, 13 ottobre 2020, e di T. Groppi, Fratelli tutti. Un’enciclica costituzionale, in Giustizia Insieme, 25 dicembre 2020. Si soffermano sulla dimensione giuridica dell’Enciclica anche A. Giovita, K. Laffusa, L’Enciclica Fratelli Tutti: aspetti giuridici di una proposta di fratellanza, in Jus (online), 2021, 229 e seg.
[25] E. Resta, Diritto fraterno, Laterza, 2005.
[26] T. Greco, op. cit., 74, ricordando in nota i lavori, in questo preciso senso, di I. Massa Pinto, Costituzione e fraternità, Napoli, 2011, e di F. Pizzolato, Il principio costituzionale di fraternità, Roma, 2012.
[27] Prendo tutti questi concetti e parole dall’intervento del Professor Achim Schütz, della Pontificia Università Lateranense (Roma, Laterano), nell’ambito del Seminario di Studio “Fratelli Tutti: una Enciclica oltre la crisi”, tenutosi il 2 dicembre 2020 presso la medesima Università (disponibile su YouTube).
[28] T. Greco, op. cit., Cap. V, 114 e seg. («Un fiorino!» La fiducia tra princìpi e regole).
[29] T. Greco, op. cit., 152.
[30] Il libro, non a caso, dedica alla pandemia molteplici riflessioni giuridiche.
[31] T. Greco, op. cit., 159 – 160.
[32] T. Greco, op. cit., 152.
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