ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Autocertificazioni mendaci e automatica decadenza dai benefici (nota a Corte costituzionale n. 190 del 13/10/2021)
di Emanuela Concilio
Sommario: 1. La vicenda. - 2. Le eccezioni sollevate dall’Avvocatura Generale dello Stato. - 3. L’autocertificazione come istituto di semplificazione: criticità. - 4. La decisione della Corte costituzionale. - 5. Considerazioni conclusive.
1. La vicenda
La vicenda che ha dato luogo all’ordinanza del T.A.R. Puglia, sezione staccata di Lecce n. 92 del 30 gennaio 2020 di rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 in relazione all’art. 3 Cost., prende le mosse dalla impugnazione, da parte di una società titolare di un patentino per la vendita di prodotti da fumo, del provvedimento con il quale, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli rigettava l’istanza di rinnovo della suddetta autorizzazione e contestualmente ritirava il patentino per la vendita di generi di monopolio.
Accadeva che il titolare dell’attività commerciale, in violazione degli artt. 7 e 8 del D.M. 38 del 2013, ometteva di indicare, nella dichiarazione sostitutiva di atto notorio ex d.P.R. n. 445 del 2000 allegata all’istanza di rinnovo, alcuni debiti verso l’erario, consistenti in due cartelle esattoriali emesse dall’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento del canone RAI per un biennio, sulla base dell’erroneo presupposto che il canone RAI non costituisse un tributo verso l’erario.
L’accertamento da parte dell’Agenzia di una dichiarazione risultata non veritiera, ai sensi dell’art. 76 del D.P.R. 445 del 2000, veniva considerato elemento idoneo e sufficiente ad interrompere “il rapporto di fiducia con l’amministrazione” e quindi a negare il rinnovo del patentino, a nulla rilevando l’adempimento di quanto dovuto da parte della istante prima dell’emanazione del provvedimento di diniego del rinnovo.
Il T.A.R. Puglia perveniva alla convinzione che il diniego fosse stato determinato esclusivamente dalla non veridicità della dichiarazione sostitutiva di atto notorio che accompagnava l’istanza e che pertanto esso si configurasse come “sanzione” eccessivamente gravosa, considerati l’entità del debito e l’adempimento spontaneo dell’intero importo.
Conseguentemente, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, espressione dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., nonché del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, co. 2 Cost., nella misura in cui la norma, nel “sanzionare” le dichiarazioni mendaci con la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento (emanato sulla base della dichiarazione non veritiera), avrebbe colpito in maniera indiscriminata condotte di rilievo differente. Non sarebbe, infatti, possibile graduare le conseguenze alla gravità del fatto, al suo disvalore e all’elemento soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante. [1]
Tali conseguenze, secondo il giudice rimettente, avrebbero una valenza lato sensu sanzionatoria e sarebbero in ogni caso irragionevoli e sproporzionate, in quanto prescinderebbero dall’effettiva gravità del fatto e dalla sua incidenza rispetto all’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, con la conseguenza di riservare il medesimo trattamento a situazioni oggettivamente diverse. Sicché, nei casi di non veridicità su aspetti di minima rilevanza concreta, potrebbero verificarsi conseguenze abnormi e sproporzionate rispetto al reale disvalore del fatto.
A supporto della propria tesi argomentativa, il giudice a quo richiama l’interpretazione “consolidata” della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale “la dichiarazione non veritiera, al di là dei profili penali, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui la stessa era indirizzata e comporta l’automatica decadenza dai benefici ottenuti” [2]
Il T.A.R. Puglia rileva come il rigido automatismo descritto sia lesivo dell’equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, poiché idoneo a pregiudicare i diritti costituzionali del singolo; infatti, la finalità di semplificazione, tipica dell’istituto della autodichiarazione, si tradurrebbe nella diminuzione degli adempimenti a carico dell’amministrazione pubblica, a fronte di un’eccessiva autoresponsabilità del privato.
2. Le eccezioni sollevate dall’Avvocatura Generale dello Stato
L’Avvocatura Generale dello Stato si costituiva in giudizio sollevando eccezioni sia di rito che di merito.
In via preliminare, veniva eccepito il difetto di motivazione sulla rilevanza della questione sotto due profili: il primo in ordine alla descrizione della fattispecie concreta, relativamente al carattere definitivo dell’accertamento delle pendenze fiscali o morosità verso l’erario richiesto dagli artt. 7 e 8 del D.M. n. 38 del 2013; il secondo in ordine al presupposto (teleologico) interpretativo del diniego del rinnovo.
Sotto il primo profilo, il giudice rimettente sosteneva la definitività dell’accertamento e della pretesa tributaria, ex artt. 7 e 8 del D.M. n. 38 del 2013 cit., di cui alle cartelle di pagamento del concessionario, trattandosi di cartelle esattoriali emesse per mancato pagamento dei canoni R.A.I. 2016 e 2017, avverso le quali l’istante non aveva intrapreso alcuna azione dinanzi all’Autorità Giudiziaria e anzi aveva provveduto all’integrale pagamento delle stesse.
Diversamente, l’Avvocatura Generale eccepiva che la sola indicazione dell’anno di riferimento del credito erariale, senza alcuna indicazione del giorno di notifica della cartella, non fosse idoneo a dimostrare il definitivo accertamento del credito erariale, non potendosi escludere né l’avvio di una procedura esecutiva, né la proponibilità del ricorso ai sensi del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), ovvero dell’opposizione agli atti esecutivi, di cui all’art. 617 c.p.c.
Sotto il secondo profilo, la tesi argomentativa dell’Avvocatura poggiava sull’assunto secondo il quale il diniego del rinnovo non sarebbe derivato dalla falsità della dichiarazione in autocertificazione del richiedente, quanto piuttosto dall’assenza di uno dei requisiti indispensabili ai fini dell’adozione del provvedimento ai sensi del D.M. 38 del 2013 (Regolamento recante disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo) e consistente nella insussistenza di pendenze fiscali.
Invero, la disciplina appena richiamata, nel dettare i criteri per il rilascio di patentini, all’art. 7, comma 3, lett. g), dispone in capo agli Uffici competenti il compito di valutare, proprio “l’assenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l’Erario o verso l’Agente della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili”. Con la conseguenza che, laddove fosse stata accertata l’insussistenza del requisito anche dopo il rinnovo del patentino, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli ne avrebbe comunque dovuto disporre il ritiro.
Peraltro, l’Avvocatura osservava come la decadenza prevista dalla disposizione censurata fosse idonea a travolgere solo i benefici già entrati nella sfera giuridica del dichiarante, mentre il giudice rimettente avrebbe ritenuto, senza indicarne i motivi, che la stessa si estendesse anche a benefici non ancora ottenuti, come quello connesso al rinnovo del patentino, che si sostanzia in un rinnovato rilascio, rispetto al quale devono logicamente ritenersi necessari anche i presupposti normativi richiesti per quest’ultimo alla data in cui il rinnovo è richiesto. [3]
Secondo l’Avvocatura Generale, l’omessa verifica da parte del giudice a quo del regolamento ministeriale avrebbe costituito elemento sufficiente a tacciare di inammissibilità la questione di legittimità costituzionale sollevata, con l’ulteriore “aggravante” che lo stesso giudice non avrebbe tentato di esperire un’interpretazione conforme, secondo il recente orientamento del Consiglio di Stato che fornisce una lettura costituzionalmente orientata dell’autocertificazione, valorizzando la sostanza dell’attestazione rispetto alla forma. In particolare, secondo il Supremo Consesso di giustizia amministrativa, sarebbe possibile la regolarizzazione delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà in presenza di vizi meramente formali, con la conseguenza che per la decadenza o per il diniego del beneficio non sarebbe determinante il profilo formale della falsità della dichiarazione, bensì quello sostanziale, costituito dalla mancanza del requisito falsamente dichiarato [4].
Secondo diversi arresti giurisprudenziali, inoltre, in tali circostanze sarebbe consentito alla P.A. di avvalersi del soccorso istruttorio e di valutare la portata, il peso e l’attualità delle pendenze fiscali sussistenti al momento dell’esame dell’istanza [5].
Nel merito della questione, l’Avvocatura Generale eccepiva l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, per mancata violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità ed imparzialità di cui all’art. 3 Cost. Secondo l’interpretazione fornita dalla Avvocatura, la disciplina di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 non sarebbe volta a sanzionare la falsità delle dichiarazioni, quanto piuttosto a garantire la certezza dei rapporti giuridici, facendo applicazione del principio di autoresponsabilità del dichiarante, con vantaggi sia per l’amministrazione che per il cittadino. D’altra parte, la difesa dello Stato rileva come proprio la concessione del beneficio anche in presenza di false attestazioni porterebbe ad effetti irragionevoli e contrastanti con l’art. 3 Cost., finendo per incentivare comportamenti volti all’attestazione del falso, a danno di chi, invece, operando con correttezza e buona fede, si assume la responsabilità di una dichiarazione, pur sfavorevole, ma veritiera. La scelta del legislatore risponderebbe, quindi, ad esigenze di efficacia dell’azione amministrativa, le quali sarebbero frustrate laddove fosse attribuita all’amministrazione una valutazione in ordine alla gravità del fatto contestato ed all’elemento soggettivo del dichiarante.
3. L’autocertificazione come istituto di semplificazione: criticità
Il decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, costituisce normativa finalizzata ad attuare la semplificazione dell’azione amministrativa. [6]
Quando si parla di semplificazione amministrativa si allude generalmente ai diversi istituti giuridici volti a migliorare l’efficienza dell’amministrazione, rendendo la sua azione più celere e meno farraginosa [7], laddove l’esigenza di semplificazione presuppone una valutazione negativa dell’agire pubblico, ritenuto eccessivamente complicato a scapito degli interessi dei cittadini. [8]
Come è noto, la semplificazione amministrativa muove in tre direzioni: la semplificazione della struttura procedimentale (conferenze di servizi e accordi tra amministrazioni; termine di conclusione del procedimento; abilitazione dell’amministrazione a procedere indipendentemente da pareri obbligatori e valutazioni tecniche non rese entro un determinato termine); la semplificazione/liberalizzazione dell’avvio di determinate attività, con limitazione delle conseguenze negative dell’inerzia della amministrazione (silenzio assenso, scia); la semplificazione dell’interazione tra cittadino e pubblica amministrazione (l’autocertificazione). [9]
In particolare, l’istituto dell’autocertificazione configura un’espressione di semplificazione intesa più latamente come facilitazione del privato nelle modalità di accesso a talune attività soggette al potere, quanto meno di “controllo”, delle autorità amministrative, anche con l’obiettivo di una riduzione degli oneri posti a suo carico. [10] Qui, la semplificazione è diretta a migliorare il rapporto tra amministratori e amministrati, nel senso di sgravare il privato dall’onere di dimostrare il possesso determinati requisiti ai fini del conseguimento di un certo atto, essendo sufficiente per la P.A. una sua dichiarazione. In altri termini, si tende ad eliminare, laddove possibile, l’intermediazione dell’amministrazione, in particolare nella fase di avvio di un’attività, il che implica di contro l’estensione degli oneri e delle responsabilità in capo al soggetto privato, e l’adozione di strumenti quali l’autocertificazione. [11]
L’istituto dell’autocertificazione, dapprima introdotto dalla legge n. 241 del 1990, approda poi nel d.P.R. 445 del 2000, il cui Capo III - rubricato proprio “Semplificazione della documentazione amministrativa” - detta una disciplina specifica in materia di Dichiarazioni sostitutive di certificazioni (art. 46) e Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà (art. 47). [12]
In particolare, per le dichiarazioni sostitutive di certificazioni, l’art. 46 stabilisce che esse possono essere rese anche contestualmente all’istanza per comprovare “in sostituzione delle normali certificazioni” stati, qualità personali e fatti che vengono tassativamente elencati dalla norma.
Per quanto riguarda invece le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, l’art. 47, d.P.R. 445/2000, cit., prevede che esse possano essere utilizzate per attestare sia “stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato” (comma 1), sia “stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza” (comma 2) [13].
La differenza tra le due risiede nella circostanza che solo le prime consentono al cittadino di sostituire con una propria dichiarazione un atto amministrativo di “certezza pubblica” (riguardando informazioni contenute in albi, elenchi, registri in possesso della p.a.), mentre con le seconde è il privato, con la propria dichiarazione, a “creare” certezza, ossia ad attribuire tale qualità alle informazioni della cui veridicità si assume la responsabilità. [14]
Il legislatore predispone una specifica disciplina in materia di responsabilità, sia in capo al dichiarante che in capo all’Amministrazione e funzionario pubblico, ma con un regime differente.
Per quanto riguarda il dichiarante, oltre alle conseguenze penali [15], l’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000 disciplina le conseguenze delle false dichiarazioni sostitutive di atto notorio o di certificazioni, prevedendo la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione.
La norma detta un regime sanzionatorio “aggravato” configurando, con una sorta di automatismo, il prodursi di decadenze penalizzanti per il privato per il solo fatto oggettivo della falsità senza attribuire alcuna rilevanza all’elemento soggettivo del dolo e della colpa. La misura non incide direttamente sul provvedimento, ma si inquadra nella più generale tipologia della “decadenza per perdita” ispirata alla logica di precludere la fruizione dell’utilitas indebitamente conseguita per effetto del mendacio, impedendo che il dichiarante possa godere di un beneficio che non avrebbe avuto titolo a ottenere; per tale motivo opera ex nunc e indipendentemente dalla gravità del mendacio e dall'elemento soggettivo. [16]
Sul punto, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “la ratio dell'art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 è volta alla semplificazione dell'azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante, con il corollario che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l'autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell'Amministrazione sull'elemento soggettivo del dichiarante, giacché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in gioco, ma solo le necessità di una spedita esecuzione della legge sottese al sistema di semplificazione. In conclusione, la non veridicità rileva, in quanto abbia determinato l'attribuzione di un beneficio”. [17]
Pertanto, la giurisprudenza chiarisce, da un lato, che il profilo soggettivo del dichiarante non rileva in alcun modo, ciò che conta è unicamente la non veridicità di quanto autodichiarato sotto un profilo meramente oggettivo; dall’altro lato, che è esclusivamente la non veridicità a determinare la perdita dei benefici qualora ottenuti con l'autodichiarazione non veritiera.
Recentemente, la disciplina generale dei controlli amministrativi sulle autodichiarazioni di cui al d. P.R. n. 445 del 2000 è stata integrata dal d.l. n. 34 del 2020 (cd. decreto rilancio) il quale, all’art. 264, introduce un trattamento “sanzionatorio” più rigoroso. La norma, trincerandosi dietro la dichiarata finalità di “garantire la massima semplificazione, l’accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini”, intensifica i controlli a campione sulla veridicità delle autodichiarazioni, aggravando sensibilmente gli effetti del loro eventuale esito negativo. Alla tradizionale (mera) “decadenza” dal beneficio prevista dall’art. 75, viene aggiunta l’espressa previsione della “revoca degli eventuali benefici già erogati”. A tale revoca, tuttavia, il legislatore ricollega effetti ex tunc, circostanza che ha fatto apparire improprio ed atecnico il termine utilizzato, in luogo di quello di annullamento d’ufficio, ritenuto più consono anche alla luce del vizio che inficia il provvedimento (illegittimità e non motivi di opportunità e interesse pubblico). Per tentare di ricondurre il sistema descritto a coerenza, la dottrina ha ritenuto necessario annettere tale revoca al genus delle sanzioni, con tutto ciò che ne consegue in termini di soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo propri di queste ultime. [18]
All’ampliamento (e aggravamento) di oneri e responsabilità in capo al privato corrisponde una riduzione (rectius attenuazione) della responsabilità in capo ai pubblici dipendenti, circoscritta alla sfera dei controlli. Il citato art. 71 d.P.R. 445/2000, statuisce il dovere per gli enti pubblici procedenti di effettuare “idonei controlli”, sempre e in ogni caso quando sorgono fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive, oppure a campione in tutti gli altri casi, anche successivamente alla erogazione del beneficio. Inoltre, l’amministrazione e i suoi dipendenti godono di un regime di esenzione da ogni responsabilità per gli atti emanati in conseguenza di false dichiarazioni o di documenti falsi prodotti dall’interessato o da terzi, salvo le ipotesi di dolo o colpa grave. In questi casi, pertanto, il legislatore mostra una certa sensibilità all’elemento soggettivo del dipendente pubblico responsabile del controllo, al fine di escluderne la responsabilità. [19]
Dall’analisi della disciplina dettata dal d.P.R. 445/2000 emerge come l’autocertificazione comporti “per lo sprovveduto cittadino un vero e proprio danno” [20], diventando espressione di un differente modo di concepire i rapporti tra cittadini e amministrazione, basato sulla responsabilità e la collaborazione dei primi allo svolgimento dell’attività amministrativa.
Si evidenzia, invece, come l’istituto dovrebbe realizzare una coincidenza tra interessi privati (snellezza del procedimento) e pubblici (migliore utilizzo dei dipendenti pubblici sottratti da compiti ripetitivi), pur nella consapevolezza che il problema di tale reductio ad unitatem è che spesso le esigenze di snellezza dell’azione amministrativa e le esigenze di garanzia dei privati conducono in direzioni divergenti e conflittuali. [21]
4. La decisione della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata.
Principiando dall’analisi del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 febbraio 2013, n. 38, in materia di rilascio e rinnovo dei patentini per la vendita di prodotti da fumo, la Corte si sofferma sulla disciplina degli artt. 7 e 8, rispettivamente rubricati “Criteri per il rilascio di patentini” e “Rilascio dei patentini”, applicabili al caso in esame ratione temporis [22]. Come visto, l’art. 7 prevede, al comma 3, che, ai fini dell’adozione del provvedimento, gli Uffici competenti in relazione all’esercizio del richiedente, valutano, peraltro, “g) l’assenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l’Erario o verso l’Agente della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili”. Il successivo art. 8, al comma 3, prevede parimenti che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio debba indicare tra le altre “f) la sussistenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l’Erario o verso il concessionario della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili”.
Dalla lettura di tali norme, la Corte fa discendere la conseguenza che la “causa” del mancato rinnovo del titolo sia stata determinata esclusivamente dalla assenza del requisito della regolarità fiscale, a prescindere dalla falsità della dichiarazione resa ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000.
L’esito, infatti, sarebbe stato il medesimo anche se la dichiarazione fosse stata veritiera e avesse puntualmente riferito la sussistenza delle pendenze fiscali, in quanto ciò che avrebbe dovuto valutare il giudice rimettente (eventualmente lamentando anche in questo caso effetti irragionevoli e sproporzionati), non era la disciplina “sanzionatoria” di cui all’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000, ma prima di tutto la disciplina regolamentare di cui al d.m. n. 38 del 2013, che costituisce il prius logico, alla cui stregua doveva essere formulato il giudizio di verità o falsità della dichiarazione in esame.
Per la Consulta, tale omissione viene aggravata dalla circostanza che il giudice rimettente, analizzando la disciplina regolamentare, avrebbe potuto intuire la differenza teleologica tra le due norme laddove l’una, l’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000, fa riferimento alle conseguenze della dichiarazione non veritiera ponendosi in un momento successivo rispetto al fatto, mentre l’altra, l’art. 7, co. 3 del d. m. cit., colloca a monte, in una precedente fase di verifica dei requisiti, l’apprezzamento discrezionale da parte dell’amministrazione in ordine allo specifico rilievo delle pendenze o morosità definitivamente accertate.
Pertanto, il difetto di motivazione sulla rilevanza della questione in ordine ai profili richiamati dalla Avvocatura Generale dello Stato e condivisi dalla Corte costituzionale – e, in particolare, in ordine alla disciplina suscettibile di definire il contenzioso instaurato dal ricorrente – è stato considerato idoneo ad inficiare l’ordinanza del T.A.R. Puglia n. 92 del 30 gennaio 2020, determinandone l’inammissibilità.
5. Considerazioni conclusive
La decisione della Corte costituzionale appare ragionevole per le motivazioni illustrate e, per quanto il focus del thema decidendum sposti l’attenzione dall’istituto dell’autocertificazione, essa costituisce un’occasione per riflettere sull’efficacia degli strumenti di semplificazione, di cui l’autocertificazione costituisce espressione.
Invero, la “sburocratizzazione” della pubblica amministrazione nel corso del tempo è venuta ad assumere un’accezione negativa, proprio in ragione del fatto che essa ha finito per vanificare i propri obiettivi. Come è stato osservato, l’opzione volta ad alleggerire gli oneri burocratici e gli oneri posti a carico del cittadino nell’interlocuzione con l’amministrazione ha fallito nel suo intento nella misura in cui da strumento di semplificazione si è trasformata in uno strumento idoneo a generare incertezze per la convivenza, già di per sé difficile, tra libertà e potere. [23]
Si assiste così ad una sostanziale inversione del rapporto pubblico-privato in punto di responsabilità. Da onere preventivo, il controllo della p.a. diventa un adempimento solo successivo, con una sorta di “sgravio” di adempimenti istruttori e di responsabilità sul privato che è obbligato [24] ad autocertificare determinati atti in sostituzione di certificati e atti di notorietà ed è maggiormente esposto a subire le conseguenze di eventuali dichiarazioni non veritiere (rese magari anche non intenzionalmente). Un “aggravio” di responsabilità, dunque, soprattutto alla luce della considerazione che in origine le dichiarazioni sostitutive si limitavano a semplici situazioni personali del dichiarante (nascita, residenza, cittadinanza, stato civile, titolo di studio, reddito, e simili), ora invece si estendono anche a profili di ordine giuridico e tecnico sempre più complessi. Tale criticità non sfugge agli operatori del diritto e alla giurisprudenza che spingono, in senso riformista, ad ipotizzare soluzioni maggiormente consone, volte a circoscrivere la responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di dolo. [25]
Si osserva come “le complicazioni” del modello, con le conseguenti diffidenze in ambito economico e sociale verso le soluzioni incentrate sull’autoresponsabilità dell’interessato, si prestano a far sorgere il dubbio che in realtà si tratti di una semplificazione solo per l’amministrazione, il cui potere si traduce in un’attività di tipo prettamente vincolato. In sostanza, si sposta l’asse dall’amministrazione alla legge: il fenomeno della riduzione della discrezionalità dell’amministrazione viene perseguito attraverso una regolazione molto dettagliata ex ante, una semplice verifica dei presupposti e dei requisiti da parte dell’amministrazione, se non addirittura in automatico a seguito di una semplice dichiarazione del privato. [26]
E ciò avviene per una ragione ben precisa: la presentazione di un’autodichiarazione presuppone che il legislatore prima, e l’amministrazione poi, pongano una generale fiducia nel privato – fiducia che si ispira all’obbligo di comportarsi secondo buona fede e nel dovere di non suscitare intenzionalmente falsi affidamenti – e reputino “sostenibile” il consequenziale profilo di incertezza. [27]
A tale ultimo riguardo, si evidenzia come, la certezza che tale sistema genera (verso la p.a. e verso la generalità dei consociati) sia strutturalmente fragile in ragione sia della fonte (dichiarazione da parte del diretto interessato) sia, per l’appunto, della previsione di un successivo esercizio della funzione di controllo, il cui solo esito positivo è in grado di fornire reale stabilità a quanto certificato. [28]
Come evidenziato recentemente dalla giurisprudenza del CGARS, “la stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della pubblica amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale”. Al riguardo, il Supremo consesso osserva che “il principio costituzionale dell'art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro (del provvedimento)”, che “trova fondamento anche nell'art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico”, sottolineando, più in particolare, come “non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all'esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale, che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l'uso scorretto, irragionevole e sproporzionato del potere pubblico”. L’organo giudicante conclude affermando che “L'obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato apparentemente dalla reciproca buona fede”. [29]
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, non appare peregrina la valutazione compiuta dal giudice rimettente circa la radicale illegittimità costituzionale dell’art. 75 d.P.R. 445/2000 per il rigido automatismo che la connota. Tuttavia, la circostanza che la disciplina richiamata non costituisse il fulcro della fattispecie analizzata, ma assumesse un ruolo marginale rispetto alla disciplina sostanziale applicabile al caso concreto, non ha potuto evitare l’esito cui, condivisibilmente, è giunta la Consulta. Ciononostante, sarebbe ragionevole ipotizzare una netta distinzione tra dichiarazioni/rappresentazioni effettivamente “mendaci” ed errori interpretativi di contesti giuridici particolarmente tecnici per il privato dichiarante [30], come quello verificatosi nel caso di specie, al fine di realizzare un sistema sanzionatorio “graduato” e maggiormente conforme ai canoni di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost.
Del resto, un principio analogo è stato espresso recentemente dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 28 agosto 2020, n. 16, seppur nell’ambito di una vicenda diversa da quella in esame [31], involgente la puntuale perimetrazione della portata (e dei limiti) degli obblighi informativi posti in capo all’ operatore economico a pena di esclusione dalla gara di appalto. Accogliendo le riflessioni avanzate dal giudice remittente, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto opportuno distinguere tra mere omissioni e vere e proprie violazioni di obblighi dichiarativi posti a carico dell’operatore economico, laddove la falsità “costituisce frutto del mero apprezzamento di un dato di realtà, cioè di una situazione fattuale per la quale possa porsi l’alternativa logica vero/falso, accertabile automaticamente”, mentre la dichiarazione mancante “non potrebbe essere apprezzata in quanto tale, ma solo con valutazione nel caso concreto, in relazione alle circostanze taciute, nella prospettiva della loro idoneità a dimostrare l’inaffidabilità del concorrente, in cui il disvalore si polarizza sull’elemento normativo della fattispecie, ovvero sul carattere doveroso dell’informazione”. Le due ipotesi, pur avendo il medesimo oggetto, conducono a conseguenze differenti: la prima conduce ad una esclusione automatica, l’altra ad una valutazione. Invero, in presenza di una dichiarazione falsa, risulta giustificata “di per sé – cioè in quanto illecito professionale in sé considerato – l’operatività, in chiave sanzionatoria, della misura espulsiva”, mentre nelle ipotesi di omessa dichiarazione si configura in capo alla stazione appaltante “l’onere di valutare se l’omissione incida negativamente sull’integrità ed affidabilità del concorrente” e, solo all’esito di tale valutazione, eventualmente procedere alla sua esclusione.
Al di là del caso specifico, il principio enunciato dalla Adunanza Plenaria fornisce una prospettiva utile al necessario riequilibrio dei rapporti tra P.A. e privato, in termini di competenze, oneri e responsabilità, nonché un’occasione per l’Amministrazione di riappropriarsi di poteri che le sono propri in modo da assicurare la piena attuazione dei principi di buon andamento, imparzialità, proporzionalità e ragionevolezza.
[1] La medesima questione di legittimità costituzionale era già stata sollevata dal T.A.R. Puglia, sezione staccata di Lecce, con le ordinanze del 17/09/2018, n. 1346, del 23/10/2018, n. 1531, del 24/10/2018, n. 1544, del 25/10/ 2018, n. 1552, e dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 24/07/2019, n. 199, per difetto di motivazione sulla rilevanza della questione (in ragione, per un verso, dell’ “incompleta descrizione della fattispecie”, in relazione alla definitività dell’accertamento, e, per altro verso, dell’assenza di “alcun rilievo in ordine al rapporto che lega la disciplina regolamentare e quella delle conseguenze delle false dichiarazioni sostitutive”).
[2] Cons. Stato, Sez. V, 9/04/2013, n. 1933, e 27/04/2012, n. 2447.
[3] Cons. Stato, Sez. IV, 22/04/2015, n. 2028; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 21/07/2015 n. 2466.
[4] Cons. Stato, Sez. V, 17/01/2018, n. 257 e 23/01/2018, n. 418, che hanno, rispettivamente, confermato le decisioni dello stesso TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 21/12/2015, n. 3664, e 18/02/2016, n. 335.
[5] Vengono richiamati T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 29/10/2018, n. 2190; T.A.R. Basilicata, Sez. I, 7/01/2019, n. 31 e T.A.R. Molise, Sez. I, 28/12/2019, n. 478, secondo i quali “il provvedimento di rigetto dell’istanza di rinnovo del patentino è stato annullato sul rilievo che non sarebbe qualificabile come pendenza fiscale, ai sensi dell’art. 8 del d.m. n. 38 del 2013, quella situazione di fatto che, alla luce della normativa tributaria, non possiede i relativi caratteri come, ad esempio, il mancato superamento della soglia minima di rilevanza fiscale, fissata dall’art. 3, comma 10, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella legge 26 aprile 2012, n. 44”. Di conseguenza, i giudici hanno escluso la non veridicità di una dichiarazione ex art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, intrinsecamente corrispondente a detta normativa.
[6] Il tema della semplificazione, affrontato in Italia fin dagli inizi del secolo e previsto già nella abrogata legge n. 15 del 1968, riceve una consacrazione normativa con la legge n. 241 del 1990, e successivamente con le leggi n. 59 del 1997 n. 127 del 1997 s.m.i. (cd. Bassanini-bis), attraverso le quali vengono attuati interventi diretti sia a soggetti pubblici (semplificazione dell’organizzazione), sia alla loro attività (semplificazione dei procedimenti amministrativi). Cfr. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, 1996, 284 ss; M. Mazzamuto, Dichiarazioni sostitutive: le principali innovazioni della legge Bassanini, in Nuove Autonomie, 1999, 46.
[7] F. Salvia, La semplificazione amministrativa: tra scorciatoie procedimentali e semplicismi mediatici, in Nuove Autonomie, 3-4, 2008, 447 ss. L’A. ritiene che la semplificazione più che uno “strumento” debba costituire un “effetto: l’effetto di un apparato amministrativo che abbia già in sé la capacità di operare al meglio con le regole ordinarie e in un clima di assoluta normalità”. Per tale ragione afferma che “una semplificazione degna di questo nome non possa essere l’effetto di scorciatoie procedimentali o legislative più o meno estemporanee, costituendo piuttosto l’effetto sistemico di una amministrazione ben strutturata che abbia già raggiunto livelli qualitativi assai elevati”. Nello stesso senso si pone F. Merusi, La semplificazione: problema legislativo o amministrativo, in Dir. amm., 2007, 689; Nuove autonomie, 2008, n. 3-4, 335-341 secondo il quale “la semplificazione dovrebbe assurgere al rango di canone ermeneutico”, idoneo a guidare l’interpretazione verso la soluzione meno gravosa per il cittadino, quella più semplice dal punto di vista strutturale e funzionale.
[8] G. Corso, Perché la complicazione? in Nuove Autonomie, 3-4, 2008, 325.
[9] Sin dall’approvazione della l. n. 59/1997, è venuta a consolidarsi l’idea secondo la quale la semplificazione dei procedimenti amministrativi e la razionalizzazione delle normative debbano costituire funzioni stabili del sistema amministrativo, al fine di assicurarne regolarità e continuità, e non intervenire soltanto in situazioni di “fibrillazione” come soluzioni occasionali a specifiche patologie del sistema stesso. La semplificazione è così passata dal costituire un generico programma di sburocratizzazione del fare dell’amministrazione a costituire un vero e proprio insieme di tecniche e strumenti giuridici che attengono all’azione amministrativa e che dovrebbero condurre, oltre che ad una maggiore economicità della stessa, soprattutto all’incremento della sua efficacia. Cfr. G. Vesperini, Il governo della semplificazione, Milano, 2006; La semplificazione, politica comune, in Giornale di diritto amministrativo, n. 11/2014, 1019-1032; G. Vesperini, Frammenti di semplificazione, in Giornale di diritto amministrativo, n. 3/2019; M. R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, in Foro mm., 2010, 3041 ss.; M.A. Sandulli, La semplificazione dell’azione amministrativa: considerazioni generali, in Nuove autonomie, 3-4/2008, 405-415; L. Vandelli, Tendenze e difficoltà della semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 3-4/2008, 417-434.
[10] M. A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione, in www.ius-publicum.com.
[11] F. Costantino, Il principio di semplificazione, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, Roma, 2014, p. 425-447; Cfr. anche M. Bombardelli, La semplificazione della documentazione amministrativa: strumenti e tecniche, in G. Arena, M. Bombardelli, M.P. Guerra, A. Masucci (a cura di), La documentazione amministrativa, Rimini, 2001, 76, il quale evidenzia come l’istituto della autocertificazione “segni un mutamento epocale dei rapporti tra Amministrazione e cittadini nel sistema delle certezze pubbliche”.
[12] Cfr. M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale. Il caso dell’autocertificazione, in Nuove autonomie, 3-4, 2008, 603-617. L’A., nell’esporre l’evoluzione storica dell’istituto dell’autocertificazione, evidenzia come lo stesso fosse già presente nella legge n. 15 del 1968, ispirata al principio di non aggravamento del procedimento amministrativo (poi ripreso dalla legge 241 del 1990), ma rimasta sostanzialmente inattuata. Il motivo principale della sua mancata attuazione risiedeva nel fatto che le amministrazioni ritenevano inaffidabili le dichiarazioni sostitutive e i cittadini preferivano non utilizzarle proprio a causa dell’atteggiamento sfavorevole dell’amministrazione.
[13] Con determinati limiti previsti dall’art. 49 del medesimo d.P.R. Per una ricostruzione sistematica della disciplina cfr. M. A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio, in questa rivista.
[14] M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale. Il caso dell’autocertificazione, cit., M.S. Giannini, Certezza pubblica, in Enc. Dir., VI, Milano, 1960, 769; F. Fracchia-M. Occhiena (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 867.
[15] L’art. 76 del d.P.R. rimanda alla disciplina del Codice penale ed in particolare alle fattispecie incriminatrici della falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), delle false dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 496 c.p.) e della falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 495 c.p.). Peraltro, il decreto Rilancio, modificando l’art. 76 cit., ha inasprito le sanzioni penali prevedendo che esse vengono aumentate “da un terzo alla metà”.
[16] M. A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, cit.; M. A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in questa rivista e in Diritto e processo amministrativo, 3/06/2020 n. 1128;
[17] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 23/07/2020, n. 8622; T.A.R. Veneto, Sez. I, 18/09/2017, n. 832; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 13/12/2016, n. 12433; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II 04/01/2016, n. 33.
[18] M. A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, cit., osserva come il legislatore abbia inserito nella disciplina della semplificazione per l’emergenza un significativo inasprimento delle conseguenze delle autodichiarazioni di cui le stesse amministrazioni abbiano eventualmente ritenuto, in sede di verifica postuma e senza alcun limite temporale, la non veridicità, proponendola inopinatamente come norma diretta a garantire il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni del principio di non aggravamento di cui all’art. 1, co. 2, l. n. 241 del 1990 e conseguentemente dell’obbligo di non “richiedere agli amministrati la produzione di documenti e informazioni già in loro possesso”.
[19] M. A. Sandulli, Autodichiarazione e dichiarazione “non veritiera”, cit. evidenzia come il legislatore, novellando l’art. 71 abbia introdotto un evidente elemento distintivo tra le mere “irregolarità od omissioni” e le “falsità”, espressamente onerando l’Amministrazione procedente di rilevare e contestare le prime in tempo utile per permetterne la regolarizzazione in corso di procedimento. La norma infatti precisa: “se le dichiarazioni sostitutive rese in un procedimento amministrativo contengono irregolarità od omissioni rilevabili d’ufficio che non costituiscono falsità, a pena di mancata prosecuzione del procedimento l’interessato deve riceverne apposita segnalazione da parte del funzionario competente e deve procedere alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione medesima”, e se egli non provvede “alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione”, “il procedimento non ha seguito”.
[20] M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale. Il caso dell’autocertificazione, cit.
[21] Cfr. L. Vandelli, Tendenze e difficoltà della semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 3-4, 2008, 421; M.R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, cit., i quali evidenziano come il tema della semplificazione debba diventare il mezzo e non il fine: debba costituire elemento di bilanciamento rispetto alla disciplina delle garanzie procedurali.
[22] Come fa notare la Corte, “entrambe le disposizioni sono state modificate, successivamente all’ordinanza di rimessione, dal decreto del Ministro dell’economia del 12/02/2021, n. 51 (Regolamento recante modifiche al decreto ministeriale 21/02/2013, n. 38, recante disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo). Per effetto di queste modifiche, la competente amministrazione è tenuta a valutare “la sussistenza di eventuali violazioni fiscali e situazioni di morosità verso l’Erario o verso l’Agente della riscossione di importo superiore a quello previsto dall’articolo 80, comma 4, del decreto legislativo n. 50 del 2016, definitivamente accertate o risultanti da sentenze non più impugnabili”. È stato quindi escluso il rilievo – ai fini del rilascio del patentino – di obbligazioni tributarie, definitivamente accertate, di importo inferiore alla soglia indicata. E ciò secondo la Consulta sarebbe comunque indicativo dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento, nel senso della graduazione del rilievo delle pendenze fiscali.
[23] F. Liguori, Le incertezze degli strumenti di semplificazione: lo strano caso della D.I.A. – S.C.I.A., in Diritto Processuale Amministrativo,4/2015, 1223.
[24] In base alla novella apportata all’art. 40, comma 1, del d.P.R. n. 445 del 2000, da parte dell’art. 15, comma 1, lettera a), della legge 12/12/2011, n. 183, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” (Legge di stabilità 2012), il privato ha l’obbligo, e non più la facoltà, di presentare alle amministrazioni le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”.
[25] M. A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, cit.; M. A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, cit.
[26] Cfr. F. Costantino, Il principio di semplificazione, cit. Peraltro, anche la Consulta, con la sentenza in commento, rileva che “Lo spazio per l’apprezzamento discrezionale da parte dell’amministrazione in ordine allo specifico rilievo delle pendenze o morosità definitivamente accertate si colloca, quindi, nella precedente fase di verifica dei requisiti, anziché in quella delle conseguenze delle false dichiarazioni (…)”.
[27] M. Calabrò, Appalti pubblici e semplificazione della procedura di presentazione delle offerte. Alla ricerca di un bilanciamento tra fiducia e controllo, in Il diritto dell’economia, vol. 30, n. 93 (2/2017), 247 richiama il concetto di “insicurezza sostenibile” proposto da A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze” private. Poteri pubblici e certificazioni di mercato, Milano, 2011, 27.
[28] M. Calabrò, Appalti pubblici e semplificazione della procedura di presentazione delle offerte. Alla ricerca di un bilanciamento tra fiducia e controllo, in Il diritto dell’economia, cit., 250.
[29] Cons. Giustizia Amm. per la Regione Sicilia, Sez. I, 26/05/2020, n. 325.
[30] In termini M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, cit.; M.A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, cit.
[31] L’Adunanza Plenaria è chiamata ad indagare e definire i rapporti tra l’art. 80, comma 5, lett. c), d. lgs. 50 del 2016 (applicabile ratione temporis alla fattispecie) e l’art. 80, comma 5, lett. f-bis) del medesimo Codice dei contratti pubblici, laddove in base alla prima norma, costituisce causa di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici l’ipotesi in cui la stazione appaltante “dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”, tra cui “il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”; mentre per la successiva lettera f-bis), del medesimo art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è invece causa di esclusione quella dell’operatore economico “che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”. Cfr. C. Napolitano, La dichiarazione falsa omessa o reticente secondo l’Adunanza Plenaria (commento a Cons. Stato, Ad. Pl. 28 agosto 2020, n. 16) in questa rivista.
La rappresentanza elettorale e le degenerazioni corporative*
di Gabriella Luccioli
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il tema cui questa seconda sessione è dedicata, la rappresentanza elettorale e le degenerazioni corporative, attiene a due ordini di questioni che interferiscono tra loro, atteso che le degenerazioni correntizie condizionano ed alterano il sistema di rappresentanza democratica.
Nonostante la connessione tra tali problematiche, la loro soluzione va ricercata seguendo prospettive diverse, in quanto il contrasto alle degenerazioni correntizie non può costituire la cifra ed il motivo ispiratore di qualsiasi ipotesi di riforma del sistema elettorale del CSM: non esiste infatti ingegneria costituzionale capace di annullare il corporativismo o il clientelismo.
Ne è conferma il fatto che ogni iniziativa legislativa del passato diretta a limitare il peso delle correnti ha finito in realtà con il produrre l’effetto contrario.
Quest’ opera di contrasto va realizzata con altri sistemi, in altre forme e con strategie di ampio respiro: tra l’ altro, intervenendo sulla normativa secondaria con una seria riscrittura del TU del 2015 sulla dirigenza o anche, con riguardo alle regole associative, adottando strumenti che privino di utilità di carriera l’attività svolta nelle correnti, o ancora, sul piano etico, recuperando tutti una forte coscienza del ruolo della giurisdizione affinchè quanto di recente accaduto non si ripeta più.
E’ convincimento ampiamente condiviso che occorre metter mano con urgenza ad una riforma della legge n. 44 del 2002, che ha disciplinato il voto nelle ultime cinque consiliature, tenuto conto che detta legge, approvata con il dichiarato obiettivo di contrastare l’ influenza delle correnti, ha per converso determinato un accrescimento del loro potere di condizionamento dell’ attività consiliare in generale, ed in particolare nella designazione per gli incarichi direttivi e semidirettivi, alimentando la diffusione di un carrierismo ed un individualismo esasperati.
Secondo un approccio corretto alla riforma della legge elettorale occorre uscire dalla logica dell’emergenza e valutare con uno sguardo lungo e alto le varie opzioni sul tappeto, mettendo in luce pregi e difetti di ciascuna, esaminando le soluzioni praticabili sempre dal punto di vista dell’interesse dei cittadini ad una giustizia autonoma e indipendente e sempre nel rispetto della libertà di scelta degli elettori.
La sessione si svilupperà in tre relazioni: Giuseppe Santalucia traccerà un excursus storico sui vari sistemi elettorali: un compito arduo, perché si tratta di una storia articolata e complessa, segnata da interventi normativi che riflettono diverse concezioni del ruolo del CSM in contesti politici ed ordinamentali molto differenziati; Giacomo D’ Amico illustrerà nello specifico i difetti dell’attuale sistema elettorale, con uno sguardo alle prospettive future; Salvo Spagano si soffermerà sul sistema del sorteggio, recepito, come è noto, nel disegno di legge presentato dal Ministro Bonafede al Consiglio dei Ministri il 31 luglio 2019 e in quella sede approvato con riserva o salvo intese.
Seguiranno due interventi programmati: il primo è quello di Donatella Ferranti sulla rappresentanza di genere, un tema del quale si è occupata nel suo precedente ruolo di presidente della Commissione Giustizia della Camera; il secondo sarà svolto da Morena Plazzi, che si soffermerà sui rischi quanto mai attuali del prevalere del qualunquismo.
Prima di dare la parola ai relatori vorrei esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Innanzi tutto mi sembra importante evidenziare la forte preoccupazione, comune a tanti di noi, per il sistema del sorteggio di cui alla proposta del Ministro Bonafede.
Una proposta in favore del sorteggio fu formulata per la prima volta, non a caso, da Giorgio Almirante nel 1971. Ricordo altresì che nella precedente consiliatura del CSM, nel settembre 2016, in occasione del plenum chiamato ad esprimere il parere sulla relazione della Commissione Scotti, la consigliera Alberti Casellati presentò una proposta emendativa volta ad introdurre il sistema del sorteggio, votata poi, anche questa volta non a caso, dai soli membri laici di centrodestra.
Quella del sorteggio è una proposta che allo scopo dichiarato di ridurre il peso delle correnti si ispira alla nota logica dell’uno vale uno, una logica e soprattutto una cultura già infelicemente sperimentata in ambito politico. E’ una proposta che racchiude una chiara impostazione qualunquista, che esprime avversione verso le competenze, delle quali nega ogni valore e ogni capacità selettiva, e nelle quali anzi ravvisa il terreno più favorevole per il consolidarsi delle caste; che tende ad abolire la mediazione dei gruppi intermedi; che costituisce un’ umiliazione e un insulto alla capacità dei magistrati di scegliere i propri rappresentanti, anche se qualcuno al nostro interno la reclama come salvifica; che scalfisce la rappresentatività del CSM; che soprattutto contrasta chiaramente con l’ art. 104 Cost.
E si risolve infine in un’ utopia, perché è irragionevole pensare che una volta spezzato, ma soltanto a metà, il legame tra eletti ed elettori si porrebbe fine ad ogni tipo di politicizzazione del CSM e sparirebbero automaticamente le pratiche clientelari. Al contrario, è assai probabile che sui candidati sorteggiati si riverserebbero, oltre che le pressioni del rispettivo gruppo di appartenenza, altre pressioni oblique o tentativi di affiliazione meno diretti, ma altrettanto efficaci, provenienti da gruppi organizzati o centri di potere anche a livello locale.
Insomma un disastro peggiore del male che si vuole curare.
Infine alcune brevi osservazioni sulla questione della rappresentanza di genere.
Si tratta di una questione fondamentale, che ha a che fare con la tenuta democratica del sistema di autogoverno. La presenza delle donne nella composizione del CSM è stata sempre scarsissima, ed in alcune consiliature si è risolta in un’assenza totale. E’ un risultato non più accettabile, che per essere rimosso esige una forte presa di coscienza da parte di tutti i magistrati.
Si tratta di dare attuazione ad un principio e ad una esigenza democratica acquisiti persino nel mondo della politica: mi limito qui a richiamare, in estrema sintesi, i numerosi interventi legislativi in materia elettorale a livello comunitario, nazionale e regionale diretti a conseguire la parità di genere nelle istituzioni rappresentative e la legge Golfo Mosca n. 120 del 2011, che ha posto in via temporanea una riserva di quote per il genere meno rappresentato negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate, consentendo di raggiungere in pochissimo tempo straordinari risultati. Ricordo altresì, sul piano delle scelte concrete di applicazione del principio di parità, che la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen ha assunto tra i suoi primi impegni una piena parità di genere nella suddivisione dei portafogli.
Tali sollecitazioni continuano a non essere recepite all’ interno dell’ordine giudiziario, purtroppo non abbastanza consapevole del valore aggiunto apportato dalla presenza femminile nelle istituzioni ed appiattito sul canone della parità formale.
Ma la parità formale non basta, se è vero che l’ Italia secondo il Report Global Gender Gap 2017 è collocata all’82° posto su 144 Paesi nella classifica mondiale degli Stati nella realizzazione del principio di eguaglianza.
Purtroppo i tentativi posti in essere in un recente passato per una riforma della legge elettorale del CSM rispettosa del principio di pari rappresentanza non hanno avuto seguito, ed anzi sono ora radicalmente soppiantati dall’ aberrante proposta del sorteggio: il riferimento è alla proposta di legge n. 4512/ 2017 (di cui Donatella Ferranti è stata prima firmataria), presentata nella scorsa legislatura, che ha avuto il merito di far uscire il tema dal circuito ristretto degli addetti ai lavori e di porlo tra le questioni di interesse generale da affrontare in sede di riforma del CSM; poi ai lavori della Commissione Scotti insediata dal Ministro Orlando, terminati con una articolata proposta nel marzo 2016; infine al tavolo ANM/ADMI istituito presso il Ministero della Giustizia.
Si osserva da alcuni che il sistema del sorteggio effettuato in prima battuta per delimitare l’area dell’elettorato passivo, previsto nell’ ultima bozza del progetto Bonafede, potrebbe agevolare le donne, atteso che il gioco delle probabilità renderebbe possibile, in un bacino composto prevalentemente da donne, l’estrazione a sorte di un certo numero di eleggibili di genere femminile. E’ agevole ribattere che tale rilievo non rende accettabile un sistema che accettabile non è in ragione della sua già rilevata incostituzionalità e irrazionalità; va aggiunto che quello della rappresentanza di genere è un obiettivo che non può essere affidato ad un fattore aleatorio, ad un calcolo probabilistico, alla mera casualità, ma richiede di essere perseguito in modo diretto, come un’esigenza prioritaria per la piena attuazione del principio di partecipazione democratica alla vita del CSM.
La presenza nell’ ordine giudiziario di una percentuale così elevata di donne reclama con urgenza di essere adeguatamente rappresentata nell’ organo di autogoverno mediante misure di riequilibrio, idonee ad assicurare non solo eguali posizioni di partenza, ma anche un risultato finale.
E’ necessario essere consapevoli della doverosità di politiche attive di pari opportunità, imposte dagli interventi riformatori rispettivamente del 2003 e del 2001 sugli artt. 51 e 117 co.7 Cost. e dai vincoli internazionali e comunitari: non si tratta infatti di discriminazioni a rovescio di dubbia legittimità, ma di trattamenti idonei al superamento della nozione liberale classica di eguaglianza formale, o eguaglianza competitiva, in direzione dell’ eguaglianza sostanziale, intesa come parità di risultati, che sola integra la dimensione sostanziale dell’ eguaglianza.
* Sul tema in questa rivista si legga Riforma del Csm. Le proposte della Commissione Luciani di Edmondo Bruti Liberati; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione di Francesca Biondi, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio di Francesco Dal Canto, La rappresentanza di genere nel CSM di Donatella Ferranti, Quale riforma per il CSM? Riflessioni sull’elezione del Vicepresidente e sul rinnovo parziale di Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura di Giacomo D'Amico Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici di Salvo Spagano; Quale sistema elettorale per quale csm di Edmondo Bruti Liberati; Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede" di Antonio Mondini, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale di Paola Filippi
Il «danno da lutto» tra diritto alla verità, diritto alla manifestazione del proprio pensiero e diritto alla memoria del defunto
di Francesco Molinaro
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’ingiustizia insita nella «verità negata» e le sue implicazioni in punto di risarcimento del danno. – 3. L’accezione individualistica e collettiva della verità: un «nuovo» diritto della personalità costituzionalmente garantito.
1. Il caso.
Con la sentenza del 2 dicembre 2021 n. 4611, la Terza sezione civile del Tribunale di Palermo affronta la tematica del c.d «danno da lutto»[1], ovvero la sofferenza patita dai familiari delle vittime di un omicidio per non aver potuto conoscere l’identità degli autori e le motivazioni che hanno spinto tali soggetti a commettere il reato.
Precisamente, il caso esaminato dalla suddetta pronuncia ha ad oggetto l’efferato omicidio di Antonino Agostino, agente di Polizia in servizio presso la questura di Palermo, e di sua moglie – incinta di soli due mesi – per mano di due persone che, a bordo di una motocicletta, hanno esploso dei colpi di arma da fuoco e, subito dopo aver commesso il delitto, hanno fatto perdere le loro tracce.
Tale vicenda ha avuto, sin da subito, forte eco nell’opinione pubblica non solo per la particolare crudeltà del gesto ma anche, se non soprattutto, per l’alone di mistero che, da sempre, ha circondato le motivazioni del delitto e le modalità con cui sono state compiute le successive indagini.
In ordine alle motivazioni, archiviata l’iniziale «pista passionale» seguita dalla squadra Mobile di Palermo, l’attenzione degli inquirenti, in virtù di successive dichiarazioni rese da alcuni «pentiti»[2], si è incentrata sul movente mafioso. Infatti, si è ipotizzato che Antonino Agostino, che prima dell’omicidio stava indagando sul fallito attentato dell’Addaura[3] – con il quale la criminalità organizzata palermitana aveva tentato di uccidere il magistrato Giovanni Falcone[4] – potesse aver scoperto qualcosa di importante in merito agli autori del gesto criminale.
Oltre alle difficoltà nello scoprire le motivazioni che avevano spinto gli autori dell’omicidio a compiere un gesto così brutale, gli inquirenti hanno dovuto fronteggiare anche il tentativo di inquinamento delle prove.
Infatti, come rilevato dal Tribunale nella sentenza in commento, il giorno dopo l’omicidio la Squadra Mobile di Palermo, alla quale apparteneva anche il convenuto, aveva proceduto ad una perquisizione dell’abitazione di Antonino Agostino. Tale attività di ricerca della prova non rispondeva solo ad ordinari canoni investigativi ma anche ad un preciso spunto offerto dal padre della vittima.
Infatti, Vincenzo Agostino, divenuto negli anni un monumento vivente della lotta alla mafia, aveva riferito di aver rinvenuto, subito dopo l’omicidio, un appunto manoscritto dal figlio, nel quale si faceva riferimento ad importanti documenti da cercare nel proprio armadio, nel caso gli fosse capitato qualcosa di grave.
Tuttavia, di tali documenti non si è mai rinvenuta traccia, in quanto, secondo la ricostruzione fornita dai congiunti, questi, sarebbero stati distrutti dal convenuto, un agente di polizia che, durante la perquisizione dell’abitazione della vittima, avrebbe posto in essere delle attività volte a sottrarre e «stracciare» alcuni documenti, aventi presumibilmente un forte valore probatorio, al fine di depistare l’attività investigativa ed ostacolare l’individuazione degli autori dell’omicidio.
Tale circostanza risulterebbe peraltro confermata dall’intercettazione ambientale carpita presso la dimora del convenuto ed avente ad oggetto una conversazione tra quest’ultimo ed il figlio (pure in servizio presso la Polizia di Stato), tenuta a distanza di due lustri dall’omicidio, allorquando i due erano intenti a vedere la televisione ed, in particolare, una intervista del padre della vittima, dove questo riferiva, al giornalista che lo stava intervistando, la circostanza del rinvenimento degli appunti del figlio, dolendosi del fatto che, questi, non avevano poi fornito alcun concreto apporto alle indagini.
In particolare, durante il dialogo intercettato il figlio domandava al padre, convenuto nel giudizio, che cosa ci fosse dentro l’armadio. Quest’ultimo non solo affermava di avervi rinvenuto all’interno molte cose ma ammetteva altresì di averle prese e «stracciate»[5].
L’acquisizione della predetta intercettazione determinava l’instaurazione di un giudizio penale avente ad oggetto il reato di soppressione documentale e di favoreggiamento degli autori dell’omicidio che, tuttavia, veniva archiviato per intervenuta prescrizione.
L’archiviazione del processo penale, dovuta a mere questioni di rito, non ha però impedito ai familiari della vittima di incardinare un giudizio civile, definito con la sentenza in commento, per ottenere un risarcimento ai sensi degli artt. 2043-2059 c.c., per il danno subito a causa della distruzione di alcuni documenti di proprietà della vittima, per il favoreggiamento degli autori dell’omicidio dello stesso, nonché per le sofferenze patite dai familiari che, a causa della condotta «soppressiva» tenuta dall’agente di polizia, si sono visti negata la possibilità di conoscere la verità sulla morte della persona cara.
2. L’ingiustizia insita nella «verità negata» e le sue implicazioni in punto di risarcimento del danno
Il Tribunale, nel tentativo di dare risposta alle richieste risarcitorie degli attori, è stato chiamato ad accertare, secondo le regole che governano la responsabilità civile, il nesso causale tra la condotta del convenuto e il danno ingiusto patito dai prossimi congiunti della vittima.
Precisamente, ha dovuto appurare, innanzi tutto, l’esistenza di un nesso di causalità materiale tra il fatto commesso dal convenuto, avente ad oggetto la distruzione dei documenti, e l’evento lesivo, ovvero l’impossibilità per i parenti di conoscere la verità sull’uccisione dei due coniugi.
Il giudice, muovendo dal presupposto dell’assenza di elementi concreti, ha peraltro ritenuto di poter valutare se il convenuto avesse o meno distrutto quei documenti – considerati, dal padre della vittima, potenzialmente idonei ad individuare gli autori del delitto – solo in base ad un dato logico.
Tale dato può essere desunto dalla inattendibilità delle dichiarazioni rese dal convenuto in occasione dell’interrogatorio formale, in cui ha confermato di aver distrutto dei documenti, precisando però che gli stessi erano del tutto irrilevanti ai fini delle indagini.
Tale ricostruzione non è stata considerata verosimile dal Tribunale per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, si è osservato come sia difficile ipotizzare che, in occasione di un atto di polizia giudiziaria, un funzionario ponga attenzione a «cose» inutili e, peraltro, si adoperi per distruggerle, anziché restituirle ai proprietari/parenti, tanto più nell’indagine su un delitto che aveva visto coinvolto un collega, vittima del dovere.
In secondo luogo, ha rilevato che – laddove le cose rinvenute fossero state effettivamente inutili – il convenuto non si sarebbe ricordato un dettaglio così insignificante come quello del ritrovamento e della successiva distruzione degli oggetti.
Il Tribunale ha quindi ritenuto che, pur non potendosi affermare con certezza che dal rinvenimento degli elementi soppressi, si sarebbe pervenuti, anche solo più celermente, all’accertamento degli autori e dei mandanti del duplice omicidio, sia indubbio che il convenuto avesse rinvenuto «cose» di cui non vi è traccia nei verbali di sequestro, in quanto sottratte al vaglio degli altri investigatori e dell’Autorità Giudiziaria.
Pertanto, ha affermato l’esistenza di un nesso di causalità materiale tra la condotta soppressiva tenuta dell’agente di polizia e l’evento lesivo, dato dall’impossibilità per i parenti di conoscere la verità sull’uccisione dei due coniugi.
Il Tribunale palermitano, ricostruito il nesso di causalità materiale, ha poi dovuto accertare – poiché, come noto, non è ammissibile il risarcimento del solo «danno evento» – anche la sussistenza di un nesso di causalità giuridica tra l’evento lesivo e la sofferenza patita dai familiari delle vittime, che, a causa delle condotte di depistaggio attuate dal convenuto, si sono visti negare la «verità».
In altri termini, il Tribunale, per poter riconoscere la pretesa risarcitoria invocata dagli attori, ha dovuto verificare se la sofferenza patita dai prossimi congiunti a causa della condotta illecita posta in essere dal convenuto – avente ad oggetto la distruzione di appunti manoscritti dalla vittima inerenti all’attività di servizio – possa essersi tradotta in un «danno ingiusto risarcibile», ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c.
Sul punto, il tribunale ha correttamente richiamato l’evoluzione giurisprudenziale che ha interessato l’art. 2059 c.c., norma che, limitando expressis verbis il risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge[6], si è rivelata inadeguata a far fronte alle innumerevoli richieste emergenti nella prassi.
Tradizionalmente, infatti, tale disposizione veniva interpretata come norma in grado di risarcire il solo danno morale soggettivo, o patema d’animo[7], ricollegabile, a quelle situazioni in cui il fatto illecito assumeva anche la connotazione di fattispecie penalmente rilevante ex art. 185 c.p.[8]. Infatti, era convinzione diffusa che, unicamente nelle ipotesi di illecito penale, fosse possibile il risarcimento del danno non patrimoniale, poiché solo in queste, risulta «più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere anche repressivo»[9].
Tale orientamento è stato successivamente superato dalla Corte Costituzionale[10] che, approfittando del dibattito sorto intorno alla figura danno biologico, ha ampliato le maglie dall’art. 2059 c.c.[11], ricollegando, per la prima volta, la norma codicistica al dettato costituzionale. Infatti, dal combinato disposto tra l’art. 2059 c.c. e l’art. 32 Cost.[12] si è potuto estendere il risarcimento del danno non patrimoniale anche alle lesioni all’integrità psico-fisica.
In tal modo, si è aperta la strada al risarcimento dei danni costituzionalmente rilevanti che ha trovato definitiva conferma nelle c.d. sentenze di San Martino del 2008[13], le quali, mosse dall’esigenza di fare chiarezza nel panorama dei danni non patrimoniali risarcibili, hanno ritenuto che tale figura, costituita dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, possa essere risarcita anche in assenza di reato, purché ciò si traduca nella lesione di interessi di rango costituzionale[14].
Nel caso concreto, il tribunale, invocando questo celebre approdo giurisprudenziale, ha ritenuto la condotta tenuta dal convenuto idonea a dar luogo ad un danno ingiusto risarcibile ex artt. 2043 e 2059 c.c., poiché lesiva di interessi di rilevanza costituzionale.
Infatti, l’attività di depistaggio, da un lato, ha arrecato una offesa alla pietà dei defunti – interesse espressamente riconosciuto e tutelato dal codice penale, laddove è postulata, la rilevanza simbolica delle res – in quanto la distruzione di cose ricollegabili al defunto si traduce in uno sfregio alla memoria: «stracciare una cosa del defunto che può essere rilevante per ricostruirne la memoria, il vissuto e le cause della morte assume una valenza di diretta lesione al sentimento dei parenti di pietà per il defunto stesso»; dall’altro, ha inciso sulla dignità della persona, in quanto la condotta del convenuto, avendo impedito di ricostruire le vicende che hanno condotto alla morte dei due coniugi, ha leso il «diritto alla verità», quale postulato della giustizia, che si estrinseca nella pretesa dei parenti a conoscere le motivazioni che hanno spinto a commettere l’omicidio e le circostanze in cui esso è avvenuto.
Infatti, riprendendo un passaggio della sentenza si può affermare che: «finché la verità è negata, perché si impedisce di raggiungerla, la verità è «stracciata», come simbolicamente avvenuto con le «cose stracciate» rinvenute a casa Agostino» e, si può aggiungere, che finché la verità è stracciata – e con essa l’esigenza di giustizia invocata dai prossimi congiunti – questi non potranno elaborare il lutto[15].
3. L’accezione individualistica e collettiva della verità: un «nuovo» diritto della personalità costituzionalmente garantito
La sentenza in commento riveste particolare importanza non solo per la delicatezza della questione trattata ma anche perché ha affermato la rilevanza costituzionale del diritto alla verità – quale espressione del diritto alla conoscenza[16] – nella sua duplice accezione individualistica e collettiva, ponendosi, in linea a quegli orientamenti dottrinali[17] e giurisprudenziali che, da diverso tempo, affermano la natura liquida o dinamica della «verità».
Tale diritto, infatti, non deve essere inteso solo nell’accezione individualistica – desumibile dal combinato disposto tra gli artt. 2 e 21 Cost.[18] – quale bisogno delle persone direttamente coinvolte in un evento lesivo a conoscere la «verità» ma anche in una più ampia visione collettiva – rilevante ai sensi degli artt. 97 e 111 Cost. – quale esigenza diffusa alla «conoscenza» di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso[19], la cui violazione, può potenzialmente incidere sull’assetto democratico della nazione.
Questo orientamento, invero, era stato già inaugurato dal tribunale palermitano un decennio fa, allorquando in un giudizio, avente ad oggetto le richieste risarcitorie avanzate dai familiari delle vittime decedute nel disastro aereo di Ustica[20], aveva riconosciuto il diritto dei parenti a conoscere la verità sulla morte dei propri cari, così da poter elaborare il lutto[21].
Tale ultima decisione, con la quale per la prima volta la «sete» di verità e, quindi, di giustizia era stata messa in relazione al rimedio risarcitorio[22], è stata successivamente seguita dal Tribunale di Roma[23] che, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta avanzata dai parenti del militare Davide Cervia – scomparso in circostanze misteriose – nei confronti dei Ministeri della giustizia e della difesa, ritenuti responsabili di aver ostacolato la ricerca della verità sulla sorte del loro congiunto, ha riconosciuto ai primi il risarcimento per la violazione del diritto alla verità, non solo in forza degli artt. 2 e 21 Cost., ma anche in virtù degli artt. 97 e 111 Cost., sotto il profilo del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale e del rispetto dei canoni del «giusto processo».
La convinzione che il diritto alla verità non appartenga solo ai prossimi congiunti delle vittime ma a tutta la collettività, quale baluardo posto a garanzia della giustizia, ha spinto il tribunale di Palermo, nella sentenza annotata, ad affermare che: «la posizione soggettiva del parente della vittima, intrisa di sofferenza e dolore, in relazione al diritto alla verità assume rilievo e merita tutela, nella specie risarcitoria, quale momento di emersione del diritto alla conoscenza del singolo, anche quale utile passaggio per preservare il diritto della collettività alla conoscenza ed al corretto funzionamento della giurisdizione di cui all’art. 97 Cost.».
Alla luce di quanto sin qui sostenuto si può affermare che il diritto alla verità, nella doppia accezione individualistica e collettiva, va iscritto – in virtù del combinato disposto tra gli artt. 2, 21, 97 e 111 Cost – tra i diritti aventi dignità costituzionale.
Pertanto, lo Stato sarà tenuto a soddisfare in via prioritaria il «grido» di verità che sovente si leva nelle vicende processuali aventi ad oggetto attentati mafiosi[24], non potendo sacrificarlo in assenza di valide giustificazioni.
Infatti, sebbene il «diritto alla verità», quale diritto fondamentale della persona e della collettività, possa essere bilanciato, al pari di qualsiasi altro diritto alla personalità, con interessi di pari rango, lo stesso non può essere sacrificato in favore di discusse «ragioni di Stato» [25]. Qualora ciò avvenga, ossia quando la verità venga ad essere negata o «stracciata», per citare le parole usate dal tribunale nella sentenza in commento, le vittime potranno avanzare una richiesta risarcitoria per la sofferenza, la disperazione e il conseguente sconvolgimento esistenziale[26] che un siffatto diniego ha provocato alle parti offese.
[1] Per una compiuta analisi sul danno da lutto v. Hazan – Zorzit, Il risarcimento del danno da morte, Milano, 2009, 351.
[2] A sostegno della tesi del movente mafioso si possono menzionare, innanzitutto, le dichiarazioni di Giovanni Brusca che individuò i sicari dell’Agostino nei Madonia di Resuttana poiché questo aveva collaborato all’arresto di un loro congiunto latitante. A tali dichiarazioni hanno fatto seguito quelle di Oreste Pagano che affermò di aver saputo che il poliziotto fu ucciso da Gaetano Scotto poiché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni membri della questura di Palermo e che, inoltre, sua moglie venne uccisa perché anche lei «sapeva» (v. Palazzolo, Poliziotto ucciso: «Segreto di Stato», in https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/12/17/poliziotto-ucciso-segreto-di-stato.html, del 17.12.2005). Tali dichiarazioni – confermate negli anni successivi da Vito Lo Forte, il quale affermò che Antonio Agostino fosse stato ucciso da Antonino Madonia e Gaetano Scotto, aiutati da un poliziotto conosciuto con il soprannome di «faccia da mostro» (v. articolo Mafia, il pentito Lo Forte: «faccia da mostro»» partecipò all'omicidio Agostino, https://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/11/26/news/mafia_il_pentito_lo_forte_faccia_da_mostro_partecipo_all_omicidio_agostino-128211012) – hanno permesso ai giudici, trentadue anni dopo, di condannare all’ergastolo il boss Nino Madonia (che ha scelto il rito abbreviato) e di rinviare a giudizio Gaetano Scotto (ad oggi è ancora in corso il processo poiché, questo, non ha voluto beneficiare dei riti speciali, optando per quello ordinario).
[3] Tale evento, conosciuto come «l’attentato dell’Addaura» ha ad oggetto il ritrovamento presso l’omonima spiaggia, in cui si trovava la casa del magistrato Giovanni Falcone, di un borsone contenente cinquantotto candelotti di tritolo.
[4] Risulta che Giovanni Falcone, accorso ai funerali di Antonino Agostino, dichiarò al commissario Saverio Montalbano: «Io a quel ragazzo devo la vita», v. Vecellio, Strage di Capaci: gli infiniti, inquietanti, evanescenti misteri, in https://lindro.it/strage-di-capaci-gli-infiniti-inquietanti-evanescenti-misteri.
[5] Nell’intercettazione ambientale, come si legge nella motivazione della sentenza annotata, il convenuto ha testualmente affermato: «Una freca di carte che proprio io ho pigliato e poi ho stracciato».
[6] Cfr. C.M. Bianca, La responsabilità, V, Milano, 2012, 590.
[7] Cfr. Gabba, Nuove questioni di diritto civile, vol. I, Milano, 1912, 244 lo definisce come il danno interiormente sentito. V., anche Bonilini, Danno morale, in Digesto disc. priv., Sez. civ., V, Torino, 1989, 85 e C. Scognamiglio, Il danno morale soggettivo, in Nuova giur.civ.comm., 2010, 248.
[8] Cfr. R. Scognamiglio, Danno morale, in Noviss. Dig. It., 1960, 147.
[9] Cfr. Cendon, Sulla riforma del danno non patrimoniale, in giustiziacivile.com, editoriale del 13 marzo 2017.
[10] Il riferimento è a Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 184 (c.d. sentenza dell’Andro) con note di Ponzanelli, La corte costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute, in Foro it., 1986, 2053 e Scalfi, Reminiscenze dogmatiche per il c. d. danno alla salute: un ripensamento della corte costituzionale, in Resp. civ. prev., 1986, 520.
[11] Invero, in un primo momento date le «strettoie» dell’art. 2059 c.c., il risarcimento del danno biologico era stato giustificato in virtù del combinato disposto tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. Tale situazione, che dava luogo ad un’evidente contraddizione, in quanto ricollegava un tipico danno non patrimoniale ad una norma che risarciva i meri danni patrimoniali, è stata superata dalla Corte Costituzionale che ha ricondotto il danno biologico nell’alveo dell’art. 2059 c.c. (Il riferimento è a Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372 con note di Gussoni, Il danno biologico da morte che non c’è e quello che, se c’è va provato: riflessioni sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 372/94, in Ass., 1995, 49; Alpa, Lesione del diritto alla vita e «danno biologico da morte», in Nuova giur. civ. comm., 1995, 153).
[12] Cfr. Chindemi, Sulla prova del danno biologico da morte «iure proprio», in Nuova giur. civ. comm., 1995, 493.
[13] Il riferimento è alle sentenze dell’11 novembre 2008, nn. 26972-5 (c.d. «sentenze di San Martino»), con nota di C. Scognamiglio, Il sistema del danno non patrimoniale dopo le decisioni delle Sezioni Unite, in Resp. civ. prev., 2009, 266 il quale saluta favorevolmente la previsione di una categoria generale ed unitaria di danno non patrimoniale, «insuscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate».
[14] Cfr. Salvi, La responsabilità civile, Milano, 2019, 57.
[15] Cfr. Stefani, Il risarcimento del danno da uccisione, Milano, 44.
[16] Il diritto alla verità rappresenta un «luogo della conoscenza» in cui la personalità umana, che è archetipo della Costituzione Repubblicana, si manifesta nel modo più dinamico e, si badi bene, anche con il maggior bisogno di solidarietà culturale (così, Messina, Il diritto alla verità, in questa Rivista, 1° giugno 2021).
[17] L’esigenza di riconoscere un «diritto alla verità» è stata ravvisata da Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, 2015, 211, il quale alla domanda su chi siano i titolari del diritto alla verità risponde: «Tutti hanno l’inalienabile diritto di conoscere la verità sui fatti passati e sulle circostanze e le ragioni che, attraverso casi rilevanti di gravi violazioni di diritti umani, hanno portato a commettere crimini aberranti. L’esercizio pieno ed effettivo del diritto alla verità è essenziale che tali fatti possano ripetersi in futuro». Tale particolare valore al diritto alla verità è stato successivamente riconosciuto da R.G. Conti, Il diritto alla verità o alla non impunità dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani (gross violation), fra amnistia, prescrizione e giurisprudenze della Corte EDU e della Corte interamericana dei diritti umani, in Romboli – Ruggeri, Corte Europea dei diritti dell’uomo e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, Torino, 2019, 259, il quale l’ha definita come la colla che tiene unita la generazione presente con quella passata e quella futura: «La memoria del passato, specie di quello più doloroso in cui si è assistito a comportamenti offensivi della dignità posti in essere da uomini trasformatisi in bestie feroci, illumina il presente, dà a quest’ultimo insegnamenti preziosi, che non possono (e non devono) essere dimenticati; allo stesso tempo in cui aiuta alla comprensione del presente, prepara ed orienta il futuro, spingendo con vigore ad adeguare i comportamenti in società alle aspettative specie dei soggetti più vulnerabili e bisognosi».
[18] Il nesso tra il diritto alla verità, quale diritto fondamentale della persona rilevante ex art. 2 Cost. e quello alla libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., si può cogliere dalle parole di Elio Basso «la democrazia, cioè la sovranità del popolo, sarà più o meno effettiva a seconda che il popolo sarà più o meno in grado di avere e di formulare una propria volontà libera e cosciente e di controllarne l'adempimento. Ciò che dipenderà dalle condizioni economiche sociali e culturali della popolazione» (così, Messina, cit., 1° giugno 2021).
[19] R.G. Conti, cit., in Romboli – Ruggeri, op. cit., 2019, 250.
[20] Il riferimento è a Trib. Palermo 21 settembre 2011 n. 4067, in Foro it., 2012, 1195.
[21] Cfr. Viola, Danni da morte e da lesioni alla persona, Padova, 2009, 184.
[22] La sentenza del tribunale di Palermo e successivamente quella del tribunale di Roma hanno conferito alle istanze di verità la consistenza di diritto soggettivo autonomamente azionabile ai sensi dell’art. 2043 c.c. (cosi, Somma – Fusaro – Conte – Zeno-Zencovich, Dialoghi con Guido Alpa. Un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, Roma, 2018, 455.
[23] Il riferimento è a Trib. Roma 23 gennaio 2018 n. 1609.
[24] Tale medesima esigenza è invocata da Fiammetta Borsellino che da quasi trent’anni chiede verità in ordine alla strage di Via D’Amelio, dalla quale peraltro emerse l’esistenza di una possibile trattativa tra lo Stato e la mafia.
[25] Così, R. G. Conti, Sulla strada di «Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia», in questa Rivista, 2 settembre 2021.
[26] Il risarcimento di un simile danno potrebbe determinare, peraltro, una rinnovata attenzione nei confronti del danno esistenziale, tanto caro alla Scuola triestina. Infatti, tale voce risarcitoria, demonizzata e abbandonata (forse) troppo in fretta, potrebbe essere utile, a fini meramente classificatori, per giustificare il risarcimento di quei danni, lesivi di diritti fondamentali della persona, non immediatamente riconducibili a pregiudizi medicalmente accertabili o a patemi d’animo, come può essere il danno discendente dalla verità negata. Sul risarcimento del danno esistenziale si veda su tutti Cendon – Ziviz, Il danno esistenziale una nuova categoria della responsabilità civile, Milano, 2000.
Sulla sindacabilità della certificazione medica di esonero vaccinale: il principio del controllo non meramente formale sulla sussistenza delle condizioni esoneratrici posto dal Consiglio di Stato e disatteso dalla normativa sopravvenuta (nota a Cons. St., sez. III, 20 dicembre 2021, n. 8454)
di Simone Serio
Sommario. 1. Premessa: il giudice amministrativo e la legislazione emergenziale anti-COVID in tema di vaccinazione obbligatoria - 2. La questione sottoposta al Consiglio di Stato - 3. La normativa di riferimento e la soluzione interpretativa prospettata dai giudici di Palazzo Spada - 4. Brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa: il giudice amministrativo e la legislazione emergenziale anti-COVID in tema di vaccinazione obbligatoria
La sentenza in commento si inserisce nell’ambito di una serie di pronunce con le quali il giudice amministrativo ha avuto modo di affrontare questioni, di scottante attualità, nate sull’onda dell’emergenza epidemiologica tuttora in corso e che rimandano al tema sensibile del rapporto fra il valore costituzionale della libertà di autodeterminazione dell’individuo con riguardo alla sfera della propria salute e quello della tutela della salute pubblica.
Tali decisioni hanno avuto in molti casi origine da ricorsi presentati da lavoratori del settore della sanità avverso provvedimenti che, in applicazione della normativa in tema di vaccinazione obbligatoria anti-COVID selettiva, prevista cioè esclusivamente per il personale sanitario o di interesse sanitario, operante nella sanità pubblica ed in quella privata, avevano disposto nei confronti di quegli operatori che non avessero ottemperato all’obbligo vaccinale l’adozione delle misure ricollegate dalla legge a tale inosservanza[i].
Detti ricorsi, con cui si sono impugnati in prevalenza i provvedimenti di sospensione dal servizio per inosservanza dell’obbligo di vaccinazione adottati in ragione dell’impossibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse[ii], sono stati il più delle volte rigettati dagli organi giurisdizionali aditi, i quali si sono espressi nel senso che, a fronte di crisi sanitarie che rappresentano una grave minaccia per la salute di tutti e di ciascuno - quale è quella concretizzata dalla pandemia di COVID-19 -, l’interesse della collettività alla salute assurge al rango di valore superiore, idoneo a giustificare il sacrificio anche del diritto all’autodeterminazione riguardo alla propria salute[iii]; nell’aderire a siffatta prospettazione ermeneutica il giudice amministrativo ha mostrato di muovere dalla considerazione per la quale le normative di carattere emergenziale, di cui quella in materia di vaccinazione obbligatoria in funzione di contrasto della pandemia è un rilevantissimo esempio, costituiscono il risultato di un bilanciamento, operato dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità politica, volto a far prevalere, in ragione appunto dell’eccezionalità della situazione disciplinata, l’istanza solidaristica sottesa al disposto costituzionale dell’art. 32; istanza che giustifica, in nome della salvaguardia della salute pubblica, l’imposizione di limiti stringenti ad altri interessi pur costituzionalmente rilevanti, ma afferenti alla dimensione prettamente individuale della persona[iv].
La decisione qui annotata affronta un peculiare aspetto della disciplina legislativa in tema di obbligo vaccinale imposto al personale sanitario; con essa, infatti, i giudici di Palazzo Spada hanno fatto il punto sul potere di controllo spettante all’amministrazione sanitaria sulla sussistenza delle condizioni che, per legge, sono idonee ad esonerare dall’adempimento di tale obbligo.
Tuttavia, come emergerà dal prosieguo della trattazione, il principio evincibile dal decisum in esame è suscettibile oramai di applicazione esclusivamente alle vicende disciplinate, ratione temporis, in base alla legislazione preesistente al d.l. 26 novembre 2021, n.172, che significative modifiche ha arrecato all’originario articolato normativo.
2. La questione sottoposta al Consiglio di Stato
La pronuncia de qua ha tratto origine dall’appello proposto da un medico convenzionato presso una asl avverso la sentenza con cui il Tribunale amministrativo regionale dallo stesso adito aveva rigettato il ricorso per l’annullamento degli atti, adottati dall’asl competente, di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale e di conseguente sospensione dell’operatore sanitario dal servizio senza corresponsione di retribuzione.
Nella sentenza appellata il giudice di prime cure aveva respinto il motivo di ricorso con cui veniva denunciata la violazione dell’art. 4, co. 2, d.l. n. 44/2021, che, a fronte della certificazione, ad opera di un medico di medicina generale, di «specifiche condizioni cliniche documentate» e tali da configurare un «accertato pericolo per la salute» individuale, consente che la vaccinazione venga omessa o differita ed esclude, pertanto, il relativo obbligo; lamentava infatti il ricorrente che le misure disposte nei suoi confronti fossero illegittime, in quanto adottate pur avendo egli ottemperato agli adempimenti di legge previsti per il riconoscimento dell’esenzione dall’obbligo vaccinale.
In particolare, l’infondatezza della censura veniva motivata dal giudice adito in primo grado sulla base della rilevata non conformità delle due certificazioni di esenzione, trasmesse alla asl in momenti distinti, alle modalità previste dall’art. 4, co. 2, d.l. n. 44 cit., atteso che esse si erano limitate ad attestare genericamente che il ricorrente era affetto da patologie non rientranti fra quelle oggetto di sperimentazione da parte delle aziende farmaceutiche produttrici dei vaccini anti-COVID, senza essere pertanto accompagnate dall’indicazione delle «specifiche condizioni cliniche» idonee ad integrare il «pericolo per la salute» il cui accertamento è richiesto dalla legge ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, né dalla documentazione comprovante le ragioni poste alla base dell’esonero vaccinale prospettato nella certificazione.
Nella sentenza oggetto del gravame, inoltre, si rilevava come non potessero trovare spazio le istanze di tutela della sfera di riservatezza dell’interessato, richiamandosi alle quali quest’ultimo aveva prodotto il certificato di esenzione nei termini anzidetti, dal momento che la decisione del legislatore, all’esito del bilanciamento effettuato fra tutela della privacy ed esigenze di trattamento dei dati sensibili per finalità di sanità pubblica, si era orientata nel senso di gravare l’interessato stesso dell’obbligo di supportare la certificazione rilasciata dal proprio medico curante e da versare agli atti del procedimento con la documentazione idonea a provare le ragioni giustificative dell’esonero vaccinale.
La critica rivolta dall’originario ricorrente con l’atto introduttivo del giudizio di appello nei confronti della pronuncia impugnata aveva ad oggetto in primis l’affermazione per la quale alle asl, ai sensi della legislazione in tema di vaccinazione obbligatoria anti-COVID selettiva, fosse demandato il controllo della correttezza dell’attività certificativa svolta dai medici di medicina generale; affermazione, questa, censurata come priva di qualsiasi base normativa, posto che, secondo la deduzione dell’appellante, detta legislazione avrebbe attribuito all’amministrazione sanitaria un compito limitato alla mera ricezione della certificazione di esonero rilasciata dal medico curante, con esclusione pertanto del potere di esigere la documentazione medica comprovante le ragioni dell’esenzione.
Il motivo di doglianza è stato ritenuto non fondato e, pertanto, respinto dal Consiglio di Stato; il supremo consesso di giustizia amministrativa, infatti, ha considerato correttamente esercitato il potere di accertamento attribuito all’asl, fondando tale giudizio sull’argomento per cui quest’ultima avrebbe riscontrato l’inottemperanza all’obbligo vaccinale ricollegandola alla rilevata non conformità delle certificazioni di esenzione presentate alle modalità tipizzate dal legislatore, e non invece, come dedotto nell’atto di appello, attraverso l’effettuazione di un controllo sulla correttezza dell’operato dei medici certificatori, andando cioè a sindacare quanto da loro attestato; con il che è stata rigettata la tesi, sostenuta dall’originario ricorrente, del travalicamento, da parte dell’asl competente, dei limiti posti dalla legge rispetto all’espletamento della funzione di accertamento dell’inottemperanza all’obbligo di vaccinazione demandata all’amministrazione sanitaria.
3. La normativa di riferimento e la soluzione interpretativa prospettata dai giudici di Palazzo Spada
Al fine di meglio comprendere la soluzione data dai giudici amministrativi alla questione loro sottoposta, è bene inquadrare il dettato normativo sotteso alla controversia de qua nell’ambito dei principi generali che governano la materia dei trattamenti sanitari obbligatori.
Tali principi sono stati enucleati grazie al determinante contributo della giurisprudenza della Consulta, la quale ha avuto modo di precisare in più di un’occasione la portata del relativo disposto costituzionale[v]; l’art. 32, co. 2, Cost., infatti, di per sé si limita a prescrivere da un lato la necessità della previsione di legge[vi] e, dall’altro, quella del rispetto della persona umana nella configurazione di un certo trattamento sanitario come obbligatorio[vii].
In particolare, l’orientamento del Giudice delle leggi è consolidato nell’enunciare il principio per il quale l’imposizione del trattamento debba porsi come funzionale, ad un tempo, alla protezione tanto della salute di chi vi è assoggettato quanto di quella della generalità dei consociati[viii]; la legittimità costituzionale della previsione legislativa dell’obbligatorietà del trattamento è legata pertanto all’assenza di qualsiasi contrasto fra tutela della salute individuale e tutela della salute pubblica[ix], con conseguente inammissibilità di qualsivoglia trattamento disposto per salvaguardare l’interesse generale alla salute collettiva, ma suscettibile di arrecare pregiudizio, oltre la soglia della normale tollerabilità, all’integrità psico-fisica del soggetto passivo del trattamento stesso[x]; per quest’ultima evenienza, per l’ipotesi cioè di concretizzazione del rischio di lesione correlato al trattamento obbligatorio, la stessa giurisprudenza costituzionale ha sempre ritenuto necessaria l’introduzione, da parte del legislatore ordinario, di forme di tutela ulteriori rispetto alla tutela risarcitoria, sotto forma di liquidazione equitativa per il danno patito[xi].
La funzionalità del trattamento di cui viene prevista l’obbligatorietà alla protezione sia della salute individuale che di uno specifico interesse della collettività alla salute generale (e non di un interesse pubblico qualsiasi[xii]) - che, come si è appena detto, costituisce, per ius receptum, la condizione fondamentale della conformità al dettato costituzionale della previsione legislativa impositiva dell’obbligo di trattamento -, discende dalla necessità, postulata dall’art. 32 Cost., di contemperare il diritto alla salute del singolo individuo (comprensivo del profilo della libertà di cura) con l’uguale diritto rivendicabile da ciascuno degli altri individui e, dunque, con la salute come interesse della collettività[xiii].
D’altro canto, l’impossibilità di sacrificare l’interesse alla salute individuale a quello alla salute pubblica costituisce un portato dell’impostazione personalista alla base della Carta costituzionale del 1948, che esclude in radice che il primo possa assumere posizione servente rispetto al secondo[xiv].
Nella materia dei vaccini la necessità di realizzare un ragionevole punto di equilibrio fra il diritto del singolo di autodeterminarsi rispetto ai trattamenti sanitari e le ragioni di tutela della salute individuale e collettiva attribuisce un ruolo di primo piano alla discrezionalità del legislatore, chiamato ad individuare di volta in volta, sulla base dei dati offerti dalle evidenze scientifiche disponibili al momento nonché della situazione epidemiologica accertata dalle autorità sanitarie, quale tecnica, fra quella della raccomandazione e quella dell’obbligo, sia la più indicata nella logica della garanzia di un sistema di profilassi vaccinale idoneo a prevenire efficacemente l’insorgenza di malattie infettive[xv].
Pertanto, nonostante la libertà di cura costituisca, conformemente alla già richiamata impostazione personalista della Costituzione, il principio generale che governa l’intera materia dei trattamenti sanitari[xvi] - così che la regola è la volontarietà di questi ultimi, mentre la loro obbligatorietà ha carattere eccezionale[xvii] - il legislatore può scegliere di porre la somministrazione vaccinale ad oggetto di un obbligo, optando per lo strumento della coercizione anziché per quello della persuasione, purché tale scelta risulti non irragionevole alla luce delle condizioni epidemiologiche rilevate nelle sedi appropriate e sia sorretta dalle acquisizioni al momento accreditate e largamente condivise dalla comunità medico-scientifica[xviii].
La scelta effettuata dal legislatore con il d.l. n. 44/2021 per fare fronte all’emergenza sanitaria collegata alla pandemia di COVID-19 è stata quella di introdurre un obbligo vaccinale circoscritto, quanto ai suoi destinatari, al personale sanitario e di interesse sanitario, operante nel settore pubblico ed in quello privato[xix], e di rendere pertanto la vaccinazione «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati»[xx].
La giurisprudenza amministrativa che ha avuto modo di pronunciarsi su tale opzione legislativa ha messo in evidenza che la forma selettiva di obbligatorietà delineata nel sopra citato provvedimento normativo, se sicuramente risponde all’esigenza di protezione del personale medico e sanitario nei luoghi di lavoro, trova giustificazione altresì alla luce della chiara finalità di tutela, secondo il principio costituzionale di solidarietà, dei pazienti, e, soprattutto, di quei soggetti che, resi particolarmente fragili e vulnerabili dall’età o da gravi patologie, sono costretti a rivolgersi spesso alle cure e all’assistenza del personale sanitario e per i quali, pertanto, più frequenti sono le occasioni di contatto con questi lavoratori[xxi].
La ratio della previsione, del resto, è esplicitata nello stesso testo di legge, in cui apertis verbis l’obbligo vaccinale gravante sugli operatori sanitari viene collegato al «fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza»[xxii].
Proprio muovendo dalla considerazione della finalità perseguita dal legislatore, il Consiglio di Stato ha escluso il carattere discriminatorio della previsione de qua, ritenendo che l’imposizione dell’obbligo di vaccinazione nei confronti del solo personale sanitario trovi la propria primaria giustificazione, oltre che nel principio di solidarietà, in quello per il quale la sicurezza delle cure (da intendersi qui come affidamento che la persona bisognosa di assistenza sanitaria ripone nella non contagiosità di chi lo cura e, quindi, nella sicurezza del luogo di cura) rientra pienamente nella relazione di fiducia che si instaura tra paziente e medico e nel dovere di cura che su quest’ultimo incombe, divenendo, quindi, parte costitutiva del diritto alla salute costituzionalmente garantito[xxiii].
L’approccio interpretativo appena riferito è recepito anche dalla pronuncia qui annotata, la quale ha ritenuto non irragionevole la diversificazione degli strumenti di contenimento della diffusione del virus operata dal legislatore prevedendo appunto la vaccinazione obbligatoria nei confronti esclusivamente degli esercenti le professioni sanitarie e statuendo per altre categorie di lavoratori il solo obbligo della c.d. certificazione verde vaccinale (con facoltà pertanto per l’interessato di scegliere se sottoporsi a vaccinazione o di effettuare il tampone per verificare la negatività al virus ed escludere la propria contagiosità); a siffatta conclusione l’organo giudicante è pervenuto proprio facendo leva sulla considerazione per cui, attesa la diversa funzione ed efficacia degli strumenti utilizzabili fra quelli messi a disposizione dalla scienza (prevalentemente diagnostiche nel caso del tampone, prevalentemente di prevenzione della malattia indotta dal virus nel caso della vaccinazione), l’imposizione agli operatori sanitari dell’obbligo vaccinale si ricollega alla «maggiore potenziale fragilità dei soggetti che accedono alle prestazioni sanitarie, la quale giustifica l’adozione a fini preventivi di misure ritenute maggiormente efficaci (anche se maggiormente invasive nei confronti delle libertà dell’operatore interessato)», nell’ottica della minimizzazione del rischio di trasmissione del virus nei luoghi di cura e assistenza.
Nella decisione in commento, peraltro, non si manca di rilevare come al trattamento differenziato riservato agli operatori sanitari rispetto ad altre categorie professionali le cui mansioni implicano ugualmente contatti interpersonali e, quindi, il rischio di diffusione del contagio (emblematico, in questo senso, il caso del personale scolastico) non sia estranea neppure una specifica «finalità protettiva nei confronti dello stesso operatore sanitario, la quale non può che essere maggiormente avvertita in un contesto lavorativo caratterizzato, a differenza di quello scolastico, da un maggior grado di esposizione al rischio infettivo, già in ragione della più intensa variabilità dell’utenza (rispetto a quella scolastica)»[xxiv].
L’obbligatorietà della vaccinazione prevista dalla normativa coinvolta nel tema di causa è parsa inoltre alla stessa giurisprudenza amministrativa soddisfare pienamente il requisito della proporzionalità: le evidenze scientifiche e l’osservazione empirica dell’evoluzione della pandemia hanno in effetti ampiamente dimostrato il ruolo cruciale svolto dalla vaccinazione nell’arginare il propagarsi dell’infezione da Sars-CoV-2, di modo che il principio di proporzionalità, che vincola il legislatore a ricorrere, ove possibile, agli strumenti che meno incidono sulle libertà del singolo e configura pertanto, in una prospettiva di equilibrato bilanciamento fra valori contrapposti, l’imposizione dell’obbligo vaccinale quale extrema ratio[xxv], risulta rispettato proprio perché altre misure (distanziamento sociale, uso delle mascherine, ecc.) hanno fornito una risposta debole, o comunque non sufficientemente efficace rispetto al medesimo obiettivo, rendendo necessaria la previsione dell’obbligatorietà vaccinale[xxvi].
D’altronde, l’introduzione dell’obbligo vaccinale selettivo in funzione di limitazione della diffusione del contagio del nuovo coronavirus trova altresì spiegazione alla luce del contesto storico di riferimento entro il quale questa e simili decisioni prese dalle pubbliche autorità si inscrivono; contesto che appare segnato dall’insorgere, nel nostro come in altri paesi industriali avanzati dell’Occidente, di movimenti di protesta nei confronti delle misure di sanità pubblica adottate dai governi per far fronte al dilagare della pandemia di COVID-19.
Tali contestazioni sono portate avanti da rumorose e battagliere minoranze che, con argomentazioni spesso prive di qualsiasi fondamento scientifico, rivendicano, nella sostanza, una libertà individuale di autodeterminarsi con riferimento alla propria salute concepita come del tutto svincolata dalle istanze solidaristiche che connotano qualsiasi ordinamento democratico.
Simili movimenti, alla cui base si pone anche un atteggiamento di pervicace scetticismo nei confronti dei vaccini predisposti per prevenire il manifestarsi della malattia indotta dal virus respiratorio, alimentano inevitabilmente quel fenomeno già noto come “esitazione vaccinale”, che, in quanto diffuso presso la popolazione generale, è suscettibile di avere un impatto fortemente negativo sulla campagna di immunizzazione di contrasto al diffondersi delle malattie epidemiche, e, in quanto riscontrabile anche all’interno della categoria professionale degli operatori sanitari, è passibile di compromettere altresì la sicurezza dei luoghi di cura.
In questa prospettiva, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ritenuto che, in ultima istanza, sia proprio il contesto emergenziale che fa da sfondo alle misure adottate dalla legislazione di contrasto della pandemia ad avere giustificato la prevalenza data dalla normativa in discorso alle ragioni di tutela della salute collettiva rispetto all’autonomia decisionale del singolo operatore sanitario con riguardo alla sfera della propria salute; infatti - ha argomentato il supremo consesso di giustizia amministrativa - la libertà di scelta in questo campo, pienamente garantita dall’ordinamento nelle situazioni ordinarie, si traduce per contro, in condizioni contrassegnate dall’emergenza, in un «rischio inaccettabile»[xxvii], poiché il ritenere che essa possa essere incondizionatamente esercitata anche in queste evenienze, secondo una visione individualistica ed egoistica non giustificata sul terreno della scienza e che non può trovare spazio alcuno nelle fasi di emergenza[xxviii], può concretizzarsi in condotte destinate fatalmente a favorire la trasmissione del virus, a danno dei soggetti più fragili (malati e anziani), proprio nei luoghi di cura e assistenza per opera del personale medico e infermieristico non vaccinato.
Se, come si è appena detto, l’emergenza pandemica ha relegato il diritto di autodeterminazione terapeutica degli operatori sanitari in una posizione recessiva rispetto al preminente interesse alla salute pubblica (sub specie di protezione dei soggetti fragili nei luoghi ove essi ricevono le cure), esso non ha tuttavia inciso sul già richiamato limite dell’impossibilità di sacrificare a quest’ultimo le istanze di tutela della salute individuale, che vengono salvaguardate dalla normativa interessata dal tema di causa.
Il legislatore, infatti, come si è già ricordato quando si sono riportati sinteticamente i termini della questione esaminata dal Consiglio di Stato[xxix], ha contemplato la possibilità per l’operatore sanitario di essere esonerato dall’adempimento dell’obbligo vaccinale al ricorrere di determinate condizioni; in particolare la legge consente l’omissione o il differimento della vaccinazione in presenza di un «accertato pericolo per la salute», correlato a «specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale»[xxx].
Detta previsione, a ben vedere, riveste un ruolo centrale nell’ambito della normativa in discorso, in quanto si connette proprio all’esigenza, costituzionalmente imposta, di contemperare le ragioni di tutela della salute pubblica con quelle di protezione della salute del singolo individuo.
Il meccanismo delineato dal legislatore fa dipendere l’applicazione della clausola di esonero dalla documentazione di patologie del soggetto interessato tali da configurare una oggettiva incompatibilità con la somministrazione del siero vaccinale; spetta al medico di medicina generale desumere dalle condizioni cliniche da lui stesso attestate la sussistenza di un pericolo per la salute dell’operatore obbligato per legge a sottoporsi a vaccinazione e che presenta la certificazione di esenzione dall’obbligo; alle asl è demandato invece un potere di controllo su quest’ultima.
La questione della portata da ascrivere a tale potere - scrutinata nella sentenza in commento nei termini di cui si dirà a breve - ha una rilevanza essenziale rispetto alla definizione del grado di tutela assicurato alla salute collettiva, che, per quello che si è fin qui detto, costituisce la primaria ragion d’essere delle disposizioni in tema di vaccinazione obbligatoria selettiva dettate dal legislatore per contrastare la pandemia in atto; dal modo infatti in cui si ritenga di dover intendere il compito di verifica delle condizioni esoneratrici affidato all’amministrazione sanitaria, dipende la prevalenza delle ragioni della collettività ovvero di quelle del singolo nell’ambito dell’operazione di bilanciamento astrattamente effettuata dal legislatore.
Come si è accennato[xxxi], nella controversia decisa dal Consiglio di Stato nella decisione qui annotata, i giudici dell’appello, andando dello stesso avviso rispetto al giudice di prime cure, hanno ritenuto correttamente esercitato da parte dell’asl competente il potere di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo di vaccinazione; per i giudici, infatti, il modus procedendi in concreto seguito dall’amministrazione, lungi dal configurarsi come una forma di controllo non consentita dalla legge sulla correttezza dell’operato dei medici certificatori (secondo la tesi sostenuta dall’appellante), si è risolto nell’adozione dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo a seguito della mera constatazione della non corrispondenza della certificazione al modello legale, e quindi della sua non idoneità a giustificare l’esonero dall’obbligo stesso.
La premessa da cui muove la Terza sezione dell’organo di vertice della giustizia amministrativa è che l’attività di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo demandata alle asl presuppone la possibilità per queste di verificare tutti gli elementi costitutivi della relativa fattispecie e che, conseguentemente, dal momento che quest’ultima non è integrata quando risultino sussistere le condizioni esoneratrici previste dalla legge e rappresentate dall’interessato, occorre che i poteri di verifica spettanti all’amministrazione sanitaria abbiano modo di esplicarsi, in termini di effettività, anche su di esse.
A questa esigenza si accompagna pertanto, nella lettura che i giudici di Palazzo Spada hanno dato della normativa in discorso, la necessità di una valutazione non meramente formale della sussistenza delle condizioni esoneratrici attestate nella certificazione medica; una valutazione, cioè, che non si esaurisca nella mera presa d’atto di quest’ultima (secondo quanto asserito invece dall’appellante nella sua deduzione), ma che, scevra dalla pretesa di sindacare nel merito il contenuto di ciò che viene attestato dai medici certificatori, permetta all’amministrazione sanitaria di appurare il ricorrere degli elementi costitutivi della fattispecie esoneratrice.
La soluzione interpretativa offerta dal decisum in esame, che nei termini appena riferiti ricostruisce i caratteri del potere di accertamento attribuito dalla legge alle asl, si fonda, a ben vedere, su un inquadramento della sequenza procedimentale inerente a tale verifica teso ad una piena valorizzazione, alla luce del dato normativo, del ruolo dell’amministrazione nell’attuazione dell’obbligo imposto al personale operante in ambito sanitario.
Infatti, affrontando la questione della portata dispositiva e, quindi, immediatamente pregiudizievole dell’atto di accertamento di mancata ottemperanza all’obbligo (tale da imporre la necessità della sua immediata impugnazione ove l’interessato ne lamenti l’erroneità), la pronuncia pone in evidenza la rispondenza della dinamica procedimentale complessivamente tratteggiata dal legislatore all’obiettivo di puntuale individuazione, all’interno delle categorie professionali contemplate dalla normativa, dei soggetti effettivamente tenuti a sottoporsi a vaccinazione, in un’ottica di concretizzazione del relativo obbligo rientrante nel più ampio disegno normativo volto ad ascrivere alle asl, come affermano i giudici in un ulteriore successivo passaggio della sentenza, la «primaria responsabilità […] in ordine alla efficacia del piano vaccinale».
Proprio sui presupposti sopra accennati, da cui il Consiglio di Stato muove nell’interpretare la disposizione sottesa alla controversia sottoposta al suo esame, si regge la linea di demarcazione dal medesimo consesso nettamente tracciata fra i compiti affidati ai diversi soggetti istituzionali che animano la sequenza procedimentale delineata dal d.l. n. 44/2021.
Il «contatto “diretto”» instaurato con i pazienti dai medici di medicina generale configura il controllo da essi esplicato come un necessario «”filtro” delle “istanze” di esonero»; con ciò i giudici della Terza sezione hanno inteso significare che le funzioni certificative attribuite al medico di medicina generale rispondono all’esigenza di assicurare un controllo di tipo tecnico sull’effettiva incompatibilità delle condizioni cliniche rappresentate dall’interessato con la somministrazione del siero vaccinale.
Il contatto «secondario ed indiretto» (in quanto mediato dalla certificazione medica) delle asl, nella lettura dei giudici, d’altro canto, non rende il controllo ad esse affidato una pleonastica duplicazione di quello spettante ai medici curanti, poiché dall’esercizio di tale potere di verifica dipende la constatazione della «rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista», vale a dire la dimostrazione della circostanza che la somministrazione vaccinale, in ragione delle documentate condizioni di salute del vaccinando, costituirebbe un pericolo per la sua salute.
Ne deriva che le modalità prescritte dalla legge per la certificazione (id est, appunto, la documentazione delle «specifiche condizioni cliniche» e l’accertamento del «pericolo per la salute») costituiscono quegli elementi della fattispecie esoneratrice la cui presenza vale a conferire alla certificazione stessa, per esprimersi con le parole dei giudici amministrativi, quell’«esaustività giustificativa» necessariamente funzionale al riscontro, da parte dell’amministrazione sanitaria, del ricorrere dei presupposti dell’esonero «secondo un parametro “minimo” di “attendibilità”».
In altre parole, secondo i giudici dell’appello, al carattere mediato ed indiretto della funzione di controllo attribuita alle asl non corrisponde un potere di verifica meramente formale della sussistenza dei presupposti alla base dell’esonero, poiché la stessa «pregnanza» (in termini sostanziali e probatori) degli elementi costitutivi della fattispecie di esenzione indica univocamente che, nel disegno del legislatore, le attestazioni mediche di esonero, «oggetto diretto ed esclusivo» dell’attività di verifica della asl, debbano essere soggette ad un riscontro effettivo di attendibilità da parte dell’amministrazione sanitaria.
Sulla base di tali motivazioni, il Consiglio di Stato, per un verso, facendo proprio l’argomento già espresso in tal senso dalla pronuncia resa in primo grado, ha ritenuto la circostanza addotta nelle due certificazione oggetto della controversia, cioè l’esclusione delle patologie non specificate né documentate dal novero di quelle sottoposte alla sperimentazione condotta dalle case farmaceutiche produttrici dei vaccini anti-COVID, non valevole ad integrare il requisito dell’«accertato pericolo per la salute», collegato invece dalla legge alla sussistenza di «condizioni cliniche documentate ed attestate»[xxxii]; per altro verso ha sconfessato la tesi, sostenuta dall’appellante, per la quale la documentazione comprovante le specifiche condizioni cliniche deve essere prodotta esclusivamente al medico certificatore e non anche alla asl; per altro verso ancora ha escluso che le istanze di tutela della riservatezza dell’interessato valgano ad inibire la produzione di un certificato di esenzione con l’indicazione delle patologie da cui dovrebbe desumersi l’incompatibilità della somministrazione vaccinale con lo stato di salute dell’interessato e con il supporto dalla relativa documentazione, come per contro sostenuto nell’atto di appello, nel quale si invocava l’applicazione analogica della circolare del Ministero della salute sulle modalità di redazione dell’attestazione di esenzione dall’obbligo vaccinale valida a dispensare dall’applicazione delle disposizioni relative al possesso della certificazione verde COVID-19[xxxiii].
4. Brevi considerazioni conclusive
Il decisum in commento si pone perfettamente in linea con la finalità di tutela dell’interesse alla salute collettiva sottesa alla normativa che prevede l’obbligo di vaccinazione selettiva; il principio di diritto posto dal Consiglio di Stato, infatti, è volto a valorizzare il potere di accertamento demandato all’amministrazione sanitaria in ordine alla sussistenza o meno dell’obbligo vaccinale, evidenziando come i requisiti tipizzati dalla legge per l’integrazione della fattispecie esoneratrice siano funzionali alla possibilità per la stessa amministrazione di esercitare un controllo sostanziale sull’attendibilità dell’attestazione medica dell’elemento cardine ai fini del riconoscimento dell’esonero dall’obbligo: il pericolo per la salute del vaccinando, che deve potersi evincere dalla documentazione delle condizioni cliniche oggetto di attestazione.
Al contempo, statuendo simile principio, i supremi giudici amministrativi hanno posto bene in luce che la conoscibilità, da parte dell’asl competente all’accertamento, della motivazione diagnostica alla base dell’addotta certificazione, ferma rimanendo l’insindacabilità nel merito di quanto attestato dal medico in ordine alla sussistenza di tale pericolo, costituisce la condizione indispensabile per scongiurare il rischio che il potere di decidere in materia si concentri esclusivamente in capo ai medici di medicina generale, riducendo i compiti attribuiti alle asl a mere formalità destinate solo ad aggravare la sequenza procedimentale delineata dal legislatore.
All’impostazione ermeneutica adottata dalla sentenza, presumibilmente, non è estranea neppure una logica volta alla prevenzione dei possibili abusi dello strumento della certificazione, che trovano terreno fertile nel richiamato attuale contesto storico segnato dall’affermarsi di forme di opposizione alla campagna di vaccinazione, che a loro volta favoriscono, anche all’interno della categoria professionale destinataria dell’obbligo in discorso, il fenomeno della c.d. esitazione vaccinale.
Sono, insomma, le ragioni della salute pubblica, risultate prevalenti, nel bilanciamento operato dal legislatore, con i contrapposti interessi attinenti alla riservatezza[xxxiv] e all’autodeterminazione individuale del singolo operatore sanitario, nel quadro, tuttavia, di un ragionevole contemperamento realizzato con le istanze di tutela della salute individuale, a rendere non ammissibile una certificazione “in bianco”, che si limiti cioè - come si esprimono i giudici nella pronuncia de qua -, a dichiarare «ab externo» le condizioni giustificative dell’esonero, con la pretesa di considerarle dimostrate, in ossequio alle ragioni della privacy, senza renderle note all’amministrazione e in assenza di qualsiasi documentazione comprovante la loro sussistenza.
L’orientamento espresso dai giudici della Terza sezione, tuttavia, deve essere riconsiderato alla luce delle modificazioni apportate al d.l. n. 44 dal già richiamato d.l. n. 172/2021.
Fra le novità introdotte da quest’ultimo provvedimento[xxxv], particolarmente rilevante, ai fini del nostro discorso, è quella relativa alle modalità prescritte per la redazione della certificazione di esonero, che segnalano una maggiore attenzione riservata dal legislatore della novella alle esigenze di tutela di riservatezza dei vaccinandi.
Sotto questo profilo, la normativa novellata appare espressione di un bilanciamento diverso e, per così dire, specularmente rovesciato rispetto a quello che ha animato la logica sottesa all’impianto originario del d.l. n. 44.
Infatti, il testo attualmente vigente impone che l’attestazione da parte del medico di medicina generale delle «specifiche condizioni cliniche documentate» debba avvenire «nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2»[xxxvi]; dal momento che fra i criteri definiti da tali circolari figura quello per il quale «i certificati non possono contenere altri dati sensibili del soggetto interessato», e che fra questi dati viene richiamato espressamente, seppur a titolo esemplificativo, la «motivazione clinica della esenzione»[xxxvii], ne deriva che il rinvio della normativa modificata alle modalità di redazione indicate nelle circolari rende ora ammissibile ciò che, come ben chiarito dal Consiglio di Stato della decisione annotata, non era invece consentito alla luce della previgente normativa: riceve cioè legittimazione la produzione di una certificazione rispetto alla quale l’attestazione generica dell’incompatibilità dello stato di salute del vaccinando con la somministrazione del siero, priva del riferimento alle «specifiche condizioni cliniche attestate» e non accompagnata dalla idonea documentazione, sembra essere non solo ammessa, ma addirittura l’unica modalità di redazione consentita dalla legge.
Invero, l’esito del differente bilanciamento effettuato dal legislatore con la normativa così modificata pare a chi scrive contraddistinguersi per l’indebolimento arrecato alle ragioni di tutela della salute pubblica, posto che alle esigenze di garanzia della riservatezza degli operatori sanitari gravati dall’obbligo vaccinale viene attribuito un peso di gran lunga maggiore rispetto a quello che esse avevano nell’originario disegno normativo e tale da determinare uno spostamento del baricentro dell’intera disciplina, concepita appunto inizialmente in funzione di una tutela rafforzata della salute della collettività, verso istanze rispetto a quest’ultima antagoniste.
Se così è, risulta allora facilmente comprensibile come l’inversione di tendenza del legislatore comporti una parziale ma significativa compromissione della portata del potere ascritto all’amministrazione sanitaria in tema di accertamento della sussistenza dell’obbligo vaccinale.
Nel regime previgente l’amministrazione disponeva, nell’esercizio di detto potere, di un certo margine di apprezzamento della certificazione medica rilasciata, proprio in forza del suo carattere circostanziato e documentato richiesto dal modello legale, che rendeva possibile effettuare un minimo riscontro, in termini di attendibilità, in ordine alla deduzione, da parte del medico, del pericolo per la salute dalle condizioni patologiche specificamente attestate e documentate[xxxviii].
La disciplina ora in vigore, che impone, per ragioni di tutela della sfera di riservatezza dell’interessato, l’omissione della motivazione diagnostica alla base dell’addotta esenzione, rende per contro l’attività di valutazione in questione prettamente formale, atteso che il potere di verifica spettante alle asl, esplicandosi su una certificazione “in bianco”, si svuota di contenuto; rebus sic stantibus, salvo interpretazioni correttive della giurisprudenza, rimane impregiudicata per l’amministrazione soltanto la possibilità di sindacare l’attestazione medica sotto un profilo formale, riducendosi le ipotesi di accertamento della mancata integrazione della fattispecie esoneratrice a casi di scuola, quale può essere quello dell’attestazione priva della sottoscrizione del medico certificatore.
In definitiva, la disciplina attuale, così concepita, pone le premesse per la concretizzazione del rischio di rimettere l’intero potere decisionale sulla (in)sussistenza dell’obbligo vaccinale ai medici di medicina generale, estromettendone invece dall’esercizio le asl, titolari del potere di accertamento dell’obbligo vaccinale; rischio che, come si è detto, la pronuncia del Consiglio di Stato oggetto di questa nota, ponendo il principio di diritto che si è illustrato, ha ritenuto, alla luce della previgente normativa, doversi assolutamente scongiurare.
Invero, il modo in cui il legislatore ha scelto di dare tutela alle istanze relative alla privacy nella normativa novellata appare il frutto di un bilanciamento con la garanzia della salute pubblica alquanto discutibile sotto il profilo della ragionevolezza, soprattutto in considerazione del depotenziamento del ruolo dell’amministrazione sanitaria nell’attuazione dell’obbligo vaccinale indotto dalla nuova disciplina; ruolo che, ben presente nel disegno normativo originario, è stato oggetto, come si è visto, di opportuna valorizzazione nella sentenza in discorso.
A ben vedere, l’impossibilità per le asl di conoscere il tipo di patologia da cui il medico curante desumerebbe il pericolo per la salute individuale, unitamente alla non accessibilità da parte delle medesime alla documentazione comprovante lo stato di salute del soggetto interessato, produce due risultati degni di nota ma tutt’altro che auspicabili: da un lato il medico di medicina generale finisce inopinatamente per rivestire i panni di una sorta di “garante” della privacydell’operatore sanitario rispetto al quale rilascia la certificazione di esenzione, in virtù della conoscenza esclusiva che egli ha delle sue condizioni cliniche e della relativa documentazione; dall’altro, un sistema così congegnato favorisce il consolidarsi di un sistema opaco, o, quanto meno, poco trasparente, in cui il ruolo del medico di medicina generale tende a ridursi a quello di un “certificatore seriale”, cioè di un produttore in serie di attestazioni di esonero dall’obbligo vaccinale, a cui non necessariamente però corrisponde uno stato di salute tale da giustificare l’esonero stesso, e in cui può agevolmente abusarsi dello strumento della certificazione di esenzione, posto che senza l’indicazione della motivazione diagnostica essa si trasforma nell’attestazione di una condizione (il pericolo per la salute), non più accertata, come vorrebbe la legge, ma la cui sussistenza è presunta iuris et de iure e della quale l’asl deve pertanto limitarsi a prendere atto.
Pare dunque lecito porsi il dubbio se la pur giusta esigenza di preservare il valore, costituzionalmente garantito, della riservatezza valga a giustificare un sacrificio così rimarchevole delle contrapposte ragioni di tutela della pubblica salute.
In uno scenario - qual è quello attuale - contraddistinto da tenaci, seppur minoritarie, forme (spesso irrazionali) di resistenza alla vaccinazione di massa, sarebbe infatti opportuno che il legislatore favorisse la creazione di meccanismi volti a contrastare tale fenomeno; in questa direzione si era orientato il d.l. n. 44 nella sua originaria impostazione, prevedendo un controllo effettivo delle asl sull’operato dei medici di medicina generale, tale da consentire all’amministrazione di cooperare efficacemente allo svolgimento ed al buon funzionamento della campagna vaccinale in corso.
La nuova disciplina, che rende di fatto già superato l’importante principio di diritto statuito dal decisum in commento, rischia viceversa di favorire un impiego distorto del diritto alla privacy, poiché questo può essere invocato strumentalmente ogniqualvolta il singolo intenda far prevalere il proprio diritto all’autodeterminazione sulle ragioni solidaristiche connesse alla tutela della salute collettiva e che giustificano l’imposizione dell’obbligo vaccinale.
Ciò però conduce ad assecondare la logica, rigettata fermamente dalla stessa Consulta, dei c.d. “diritti tiranni”[xxxix]: la libertà individuale di autodeterminarsi con riferimento alla propria salute viene infatti elevata a situazione giuridica soggettiva che, lungi dal confrontarsi con diritti di pari rango nell’ambito di un doveroso bilanciamento, si pone come monade isolata e irrelata, e, in tal guisa, si esprime una visione dell’ordinamento non certo in linea con lo spirito solidaristico che anima la Carta costituzionale repubblicana[xl].
[i] La disciplina normativa a cui si fa riferimento nel testo è quella di cui all’art. 4 del d.l. 1 aprile 2021, n. 44 (recante, fra l’altro, «Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2»), conv. in l. 28 maggio 2021, n. 76, nel testo previgente alle innovazioni apportate dall'art. 1, co. 1, lett. b), del d.l. 26 novembre 2021, n. 172, non ancora convertito in legge.
[ii] Ex art. 4, co. 6, d.l. n. 44/2021 cit., ante modifiche arrecate dal d.l. n. 172/2021 cit.
[iii] La pronuncia maggiormente emblematica di tale modus opinandi è Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045, in Dir. Giust., 2021, 21 ottobree in Guida al dir., 2021, 42, che ha avuto origine dal ricorso di alcuni esercenti professioni sanitarie della regione Friuli Venezia Giulia, non ancora sottoposti alla vaccinazione obbligatoria, contro i provvedimenti dell’asl che hanno sanzionato l’inosservanza dell’obbligo vaccinale; in termini cfr. anche Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 6401, in Dir. Giust., 2021, 10 dicembre, sempre in tema di sospensione dal servizio del medico che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione anti-COVID; sono riconducibili al medesimo orientamento anche TAR Lazio-Roma, sez. III, 17 dicembre 2021, n. 7394, in Dir. Giust., 2021, 21 dicembre, in tema di sospensione dal servizio dei docenti non vaccinati, e TAR Lazio-Roma, sez. III, 2 settembre 2021, n. 4531, in Guida al dir., 2021, 35, che si è pronunciata sui provvedimenti adottati dal Ministero dell’istruzione disciplinanti la certificazione obbligatoria anti-COVID del personale scolastico - rispetto ai quali alcuni docenti avevano presentato istanza di sospensione -, confermando la validità della normativa che prevede l'automatica sospensione dal lavoro e dalla retribuzione da parte del personale sprovvisto della c.d. certificazione verde vaccinale.
[iv] Sulla proiezione solidaristica del diritto alla salute nella normativa di contrasto al COVID-19 e sulla difficoltà di contemperarla con altri interesse di pregio costituzionale, si veda M. Noccelli, La lotta contro il coronavirus e il volto solidaristico del diritto alla salute, in federalismi.it - Osservatorio emergenza Covid-19, 2020. Va osservato in proposito che la dimensione collettiva del diritto garantito dall’art. 32 Cost., rimasta sullo sfondo e, in un certo senso, messa in ombra dal ruolo assolutamente preponderante assunto, nel dibattito giuridico e politico, dai temi attinenti alla garanzia della salute individuale, ha riconquistato prepotentemente il centro della scena proprio con l’emergenza epidemiologica derivante dalla diffusione del nuovo coronavirus. Gli aspetti legati a tale dimensione sono emersi in tutta la loro drammatica attualità ed urgenza, amplificati ed esasperati nel contesto dell’epocale passaggio storico segnato dalla pandemia; infatti, il “diritto dell’emergenza” nato per gestire la crisi sanitaria ha posto una serie di problemi legati, oltre che alle rilevanti limitazioni di cui si fa cenno nel testo, e cioè a quelle imposte al singolo nell’esercizio di diritti e libertà costituzionalmente garantiti (per le quali si rinvia alla lettura di L. Cuocolo, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: la reazione italiana, in Id. (a cura di), I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata, in federalismi.it - Osservatorio emergenza Covid-19, 2020), anche alle ipotesi di conflittualità venutesi a determinare fra tutela della salute collettiva e tutela della salute individuale, intesa, quest’ultima, tanto come diritto a ricevere cure, quanto come libertà di cura. Proprio su quest’ultimo profilo, e cioè sul bilanciamento operato dal legislatore fra diritto all’autodeterminazione con riguardo alla propria salute e interesse alla salute pubblica si pronunciano le decisioni menzionate nella nota precedente e quella oggetto di questo commento.
[v] Da ultimo in Corte cost. 18 gennaio 2018, n. 5 (est. Cartabia), in Giur. cost., 2018, 1, 38 ss. (con nota di C. Pinelli, Gli obblighi di vaccinazione fra pretese violazioni di competenze regionali e processi di formazione dell’opinione pubblica, 101 ss.; L. Principato, La parabola dell’indennizzo dalla vaccinazione obbligatoria al trattamento sanitario raccomandato, 374 ss.; A. Proto Pisani, Brevi note su Costituzione tutela effettiva del cittadino nei confronti della p.a. e errori della c.d. dottrina, 443 ss.; V. Ciaccio, I vaccini obbligatori al vaglio di costituzionalità. Riflessioni a margine di Corte cost. sent. n. 5 del 2018, 451 ss.), che contiene rilevantissime precisazioni sui trattamenti vaccinali imposti per legge.
[vi] In dottrina è largamente prevalente l’opinione che la riserva di legge in questione abbia carattere relativo: v., per tutti, M. Luciani, voce Salute, I) Diritto alla salute - Dir. cost., in Enc. giur., vol. XXXII, Roma, 1993, 11.
[vii] Il limite del rispetto della persona deve intendersi riferito tanto al rispetto della sua dignità quanto a quello della sua integrità psico-fisica; sul punto, si veda, ex multis, Corte cost. 26 giugno 2002, n. 282 (est. Onida), in Giur. cost., 2002, 2, 2012 ss. (con nota di A. D’Atena, La Consulta parla… e la riforma del titolo V entra in vigore; D. Morana, La tutela della salute, fra libertà e prestazioni, dopo la riforma del Titolo V. A proposito della sentenza 282/2002 della Corte costituzionale), in tema di appropriatezza delle scelte terapeutiche e discrezionalità legislativa: «La pratica terapeutica si pone […] all’incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica, diritto questo che l’art. 32, comma 2, secondo periodo, Cost. pone come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono essere imposti per legge come obbligatori a tutela della salute pubblica».
[viii] Corte cost. 22 giugno 1990, n. 307 (est. Corasaniti), in Giur. cost., 1990, 6, 1874 s. (con nota di F. Giardina, Vaccinazione obbligatoria, danno alla salute e «responsabilità» dello Stato): «Da ciò [dal disposto dell’art. 32 Cost., n.d.r.] si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale».
[ix] Sulla necessaria convergenza fra interesse individuale e interesse collettivo alla salute, che esclude qualsiasi funzionalizzazione del primo al secondo, si veda, in dottrina, B. Pezzini, La decisione sui diritti sociali. Indagine sulla struttura costituzionale dei diritti sociali, Milano, 2001, 131 s.
[x] Corte cost. n. 307/1990, cit.: «[Dal disposto dell’art. 32 Cost., n.d.r.] si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili. Con riferimento, invece, all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri».
[xi] Il principio è stato posto dal Giudice delle leggi con l’importante citata sentenza additiva n. 307/1990, resa in tema di indennizzo per danni collegati alle vaccinazioni obbligatorie: «Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute [come “fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”, n.d.r.] - e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell'imposizione del trattamento sanitario - implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l'essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito»; nello stesso senso si veda anche Corte cost., 23 giugno 1994, n. 258, in Foro it., 1995, I, 1451 ss.
[xii] Che ai fini della legittimità costituzionale della previsione legislativa del trattamento sanitario obbligatorio non basti la sua funzionalità rispetto ad un interesse pubblico purchessia, richiedendosi al contrario la sussistenza di uno specifico interesse pubblico attinente alla salute collettiva, è principio largamente condiviso tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. Non è un caso, sotto questo profilo, che Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, in Giur. cost., 1996, 4, 2142 (con nota di A. Nappi, Sull’esecuzione coattiva della perizia ematologica; M. Ruotolo, Il prelievo ematico tra esigenza probatoria di accertamento del reato e garanzia costituzionale della libertà personale. Note a margine di un mancato bilanciamento tra valori), abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, co. 2, c.p.p. nella parte in cui prevedeva la possibilità per il giudice delle indagini preliminari di disporre coattivamente - in sede di incidente probatorio per l'esecuzione di perizia ematologica - il prelievo ematico nei confronti tanto dell'indagato quanto di terzi; la previsione oggetto della declaratoria di incostituzionalità, infatti, contemplava un’ipotesi di accertamento invasivo della «sfera corporale della persona» (test del DNA) senza il consenso dell’interessato «per fini di acquisizione probatoria nel processo penale», dunque per fini non sanitari. In dottrina si veda M. Luciani, voce Salute, cit., 11; D. Morana, La salute nella Costituzione italiana. Profili sistematici, Milano, 2002, 189; L. Carlassare, Dignità della persona e libertà di cura, in Studi in onore di Franco Modugno, vol. I, Napoli, 2001, 571 s.: «Un trattamento sanitario […] può essere imposto soltanto quando sia direttamente in gioco l’interesse collettivo: per prevenire o fermare malattie contagiose che provocano un diretto danno sociale. Solo la tutela degli altri può consentire trattamenti imposti limitando la libertà individuale. Ma l’interesse della collettività dev’essere anche attuale. In nome di un possibile danno o interesse futuro della collettività si potrebbe altrimenti arrivare ad esiti finali che sgomentano, la selezione degli individui, ad esempio, secondo la pratica nazista»; ritiene che l’interesse della collettività a cui si riferisce l’art. 32, co. 1 Cost. vada interpretato come «limite esterno» rispetto al diritto individuale alla salute, cioè come «barriera che ne circoscrive l’ampiezza senza tuttavia condizionarne il godimento», D. Morana, op. ult. cit., 163 (v. anche Id., La salute come diritto costituzionale. Lezioni, II ed., Torino, 2015, 39).
[xiii] Corte cost. 2 giugno 1994, n. 218, in Giur. cost., 1994, 3, 1812 ss.: «La tutela della salute […] implica e comprende il dovere dell'individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell'eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell'interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari»; si veda anche Corte cost. 27 marzo 1992, n. 132, ivi, 1992, 2, 1108 ss.; Corte cost. 20 dicembre 1996, n. 399, in Foro it., 1997, I, 3124; Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 268, in Giur. cost., 2017, 6, 2913 ss.. Sul tema del contemperamento fra la dimensione individuale e quella collettiva del diritto alla salute nella disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori, si veda C. Colapietro, La valutazione costi-benefici nei trattamenti sanitari obbligatori: il bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli della collettività, in NOMOS - Le attualità nel diritto, 1997, 3, 57 ss.
[xiv] Così D. Morana, La salute come diritto, cit., 38 s.: «quanto appena detto sulla natura individualistica della libertà di salute non si pone in alcun modo in contrasto con la prescrizione costituzionale che, nella medesima formulazione dell’art. 32, tutela la salute stessa anche come “interesse della collettività”. È sufficiente la lettura della disposizione, infatti, per comprendere come l’“interesse della collettività” alla salute non venga affatto qualificato dalla Costituzione come scopo in vista del quale si riconosce il diritto alla salute dell’individuo. Il riferimento all’interesse della collettività alla salute, insomma, non vale a finalizzare ad esso, rendendolo funzionale, il diritto individuale, ma rappresenta esclusivamente un “contenimento esterno” per quest’ultimo. Detto altrimenti, la libertà di salute non viene attribuita al singolo in ragione dell’interesse collettivo alla salute; ben diversamente, essa viene configurata in modo tale che il suo godimento non pregiudichi il corrispondente interesse della collettività. In tal senso, dunque, quest’ultimo non si configura come ragion d’essere della libertà, ma soltanto come limite esterno alle concrete forme di godimento di essa che il soggetto titolare deciderà di mettere in atto».
[xv] Così, da ultimo, Corte cost. n. 5/2018, cit.; v. anche Tar Lazio-Roma, sez. III, 2 ottobre 2020, n. 10047, in Foro amm., 2020, 10, 1917 ss., che precisa che l’operazione di bilanciamento fra i vari interessi coinvolti nel tema delle vaccinazioni spetta al legislatore statale, con esclusione pertanto della potestà legislativa delle regioni, che non possono pertanto neanche introdurre previsioni più rigorose, volte cioè ad ampliare l’ambito oggettivo e soggettivo dell’obbligatorietà vaccinale.
[xvi] Si veda in proposito L. Carlassare, Dignità della persona, cit., 571. Nella manualistica si veda, per tutti, C. Colapietro, I diritti sociali, in F. Modugno (a cura di), Diritto pubblico, IV ed., Torino, 2019, 700: «Il 2° comma dell’art. 32 Cost. introduce il tema dei trattamenti sanitari obbligatori […], da considerarsi l’eccezione rispetto al principio generale, solennemente proclamato nella prima parte di questa stessa disposizione, della libertà dell’individuo da qualsiasi trattamento sanitario non imposto da legge conforme a Costituzione». Sulla funzione svolta dai limiti e dalle garanzie previste in Costituzione per i trattamenti obbligatori, si veda inoltre R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, II ed., Torino, 2020, 77 s.: «la salute come problema collettivo è sì allocato (anche) nella dimensione pubblicistica dell’ordine pubblico interno, soprattutto pensando alla materia delle vaccinazioni obbligatorie preordinate ad impedire l’insorgenza di determinate forme di morbilità, ma nel quadro di regole e di principi di garanzia idonei a controbilanciare i pur manifesti frammenti e momenti di regolazione autoritativa. La norma costituzionale è, infatti, di particolare rigore: non solo perché sottopone al limite invalicabile della riserva di legge, pur diversamente graduato, la liceità e la legittimità di ogni trattamento sanitario obbligatorio, ma anche perché, in sintonia con il principio personalistico di cui all’art. 2 Cost., pone inequivocabilmente, come vincolo per ogni futura determinazione del legislatore, il rispetto della persona umana».
[xvii] M. Mazziotti di Celso e G.M. Salerno, Manuale di diritto costituzionale, VII ed., Padova, 2018, 259: «Questi principi [“la riserva rafforzata, sebbene relativa, di legge” ricollegabile alla necessità di rispettare “i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, n.d.r.] e il modo stesso come la norma [l’art. 32, co. 2, Cost., n.d.r.] è formulata, dimostrano la volontà del legislatore di favorire la volontarietà dei trattamenti (cfr. art. 1 della legge 180/78) ed in genere la partecipazione del soggetto alla misura preventiva e alla cura; da essa deriva poi un limite preciso alla imposizione di trattamenti obbligatori, cioè che sia in gioco non solo l’interesse del malato, ma quello della collettività. Non esistendo, almeno secondo l’opinione dominante, un dovere di tutelare la propria salute, l’obbligatorietà dei trattamenti è ammissibile solo quando è in gioco, oltre che l’interesse individuale, anche quello collettivo alla salute».
[xviii] Così ancora Corte cost. n. 5/2018 cit., con cui i giudici della Consulta, pronunciandosi sul ricorso in via principale presentato dalla regione Veneto avverso le disposizioni del d.l. 7 giugno 2017, n. 73, recante «Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale», hanno giudicato «non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche» il provvedimento legislativo censurato nel ricorso e volto a «rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale» (confermando l’obbligatorietà per i minori fino a sedici anni di età di alcune vaccinazioni e introducendola per altre prima solo oggetto di raccomandazione) a fronte di «una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia»; nella decisione in questione si è sottolineato altresì come le scelte adottate in tema di vaccinazione siano strettamente collegate al contesto e ai dati offerti dalla comunità scientifica, così che le determinazioni legislative, con l’evolversi delle conoscenze in campo sanitario e con il mutare delle condizioni epidemiologiche, possono essere oggetto di rivalutazione, come dimostra la stessa normativa scrutinata dalla Corte con l’introduzione, in sede di conversione del decreto legge, di «un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini», secondo un meccanismo di «flessibilizzazione della normativa da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate». Peraltro, il passaggio da un regime all’altro (da quello della raccomandazione a quello dell’obbligo e viceversa) non deve suonare né strano né inconsueto se si muove dalla premessa, ben evidenziata dalla Corte nella citata pronuncia, per la quale «nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici», atteso che «In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo (tanto che sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze […])».
[xix] A mente del testo previgente dell’art. 4, co. 1, d.l. n. 44 cit. sono ricompresi nel personale sanitario «gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali»
[xx] La disposizione, contenuta nel testo previgente dell’art. 4, co. 1, d.l. n. 44 cit., è rimasta immutata nel testo attualmente in vigore.
[xxi] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit.
[xxii] L’esplicitazione della finalità sottesa alla normativa è identica, nella sua formulazione, nel testo previgente dell’art. 4, co. 1, d.l. n. 44/2021 e nel testo attualmente in vigore. Come viene rilevato anche in Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., la ratio della previsione si evince in maniera chiara anche dalla conseguenza che dal testo previgente del d.l. n. 44 cit. veniva fatta discendere dall’inosservanza dell’obbligo vaccinale: il comma 6 dell’art. 4 prevedeva infatti che «L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione del diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2»; la finalità perseguita dal legislatore è ricavabile anche dall’attuale formulazione del testo di legge, che statuisce che «L’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale […] determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie» (art. 4, co. 4, d.l. n. 44 cit., come modificato dal d.l. n. 172/2021, cit.) e prevede l’assegnazione a mansioni diverse, che non implichino il rischio di diffusione del contagio, senza decurtazione della retribuzione, nei confronti solo dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale (art. 4, co. 7); su tale aspetto v. infra, nt. 35.
[xxiii] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit.
[xxiv] Appare significativo, sotto il profilo considerato nel testo, che sia in Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., che nella pronuncia qui commentata si sia deciso di non rimettere alla Consulta, ritenendola manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale sollevata, nel giudizio instauratosi innanzi al giudice amministrativo, con riferimento alla previsione legislativa dell’obbligo vaccinale nei confronti del personale sanitario, per il suo supposto contrasto rispetto al parametro costituzionale di eguaglianza.
[xxv] Che il trattamento sanitario previsto dalla legge come obbligatorio debba risultare proporzionato alla luce di dati scientifici chiari e ampiamente accettati dalla comunità scientifica, costituisce ius receptum, essendo oramai generalmente riconosciuto nella giurisprudenza della Consulta; si veda, in questo senso, da ultimo, Corte cost. n. 5/2018, cit.
[xxvi] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit. Il tema della proporzionalità della disciplina impositiva dell’obbligo vaccinale è richiamato da ultimo da Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., ord. 17 gennaio 2022, n. 38, in Giustizia-amministrativa.it; in tale pronuncia, nella quale peraltro si prospetta come ipotizzabile la rimessione alla Corte costituzionale di alcune questioni di legittimità costituzionale, ritenute rilevanti e non manifestamente infondate, sollevate dal ricorrente con riferimento all’obbligo vaccinale e si dispone istruttoria al riguardo, si rileva che l’evoluzione della situazione sanitaria in corso, contraddistinta dalla diffusione di nuove varianti del virus, ponga il problema di esaminare l’opportunità, sotto il profilo appunto del rispetto del principio di proporzionalità, di una possibile futura previsione legislativa che prescriva come obbligatorie «ripetute somministrazioni nell’anno per periodi di tempo indeterminati».
[xxvii] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit.
[xxviii] «Nel bilanciamento tra i due valori, quello dell'autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, compiuto dal legislatore con la previsione dell'obbligo vaccinale nei confronti del solo personale sanitario, non vi è dunque legittimo spazio né diritto di cittadinanza in questa fase di emergenza contro il virus Sars-CoV 2 per la c.d. esitazione vaccinale» (sent. ult. cit.).
[xxix] V. supra, par. 2.
[xxx] La disposizione, contenuta nel testo previgente dell’art. 4, co. 2, d.l. n. 44 cit., è rimasta immutata nel testo attualmente in vigore, che tuttavia, come si dice più avanti nel testo (v. infra, par. 4), aggiunge l’inciso, particolarmente rilevante per l’effetto che ne scaturisce e che verrà esaminato, per il quale l’attestazione da parte del medico di medicina generale delle «specifiche condizioni cliniche documentate» deve avvenire «nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2»
[xxxi] V. supra, par. 2.
[xxxii] Nella certificazione trasmessa alla asl, veniva invocata l’applicazione del principio di precauzione in materia sanitaria, facendo leva sull’affermazione del carattere condizionato dell’approvazione dei vaccini anti-COVID; la tesi della natura sperimentale dei vaccini anti-COVID è confutata da Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., sulla base della considerazione che essi stati approvati a seguito di un rigoroso processo di validazione scientifica e di sperimentazione clinica; sul peculiare modo di atteggiarsi del principio di precauzione nelle fasi di emergenza sanitaria, sempre con particolare riferimento al tema dei trattamenti vaccinali obbligatori per gli esercenti professioni sanitarie, si veda ancora sent. ult. cit., che ne mette in evidenza il funzionamento in termini invertiti rispetto ai tempi ordinari, derivante, a ben vedere, dal suo combinarsi col principio solidaristico in funzione di tutela dei soggetti più vulnerabili: «In fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante, drammatico, indifferibile di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all'ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l'utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito - va ribadito - tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l'utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l'utilizzo di quel farmaco».
[xxxiii] Secondo quanto previsto dal d.l. 22 aprile 2021, n. 52, conv. in l. 17 giugno 2021, n. 87, che statuisce che le disposizioni del comma 1 non si applicano ai soggetti esentati dalla somministrazione del vaccino «sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute» (v. artt. 9-bis, co. 3; 9-ter, co. 3; 9-ter.1, co. 2; 9-ter.2, co. 2; 9-quater, co. 2; 9-quinquies, co. 3; 9-sexies, co. 7; 9-septies, co. 3).
[xxxiv] Che nel bilanciamento effettuato dal legislatore fra interessi antagonisti le ragioni di tutela della salute pubblica siano prevalenti rispetto a quelle della privacy dei soggetti interessati è sottolineato dal giudice adito in primo grado (v. supra, par. 2).
[xxxv] Nell’ambito delle modifiche recate dal d.l. n. 172 cit., degna di nota, oltre a quella di cui ci si occupa nel testo, è l’attribuzione del potere di adottare l’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale all’Ordine professionale competente, anziché, come nella previgente disciplina, all’asl (art. 4, co. 4, d.l. n. 44 cit., nel testo modificato dal citato d.l. n. 172), nonché il già richiamato effetto (v. supra, nt. 22), prodotto da tale atto (la cui natura viene qualificata come «dichiarativa» e «non disciplinare»), di «immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie» - art. 4, co. 4, cit. -, (che sostituisce l’effetto, previsto nel regime anteriore, di sospensione dal solo diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano il rischio di diffusione del contagio), mentre l’adibizione a mansioni anche diverse, che non implichino il rischio di diffusione del contagio, senza decurtazione della retribuzione, è prevista ai sensi del vigente co. 7 nei confronti solo dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale.
[xxxvi] Art. 4, co. 2, d.l. n. 44/2021 cit.
[xxxvii] Circolare del Ministero della salute del 4 agosto 2021.
[xxxviii] Appare significativa, in questo senso, la prassi, instauratasi presso alcune asl nella vigenza del testo originario del d.l. n. 44 cit., di istituire commissioni interne, composte da tecnici incaricati di valutare le certificazioni presentate.
[xxxix] Molto rilevante in tema è la pronuncia del 2013 resa dal Giudice delle leggi sulla vicenda Ilva (Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85 (est. Silvestri), in Giur. cost., 2013, 3, 1424 ss., con nota di V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente; D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge ILVA; R. Bin, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza “Ilva”; G. Sereno, Alcune discutibili affermazioni della Corte sulle leggi in luogo di provvedimento): essa ha escluso in radice che il diritto alla salute possa farsi «“tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette», in quanto ciò si porrebbe in insanabile contrasto con il pluralismo che informa la Carta repubblicana, fondata, al pari delle costituzioni che reggono gli ordinamenti di altre democrazie contemporanee, sull’«integrazione reciproca» dei diritti fondamentali.
[xl] In termini Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., che richiama l’orientamento espresso dalla sopra citata sentenza della Consulta sul caso Ilva per il quale «tutti i diritti tutelati dalla Costituzione - anche quello all’autodeterminazione - si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri».
Un ulteriore passo in avanti nel (difficile) cammino della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per l’applicazione negli ordinamenti tributari nazionali dei principi della Convenzione EDU (nota a Corte EDU, 14 dicembre 2021, causa 11200/19 Melgarejo Martínez Abellanosa v. Spagna)
di Roberta Alfano*
Sommario: 1. Introduzione - 2.1. Il caso concreto - 2.2. La pronuncia della Corte di Strasburgo - 3. La motivazione della sentenza: sollecitazioni sovranazionali ed evoluzione domestica fra esigenze di semplificazione e rispetto di tutti i principi a fondamento del giusto processo - 4. Sanzioni penali, sanzioni (formalmente) amministrative e principio del ne bis in idem - 5. Il cadenzamento dei passi della Corte EDU e l’effettivo adeguamento interno: qualche riflessione.
1. Introduzione
La Corte EDU si è recentemente pronunciata in merito alla violazione dell’art. 6 della convenzione EDU in campo tributario.
La sentenza in commento si pone in linea di continuità con le precedenti pronunce volte all’affermazione del giusto processo in materia tributaria, ovvero a garanzia di quei principi che, con le parole di autorevole dottrina, non costituiscono “il” traguardo , ma i meri standard minimi di garanzia che devono essere assicurati da una giurisdizione in uno Stato di diritto[1].
Il caso di specie si sofferma sul difetto di motivazione in merito alla natura accessoria di un accertamento riferito a sanzioni per ritardato pagamento ed interessi di mora, per il quale non era stato deciso l’annullamento, come invece avvenuto per la presunta pretesa tributaria. L’attività della Corte EDU trova fondamento nel principio di effettività delle garanzie fondamentali, per la protezione concreta e reale delle prerogative dei singoli individui, prendendo le distanze dalle interpretazioni fondate su classificazioni sistematiche poste in essere negli ordinamenti interni, nel fine prevalente dell’effettiva tutela dei diritti dell’uomo. La Convenzione EDU ha trovato soltanto in un secondo momento applicazione al diritto tributario attraverso la giurisprudenza della Corte EDU, che ha dilatato significativamente il campo di applicazione dell’art. 4, prot. 7 della Convenzione; ciò, in particolare con riferimento alla vexata quaestio della reale afflittività delle sanzioni amministrative[2] e al rispetto del principio del ne bis in idem in ragione di sanzioni penali e sanzioni qualificate come amministrative in diritto nazionale, ma sostanzialmente penali, irrogate allo stesso soggetto per i medesimi comportamenti[3].
La pronuncia segna un ulteriore passo a favore di un consolidamento della cogenza della Convenzione EDU nel sistema tributario in grado di sensibilizzare il giudice interno, sollecitandone un’interpretazione sistematica volta a garantire i diritti del contribuente nel rispetto del livello di tutela garantito in sede europea. L’art. 6 della Convenzione EDU trova, in una fattispecie che presenta profili tributari e sanzionatori inscindibilmente connessi, pieno riconoscimento, contribuendo ad adeguare il “contenuto sostanziale dell’art. 111 Cost., di rilevanza meramente interna, a quello indicato dalla Corte Europea ai sensi dell’art. 6 CEDU[4]”. La pronuncia deve, dunque, considerarsi soltanto quale ultimo - da un punto di vista cronologico - tassello di una significativa giurisprudenza, che fin dalla sentenza Ferrazzini ha evidenziato in campo tributario il modus operandi della Corte EDU “secondo un criterio di prudenza”, lentamente estesosi - pur se con qualche passo da gambero[5] - anche alle controversie che non presentino (soltanto) “profili sanzionatori[6]”.
Last but not least , la Corte torna, pur se incidentalmente, ad esprimersi sulla sopracitata e mai sopita questione della natura delle sanzioni formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali, rimarcando – in chiave evolutiva nel rispetto delle sue più recenti pronunce – la propria posizione, affatto diversa da quella presente in molteplici ordinamenti interni, primus inter pares quello italiano. A cascata, tale pronuncia stimola indirettamente anche una rapida considerazione con riferimento al rispetto del principio del ne bis in idem recentemente oggetto di una rivalutazione – rectius : un chiarimento – importante da parte di entrambe le Corti europee.
Appare, dunque, opportuno preliminarmente ricostruire in estrema sintesi la fattispecie concreta interna e l’impianto argomentativo della Corte EDU, per poi riflettere sulle sollecitazioni provenienti dalla pronuncia, in un tentativo di trasposizione in chiave sistematica delle crescenti sollecitazioni della giurisprudenza europea sul diritto e processo tributario e di ulteriore sensibilizzazione in chiave europeistica degli operatori del diritto.
2.1. Il caso concreto
A seguito di accertamento nei confronti del ricorrente erano stati emessi dall’amministrazione finanziaria due distinti avvisi, il primo in merito al debito d'imposta e l’altro alle sanzioni per ritardato pagamento ed interessi di mora. Il ricorrente aveva esperito i diversi rimedi previsti dal sistema interno, con esiti affatto differenti; dopo diverse pronunce ad opera dei Tribunales Económico-Administrativos – gli organismi spagnoli di duplice grado appartenenti al Ministero de Hacienda per la risoluzione dei ricorsi tributari, con sede, in prima istanza (TEAR ) presso ciascuna delle Comunidades Autónomas e, successivamente, in sede centrale (TEAC) – il ricorrente aveva proposto ricorso innanzi all’ Audiencia Nacional, tribunale unico spagnolo. Posto che il TEAC aveva annullato il solo debito principale, il ricorrente aveva richiesto il conseguente annullamento dell’avviso relativo alle sanzioni per ritardato pagamento e interessi accessori. La Audiencia Nacional aveva respinto il ricorso, senza affrontare espressamente la pretesa del contribuente circa la nullità dell’avviso relativo alle sanzioni per ritardato pagamento e interessi per la cancellazione del debito principale. In data di poco successiva – circa due mesi – la medesima Audiencia Nacional , in analoga composizione ma con diverso giudice relatore, si era pronunciata sullo speculare ricorso dei fratelli del ricorrente, nei cui confronti parimenti erano stati emessi distinti accertamenti in merito al debito d’imposta e alle sanzioni per ritardato pagamento ed interessi. Nel loro caso, la Audiencia Nacional aveva però dichiarato la nullità dell’avviso relativo alle sanzioni per ritardato pagamento ed interessi, posta la natura accessoria rispetto al debito principale, cancellato dal TEAC, del quale doveva seguirne la sorte.
I diversi ricorsi giurisprudenziali interni esperiti dal primo fratello non avevano trovato accoglimento. In primo luogo era stato respinto il ricorso per cassazione per difetto relativo a vizi di impugnazione; analogamente era stato respinto il successivo ricorso incidentale dalla stessa Audiencia Nacional per presunta violazione del diritto all’uguaglianza, in ragione della pronuncia nei confronti dei fratelli e per violazione del diritto al giusto processo per mancata motivazione. Il contribuente aveva altresì presentato successivamente Recurso de Amparo per violazione dell’art. 24 della Costituzione spagnola in merito al diritto al giusto processo, dichiarato però inammissibile dalla Corte Costituzionale con pronuncia n. 2913 del 2018 per difetto di rilevanza costituzionale. Di qui il ricorso alla Corte EDU.
2.2. La pronuncia della Corte di Strasburgo
La Corte EDU affronta una pluralità di aspetti che appare opportuno enunciare in seguenza cronologica. In primo luogo la Corte EDU si pronuncia sulla presunta violazione della certezza del diritto per la disparità fra le diverse sentenze della Audiencia Nacional nei confronti dei fratelli, nell’ipotesi di medesime fattispecie sostanziali. La Corte EDU, a fronte di sentenze diverse poste in essere in un breve lasso di tempo, rileva che, sebbene una siffatta divergenza sia motivo di preoccupazione, la possibilità di decisioni giudiziarie contraddittorie è una caratteristica intrinseca propria di qualsiasi ordinamento, che, come precedentemente rilevato dalla Corte, non può essere considerata di per sé stessa una violazione della Convenzione EDU[7]. In particolare, il ricorrente, pur rilevando tale discrasia, non aveva argomentato che la divergenza sulla questione specifica addottata fosse contraria a precedente e consolidata giurisprudenza, sulla quale avrebbe potuto ragionevolmente basarsi per aspettarsi un diverso risultato e non aveva portato a fondamento del suo ragionamento precedenti pronunce a favore di tale possibile pretesa.
Ciò posto la Corte EDU ribadisce che il suo ruolo non si sostanzia nel porre a confronto diverse decisioni emesse dai tribunali nazionali: pur richiamando propri precedenti secondo cui il principio della certezza del diritto può ritenersi violato dalla previsione di decisioni contrastanti emesse dal medesimo giudice per casi analoghi – decisioni che compromettono la fiducia dei cittadini nella magistratura, e possono, in alcuni casi, equivalere a un diniego di giustizia[8] – ha evidenziato la mancanza di "differenze profonde e consolidate" nella giurisprudenza pertinente. Di conseguenza, la Corte non rileva una violazione del principio di certezza del diritto in misura incompatibile con le garanzie di cui all’articolo 6.1 .
La Corte EDU si è soffermata sul fatto che l’Audiencia Nacional, a fronte della domanda del ricorrente in merito alla natura accessoria delle sanzioni per ritardato pagamento ed interesse di mora, non abbia risposto espressamente a tale specifica censura . La Corte ha ricordato che l'obbligo di motivazione non richiede in alcun modo una risposta dettagliata a ciascuna delle argomentazioni presentate dall'attore; ciò nonostante è necessario argomentare con una risposta concreta ed esplicita circa le motivazioni decisive per la risoluzione di un procedimento.
Nel caso di specie, la tesi dell’attore circa la natura accessoria delle pretese evidenziate nel secondo accertamento era potenzialmente determinante per l’esito della controversia, come ben dimostrato dalle pronunce di poco successive nei confronti dei fratelli del ricorrente, la cui l’istanza di annullamento è stata accolta proprio in ragione di siffatta argomentazione.
La Corte EDU ha, dunque, rimarcato la propria consolidata giurisprudenza secondo la quale non rientra nelle sue competenze determinare se le domande del ricorrente avrebbero dovuto essere accolte o meno in sede interna o se le sue affermazioni fossero fondate. Parimenti, pur non dovendo procedere a una siffatta analisi, la Corte non ha potuto non rilevare che la domanda del ricorrente relativa alla natura accessoria delle sanzioni per ritardato pagamento e degli interessi fosse determinante per l'esito della causa. La mancata motivazione rispetto a tale punto dirimente ad opera del giudice interno ha, dunque, determinato una violazione del principio del giusto processo ex art. 6 della Convenzione EDU.
3. La motivazione della sentenza: sollecitazioni sovranazionali ed evoluzione domestica fra esigenze di semplificazione e rispetto di tutti i principi a fondamento del giusto processo
Nel caso di specie il difetto di motivazione del giudice spagnolo si era sostanziato nel non aver esplicitato la ratio del mancato annullamento dell’accertamento accessorio dopo aver dichiarato tale quello relativo al debito d’imposta. L’omessa motivazione sul punto, ha indotto la Corte EDU, in linea con la sua giurisprudenza[9], a rilevare la violazione dell’art. 6, posto che la valutazione sul carattere accessorio dell’accertamento avrebbe avuto carattere decisivo per l'esito della controversia. L’analisi delle diverse pronunce della Corte EDU in tema di motivazione contrastante con l’art. 6 della Convenzione ne evidenzia la consueta pragmaticità nella definzione dei requisiti propri della motivazione della sentenza, che in più di una fattispecie si sono riferite a pronunce italiane, fra cui la recente causa Felloni[10]. La Corte evidenzia come le decisioni giudiziarie debbano riportare sufficientemente i motivi[11] che ne sono a fondamento – necessari per le parti ai fini della dimostrazione che i motivi addotti siano stati attentamente analizzati - e con sufficiente chiarezza[12]. Qualora non sia garantito un esame effettivo delle principali argomentazioni del ricorrente e non sia fornita una risposta che permetta di comprendere la ratio di tale rigetto, si realizza, come nel caso di specie, una violazione del giusto processo di cui all’art. 6, comma 1 della Convenzione EDU.
L’obbligo di motivazione si qualifica, per la Corte EDU, in ragione di una certa mobilità dei requisiti, strettamente correlati alla natura stessa della decisione; necessaria è un’analisi che tenga conto delle specifiche circostanze riferite al caso concreto[13], che evidenzi, quale minimo comune denominatore, l’effettivo esame di tutte le diverse questioni fondamentali sollevate dal ricorrente[14], a ciascuna delle quali – come recentemente sancito proprio a seguito di un revirement della Corte stessa[15] – deve essere stata fornita specifica ed esplicita risposta[16] .
La motivazione della sentenza fondamenta la legittimità dell'azione giurisdizionale, condicio sine qua non per la comprensione delle modalità di convincimento del giudice. La motivazione, nell’esplicitare le ragioni della decisione, permette di comprendere il ragionamento di carattere fattuale e giuridico del Giudice “per determinare la regola concreta della vicenda scrutinata partendo dalla norma astratta, in modo che quanto disposto non sia percepito come un responso oracolare[17]”.
La motivazione deve essere, in ogni caso, idonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione[18]. In caso contrario, la sentenza è nulla per mancanza di un requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, nella sua espressione di requisito minimo costituzionale imposto al giudice dall’art. 111 Cost., comma 6, di quanto stabilito dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dall’art. 118 disp. att. c.p.c.[19] e, per il processo tributario, al richiamo esplicito all’ art. 36, comma 2, D.Lgs. 546/1992. Anche nel processo tributario - diretto non alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio[20] – il rispetto dell’obbligo di motivazione può considerarsi soddisfatto anche in mancanza di un’analitica individuazione del contenuto dell’atto impugnato, purché il giudice sia in grado di delineare chiaramente il rapporto sostanziale controverso[21]. La motivazione deve poter esplicitare le ragioni a base della decisione, che prescindono dal grado di articolazione della motivazione stessa. In tal senso emblematica una recente pronuncia della Cassazione, che – nell’annullare con rinvio la sentenza della CTR del Lazio che aveva confermato la contestazione dell’amministrazione nei confronti di una società informatica di aver partecipato ad una frode IVA, ponendo in essere operazioni di acquisto soggettivamente inesistenti – ha rilevato come la motivazione risultasse nella sostanza solo apparente; infatti, pur essendo formalmente articolata, era fondata “su asserzioni astratte prive di un riscontro concreto con riferimento ai fatti controversi senza indicare quali fossero gli elementi presuntivi[22]” rilevati dall’amministrazione. La motivazione deve essere in grado di esplicitare il contenuto dinamico della decisione, secondo la recente qualificazione del giudice di legittimità tributario[23]. La sentenza deve considerarsi nulla in tutte le ipotesi di motivazione apparente[24], di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile[25], di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico ovvero di contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili[26]. Infatti, qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita disamina giuridica rende impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento[27]. D’altro canto, proprio pochissimi giorni addietro e proprio in campo tributario – in tema di frodi carosello e di legittimità della prova per presunzioni nell’ipotesi di pluralità di rapporti economici con le società cartiere – la Cassazione ha avuto modo di ribadire che il vizio di motivazione è deducibile quale vizio di legittimità solo quando si concreti in una nullità processuale ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. È necessario, dunque, che la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, in ragione di un contrasto irriducibile tra affermazioni, ovvero faccia riferimento a circostanze che, nel caso di specie, non hanno legittimato tale declaratoria di nullità[28].
Il legislatore, come chiaramente evidenziato sin dalla riforma del processo civile e del processo amministrativo, ha posto in essere un cammino riformatore del processo di cui il depotenziamento dell’apparato motivazionale della sentenza è certamente una peculiare espressione. La concentrazione dei tempi processuali e la necessità endemica di deflazionare il sistema giudiziario riverbera infatti i propri effetti anche nella motivazione della sentenza, posto che “frequente si ritrova l'adagio che il vero « collo di bottiglia » del processo sia la fase di decisione della causa, uno dei talloni d'Achille del sistema giudiziario italiano sul quale dover intervenire[29]”; ciò ha portato ad implementare e giustificare l’utilizzo, non sempre ottimale, di tecniche di semplificazione, quali la motivazione per relationem o per collage[30].
Il principio della ragionevole durata del processo anche in campo tributario legittima l’idea che il necessario contemperamento di interessi richieda che siano il più possibile contenuti i ritardi da motivazione, per non arrecare inutili appesantimenti del giudizio.
Evidente è la necessità di un bilanciamento di interessi. Il corollario del principio della ragionevole durata del processo, intrinsecamente collegato al principio del giusto processo, la cui interiorizzazione, dopo un accidentato ed altalenante cammino di riconoscimento, comincia a trovare una sua dimensione anche in campo tributario[31], giustifica la possibilità di un’esposizione – e, in epoca pandemica, anche di una “comparizione”[32] – per sintesi. Stringente appare l’esigenza di un’economia di scrittura - recentissimamente dichiarata legittima anche in merito ai notoriamente difficili equilibri (non solo riferiti alla motivazione) in tema di contraddittorio endoprocedimentale[33] –purchè sia sempre e comunque possibile la sufficiente individuazione del percorso argomentativo della pronuncia e del ragionamento del giudice. Tale bilanciamento impone, però, che lo sventolio di tale vessillo, non distragga dal rispetto di altri e non meno rilevanti valori di cui (quanto meno) in pari misura si nutre l’equo processo, quali il diritto al contraddittorio, il diritto ad un giudizio, all'imparzialità e terzietà del giudice e, soprattutto, il rispetto del diritto di difesa[34].
4. Sanzioni penali, sanzioni (formalmente) amministrative e principio del ne bis in idem
La Corte EDU, nell’analisi in merito all’applicabilità della parte penale dell'articolo 6 , 1 della Convenzione, torna, anche se solo in via incidentale, ad occuparsi - par. 25 - della natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative. Il fil rouge della giurisprudenza della Corte EDU si sostanzia, ancora una volta, nella verifica della persistenza degli Engel criteria.
La Corte rileva come, nel caso di specie, ancora una volta, la sanzione per ritardato pagamento, pur non essendo qualificata dall’ordinamento interno come penale, ma amministrativa non si sostanzia in realtà in un mero risarcimento pecuniario per il danno: si tratta, dunque, di una punizione per scoraggiare la recidiva, dalla natura deterrente e punitiva, confermata dalla gravità della sanzione, pari al venti per cento dell'imposta dovuta. È noto come il punto di partenza di tale processo evolutivo è stato il riconoscimento, da parte dei giudici di Strasburgo, della natura sostanzialmente “penale”, ai sensi degli artt. 6 e 7 Convenzione EDU, di molte sanzioni tradizionalmente qualificate come amministrative[35]. Il distinguo sostanziale fra le due tipologie di sanzioni ha trovato nella giurisprudenza della Corte EDU la sua principale declinazione in riferimento all’applicabilità del principio del ne bis in idem, «principio di civiltà giuridica[36]», teso a vietare – rectius: a regolamentare – il cumulo sanzionatorio, che trova, in campo tributario, sua privilegiata collocazione, tassello imprescindibile nel mosaico della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, riconosciuti a livello sovranazionale e dai diversi ordinamenti interni.
L’evoluzione del ne bis in idem trova alimento nell’interpretazione giurisprudenziale, in primo luogo europea, in cui la Corte EDU e la Corte di giustizia sono giunte, pur se con qualche significativo e altrove più compiutamente esaminato distinguo[37], a conclusioni sostanzialmente analoghe. Il difficile equilibrio fra ordinamento interno, principi contenuti nella Convenzione EDU e diritto europeo ha necessitato del continuo l’ausilio della bussola giurisprudenziale. I giudici, a fronte del silenzio del legislatore, si sono sentiti investiti del compito di calmierare e trovare un punto di incontro tra diritti fondamentali, all’interno del delicato ambito del diritto punitivo, che, fermo il rispetto del principio di legalità, più di ogni altro deve tener conto della vis nomofilattica degli organi giurisdizionali. Non da meno appare evidente che, pur con il conforto dato dal fitto dialogo fra le Corti in materia, “il dibattito sul ne bis in idem sconta ancora una certa magmaticità perché demanda all’apprezzamento di fatto del giudice la sussistenza dei presupposti della violazione”[38]. L’assist fornito dalla valutazione incidentale sulla natura delle sanzioni nella pronuncia in commento permette in questa sede di poter rimarcare che l’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU insieme - e soprattutto – con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, pur avendo evidenziato nel tempo un mutato approccio interpretativo, che ha reso regola - con la nota sentenza A e B - la complementarietà in luogo dell’alternatività fra sanzioni, non ha comportato nella sostanza una effettiva deminutio delle garanzie e dei principi a fondamento della risposta sanzionatoria, in ragione della sempre viva primazia della regola della proporzionalità. A conforto di tale affermazione occorre citare alcune pronunce molto recenti della Corte EDU[39] e, con riferimento alla Corte di Giustizia, alcune recentissime conclusioni dell’Avvocato generale M. Bobek[40]. Quest’ultime, pur non strettamente riferite a controversie tributarie, si esprimono chiaramente anche con riferimento a tale campo di indagine[41] ed evidenziano la rinnovata lettura del principio in senso garantista. Garanzia che, in assenza di un chiaro intervento normativo interno, cerca di rompere l’assordante silenzio del legislatore, a fronte del difficile quadro normativo vigente sul rapporto fra sanzioni penali e tributarie e i correlati processi. In sede interna, la mancanza di meccanismi di efficace coordinamento fra sanzione amministrativa e penale lascia presagire ad ogni mossa il rischio concreto di compromettere la proporzionalità della reazione sanzionatoria nel suo complesso. Il sinergico e coordinato svolgimento dei due procedimenti – così come auspicati dalle Corti europee, in particolare al fine di evitare la duplicazione dell’attività istruttoria e di raccolta delle prove[42] – appare in realtà un’araba fenice , posto che il principio di autonomia dei due procedimenti, ciascuno dotato di peculiarità sue proprie, ne rende estremamente ardua l’applicazione[43].
Le recenti puntualizzazioni delle Corti europee confermano quanto già da una parte della dottrina evidenziato[44] in merito alla mancanza di una volontà di abiura delle proprie precedenti interpretazioni in tema di ne bis in idem, come era stato, prima facie, inteso.
Le alterne vicende interpretative sul principio esprimono in modo inequivocabile l’oggettiva difficoltà esistente per definire l’annosa querelle. La posizione delle Corti sovranazionali deve essere necessariamente letta nella tradizionale ottica sostanzialistica e trasversale fra i diversi rami del diritto che permea le Corti europee. La Consulta sembra averne sentito l’eco, come dimostra la più recente giurisprudenza[45], che però non si espone eccessivamente, rafforzando sostanzialmente le proprie ammonizioni al legislatore. Se queste sono le premesse, altrettanto evidente è però la ritrosia dei giudici di legittimità nell’applicazione effettiva del principio, con buona pace delle poche fattispecie in cui la Cassazione ha rinviato gli atti al giudice di merito per una più attenta valutazione sull’effettiva presenza dei presupposti richiesti in sede sovranazionale. D’altro canto, non può sottacersi che “analizzando le interrelazioni tra procedimento penale e procedimento tributario così come rese possibili dai diversi istituti, ora di matrice legislativa ora di matrice pretoria, presenti nel nostro ordinamento, può fondatamente nutrirsi più di un dubbio circa l’ontologica riscontrabilità di tutti i material factors richiesti”[46].
5. Il cadenzamento dei passi della Corte EDU e l’effettivo adeguamento interno: qualche riflessione
La sentenza in esame può certamente considerarsi un’altro, prezioso, tassello per il completamento del puzzle delle garanzie in materia tributaria, in cui una molteplicità delle tessere che formano la trama è di derivazione europea. E’ (tristemente) conosciuta l’endemica complessità che caratterizza la giustizia tributaria italiana e le particolari e certamente non lineari evoluzioni che ne hanno caratterizzato la storia fin dalla sue origini. In siffatto tessuto, le necessarie garanzie, anche quando in modo inequivocabile se ne è evidenziata l’imprescindibilità, si sono sempre trovate ad inseguire le complessità via via più marcate che hanno contraddistinto la norma tributaria, risultando, nella corsa ad ostacoli ingaggiata, inevitabilmente perdenti[47]. I mali endemici della giustizia tributaria non possono in alcun modo sfuggire neanche all’occhio meno esperto; prima inter pares la oggettiva difficoltà data dalla presenza di giudici part time non specializzati e non esclusivamente dedicati alla risoluzione di controversie tributarie. Tale limitazione, in una materia caratterizzata da spiccato tecnicismo, ha nei fatti significativamente compromesso anche la qualità e la quantità delle questioni di costituzionalità o dei rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia, non contribuendo ad un possibile cambio di rotta del processo tributario, di fatto a lungo sostanzialmente servente rispetto all’interesse fiscale. La continuamente richiamata specificità della materia tributaria è divenuto il pretesto che ha, nei fatti, alimentato dinamiche di cambiamento spesso analoghe a quelle professate da Tancredi Falconeri nel Gattopardo.
La materia tributaria, espressione emblematica della sovranità statale, sconta ed amplifica – più ancora che in altri rami del diritto – le fisiologiche difficoltà all’accettazione dei principi di promozione delle libertà civili negli ordinamenti interni che promanano dalle Corti europee.
I principi elaborati dalla Corte EDU in tema di giusto processo hanno trovato la strada per poter esprimere le proprie dirette ricadute sull’ordinamento interno lastricata delle difficoltà generate dai limiti propri di una giurisdizione in cui l’effettività di detti principi è stata lungamente assicurata soltanto dal giudice di ultima istanza. Giudice che, a sua volta, non fondamenta la propria funzione nomofilattica su nutrienti interpretazioni della Consulta in campo tributario.
Il reiterarsi delle interpretazioni sostanzialistiche in sede europea moltiplica le concrete possibilità di attuazione di un sistema di garanzie per il contribuente. Tale consolidamento è potenzialmente in grado ad incidere in misura crescente sui giudici nazionali tributari, posta la “dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato[48]”. Con riferimento al giusto processo, l’adeguamento interpretativo del contenuto sostanziale dell’art. 111 Cost., di rilevanza interna, a quanto indicato dalla Corte EDU, ex art. 6 della Convenzione[49], non può che tradursi, in linea teorica, in un crescente consolidamento del caleidoscopico panorama di siffatte garanzie; fra queste rilevano la parità delle armi, l’imparzialità, l’indipendenza, o il diritto al silenzio – recentemente sancito anche dalla Corte di Giustizia europea in tema di sanzioni CONSOB[50] – fino alla previsione della prova testimoniale, verso cui la Cassazione ha mostrato recentemente segnali di apertura[51]. Tutti punti nevralgici del rapporto processuale tributario, tradizionalmente sbilanciato nel sistema interno verso la tutela dell’interesse fiscale.
Mutatis mutandis quanto rilevato può trovare applicazione per l’altra peculiare questione sottesa che emerge dalla pronuncia, in riferimento alla diversità di garanzie interne fra sanzioni (solo formalmente) amministrative e sanzioni penali; in particolare, rileva rispetto a quanto previsto dall’art. 4 par. 7 della Convenzione EDU circa la duplice sottoposizione al procedimento di accertamento tributario e di indagine penale.
All’attualità i giudici possono e devono fare la loro parte, nella consapevolezza che – come anche la Consulta ha fermamente e in più occasioni ribadito, insieme con una nutrita parte della dottrina –– spetta al legislatore regolare più attentamente i rapporti tra sistema penale tributario e sistema amministrativo tributario, meglio definendo ciascuna tipologia di illecito, per evitare un cumulo di sanzioni e di procedimenti privo di ragionevolezza e proporzionalità.
I principi europei evidenziano la necessità improcastinabile di una diversa modulazione sanzionatoria. “La soluzione più tranchant sarebbe quella di tornare alla regola dell’alternatività dei due tipi di sanzioni accolta, a suo tempo, dalla Legge n. 4/1929”[52]. Le sanzioni penali dovrebbero trovare esclusiva applicazione per gli illeciti tributari rilevatori di un grave disvalore sociale. Le sanzioni amministrative potrebbero prevedere più articolate modulazioni, se del caso opportunamente graduando la risposta sanzionatoria amministrativa anche attraverso un ampio ricorso alla categoria delle sanzioni interdittive[53].
L’evoluzione del ne bis in idem è certamente espressione privilegiata del precipuo dialogo tra Corti, che anche con riferimento alle sanzioni tributarie in genere e non solo con riferimento al principio, promuove e conferma un cammino sostanzialistico teso all’abbandono di una logica meramente formale. Entrambe le questioni che la pronuncia, in via diretta o mediata pone in evidenza, esprimono, inequivocabilmente, la cogenza di una nuova visione, che ruoti intorno al contribuente, in un diverso equilibrio fra autoritatività dell’azione impositiva e – auspicata – pariteticità del rapporto obbligatorio[54].
Imprescindibile, dunque, una lettura sistematica del processo tributario che permetta di ancorarsi sempre più efficacemente ai principi contenuti nella Convenzione EDU. Tocca al giudice il maggior sforzo di adeguamento. Nel farlo, non deve dimenticare che, in tutte le ipotesi di sospetta incompatibilità con i principi europei di norme tributarie nazionali, può procedere al rinvio pregiudiziale ex l’art. 267 TFUE, ovvero può porre in essere un atto di coraggio e disapplicare norme interne contrastanti con principi di matrice europea, soprattutto nell’ipotesi in cui fattispecie analoghe siano già stato oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Il giudice di Strasburgo continua nel suo complesso cammino, con l’intento di conformare il sistema tributario interno ai diritti fondamentali della Convenzione EDU. Evidente è la necessità di rispettare la sovranità statale di cui la politica fiscale è una delle espressioni più emblematiche:parimenti, appare evidente la necessità che sia sempre garantito il principio di proporzionalità.
Imprescindibile il compito di adeguamento ai principi europei da parte dei giudici, che debbono trarne ispirazione ai fine della propria funzione nomofilattica.
Ancora più imprescindibile la necessità che la tanto invocata riforma del sistema e del processo tributario riesca a trovare una reale definzione e che il legislatore sia realmente disposto a fare la sua parte.
I segnali continuano ad apparire contraddittori. Uno, in conclusione, fra i tanti. Se sembra evidente che l’evoluzione della giurisprudenza sovranazionale in campo tributario - di cui il ne bis in idem, così come il principio di proporzionalità sono precipue espressioni – necessiti di essere recepita dal legislatore, provoca una certa amarezza verificare che il più recente disegno di legge di delega sulla riforma fiscale[55]non si pone neppure il problema del coordinamento fra sanzioni amministrative e penali tributarie, non mostrando alcun intento di risolvere la vexata quaestio. Permane, dunque, tangibile il dubbio se il legislatore voglia realmente accettare la sfida di riconoscere e legittimare nell’ordinamento tributario interno le garanzie e le tutele definite dalla giurisprudenza europea. Nell’immobilismo del legislatore, la Corte EDU, rispetto a quanto emerso nella sentenza commentata, continua nel proprio cammino : da un lato - con riferimento agli obblighi di motivazione della sentenza - verso la sempre più completa applicabilità dei principi del giusto processo alla materia tributaria tout court . Dall’altro - in merito alla diversità delle garanzie fra sanzioni tributarie penali e (formalmente ) amministrative in sede interna e a correlati rischi di violazione del principio del ne bis in idem - per puntualizzare la mancanza di un revirement delle proprie precedenti interpretazioni, come era stato, prima facie, (mal) inteso.
Anche il giudice nazionale, sotto il mantello di protezione della giurispudenza della Corte EDU, deve, dunque, superare in modo sempre più definito la propria naturale ritrosia nell’applicazione concreta dei principi europei, perchè “se è pur vero che oggi, rispetto al passato, sono sempre maggiori i casi in cui il giudice si confronta effettivamente con i principi elaborati dalla Corte EDU riconoscendone quindi implicitamente l’autorità, allo stesso tempo sul piano delle ricadute pratiche siamo ancora lontani da quel grado di tutele che pure la Convenzione parrebbe offrire al contribuente[56]”.
[1] L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, passim.
[2] CEDU, 23 luglio 2002, Janosevic c. Svezia e CEDU 23 luglio 2002, Västberga Taxi Aktiebolag e Vulic c. Svezia, con commenti di S. Dorigo, Il diritto alla ragionevole durata del giudizio tributario nella giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rass. trib., 2003, 1, 42; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 1, 14.
[3]G. Marino, La sanzione tributaria nella giurisprudenza della CEDU, in Riv. dir. trib. int., 2014, 3, 19; Id., Il principio del “ne bis in idem” nella giurisprudenza CEDU: dai profili sostanziali a quelli procedimentali, in Per un nuovo ordinamento tributario, Tomo II, Padova, 2019, 638, rileva, nota 32, che l’Italia al momento di ratificare la Convenzione EDU ex lege n. 98/1990 si era riservata di applicare il protocollo in questione esclusivamente ad infrazioni, procedure e decisioni definite dalla norma interna come penali, riserva considerata poi invalida dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens.
[4] Così A. Marcheselli, in A. Marcheselli, V. Mastroiacovo, G. Melis. Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, in questa Rivista, 2020, risposta n. 1.
[5] CEDU, 28 giugno 2018, G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia.
[6] Per le parti in corsivo ancora A. Marcheselli, V. Mastroiacovo, G. Melis , Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 1. In particolare G. Melis evidenzia come la giurisprudenza della Corte EDU abbia potuto espandersi ai profili tributari non peculiarmente sanzionatori, in ragione del fisiologico legame fra i due profili, che ha permesso l’ampliamento delle tutele proprie dell’art. 6.
[7] Corte EDU, 12 gennaio 2021 Svilengaćanin e altri c. Serbia.
[8] Corte EDU, 1 luglio 2010, Vusić c. Croazia; Corte EDU, 20 maggio 2008 Santos Pinto c. Portogallo.
[9] Corte EDU, 17 aprile 2018, Uche C. Svizzera . La mancanza di una specifica motivazione, da parte della Corte Suprema federale svizzera, circa la censura sollevata relativamente alla violazione del principio del contraddittorio contrasta con l’art. 6 della Convenzione EDU. Il ricorrente non aveva, infatti, avuto modo di comprendere se la Corte Suprema federale avesse semplicemente omesso di esaminare il motivo di ricorso presentato o se l’avesse respinto.
[10] Corte EDU, 6 febbraio 2020, Felloni c. Italia; in precedenza con riferimento sempre all’Italia Corte EDU, 21 luglio 2015, Schipani e altri c, Italia.
[11] Corte EDU, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo; Corte EDU 25 luglio 2002, Papon c. Francia.
[12] Corte EDU, 16 dicembre 1992, Hadjianastassiou c. Grecia. Per un puntuale richiamo alla giurisprudenza tutta della Corte EDU con riferimento all’art. 6, Ministero della Giustizia, Direzione generale degli Affari giuridici e legali, Guida sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (agg. 30 aprile 2020).
[13] Corte EDU, 9 dicembre 1994, Ruiz Torija c. Spagna.
[14] Corte EDU, 27 febbraio 2020, Lobzhanidze e Peradze c. Georgia.
[15] In precedenza la Corte EDU si era espressa nel senso che il Giudice non è tenuto a fornire una risposta dettagliata a ciascuno dei motivi di ricorso invocati : Corte EDU, 19 aprile 1994, Van de Hurk c. Paesi Bassi.
[16] Corte EDU, 29 ottobre 2013, S.C. IMH Suceava S.R.L. c. Romania.
[17] Consiglio di Stato, sez. VI , 25 febbraio 2021 n. 1636 e, in precedenza, Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2020 n. 6896.
[18]Cass., Sez. VI, 25 settembre 2018, n. 22598. La motivazione non deve dunque essere meramente apparente, contraddittoria, perplessa o incomprensibile: Cass., Sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass., Sez. Lav., 18 aprile 2008, n. 10213; Cass., Sez. II, 19 marzo 2007, n. 6382.
[19] Per il processo amministrativo i riferimenti sono all’art. 3, comma 1, c.p.a. secondo cui “Ogni provvedimento decisorio del giudice è motivato”; l’art. 88 comma 2 lett. d) c.p.a. , per cui la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”; l’art. 74 c.p.a. secondo cui - per le sentenze in forma semplificata e per quel che attiene alla motivazione - “La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.”.
[20] Si tratta della sempre viva questione nostrana del difetto di motivazione in ragione del carattere sostitutivo del processo rispetto alla dichiarazione del contribuente o all’accertamento dell’amministrazione, su cui, ceteris pluribus, Cass., sez. V., 5 novembre 2020, n. 24707 e Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25629. In tema di dichiarazione del contribuente, Cass., Sez. V, 19 settembre 2014, n. 19750. Con riferimento all’accertamento dell’Ufficio, Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27560. Ciò impone al giudice di descrivere con chiarezza il rapporto sostanziale alla base dell’atto impositivo: Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27574; Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25629; Cass., Sez. V, 19 novembre 2014, n. 24611. Il processo tributario non viene infatti interpretato come di impugnazione annullamento, ma di impugnazione merito, secondo un modello di processo tributario quale giudizio di accertamento del rapporto d’imposta, considerato da prevalente dottrina superato. F. Tesauro, Manuale del processo tributario, 5ª ed., Torino, 2020, 208.
[21] Cass., Sez. V, 5 novembre 2020, n. 24707, con nota di A. Turchi, Motivazione della sentenza e oggetto del processo tributario in Riv. Dir. Trib., 2021, 3, 177.
[22] Cass., sez. V., ordinanza 6 maggio 2021, n. 11983.
[23] Cass. sez. V, ord. 15 gennaio 2020 n. 608: la motivazione deve poter descrivere il processo cognitivo e l’evoluzione dallo stato d'iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio.
[24] Cass, sez. III, 30 maggio 2019 n. 14762: qualora il giudice di merito non abbia dato conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del proprio percorso logico per accogliere o rigettare la domanda proposta, la sentenza deve ritenersi viziata per apparenza della motivazione meramente assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti.
[25] Cass. S.U., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 e successivamente Cass., S.U., 5 aprile 2016, n. 16599: di “motivazione apparente” o “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa permetta di rendere percepibili le ragioni della decisione, in quanto si sostanzia in argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento. In tali fattispecie la motivazione non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice . Specificamente in campo tributario, Cass. sez. VI, 14 febbraio 2019 n.4337.
[26] Cass., sez. III, 15 ottobre 2021, n. 28423.
[27] Cass., sez. III, 23 marzo 2017 n. 7402 : è nulla la sentenza la cui motivazione consista nel dichiarare sufficienti tanto i motivi esposti nell’atto che ha veicolato la domanda accolta, quanto non meglio individuati documenti ed atti ad essa allegati, oltre ad una consulenza tecnica. In tali ipotesi, non sono riprodotte le parti idonee a giustificare la valutazione espressa.
[28] Cass. sez. V, ord. 30 dicembre 2021, n. 41948.
[29] C. Rasia, Dalla motivazione per relationem alla motivazione c.d. collage in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2016, 1, 204, che ricorda che tale espressione era già stata utilizzata nella risoluzione del 18 maggio 1988 in tema di « provvedimenti urgenti per le accelerazioni dei tempi della giustizia civile », in Foro it., 1988, V, 260.
[30] Cass., S.U., 16 gennaio 2015 n. 642 .
[31] Cass sez. VI, 28 giugno 2020, n. 20358.
[32] F. D’Ayala Valva, L’affievolito diritto ad essere ascoltato in un giusto processo tributario, in corso di pubblicazione su GT, giurisprudenza delle imposte, 2022, consultato per gentile concessione dell’autore, che rileva (citando A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, Milano, 2021, 25ss e 122) come l’udienza da remoto - soluzione necessaria per non arenare, in tempi di pandemia il processo, che richiede ex se un’accellerazione – abbia nei fatti comportato “un’uscita dallo spazio”; è infatti soppressa la “comparizione”, che necessariamente si nutre della compresenza. “La distanza telematica che si viene a creare, rende più problematica la relazione con il giudice, dal momento che la difesa ha bisogno di “ascoltare coloro che ascoltano”. Il difensore adatta continuamente il proprio atteggiamento a seconda che percepisca di essere compreso o meno dai giudici, di riuscire a smuoverli, a istillare loro il dubbio o al contrario di non riuscire a farli vacillare dall’eventuale preconcetto. Il monitor indebolisce la capacità di convinzione. Anche il giudice è messo sotto pressione dalla presenza fisica delle parti e raggiunge il pieno coinvolgimento nell’udienza pubblica. Il monitor sterilizza questo effetto particolare della convergenza degli sguardi, che ha una funzione gratificante ma anche responsabilizzante. Nel processo telematico la rigidità e il flusso della tecnica cancellano quella frammentazione di gesti, quelle esitazioni, quei ripensamenti, che rendono più ricco ed articolato il tessuto della giustizia”.
[33] Cass, sez. V, ord. 23 dicembre 2021, n. 41444.
[34] G. Olivieri, La « ragionevole durata » del processo di cognizione (qualche considerazione sull'art. 111, 2º comma, cost.), in Foro it., 2000, V, 251.
[35] M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in Federalismi.it, 2017, 4, 2 evidenzia che sono state ricondotte alla materia penale non solo misure indiscutibilmente dal carattere punitivo/afflittivo ma anche tutta una serie di provvedimenti nei quali è percepibile un elemento di cura concreto dell’interesse pubblico. Seguendo un approccio sostanzialistico, la Corte EDU ha superato anche la distinzione propria nel nostro ordinamento, tra sanzioni in senso stretto e provvedimenti ablatori-ripristinatori.
[36] Corte cost., 4 maggio 1995, n. 150.
[37] J. Kokott, P. Pistone, R. Miller, Diritto internazionale pubblico e diritto tributario: i diritti del contribuente, in Dir. prat. trib. int., 2020, 2, 454; R. Alfano, E. Traversa, L’impatto del diritto europeo sull’applicazione del divieto di bis in idem in materia tributaria, in Dir. e prat.trib.int., 2021, 1, 18. A. Marcheselli, V. Mastroiacovo, G. Melis, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 3; G. Marino, Il principio del “ne bis in idem” nella giurisprudenza CEDU: dai profili sostanziali a quelli procedimentali, cit., 638; id, Sanzioni amministrative e penali tributarie resistenti come il ferro al ne bis in idem, in Giur. trib., 2021, 1, 36.
[38] A. Marcheselli, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 1.
[39] Corte EDU, 31 agosto 2021, Bragi c. Islanda; Corte EDU, 31 agosto 2021, Milošević c. Croazia. La Corte EDU – aveva già chiarito in specie nelle sentenze Ármannsson, Nodet e nelle recentissime Bragi e Milošević - come la complementarietà fra le due risposte sanzionatorie possa trovare applicazione, purchè la proporzionalità mantenga la sua primazia rispetto agli altri requisiti.
[40] Presso la Corte di Giustizia risultano attualmente pendenti in tema di concorrenza due cause, delle quali sono state pubblicate, in data 2 settembre 2021, le Conclusioni. Si tratta in particolare della causa C-151/20, Nordzucker e a., e della Causa C-117/20, Bpost. L'avvocato generale Bobek nelle conclusioni congiunte ha chiaramente proposto un criterio unificato per il rispetto del principio del ne bis in idem ai sensi della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che riguardi ogni ramo del diritto.
[41] “quando il procedimento tributario/amministrativo inizia a spiegare un effetto punitivo, al di là del recupero delle somme maggiorate degli interessi, o quando anche il procedimento penale è volto anche al recupero di qualsiasi somma dovuta, in tal caso la differenza concettuale tra i due semplicemente scompare, e scatta il divieto della duplicazione dei procedimenti ai sensi del ne bis in idem…non è possibile che sia l’amministrazione fiscale sia il giudice penale puniscano lo stesso fatto con sanzioni di natura penale”. Così conclusioni, Avv. Generale M. Bobek, 2 settembre 2021, cause riunite, causa C-151/20, Nordzucker e a., e causa C-117/20, Bpost .
[42]Particolare rilevanza deve essere attribuita alla fondamentale CGUE, 16 ottobre 2019, causa C-189/18, Glencore Agricolture Hungary, che ha regolamentato la “circolazione della prova” nel caso di procedimenti paralleli, evitando l’indiscriminato “travaso”di elementi istruttori acquisiti, soprattutto, a seguito dell’eventuale attivazione delle procedure di scambio internazionale di informazioni fiscali.
[43]F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle alte corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in Rass. trib., 2017, 4, 915, che, nota 6, cita P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2016, 1, 35.
[44] G. Melis, M. Golisano, Il livello di implementazione del principio del ne bis in idem nell’ambito del sistema tributario in Riv. trim. dir. trib., 2020, 3,597; J. Kokott, P. Pistone, R. Miller, Diritto internazionale pubblico e diritto tributario: i diritti del contribuente, in Dir. prat. trib. int., 2020, 2, 454; R. Alfano, E. Traversa, L’impatto del diritto europeo sull’applicazione del divieto di bis in idem in materia tributaria in Dir. Prat. Trib. Int., 2021, 1, 18.
[45] Corte cost., 24 ottobre 2019 n. 222; Corte cost. 12 giugno 2020 n. 114; Corte cost. 1 luglio 2021 n. 336.
[46] Così G. Melis, M. Golisano, Il livello di implementazione del principio del ne bis in idem nell’ambito del sistema tributario, cit, 619.
[47] A. Marcheselli , Verso un giudice tributario “europeo”: profili critici della indipendenza della giurisdizione fiscale italiana nel quadro dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in F. Bilancia – C. Califano – L. Del Federico – G. Puoti (a cura di), Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e giustizia tributaria, Torino, 2014, 322.
[48] Corte cost., 26 marzo 2015 n. 49.
[49] Ancora A. Marcheselli, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 1.
[50] CGUE, 2 febbraio 2021, causa C-481/19, DB a seguito di rinvio pregiudiziale posto in essere dalla Corte costituzionale italiana con ordinanza 10 maggio 2019 n.117.
[51] Cass., sez. VI, 3 febbraio 2020, n.2406; Cass., sez. V, 12 dicembre 2019, n.32568; Cass., sez. V, 19 novembre 2018, n.29757; Cass., sez. V, 16 marzo 2018 , n. 6616.
[52] Cfr. F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle alte corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in Rass. trib., 2017, 4, 915.
[53] S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 405.
[54] Per una valutazione di più ampio respiro sul tema, rilevante anche rispetto alle sanzioni F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Padova, 2019, passim.
[55] Atto 3343 presentato alla Camera in data 29 ottobre 2021.
[56] Ancora G. Melis, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 2.
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