ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I tabulati: il regime transitorio...in attesa degli effetti generati dallo tsunami della nuova sentenza della Corte di Giustizia
di Giorgio Spangher
Dopo essere rimasto per molti anni “dimenticato” dai diversi operatori della giustizia, il tema dei tabulati del traffico telefonico è diventato oggetto di attenzione e di prese di posizione a seguito della sentenza della Corte di Giustizia H.K. c. Procuratuur (C 746-18) con la quale, fra gli altri aspetti, i giudici europei hanno affermato che la direttiva 2002/58/CE, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, osta a una normativa nazionale che investa il pubblico ministero della competenza ad autorizzare l’accesso ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione al fine di condurre un’istruttoria penale, dovendo il controllo preventivo essere rimesso a un giudice o a una autorità amministrativa indipendente, comunque diversa dall’autorità richiedente.
Com’è noto, nel nostro Paese, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 81 del 1993 che con una sentenza interpretativa di rigetto, aveva affermato che “la particolare disciplina predisposta dagli artt. 266 e 271 c.p.p. sulle intercettazioni di conversazioni o di comunicazione telefoniche si applica soltanto a quelle tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali s svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima”, le questioni dei dati “esterni” delle comunicazioni sono rimaste ancorate agli orientamenti giurisprudenziali in materia, come cristallizzati nelle pronunce delle Sezioni Unite. Ad una prima presa di posizione (Cass. Sez. un. 13.7.1998, Gallieri) ritenendo non adeguata l’iniziativa della polizia giudiziaria (rispetto al pubblico ministero o al giudice), subentrava la decisione (Cass. sez. un. 23.2.2000, D’Amurri) con la quale si riteneva sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria, non essendo necessaria l’osservanza delle disposizioni relative alle intercettazioni e la sentenza (Cass. sez. un. 21.6.2000, Tammaro) con cui si precisava che “anche se manca la previsione di un immediato controllo giurisdizionale di detto decreto motivato, tuttavia il recupero di tale controllo, che attiene a un mezzo di ricerca della prova, avviene attraverso la rilevabilità, anche di ufficio, dell’eventuale relativa inutilizzabilità, in ogni stato e grado del procedimento, così nelle indagini preliminari nel contesto incidentale relativo all’applicazione di una misura cautelare, come nell’udienza preliminare, ovvero nel dibattimento o nel giudizio di impugnazione”.
Con riferimento alla conservazione dei dati, il quadro normativo va integrato con quanto previsto dal d. lgs. n. 196 del 2003 ed in particolare dall’art. 132, nonché dagli artt. 121, 123 e 126 .
Com’è noto, nella necessità di dare attuazione alla decisione dei giudici del Lussemburgo, essendo stato escluso che la decisione europea potesse trovare immediata applicazione nel nostro sistema processuale, rendendosi necessario un provvedimento legislativo (Cass. 4.10.2021 n. 1054) anche al fine di superare alcune incertezze applicative n sede di merito, ed in presenza di un rinvio pregiudiziale di un giudice italiano, è intervenuto il d.l. n. 132 del 2021 modificando nei presupposti e nelle modalità operative la disciplina dei data retention, introducendo altresì una previsione finalizzata a fissare i termini di utilizzabilità dei dati acquisiti precedentemente in forza della sola determinazione del pubblico ministero.
A tale proposito, il legislatore, con l’art. 1 del cit. d.l. come risultante dalla l. n. 178 del 2021 di conversione, ha previsto una disciplina transitoria con la quale si stabilisce che in deroga al principio del tempus regit actum, i dati esteriori relativi alle comunicazioni telefoniche (con ciò intendendosi, per quanto sopra detto, i numeri di chiamante e chiamato, data, ora, durata, compreso il luogo) – acquisiti prima del 30 settembre 2021, in base a decreto motivato del pubblico ministero (modalità legittima secondo la legge in precedenza vigente) – possono essere utilizzati come elemento di prova a carico dell’imputato solo “unitamente ad altri elementi di prova” e solo per l’accertamento dei reati che rientrano nella categoria già delineata “per il futuro” dal d.l. n. 132 del 2021.
Sui contenuti di questa previsione si è da ultimo pronunciata con alcune decisioni la Corte di Cassazione.
Con la prima pronuncia (Cass. sez. V, 24.02.2022, n. 8968), che riconduce alla disciplina dei dati del traffico, anche quelli relativi all’ubicazione, si precisa che la colpevolezza dell’indagato-imputato, non può fondarsi unicamente sui dati esteriori del traffico telefonico (contatti e collocazione dell’interlocutore).
Invero, escludendo riferimenti alla sanzione dell’inutilizzabilità dei dati acquisiti dal pubblico ministero (prima della modifica normativa) il legislatore consente di porre a fondamento di una condanna il materiale solo se integrato da “altri elementi di prova” che “non predeterminati nella specie e quantità possono essere di qualsiasi tipo e marca, così da ricomprendere non soltanto le prove storiche dirette, ma ogni altro elemento probatorio, anche indiretto ...”.
Questo elemento è alla base anche della decisione Cass. sez. II 31.1.2022, 11991, con la quale i data retention hanno integrato le acquisizioni documentabili dalla p.g., avviate dopo una denuncia anonima (che esclusa la configurazione di notitia criminis, ha costituito lo spunto investigativo per l’avvio dell’attività di ricerca della notizia di reato).
La motivazione, dove si sottolinea come la disciplina transitoria sia ispirata alla logica della non dispersione delle prove, di cui i riscontri sono ritenuti elemento compensativo della carenza di potere del p.m. (alla luce della decisione europea), si segnala per il fatto di adeguare nell’ambito dei data retention anche “l’aggancio delle celle telefoniche da parte del cellulare dell’imputato poste lungo al percorso da lui effettuato.
Si tratta del c.d. pedinamento satellitare che con la presente decisione viene in tal modo ricondotto nel contesto della disciplina di maggiore garanzia, superando orientamenti, a volte, diversi.
La varietà delle situazioni investigative prospetterà numerosi quesiti pratico-operativi che tuttavia dovranno essere ricondotti nella previsione a regime dell’art. 132 cit.
Al riguardo (anche in relazione a quanto conseguire, come si dirà, dalla recentissima sentenza sempre della Corte di Giustizia) già da ora resta aperto il tema del tempo della conservazione dei dati, non potendosi ritenere corretto che il maggior tempo di conservazione per i reati più gravi, consenta (per la non dispersione delle prove) di utilizzarli per quelli meno gravi. Sotto quest’ultimo profilo (anch’esso interessato dalla nuova sentenza della Corte di Giustizia) si potrebbe porre una questione di utilizzabilità.
Resta un interrogativo. Come mai, nel nostro Paese, dalla citata sentenza Tammaro non si sono prospettati quei profili di tutela e di garanzia che i diritti costituzionali avrebbero imposto. Come mai non solo avvocatura, ma anche la magistratura (cioè, i giudici) non si sono posti le questioni alle quali il giudice europeo ci richiama?
Credo che nel nostro Paese, il problema delle garanzie processuali sia fortemente condizionato dalla logica del doppio binario che finisce per attrarre anche la restante disciplina.
Come anticipato, il tema dei dati retention è destinato a ripercussioni significative ed in qualche modo dirompenti alla luce della sentenza della Corte di Giustizia (alla quale si è fatto un cenno) che esclude una conservazione ed un uso indiscriminato dei dati deducibili dai tabulati (v. Resta F., Dalla conservazione generalizzata a quella mirata: la Corte di Giustizia ridelinea i contorni della data retention, in Giust. insieme, 7.4.2022).
SCIA, tutela del terzo e obbligo di riesame. (Nota a Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737)
di Gabriele Serra
Sommario: 1. Premessa. La vicenda contenziosa. - 2. SCIA e tutela del terzo nella giurisprudenza costituzionale. - 3. La sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737. - 4. Sull’eccezionalità delle ipotesi di “riesame obbligatorio”. - 5. Conclusioni.
1. Premessa. La vicenda contenziosa.
Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato è tornato ad occuparsi delle forme di tutela del terzo controinteressato rispetto ad una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), segnatamente e come sovente accade, in materia edilizia, analizzando dette forme anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019 ed arricchendo gli spunti giurisprudenziali già in precedenza emersi.
Ora, ai fini di una migliore comprensione della decisione e delle considerazioni che seguiranno, è opportuno riassumere la vicenda sottesa alla recente decisione del Consiglio di Stato.
La fattispecie è quella, piuttosto ordinaria, di una rampa carrabile realizzata, nel 2018, in un’area in cui è situato un complesso a destinazione commerciale, a ridosso del confine con la proprietà della società ricorrente che, vista l'opera, aveva presentato istanza di accesso ai documenti e appreso che era stata presentata una DIA nel 2014, poi integrata con SCIA nel 2017 per due volte; di tal che, aveva presentato una istanza al Comune espressamente rubricata – e il profilo può essere rilevante, come si vedrà – “Istanza di annullamento DIA/SCIA, ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 e 21-nonies della legge 22 agosto 1990, n. 241”, sollecitando l'amministrazione all'esercizio dei propri poteri in materia. A detta istanza, l'ente aveva risposto, con provvedimento espresso, circa l'infondatezza nel merito, poiché l’intervento edilizio non avrebbe violato le distanze previste nel Regolamento edilizio.
Il T.A.R., sul ricorso proposto avverso tale provvedimento, prendendo atto della sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale 13 marzo 2019 n. 45, lo aveva dichiarato inammissibile, rilevando come la ricorrente avesse tardivamente proposto l'istanza all'amministrazione, in quanto la stessa era stata presentata decorso il termine previsto dalla legge per l'esercizio dei poteri inibitori spettanti in materia alla pubblica amministrazione, pur facendolo decorrere dalla conoscenza della SCIA avuta con l'istanza di accesso. E ciò, sia con riferimento alla domanda di illegittimità dell’omesso esercizio di tali poteri inibitori della pubblica amministrazione, sia alla domanda di annullamento del provvedimento comunale di rigetto dell'istanza[1].
Ciò posto, giova ricordare alcuni profili in merito alla disciplina normativa in tema di strumenti a tutela del terzo rispetto alla SCIA e alla giurisprudenza della Corte Costituzionale che su di essa si è pronunciata.
2. SCIA e tutela del terzo nella giurisprudenza costituzionale.
Senza potersi dilungare sul punto, è noto che la SCIA abbia subìto rilevanti modifiche normative nel corso del tempo e, oggi, sulla base dell'art. 19, comma 1, l. n. 241/1990, il privato che intenda intraprendere una certa attività può presentare all'amministrazione una segnalazione certificata e iniziarne immediatamente l'esercizio[2].
Per quanto qui rileva, nella sua attuale formulazione, l'art. 19, comma 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 prevede, in capo all'amministrazione competente, in primo luogo, il potere di verificare, entro sessanta giorni dal ricevimento della SCIA (trenta per i casi di "SCIA edilizia", come previsto dal comma 6 bis), la sussistenza dei requisiti per l'esercizio dell'attività intrapresa e, in caso di esito negativo, il potere di adottare i provvedimenti inibitori e repressivi.
Il successivo comma 4 poi, prevede comunque che l'amministrazione possa adottare i provvedimenti sopra descritti anche decorso il termine citato, ma solo in presenza delle condizioni di cui all'art. 21 nonies L. n. 241/1990[3].
La norma, come noto, disciplina l'esercizio del potere di autotutela dell'annullamento d'ufficio ed è, anch'essa, stata oggetto di numerose modifiche normative e, nel testo attualmente vigente, il potere è sottoposto alla triplice condizione che: non siano decorsi più di dodici mesi dall'adozione del provvedimento di primo grado (erano diciotto nella disciplina ratione temporis applicabile al caso deciso dalla sentenza in commento)[4]; sussistano “ragioni di interesse pubblico” per l’intervento dell’amministrazione; in ogni caso, si tenga conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Ciò ricordato, tema assai controverso è stato sempre quello della tutela del terzo a fronte della presentazione di una SCIA che abiliti un soggetto allo svolgimento di una attività che possa considerarsi pregiudizievole, quale derivazione dell'altrettanto annoso problema della natura giuridica della SCIA, se inquadrabile come strumento di semplificazione, mantenendo perciò esso natura di atto amministrativo, ovvero di liberalizzazione, conseguentemente essendo qualificabile come atto soggettivamente e oggettivamente del privato[5].
Senza svolgere una analisi diacronica troppo risalente, è noto che l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 avesse affermato la natura privatistica della SCIA, quale istituto di vera liberalizzazione, escludendo perciò la sua impugnabilità con una azione di annullamento, ma prevedendo la proponibilità di un’azione formalmente diretta contestare l’atto tacito di mancato esercizio dei poteri inibitori della P.A., che assumeva perciò i connotati di un’azione di accertamento della sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere vincolato e doveroso di inibizione e contestualmente di adempimento e di condanna[6].
Il legislatore intervenne poco dopo detta decisione e, pur confermando l'impostazione "liberalizzatrice" circa la natura dell'istituto in esame, costituente perciò atto privato non direttamente impugnabile, approntò una diversa tutela del terzo che si assumesse leso: l'art. 19, comma 6 ter L. n. 241/1990, introdotto dal D.L. n. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, tutt'oggi prevede che il terzo possa sollecitare con una istanza l'amministrazione all'esercizio delle verifiche ad essa spettanti e, in caso di inerzia della stessa, possa proporre l'azione avverso il silenzio ex art. 31 cod. proc. amm.
A fronte del problematico dato normativo in esame, con particolare riferimento al dies ad quem per l'esercizio dei poteri sollecitatori del terzo[7], era stata sollevata, dal T.A.R. Toscana, questione di legittimità costituzionale della norma in esame, per violazione degli artt. 3, 11, 97 e 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale n. 1 CEDU, dell’art. 6 par. 3 del Trattato UE e art. 117, comma 2, lett. m), Cost.), nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla S.C.I.A., esercitabile dunque sine die, con pregiudizio perciò dell’affidamento del segnalante circa la legittimità dell’attività intrapresa, del principio di buon andamento della P.A., del principio di certezza dei rapporti tra cittadino e amministrazione[8].
La questione di legittimità costituzionale è stata però respinta dalla Consulta con la sentenza 13 marzo 2019, n. 45, che ha rigettato la tesi del giudice remittente per cui non sarebbe ricavabile dal sistema normativo un termine finale per la richiesta, da parte del terzo, delle verifiche spettanti all'amministrazione[9].
Ad avviso della Corte infatti, il comma 6 ter citato, nell'affermare che il terzo possa sollecitare le verifiche spettanti all'amministrazione, deve intendersi riferito proprio ai poteri di cui ai commi 3, 4 e 6 bis dell'art. 19 L. 241/1990 e, conseguentemente, ai termini ivi previsti deve farsi riferimento per determinare il momento finale entro il quale il terzo possa sollecitare l'esercizio dei poteri dell'amministrazione (60/30 giorni e poi entro i successivi 18 mesi (oggi 12) in presenza degli altri presupposti dell'art. 21 nonies), e proporre, in caso di inerzia, il ricorso avverso il silenzio.
Per usare le parole della sentenza, "decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue".
La Corte, nel rilevare possibili profili di vulnus alla tutela del terzo derivanti dal principio affermato e paventati dall'ordinanza di rimessione, da un lato, de iure condito, richiama gli ulteriori strumenti comunque previsti a tutela del terzo dall'ordinamento, tra cui in particolare l'azione risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica[10]; dall'altro, de iure condendo, rileva che ciò "non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere".
In merito agli assunti ermeneutici raggiunti dal giudice delle leggi, la dottrina ha subito rilevato, per vero in senso critico, come l'impostazione della Consulta offrirebbe al terzo una tutela parziale, in quanto il grado di tutela dipenderebbe dal momento in cui il terzo abbia ad accorgersi della ritenuta illegittimità della SCIA: "se ciò avviene nei trenta (o sessanta) giorni successivi alla segnalazione (evenienza, come detto, assai rara), egli potrà ambire a una tutela piena; se invece ciò avviene nei successivi diciotto mesi, questi dovrà, come anticipato, accontentarsi di una tutela dimidiata, condizionata, nella sua effettività, dall'esistenza del potere pubblico"[11].
In questo senso perciò, è stato altresì rilevato che il terzo, nella ricostruzione della Corte, non appare "portatore di un proprio interesse contrario allo svolgimento dell'attività economica o edilizia avviata e per ciò solo meritevole di tutela, bensì titolare di una posizione giuridica meramente strumentale all'accertamento della conformità oggettiva dell'iniziativa alle disposizioni di legge"[12].
Una diversa questione di legittimità costituzionale della norma, a conferma della complessità del tema e della presenza di interessi confliggenti e tutti meritevoli, in qualche modo, di tutela, era stata proposta, poco prima della pubblicazione della decisione citata della Consulta, anche dal T.A.R. Emilia Romagna, Sez. Parma, questa volta adombrando, specularmente, la violazione del diritto di difesa del terzo controinteressato e la conseguente violazione dell’art. 24 Cost., in quanto, in senso contrario a quanto ritenuto dal T.A.R. Toscana e poi affermato dalla Corte Costituzionale, tale lesione deriverebbe proprio dalla previsione di un limite temporale all'esercizio della tutela del terzo, ricavabile dal sistema[13].
Detta questione di legittimità costituzionale è stata però dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 20 luglio 2020 n. 153, non essendo stato attivato nel giudizio a quo un ricorso avverso il silenzio, bensì avendo l'amministrazione riscontrato la diffida del terzo e l'atto in questione era stato impugnato con una ordinaria azione di annullamento; la Corte ha comunque richiamato tutte le conclusioni di cui alla precedente sentenza n. 45/2019 in merito alla tutela del terzo[14].
3. La sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737.
Orbene, svolte tutte le citate necessarie premesse, con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha riformato la decisione di primo grado, riassunta in apertura, svolgendo alcune rilevanti considerazioni.
In primo luogo, la Quarta Sezione sottolinea che la Corte Costituzionale ha riconosciuto al terzo la possibilità di sollecitare non solo le verifiche di cui ai commi 3 e 6 bis dell'art. 19, ma anche quelle di cui al comma 4, che si esercitano alle condizioni e nei tempi previsti dall’art. 21 nonies della legge n. 241/1990, al quale il comma citato rinvia, con la conseguenza che "ove l’amministrazione adotti un provvedimento di rigetto dell’istanza del terzo, volta a ottenere l’esercizio del potere in autotutela, il terzo medesimo può fare valere in giudizio le proprie ragioni avverse".
Nel caso esaminato dunque, si rileva l'erroneità della sentenza di primo grado che ha affermato l'inammissibilità del ricorso solo perché l'istanza del terzo fosse stata presentata decorso il termine di 30 giorni dalla conoscenza della SCIA edilizia, mentre l’istanza iniziale faceva chiaro riferimento all’art. 21 nonies; istanza alla quale, peraltro, il Comune aveva risposto con provvedimento espresso di diniego nel merito, argomentando sulla legittimità dell'opera realizzata, che veniva quindi impugnato con ordinaria azione di annullamento.
Di tal che, da un lato, il termine per la tempestività dell'istanza di sollecitazione delle verifiche da parte del terzo era quello di 18 mesi (oggi 12) di cui all'art. 21 nonies, che risultava rispettato; dall'altro, "il fatto che il Comune abbia dato riscontro all’istanza con un provvedimento espresso, sia pure di diniego, rende non decisiva, ai fini della controversia in esame, la questione se, nella specie, il Comune fosse obbligato o meno a rispondere all’istanza medesima".
In altre parole, nel caso di specie si controverteva su un caso del tutto speculare a quello che ha dato origine alla seconda delle menzionate sentenze della Corte Costituzionale, la n. 153/2020, non ponendosi proprio una questione di tutela limitata del terzo, avendo l'amministrazione riscontrato l'istanza del terzo nel merito e l'atto in questione era stato impugnato con una ordinaria azione di annullamento.
Tanto sarebbe bastato ad esaminare il ricorso nel merito e valutare la legittimità o meno della motivazione del provvedimento di diniego in autotutela.
Ciò in quanto, per consolidata giurisprudenza, se l’Amministrazione risponde negativamente a una richiesta di autotutela, tale diniego è impugnabile e sindacabile in sede giurisdizionale solo laddove lo stesso non si atteggi come un atto meramente confermativo di precedenti statuizioni, e come tale privo di autonoma portata lesiva[15].
Ma la decisione qui annotata procede oltre, ritenendo ciò necessario ai fini conformativi del riesercizio del potere della p.a.
A questo fine, il Consiglio di Stato, richiamando anche alcuna giurisprudenza espressasi già in precedenza in termini, afferma la peculiarità del potere di autotutela dell'amministrazione di cui all'art. 19, comma 4 L. n. 241/1990 rispetto al generale potere di annullamento d'ufficio, che non sarebbe discrezionale nella sua attivazione, come invece sopra visto in linea generale, ma, in presenza dell'istanza del privato, l'amministrazione sarebbe tenuta ad avviare il procedimento "anche per l’intima connessione di tale potere col più generale dovere di vigilanza che incombe al Comune sull’attività edilizia ai fini dell’ordinato assetto del territorio".
Ciò vieppiù a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, che "ha messo in evidenza la questione di possibili lacune nella tutela del terzo confinante rispetto agli interventi realizzati sulla base della SCIA"; di tal che, ad avviso della sentenza in esame, "l’amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo, ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo e ciò diversamente da quanto accade in presenza di un “normale” potere di autotutela che si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere, (…) in quanto coniuga in modo più equilibrato le esigenze di liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo (e, ora, viene incontro alle preoccupazioni manifestate dalla Corte costituzionale)"[16].
Di tal che, ritenendo fondato nel merito il ricorso, giacché, in senso contrario a quanto affermato nel provvedimento di diniego di annullamento d'ufficio, è risultata la violazione delle distanze stabilite dal Regolamento edilizio comunale, la sentenza qui in esame conclude che "l’Amministrazione comunale, nell’esercitare nuovamente, a seguito dell’annullamento, il proprio potere in autotutela secondo quanto stabilito dalla presente sentenza, verificherà la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies, della legge n. 241/1990".
4. Sull’eccezionalità delle ipotesi di “riesame obbligatorio”.
Ora, la decisione in commento stimola alcune osservazioni, che potremmo compendiare nella nota espressione manzoniana adelante con juicio.
È, infatti, in primo luogo, doveroso riconoscere come la formulazione dell'art. 19, comma 6 ter L. n. 241/1990, anche per come interpretata dalla Corte Costituzionale, abiliti a ritenere che l'amministrazione, sull'istanza del terzo controinteressato all'attività economica o edilizia intrapresa sulla base di una SCIA, sia tenuta a riscontrare detta istanza, anche se rivolta all'attivazione delle verifiche alle condizioni di cui all'art. 21 nonies L. n. 241/1990, avviando il relativo procedimento; se non altro, per la chiara attribuzione al terzo del rimedio del ricorso avverso il silenzio in caso di inerzia.
E tuttavia, le deviazioni rispetto alle ordinarie regole che governano il potere di autotutela dell'amministrazione si fermano (e devono fermarsi) qui.
Infatti, in linea generale, deve essere richiamato e ribadito il principio, davvero consolidato nella giurisprudenza e nella dottrina, per cui non si ravvisa alcun obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi su un’istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l’attivazione del procedimento di riesame, costituendo l’esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l’esercizio, per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l’illegittimità, è da ritenersi inammissibile[17].
Invero, proprio la disciplina di cui all'art. 19, comma 6 ter L. 241/1990 in tema di SCIA, è stata valorizzata, in dottrina, al fine di affermare come l'avvio del potere di autotutela debba considerarsi "obbligatorio" in presenza dell'istanza del privato che lo solleciti[18].
Unitamente alla norma citata, vengono richiamati, quali indici ulteriori in tal senso, le c.d. denunce qualificate, in particolare con riferimento alle Autorità Indipendenti[19]; le norme in materia di autotutela tributaria[20]; le considerazioni giurisprudenziali in merito all'obbligo di riesame in caso di istanza presentata durante la pendenza del termine per impugnare[21], nonché in presenza di riesame esercitato su analoghe istanze presentate da altri soggetti nella medesima situazione[22].
Altra fattispecie ritenuta rilevante sarebbe quella dell'obbligatorio riesame del provvedimento di primo grado, pur divenuto definitivo, per contrasto con il diritto dell'Unione Europea, sulla scorta di quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia in presenza di determinati requisiti[23]; impostazione peraltro anche recentemente confermata dalle note sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in tema di concessioni demaniali marittime, che, pur non ritenendo integrata la fattispecie, hanno espressamente ribadito tali assunti[24].
Su tali basi, si giungerebbe dunque ad affermare che il soggetto che invochi l'esercizio del potere di autotutela in capo alla p.a. sarebbe titolare di una posizione giuridica soggettiva qualificata, che dovrebbe in generale essergli riconosciuta quando potrebbe ricevere dall'annullamento in autotutela un vantaggio specifico e differenziato rispetto all'interesse generale alla legalità[25].
Ma questa generalizzazione non è tuttavia condivisibile.
Come lucidamente rilevato da altra recente dottrina infatti, a livello generale, la qualificazione di una situazione giuridica soggettiva necessita di indici positivi di rilevanza per l'ordinamento, non essendo sufficiente la mera corrispondenza di un interesse materiale privato con l’esercizio di un potere amministrativo; in particolare, "non sembra che possa ritenersi autonomamente qualificato dall’ordinamento l’interesse di chi aspiri a ottenere l’annullamento d’ufficio di un atto lesivo", in quanto nessun indice normativo conduce in tal senso, né l'art. 21 nonies fa riferimento alla posizione dell'istante[26].
Dunque, le argomentazioni sull'obbligo di riesame, pure rese dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, devono restare ben circoscritte alla situazione dell'amministrazione che riceva una istanza di esercizio delle verifiche di sussistenza dei requisiti per l'esercizio dell'attività oggetto della SCIA; sotto questo profilo d'altronde, non si tratta, nel caso di specie, propriamente dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio in senso proprio, in quanto, come noto, manca un provvedimento amministrativo di primo grado su cui intervenire, stante la natura privata della SCIA[27].
Esso è più propriamente un potere di controllo spettante all'amministrazione ex post, mancando il controllo a monte tipico dei provvedimenti autorizzatori, trattandosi di attività sì libera, ma pur sempre soggetta a regole; ecco che quindi ciò può spiegare come rispetto a questi poteri sia ammessa una facoltà di sollecitazione da parte dei privati interessati più forte e garantita[28].
5. Conclusioni.
Tali considerazioni assumono una ancor più centrale importanza a mente del fatto che le tesi dottrinali, sopra citate, che hanno proposto una generalizzazione dell'obbligo di riesame, si sono altresì espresse nel senso di una generale vincolatività nel merito dell'annullamento d'ufficio in presenza di una accertata illegittimità, eliminandosi in tal modo qualsiasi valutazione discrezionale che non sia indotta, in sostanza, da un dubbio circa la reale illegittimità dell’atto[29].
Accogliendo dunque questa impostazione, dovrebbe concludersi vieppiù nel caso della istanza del terzo rispetto alla SCIA circa il vincolo in capo all'amministrazione di esercitare i poteri inibitori (o più probabilmente repressivi, visto il tempo decorso), laddove la SCIA fosse stata presentata in carenza dei requisiti, senza che l'amministrazione possa svolgere quella discrezionale valutazione comparativa tra i diversi interessi coinvolti, come previsto ed imposto dall'art. 21 nonies a garanzia dell'affidamento del privato (rectius: segnalante).
Ma tale impostazione appare assai validamente confutata ancora da quella dottrina che ha messo in luce come sia senz'altro vero che sussiste la necessità che l’amministrazione persegua, mediante il controllo spontaneo degli atti assunti, la legalità del proprio operato e che quindi l'autotutela assume anche una funzione di "giustizia nell'amministrazione", ma, a fronte di tali esigenze, nondimeno "si stagliano i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, con forza e riconoscimento oggi sempre più robusti"[30].
È ancora perciò centrale, nel bilanciamento, la necessità di una ponderazione discrezionale da parte dell'amministrazione nell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio, ricordandosi peraltro come l'art. 97 della Costituzione non ponga su un piano sovraordinato la legalità dell'azione amministrativa rispetto al suo buon andamento, che compendia la cura dell'interesse pubblico concreto e l'affidamento meritevole di tutela del privato[31].
Tali considerazioni appaiono pienamente applicabili anche al, pur particolare, caso del potere di intervento dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 19, comma 4 L. n. 241/1990, sollecitato dal terzo che si assuma leso da una SCIA.
Sul piano del diritto positivo, la norma citata chiaramente è riferita alla sussistenza delle condizioni di cui all'art. 21 nonies L. n. 241/1990, la quale, proprio in ossequio alle esigenze di tutela dell'affidamento del privato, richiede una necessaria ponderazione degli interessi pubblici e privati confliggenti. Ma, inoltre, con particolare riferimento alla SCIA, ciò si impone ancor di più nel momento in cui il legislatore, ormai si è chiarito, abbia, con tale istituto, voluto disancorare l'esercizio di attività economiche e edilizie dalla necessità di una previa autorizzazione amministrativa[32].
In ultimo, e il caso oggetto della sentenza qui annotata ne pare essere una valida cartina al tornasole, può fungere da chiave di sufficiente tutela delle esigenze del terzo, l'individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la presentazione dell'istanza di sollecito allo svolgimento delle verifiche della P.A. dalla conoscenza dell'avvenuta presentazione della SCIA stessa.
Invero, la sentenza di primo grado oggetto dell'appello qui esaminato, aveva proprio valutato la tempestività dell'istanza di sollecito dei poteri di verifica della P.A. facendo decorrere il termine per la sua presentazione "dalla piena conoscenza della medesima, a seguito dell’ostensione dei relativi atti da parte dell’Amministrazione comunale in riscontro all’istanza di accesso proposta dalla ricorrente medesima".
Il profilo citato appare peraltro l'unico spazio interpretativo residuo per garantire, de iure condito, una sufficiente tutela del terzo rispetto ad una SCIA, in quanto qualsiasi ulteriore strumento appare invero sconfinare sul terreno proprio del legislatore, anche alla luce dell'invito rivolto dalla Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 45/2019.
Esso infatti, come anticipato, è rivolto, oltre che a impedire il decorso dei termini per le verifiche in presenza di una sollecitazione, proprio a operare una modifica normativa volta a consentire al terzo una conoscenza della SCIA "più immediata": maggiore immediatezza proprio rispetto all'ordinaria conoscenza, acquisibile per il tramite di una istanza di accesso ai documenti amministrativi, della SCIA presentata.
[1] La decisione di primo grado oggetto dell'appello qui esaminato è T.A.R. Sardegna, Sez. II, 20 marzo 2020, n. 177, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In argomento la bibliografia è particolarmente vasta. V., senza pretesa di esaustività, M.A. Sandulli, La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) (artt. 19 e 21 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in, M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell'azione amministrativa, Milano, 2020; G. Strazza, La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020; M.A. Sandulli, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, in M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa, Milano, 2016, 74 ss.; N. Paolantonio, W. Giulietti, Commento all'art. 19, in M. A. Sandulli (a cura di), Il codice dell'azione amministrativa, Milano, 2010, 748 ss.; F. Liguori, Le incertezze degli strumenti di semplificazione: lo strano caso della d.i.a. - s.c.i.a., in Dir. proc. amm., 2015, 4.
[3] Come noto, il riferimento all'art. 21 nonies non vale, tuttavia, a qualificare il potere della p.a. sulla SCIA in termini di autotutela decisoria, non venendo qui in rilievo l'esercizio di un potere di secondo grado, stante la mancata adozione di un atto a monte da parte dell'autorità competente. La disciplina dell'annullamento d'ufficio viene, invece, richiamata con riguardo alle condizioni legittimanti l'esercizio del potere inibitorio/conformativo da parte della p.a., come stabilite, appunto, nell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 (cfr. A. Briamonte, SCIA e tutela del terzo: la Corte Costituzionale si pronuncia sul termine ex art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, in Dir. Proc. Amm., fasc. 1, 2020, 125).
[4] Con riferimento alla SCIA, l’articolo 2, comma 4, del d.lgs. n. 222/2016 ha precisato che il termine de quo decorre dalla scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente.
[5] In tema V. V. Cerulli Irelli, Modelli procedimentali alternativi in tema di autorizzazione, in Dir. Amm., 1993, 55; F. Fracchia, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996, 241; M. Mazzamuto, La riduzione della sfera pubblica, Torino, 2000, 139; F. Liguori, Attività liberalizzate e compiti dell'amministrazione, Napoli, 2000 E. Boscolo, I diritti soggettivi a regime amministrativo. L'art. 19 della legge n. 241/1990 ed altri modelli di liberalizzazione, Padova, 2001; L. Ferrara, DIA (e silenzio-assenso) tra autoamministrazione e semplificazione, in Dir. Amm., 2006, 4, 759 ss.
[6] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 2011, n. 15, in Dir. proc. amm., fasc.1, 2012, 139 ss. con note di R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo e di L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.c.i.a. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90 e in Riv. Giur. Edil., fasc.2-3, 2011, 533, con nota di M.A. Sandulli, Primissima lettura della Adunanza plenaria n. 15 del 2011. È altresì noto che la Plenaria riconobbe anche la possibilità di proporre l'azione in via cautelare, prima ancora del perfezionarsi del termine per l’esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione.
[7] In argomento V. A. Berti Suman, Scia e tutela del terzo. Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i decreti attuativi SCIA1 e SCIA2, in www.giustizia-amministrativa.it, 17 giugno 2017. Sostanzialmente, per una prima impostazione, decorsi i termini di sessanta o trenta giorni, al terzo sarebbe consentito unicamente stimolare l’azione di autotutela della P.A., senza garanzia, quindi, che pur a fronte di una S.C.I.A. illegittimamente presentata, l’Amministrazione eserciti i propri poteri repressivi. Tale tesi assicura la stabilizzazione delle posizioni giuridiche, ma certamente compromette la situazione del terzo, dato il ristretto lasso di tempo decorso il quale la carenza dei presupposti non conduce più, automaticamente, all’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3. Secondo una diversa impostazione, il terzo potrebbe sempre ottenere l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3 (inibitori), ancorché siano decorsi i termini. L’opposta interpretazione finirebbe infatti per frustrare le esigenze di tutela del controinteressato, tenuto conto che, decorsi i brevi termini di legge (e tenuto anche conto che egli potrebbe non avere immediata conoscenza della S.C.I.A.), la salvaguardia della propria posizione sarebbe condizionata al giudizio discrezionale della Pubblica Amministrazione. Pertanto, se è vero che la tutela del terzo non può essere subordinata all’apprezzamento di interessi pubblici ulteriori rispetto al ripristino della legalità e se, al contempo, è vero che l’art. 19 comma 6 ter non stabilisce un termine decadenziale per la sollecitazione, è giocoforza ritenere che il terzo sia legittimato sine die a richiedere all’Amministrazione di intervenire sull’attività privata.
[8] Cfr. T.A.R. Toscana, Sez. II, con l’ordinanza dell’11 maggio 2017, n. 667, in Riv. Giur. Edil., 2017, 2, I, 328. In tema v. R. Bertoli, SCIA e tutela del terzo: decadenza del potere inibitorio e pretesa al suo esercizio, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Com., 2017, 6, 1392 ss.
[9] Corte Cost., 13 marzo 2019, n. 45, in Foro Amministrativo (Il), fasc.5, 2019, 762, con nota di C. Villanacci, La tutela del terzo nella SCIA: natura e limiti dei poteri della pubblica amministrazione nella ricostruzione della Corte Costituzionale e in Riv. Giur. Edil., fasc. 2, 2019, 318, con nota di S. Capozzi, SCIA e tutela del terzo: la Consulta chiarisce.
[10] Inoltre, la Corte menziona i poteri di cui all’art. 21, della legge n. 241 del 1990, precisamente nella sollecitazione dei poteri di verifica dell'amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni (comma 1), nei poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti da leggi di settore (comma 2 bis), tra i quali quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e ss. del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
[11] G. Mannucci, I limiti alla tutela dei terzi in materia di Segnalazione certificata di inizio attività, in Giur. Cost., fasc. 2, 2019, 730.
[12] F. Savo Amodio, S.c.i.a. e tutela del terzo: la complessa ricerca di un equilibrio, in Riv. Giur. Edil., fasc.1, 2020, 29
[13] Cfr. T.A.R. Emilia Romagna, Parma, Sez. II, ord. 22 gennaio 2019, n. 12, in Riv. Giur. Edil., 2019, 1, I, 186.
[14] Cfr. Corte Costituzionale, 20 luglio 2020, n. 153, in Giur. Cost., 2020, 4, 1737.
[15] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2019, n. 2645; Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2019, n. 1080, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] In tal senso, la decisione richiama il precedente di Cons. Stato, VI, 3 novembre 2016, n. 4610, che si può v. in Foro it., 2017, 3, III, 143, con nota di V. Mirra.
[17] Cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2018, n. 5344, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, v. la già risalente posizione di G. Codacci Pisanelli, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 151; più recentemente F. Bonamassa, Brevi riflessioni sulla natura discrezionale del potere di annullamento d’ufficio, in A. Sandulli, G. Piperata (a cura di), La legge sul procedimento amministrativo. Vent’anni dopo, Napoli, 2011, 369 ss. Sul tema si v. anche i contributi di F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015; Id., Profili evolutivi dell’autotutela (decisoria) amministrativa, in A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), I rimedi contro la cattiva amministrazione: Procedimento amministrativo ed attività produttive imprenditoriali, Napoli, 2016, 9 ss.; Id., Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, n. 8/2017; Id., Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in A. Contieri, F. Francario, M. Immordino, A. Zito (a cura di), L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Napoli, 2010, II, 107 ss.;
[18] Cfr. in particolare M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018.
[19] Su cui V. L. De Lucia, Denunce qualificate e preistruttoria amministrativa, in Dir. amm., 2002, 717 ss.
[20] Il decreto del Ministro delle finanze 11 febbraio 1997, n. 37, contiene un vero e proprio "Regolamento sull’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria".
[21] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 2006, n. 6056, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Essendo ciò imposto dal principio di imparzialità. In tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1227, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Ci si riferisce evidentemente alle sentenze Corte di giustizia, 13 gennaio 2004, in C-453/00, Kühne & Heitz e Corte di giustizia, Grande sezione, 12 febbraio 2008, in C-2/06, Willy Kempter. I requisiti sono, come noto, che: a) l’amministrazione disponga secondo il diritto nazionale del potere di riesame; b) l’atto amministrativo sia divenuto definitivo a seguito di una sentenza di un giudice nazionale di ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della CGUE successiva alla medesima, risulti fondata su una interpretazione errata del diritto adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale. Vale peraltro già qui richiamare la tesi dottrinale che ha evidenziato come dalle sentenze della Corte di Giustizia citate non si ricava neppure un obbligo di riesame da parte dell'amministrazione in tali casi, ma solo il rispetto del principio di equivalenza, per cui l'atto amministativo anticomunitario deve essere annullabile d'ufficio alle stesse condizioni di quello in contrasto con la normativa nazionale; infatti, le sentenze sono state rese con riguardo ad ordinamenti nei quali è previsto, a differenza del nostro, in via generale un dovere di riesame (Cfr. M. Silvestri, Potere pubblico e autotutela amministrativa. I rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nello specchio dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2021, 106-110, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti dottrinali adesivi).
[24] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 9 novembre 2021, nn. 17-18, par. 40, sulle quali si possono v., in questa Rivista, i contributi di M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria e F. P. Bello, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Si può altresì v. il fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”, su cui, in questa Rivista, v. la recensione di F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
[25] Peraltro, come si vede, ciò è proprio quanto la dottrina ha affermato in senso critico rispetto alla decisione della Corte Costituzionale, alla quale si obbietta di ritenere che i poteri del terzo denunciante esistano (e si estinguano) col potere dell'amministrazione, negando perciò autonomia alla sua posizione giuridica soggettiva. (Cfr. G. Mannucci, op. cit.); in termini anche R. Greco, I titoli edilizi “semplificati” dopo il Decreto-Legge 16 luglio 2020, n. 76, in www.giustizia-amministrativa.it, che rileva che "e invero, il “cuore” dell’intera problematica qui trattata ruota proprio attorno alla figura del terzo che si assuma pregiudicato dall’attività altrui avviata sulla base di una SCIA: se a costui si riconosce effettivamente una posizione giuridica sostanziale di tipo “oppositivo”, tale da fondarne la legittimazione e l’interesse a reagire in sede giurisdizionale (benché ordinariamente ci si riferisca a tale soggetto con la locuzione di “controinteressato”), allora si pone un serio problema di effettività della tutela attualmente riconosciuta dall’ordinamento. Se, invece, si volesse degradare l’interesse oppositivo del proprietario limitrofo a interesse di mero fatto, negandogli una situazione giuridica qualificata (ma questo neanche la Corte costituzionale lo ha sostenuto), allora sarebbe coerente la mancata previsione di specifici rimedi processuali a suo favore".
[26] Il riferimento è a M. Silvestri, op. cit., in part. 135-139. Tutto il lavoro è invero dedicato alla confutazione, pienamente condivisibile, delle recenti tesi emerse in merito all'annullamento d'ufficio, tanto con riferimento a quelle, qui richiamate, circa la doverosità dell'autotutela, quanto quelle, che peraltro appaiono condurre a conclusioni opposte, in merito all'"esauribilità" del potere di autotutela.
[27] In tema v. M. A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, in Federalismi.it.
[28] Cfr. M. Silvestri, op. cit., 140.
[29] Cfr. M. Allena, L’annullamento d’ufficio, cit., 111 ss., che parla di "presunzione relativa" della necessità di annullare d'ufficio l'atto illegittimo (141). Recentemente v. la panoramica esposta da N. Durante, L'autotutela doverosa, in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] M. Silvestri, op. cit., 149.
[31] Cfr. M. Silvestri, op. cit., 151.
[32] Sul tema, si v., ex multis, M. Clarich, Autorizzazioni e concessioni: presidi dell'interesse pubblico o barriere al mercato?, in Astrid - Rassegna, n. 17, 2014, e, sul rapporto tra semplificazione e liberalizzazione, G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della l. n. 124/2015, in Dir. Amm., 2016, 1-2, 107 ss.
Una sconfitta per l’umanità
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Un passo indietro nella storia - 2. Nessuna colomba di pace nel cielo dell’Ucraina - 3. Una guerra che non può avere vincitori.
1. Un passo indietro nella storia
La guerra è tornata in Europa, dopo più di vent’anni dalla conclusione dei sanguinosi conflitti che tra il 1991 e il 2001 hanno segnato la dissoluzione della ex Jugoslavia. Con la differenza, però, che ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni non è solo una crisi locale, ma rievoca le dimensioni planetarie delle due guerre mondiali e della “guerra fredda” che ne seguì.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non è stata solo una gravissima prevaricazione ai danni di una nazione sorella – tra russi e ucraini esistono da sempre legami profondi, che si manifestano in un rapporto di amore-odio frequente tra fratelli - , ma ha messo in moto una reazione a catena che sta coinvolgendo il mondo intero. Piuttosto che un conflitto locale, questa guerra si sta rivelando un conflitto epocale, da cui sembra emergere quello che sia il ministro degli esteri russo Lavrov che il presidente americano Biden, in ottiche diverse, hanno entrambi definito «un nuovo ordine mondiale».
In poche settimane, il grande passo di pace compiuto con l’abbattimento del muro di Berlino , nel 1989, appare annullato. Ogni ponte è stato abbattuto. Da una parte l’arroganza e la fredda determinazione di Putin, dall’altra la reazione unanime dell’Occidente, che ha risposto con uno sforzo senza precedenti di isolamento della Russia, hanno determinato una spaccatura che allo stato attuale appare insanabile.
Emblematica la votazione con cui l’Assemblea generale dell’Onu ha sospeso la Russia dal Consiglio dei diritti umani, che si aggiunge all’esclusione del governo di Mosca dal Consiglio d’Europa e al suo boicottaggio nel G20.
La decisione è stata presa a larga maggioranza e salutata con grande soddisfazione dai media occidentali. Uno sguardo più attento ci porterebbe però ad essere meno euforici. Sono 93 i Paesi che si sono pronunciati a favore, ma 24 si sono opposti e 58 si sono astenuti. Tra i contrari, molti storici alleati di Mosca, come Cina, Cuba, Bielorussia, Siria e Vietnam e altri che lo sono diventati di recente grazie agli aiuti militari ricevuti dal Cremlino, come Mali, Gabon e Zimbabwe. Nella lista degli astenuti, inoltre, figurano l’India il Brasile, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, l’Indonesia, la Giordania, l’Iraq, il Messico, la Nigeria, il Qatar, il Sudafrica… Ed è una scelta che suona come un preciso rifiuto alle insistenze degli Stati Uniti per una presa di posizione a favore della loro linea.
Il «nuovo ordine mondiale», insomma, è un passo indietro nella storia, perché comporta che circa metà della popolazione del pianeta sia schierata contro l’altra metà. Su tutti i piani. Lo scontro tocca perfino la sfera religiosa ed etica. Da una parte il patriarca di Mosca Kirill ha giustificato l’aggressione all’Ucraina evocando una vera e propria “guerra santa” contro la corruzione morale dell’Occidente, chiamando in causa il tema dell’omosessualità. Dall’altra la condanna dell’invasione è stata tradotta, anche grazie all’abile spettacolarizzazione da parte di Zelens’kyi, in una vera e propria “crociata” che ha portato a boicottare tutto ciò che è russo, dalle merci alle risorse energetiche , perfino agli atleti, che vengono esclusi dalle gare internazionali, e alle opere d’arte (a Vicenza un corpo di ballo ucraino si è rifiutato di rappresentare “Il lago dei cigni” di Ciakovskyi). Una strada che non sbocca da nessuna parte, chiunque esca vincitore dallo scontro sul campo.
2. Nessuna colomba di pace nel cielo dell’Ucraina
Non si vede, peraltro, alcun barlume di luce. Gli unici due Paesi che avevano cercato di evitare la guerra, la Francia e la Germania, si sono trovati isolati. I viaggi a Mosca di Macron e Scholtz da un lato si sono rivelati inutili di fronte al muro della determinazione di Putin, dall’altro non sono stati supportati in alcun modo dagli Stati Uniti che, pur essendo gli unici ad avere la certezza assoluta che la guerra sarebbe scoppiata, non hanno fatto nulla per cercare di impedirla, magari escludendo esplicitamente la prospettiva dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. È molto dubbio che questo sarebbe stato sufficiente a bloccare il progetto d’invasione, ma sarebbe stato almeno una mano tesa a Mosca.
Anche successivamente, a guerra iniziata, le possibilità di dialogo non sono migliorate. Da un lato, le stragi di civili compiute dalle truppe russe a Bucha, i saccheggi, gli stupri, le inaudite violenze perpetrate dagli invasori, una condotta di guerra da parte delle truppe russe mirante più a distruggere che a conquistare, hanno giustamente indignato il mondo intero. L’effetto di questa violenza indiscriminata è stato il drammatico esodo forzato di cinque milioni di ucraini!
Dall’altro lato, la parola è passata dai Paesi europei agli Stati Uniti assumendo, col presidente Biden, un tono di tale aggressività e violenza verbale da spingere la stessa Casa Bianca a cercare in qualche caso di attenuarla. Reazione oggettivamente giustificata sul piano etico, ma certamente poco adatta a incoraggiare un negoziato reso già molto problematico dall’atteggiamento della controparte.
E non sono state solo parole. Personalmente ho sempre pensato che aiutare gli ucraini a resistere all’invasione russa, anche inviando armi, fosse un atto doveroso di solidarietà verso un popolo che coraggiosamente si opponeva a un sopruso. Se la pace è, come dice Agostino, «la tranquillità dell’ordine», essa non può essere pagata con la sottomissione alla violenza altrui, perché un ordine autenticamente umano implica la giustizia e la libertà. A meno di condividere la famosa espressione usata dal ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca: «L’ordine regna a Varsavia».
Però questo sostegno avrebbe dovuto esser finalizzato a consentire ragionevoli trattative tra i contendenti. Invece l’eccezionale impegno finanziario profuso dagli Stati Uniti per sostenere la resistenza ucraina è stato caratterizzato da una escalation non solo nelle prese di posizione verbali, ma anche nel tipo di armamenti forniti, che da semplicemente difensivi sono sempre più diventati anche offensivi e finalizzati, più che a negoziare la pace, a vincere la guerra. Che così si è progressivamente trasformata in una specie “guerra per procura”, combattuta dalla Nato – ma in concreto soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna – sul suolo e sulla pelle degli ucraini.
Da parte sua il presidente Zelens’kyi, forte di questo appoggio, più che a cercare un dialogo con gli aggressori è sembrato intento a mobilitare l’opinione pubblica occidentale, utilizzando le sue grandi doti comunicative (è noto il suo trascorso di attore), allo scopo dichiarato di avere un illimitato appoggio militare, mostrandosi incurante delle conseguenze che avrebbe avuto una no-fly zone e un diretto confronto dei suoi alleati con la Russia.
In questa prospettiva, pur dicendosi disposto a trattare sull’ingresso del suo Paese nella Nato e sulla sua neutralità, di fatto proprio alla Nato - e agli Stati Uniti in particolare - è sembrato fare riferimento, distanziandosi anche dall’UE proprio nel momento in cui questa gli apriva le braccia per accogliere l’Ucraina tra i suoi membri. Il rifiuto di ricevere il presidente della Repubblica tedesca, la polemica con Macron per le sue riserve sul termine “genocidio”, usato dal presidente ucraino e da Biden, sono segnali evidenti di questa scarsa considerazione degli alleati europei, i più cauti nell’accogliere le sue richieste incalzanti.
3. Una guerra che non può avere vincitori
In questo contesto drammatico è stato più volte evocato il pericolo che la Russia - anche a causa delle perdite e dei rovesci militari provocati dalla incredibile inefficienza del suo esercito – faccia ricorso ad armi nucleari. Una minaccia ostentata dal Cremlino, che proprio in questo clima di tensione ha testato un nuovo, più micidiale, missile balistico. E tuttavia rimane improbabile che Putin arrivi al punto di usare l’atomica all’interno dei confini di un Paese limitrofo alla Russia, con le conseguenze che ciò avrebbe per la sua stessa nazione.
Il rischio sarebbe molto maggiore se lo scontro armato con gli Stati Uniti – che già ora è in corso, anche se in forma indiretta – si trasformasse in un conflitto diretto. Rischio tutt’altro che immaginario, visto che Biden, con l’appoggio incondizionato del premier inglese di Johnson, sembra ormai sempre più incline ad accogliere le richieste del presidente ucraino, che fin dall’inizio ha invocato un più pieno coinvolgimento dell’intero Occidente in questa guerra. E, se si arrivasse a questo – ma ci siamo purtroppo vicini - la minaccia di un catastrofico scontro nucleare diventerebbe tragicamente reale.
La sola voce che si è levata forte e chiara contro la guerra è stata quella di papa Francesco. Sulla linea dei suoi predecessori - i papi che si sono opposti prima di lui a tutte le guerre devastanti del secolo scorso come a quelle del nuovo millennio, - anch’egli non si stanca di lanciare il suo appello a fermare un conflitto da cui tutti, tranne i fabbricanti e i mercanti di armi, sono destinati a uscire perdenti. Al momento attuale, sembra che nessuno voglia ascoltarlo.
Eppure rimane la speranza che alla fine ci si renda conto, da tutte le parti, che la vagheggiata “vittoria” è in realtà un miraggio. Lo è per Putin, che pagherà qualunque ipotetico guadagno territoriale a un prezzo sproporzionato in termini economici, politici e di immagine. Lo è per l’Europa, che appare la più esposta ai gravissimi danni economici derivanti alla guerra. Lo è per gli Stati Uniti, che, se anche riusciranno a isolare e umiliare la Russia, avranno solo bandito ed esasperato un popolo di centocinquanta milioni di persone, di grandi tradizioni culturali e di enormi potenzialità militari, con cui sarà stato chiuso ogni tipo di dialogo e di collaborazione.
Per tutti vale il monito di papa Francesco: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell'umanità». Questa sicuramente lo è.
Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”
di Marco Magri
Sommario: 1. Homo sine pecunia est imago mortis: l’esclusione di chi non può conseguire il “bene della vita” nella giurisprudenza del Consiglio di Stato - 2. Mera obbiettività dell’accertamento compiuto dal giudice amministrativo per estromettere il ricorrente “assimilato” al quivis de populo - 3. La teoria dell’Adunanza Plenaria sulla legittimazione ad agire come “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” (e i suoi limiti) - 4. Argomenti in favore dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., delle sentenze d’inammissibilità del Consiglio di Stato basate esclusivamente sulla “teoria della norma di protezione” (Schutznormtheorie).
1. Homo sine pecunia est imago mortis: l’esclusione di chi non può conseguire il “bene della vita” nella giurisprudenza del Consiglio di Stato.
La vivace discussione intorno alla sentenza della Corte di giustizia UE, 21 dicembre 2021, C-427/20 (Randstad Italia S.p.A. c. Azienda USL Valle d’Aosta e altri) ha toccato a più riprese il tema della legittimazione al ricorso[[1]] e, con ciò, l’importante profilo teorico dell’interesse legittimo che, secondo parte della dottrina, concerne la sua “individuazione”[[2]].
I riferimenti a questa fondamentale problematica sono emersi, com’era inevitabile, tra altre questioni poste dal caso Randstad, che ora non è il caso di riportare in dettaglio: a partire dalle prospettive sui rapporti e sui possibili conflitti tra le diverse giurisdizioni [[3]], ad altre più legate alla specificità della disciplina comunitaria della questione sollevata dalla Cassazione [[4]].
È innegabile peraltro che l’intera area di confine tra l’interesse legittimo e l’interesse non qualificato (semplice, di fatto, diffuso, popolare, di pura amministrazione, amministrativamente protetto, ecc.) si appresti a registrare una scossa piuttosto violenta, già per il fatto stesso che le Sezioni Unite, chiusa la parentesi della Corte di Giustizia, siano chiamate a statuire sull’accesso alla giustizia amministrativa di quel tipo d’interesse materiale cosiddetto “strumentale”, poiché non aspira al conseguimento del “bene della vita” (nel caso di specie, l’aggiudicazione del contratto), ma tende a un’utilità accidentale, costituita dalla probabilità di conseguirlo ad esito del nuovo esercizio del potere amministrativo (sempre nella vicenda Randstad, la ripetizione della gara).
Il problema dell’interesse strumentale, sia pure trasferito e in parte nascosto nella questione della pregiudizialità dell’ordine di esame tra il ricorso principale e il ricorso incidentale escludente[[5]], era in realtà già da tempo all’attenzione delle Sezioni Unite. Ma nella vicenda Randstad la maggior semplicità dell’oggetto del processo porta tutto direttamente in discussione; è possibile pertanto guardare al caso “dal basso”, cioè dal punto di vista del cittadino utente[[6]].
Non sfugge, certo, che il “cittadino” del cui interesse legittimo si trattava nel caso Randstad non fosse esattamente il prototipo nazionale, giacché la lesione lamentata riguardava una situazione soggettiva conferita e finanche regolata dall’ordinamento comunitario.
Ma, a parte che proprio sotto la spinta del diritto comunitario hanno iniziato a sgretolarsi schemi, come quello della non risarcibilità del danno da lesione d’interessi legittimi, ampiamente sedimentati nel nostro modo di rappresentare gli interessi e le modalità della loro protezione, l’abitudine del Consiglio di Stato di voltare le spalle in limine litisall’interesse strumentale non è un trattamento riservato agli operatori economici esclusi dalle gare europee. L’inammissibilità per carenza di qualificazione è un tipo di pronuncia che il giudice amministrativo usa quasi quotidianamente, in guisa del tutto indifferente alla materia entro la quale ricade la controversia, con una sempre più accentuata tendenza alla sentenza dottrinale o all’intervento nomofilattico.
Per stare solo al breve arco di tempo degli ultimi due mesi, due pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ne hanno fatto applicazione ai fini della soluzione di questioni di legittimazione: la sentenza n. 22 del 2021, che ha concluso per l’insufficienza della semplice vicinitas a radicare nel ricorrente un interesse legittimo, tale da consentirgli l’impugnativa dei titoli edilizi del terzo (così in sostanza arrivando a prospettare, per un’azione di annullamento, condizioni simili a quelle di un’azione negatoria servitutis, art. 949 c.c.); e la sentenza n. 3 del 2022, che ha sancito l’inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso proposto da alcuni ex amministratori contro l’interdittiva antimafia comminata alla società di cui erano rappresentanti – tra l’altro, per sospetti di infiltrazioni della criminalità organizzata riferiti proprio alla loro persona – presupponendo che nel nostro ordinamento non possano «esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, (pre)configurato normativamente»[7].
Pronunce che hanno confermato quanto sia forte, oggi, la tendenza del Consiglio di Stato a difendersi dal quivis de populo o, meglio, dal ricorrente assimilabile al quivis de populo (giacché un ricorrente che si “affermi popolare” è una storia più raccontata che empiricamente constatabile).
Se poi si spazia oltre la Plenaria, gli ultimi tempi hanno visto l’emergere di altri casi significativi. La sesta sezione ha ritenuto, ad esempio, che una promissaria acquirente di un immobile sia priva di legittimazione a impugnare il titolo edilizio (condono) rilasciato al promissario venditore, malgrado nel caso di specie la ricorrente avesse allegato, non contraddetta dall’amministrazione, che l’annullamento le avrebbe consentito di dimostrare, in un giudizio civile nel frattempo incardinato contro il promissario venditore, che l’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita era interamente abusivo, donde il diritto ad ottenere il doppio della caparra versata[8]. «Si tratta di questioni indubbiamente conoscibili dal giudice civile», aveva affermato il giudice di primo grado, «ma che in questa sede rilevano per affermare la sussistenza di un interesse a contestare i provvedimenti impugnati, al fine di far valere in quella sede il loro annullamento»[[9]]. Al che il Consiglio di Stato ha ribattuto, richiamando la propria giurisprudenza, che, non avendo la promissaria acquirente «mai acquistato il possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, non si è radicata in capo ad essa alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto».
Ancora, allungando lo sguardo fino alla giurisprudenza di primo grado, sembra degna di attenzione una recente sentenza del TAR Lazio, nella quale è stato confermato che il datore di lavoro, già regolarmente autorizzato (dallo sportello unico per l’immigrazione) all’assunzione del lavoratore straniero (art. 24 D.lgs. n. 286 del 1998), non è legittimato a impugnare il diniego di visto d’ingresso adottato dal Consolato nei confronti del lavoratore[[10]]. I due procedimenti, pur essendo, anche ad avviso del giudice amministrativo, «collegati (nel senso che il secondo presuppone l’avvenuta definizione del primo in senso positivo), restano tuttavia strutturalmente e funzionalmente autonomi». Caratteristiche che «si riflettono sul piano processuale nel senso di escludere la legittimazione del potenziale datore di lavoro (il cui interesse all’assunzione di un lavoratore straniero è preso in considerazione nell’iter autorizzatorio presupposto) a impugnare il diniego di visto adottato nei confronti dello straniero, che con la presentazione della relativa domanda ha palesato il suo interesse a entrare nel territorio nazionale». Ciò non vuol dire, precisa il TAR, «che non sussista un concorrente interesse del potenziale datore all’ingresso in Italia di un suo, altrettanto potenziale, dipendente, ma si tratta di un interesse di mero fatto, non azionabile né in sede procedimentale (come risulta dalla disciplina di riferimento) né in sede giurisdizionale»[[11]].
Ecco un caso davvero emblematico, giacché i passaggi sono chiarissimi: l’annullabilità del visto d’ingresso è un’antigiuridicità che non lede l’interesse del futuro datore di lavoro perché le norme sul visto d’ingresso (art. 5 D.lgs. n. 286 del 1998), a differenza di quelle sull’autorizzazione alla costituzione del rapporto di lavoro (art. 24 D.lgs. cit.) non sono scritte “per il datore di lavoro” (quindi non possono “proteggerlo”), ma “per il lavoratore”, unico legittimato a impugnare il diniego (per di più, da Islamabad, dove gli effetti ostativi del diniego lo avevano bloccato).
Così è accaduto anche per la Randstad: esclusa dall’aggiudicazione, dunque «divenuta», per il Consiglio di Stato, portatrice «di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque operatore economico del settore, non partecipante alla gara».
A ben vedere, il peccato d’origine dell’interesse “strumentale”, secondo il Consiglio di Stato, non è di non essere differenziato e neanche d’essere privo di collegamenti a norme giuridiche (in ciascuno dei casi testé menzionati lo si potrebbe facilmente dimostrare), ma d’essere qualificato solo soggettivamente, da una libera decisione del ricorrente su ciò che gli “spetta”, non collimante con la massima soddisfazione obbiettiva che il processo amministrativo di annullamento consentirebbe di ricavare ai formali destinatari del provvedimento impugnato[[12]].
Questo difetto di titolarità, dato dalla non pienezza del diritto sul bene della vita, nella gran parte dei casi viene avvalorato da un ragionamento controfattuale sulla non esclusività o, meglio, della mancanza di personalità dell’interesse ad agire. Sono altri infatti, per il giudice, i soggetti destinatari del provvedimento, che ne patiscono gli effetti lesivi e il cui ricorso sarebbe ammissibile, se fosse esperito: quasi a voler dedurre, da questa disomogeneità di condizioni, la trattabilità del caso alla stregua di un’ipotesi di sostituzione processuale fuori dai casi previsti dalla legge.
Lo scrutinio di ammissibilità dell’interesse strumentale finisce così per radicarsi in una logica di confronto che in qualche misura ricorda il criterio – anch’esso impostato sul binomio identità-diversità delle situazioni sostanziali affermate in giudizio rispetto al medesimo provvedimento amministrativo (e sulla esistenza o mancanza di conflitti d’interesse) – adottato dalla giurisprudenza per decidere sull’ammissibilità del cd. “ricorso collettivo”. Con la differenza che qui la presa d’atto di un conflitto d’interessi va tutta a protezione del legittimato teorico: quello individuato dal provvedimento, anche quando quest’ultimo non è – o con ogni probabilità, non sarà mai – parte del processo (quasi sempre, proprio a causa degli effetti del provvedimento illegittimo).
Si spiega così, tra le altre cose[[13]], la ragione per cui il giudice amministrativo, quando invece non vede nel destinatario del provvedimento un tertium comparationis, si dimostra più propenso a riconoscere la legittimazione del ricorrente. Se ne può avere la riprova pensando agli interessi “diffusi” rappresentati in giudizio da soggetti privati esponenziali (fuori ovviamente dai casi di sostituzione processuale), la cui “collettivizzazione” a mezzo di entificazione presuppone la mancanza di differenziazione e lascia pertanto quegl’interessi tutti egualmente adespoti[[14]]; oppure si pensi a quel tipo di interesse individuale che, pur mancando di collegamento giuridico al bene della vita, resta confinato nella sfera del ricorrente e conserva una rigorosa consistenza soggettiva, persino “assoluta”: alludo all’interesse (kantianamente inteso come) morale[[15]], al quale la giurisprudenza, discrezionalmente, ma tradizionalmente si presta a impartire tutela[[16]].
Ora, tornando alla questione dalla quale poc’anzi s’era partiti, anche il caso Randstad, pur avendo ad oggetto un diritto conferito dall’ordinamento comunitario, non nasce da un problema d’interpretazione del diritto (e del diritto comunitario in specie). La direttiva 89/665/CEE chiarisce quando l’operatore è «definitivamente escluso» (art. 2-bis) e, a termini di direttiva, la Randstad non lo era, avendo impugnato nei termini la propria esclusione dalla gara.
Il motivo della pronuncia di rito negativa deriva dall’applicazione di uno schema di giudizio ben più risalente e rigorosamente domestico, per cui l’interesse di fatto non ha altra spiegazione che il tendere a un bene impoverito rispetto alla categoricità voluta dalla norma. Quando l’interesse legittimo non ha più sotto di sé il diritto soggettivo assoluto, rimane agli occhi del Consiglio di Stato un simulacro, contornato dalla prospettiva di utilità minori o diverse, per le quali la giurisdizione amministrativa non si dichiara più disponibile. Homo sine pecunia est imago mortis[[17]]: se per il ricorrente sfuma l’intera posta in palio, il “bene della vita”, tanto vale «ch’ei si rassegni»[[18]].
2. Mera obbiettività dell’accertamento compiuto dal giudice amministrativo per estromettere il ricorrente “assimilato” al quivis de populo.
La scelta di alludere al “fatto”, per denominare l’interesse al quale il diritto (come ordinamento giuridico) rende inaccessibile la giustizia amministrativa, non è peraltro privo di causa.
L’invenzione dell’interesse di fatto, “assimilabile” a quello del quivis de populo, si spiega con un bisogno di dare, dell’interesse legittimo, una descrizione dotata di tutto il rigore logico necessario a dimostrare che il giudice amministrativo ha la stessa forma mentis del giudice ordinario, e si è oramai lasciato dietro le spalle il modello dell’organo “specializzato”, funzionale alla mera natura pubblica “dell’amministrazione” e non alla giustizia “nell’amministrazione”.
Il giudice amministrativo si trova così a ritessere continuamente la trama del collocamento dell’interesse legittimo tra le altre situazioni giuridiche soggettive, entro una piattaforma concettuale idonea a garantire imparzialità e basi sicure al ragionamento giuridico.
Dobbiamo allora parlare d’un approccio “metodologico”, fondato su uno strumentario privilegiato da molti studiosi del diritto amministrativo, non solo dalla giurisprudenza.
Ci si riferisce a quel giacimento di concetti giuridici che il diritto amministrativo, forse più di altre discipline, crede di poter trovare sulla via della “dogmatica” – una strada, in verità, ampiamente problematizzabile – comunemente definita “teoria generale del diritto”.
Quando il nostro giudice amministrativo ricorre a formule quali la «titolarità», il «rapporto giuridico di diritto pubblico», la «concezione soggettiva della tutela», per declassare il ricorrente a quivis de populo, vuol tributare la sua subordinazione a un “diritto comune dei rapporti giuridici” che, in ultima analisi, è principio legittimante del giudice stesso. Il rifiuto di erogare giustizia al quivis de populo, motivato sulla base del fatto che costui non avrebbe un interesse “qualificato”, significa infatti, per il giudice amministrativo, risalire a una radice comune, la teoria generale delle situazioni soggettive, adattabile sia all’interesse legittimo che al diritto soggettivo, per avvicinare concettualmente le due figure e dar prova di essere “giudice naturale degli interessi legittimi”, così come il giudice ordinario è “giudice naturale dei diritti soggettivi”[[19]].
Se volessimo poi interrogarci sulla consistenza dell’operazione, dovremmo ricercare le sue radici, chiaramente, non nella giurisprudenza, bensì nella dottrina. «Quand’è che – nel vasto mondo degli interessi che sono prevalentemente interessi di fatto – si è in presenza di un interesse legittimo?»[[20]]. La risposta secondo la quale un interesse è legittimo soltanto se “qualificato” dalla norma, trasferisce il problema sul significato di quest’ultima espressione, la qualificazione.
Secondo M. Nigro, qualificazione normativa si avrebbe «quando (e solo quando) l’ordinamento giuridico conferisce una qualche particolare rilevanza giuridica ad un interesse materiale, quando l’ordinamento giuridico lo prende in considerazione», includendolo «nella norma organizzativa insieme con l’interesse pubblico alla cui soddisfazione è rivolto il potere».
Di conseguenza, «l’individuazione dell’interesse legittimo dev’essere compiuta esclusivamente alla luce della norma regolatrice del potere e delle altre norme che ad essa si collegano», cosicché la qualificazione di “legittimi” compete soltanto agl’interessi materiali che «che il potere amministrativo doveva tenere presenti nel momento del suo esercizio»[21].
In questo modo la tecnica d’individuazione dell’interesse legittimo si coordina, da un lato, con la definizione dell’interesse legittimo in termini di “interesse al bene” e ricalca quindi le coordinate teoriche del diritto soggettivo; su di un altro versante, tuttavia, produce un macroscopico effetto deviante proprio rispetto alla problematica della individuazione del diritto soggettivo: il Consiglio di Stato, nel momento stesso in cui presuppone che gli interessi legittimi meritevoli di tutela siano solo quelli presi in considerazione dalle norme, sta inavvertitamente richiamando la vecchia teoria della “tipicità” dell’illecito civile, il cui carattere precipuo era non distinguere tra la culpa e l’iniuria,assommando quest’ultima «nell’elemento soggettivo e cioè nel fatto colposo, nell’idea che, essendo la colpa la violazione di una norma predisposta a tutela dei diritti dei singoli, solo in presenza di un comportamento colposo poteva darsi la lesione di un diritto e quindi un danno ingiusto»[[22]].
Affermare che gli interessi legittimi tutelabili dalla giurisdizione amministrativa sono solo quelli «che il potere amministrativo doveva tenere presenti nel momento del suo esercizio», perché qualificati dalla «norma regolatrice del potere», mentre gli altri sono interessi di fatto, assimilabili alle generiche aspettative del quivis de populo, è come dire che l’azione di annullamento nel processo amministrativo è ammissibile solo se il ricorrente non si limita ad affermare che il provvedimento impugnato ha leso un suo diritto, ma ha l’onere di chiedere un annullamento colposo, che restringe l’illegittimità entro una precisa sfera d’imputazione. E’ come dire che la lesione dell’interesse legittimo non ha un autonomo elemento d’ingiustizia o di antigiuridicità obbiettiva, riferibile alla lesione in quanto tale (anziché alla sola condotta dell’amministrazione). Ed è come dire che il giudice amministrativo, nella verifica della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso, non ha la stessa capacità (in senso buono) creativa del giudice civile. Ciò che prende consistenza è complessivamente una visione dell’interesse tutelabile, radicalmente antitetica a quella della Cassazione, per cui «Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori»[[23]].
L’atteggiamento divergente del giudice amministrativo rispetto al giudice civile, in punto di legittimazione attiva, non sta quindi solamente sul piano processuale. In dottrina si è puntualmente dato atto che «la legittimazione a ricorrere viene interpretata dalla giurisprudenza amministrativa non come affermazione della titolarità della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso (…), ma come effettiva titolarità di tale posizione»[[24]]. Le differenze con il processo civile si trovano però anche più a fondo, nel modo in cui il giudice amministrativo si rappresenta il concetto di norma, di interesse, di protezione dell’interesse da parte dell’ordinamento giuridico.
3. La teoria dell’Adunanza Plenaria sulla legittimazione ad agire come “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” (e i suoi limiti).
La “titolarità” dell’interesse, come situazione acquisita a mezzo di una volontà normativa “qualificante”, è considerata in giurisprudenza tra le condizioni dell’azione di annullamento. Il Consiglio di Stato lo afferma, nelle decisioni sulle controversie in materia di aggiudicazione di contratti pubblici, almeno dall’Adunanza plenaria n. 4 del 2011. Ancor più esplicitamente l’Adunanza Plenaria si è espressa nella sentenza n. 9 del 2014: dove si legge che «l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni fondamentali che, valutate in astratto con riferimento alla causa petendi della domanda e non secundum eventum litis, devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione; tali condizioni sono: I) il c.d. titolo o possibilità giuridica dell’azione – cioè la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero, come altri dice, la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo –; II) l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (o interesse al ricorso, nel linguaggio corrente del processo amministrativo); III) la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva/passiva, discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo)»[[25]].
Rispetto alle caratteristiche di questa mappa concettuale, i problemi non nascono dalle enunciazioni di cui ai punti II (interesse ad agre) e III (legitimatio ad causam). L’azione di annullamento, come tutte le azioni proponibili davanti al giudice amministrativo, non è un’azione popolare. Non lo è, almeno, in quel senso convenzionale del termine popolare, che sottende il potere di agire in giudizio da parte di chiunque; e questo il Consiglio di Stato lo ha sempre tenuto ben fermo. Si ricorderà la celebre sentenza del 1970 in cui furono considerati applicabili i principi sulle condizioni generali dell’azione di annullamento persino di fronte a una disposizione di legge ordinaria che, in materia edilizia, espressamente prevedeva che “chiunque” potesse proporre il ricorso[26]. Oggi peraltro le cose sono ancora più chiare, e basterebbe forse il rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., per far ritenere applicabili, nel processo amministrativo, le disposizioni del Codice di procedura civile sull’interesse a ricorrere (art. 100) e sul divieto di far valere in nome proprio un diritto altrui, salvi i casi di sostituzione processuale espressamente previsti dalla legge (art. 81)[[27]].
Tutto ciò, dicevo, non è discutibile; e una grave stortura si produrrebbe, se la porta della giurisdizione amministrativa restasse davvero “aperta a tutti”.
Resta ciononostante da chiarire la fondatezza della “terza condizione” (la prima delle tre enunciate dall’Adunanza plenaria). Nessun dubbio sul fatto che l’interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione debba essere affermato come interesse fondato su norme giuridiche e che di conseguenza trovi spazio anche nel processo amministrativo, sulla falsariga di ciò che accade nel processo civile, una terza condizione chiamata possibilità giuridica.
Non è la stessa cosa, tuttavia, pretendere che l’interesse legittimo affermato dal ricorrente nei confronti della pubblica amministrazione sia qualificato in astratto da una norma, se si soggiunge, come fa il Consiglio di Stato, l’occorrenza di una speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo «rispetto all’esercizio del potere amministrativo».
In tal modo si evoca infatti un criterio diverso, imperniato sul potere della legge e della pubblica amministrazione di determinare direttamente gli interessi coinvolti, e di lasciare il ricorrente inappagato se esce dall’orbita della protezione accordatagli dall’ordinamento; se non “obbedisce”, appunto, alla “teoria della norma di protezione” (Schutznormtheorie).
Tornando, con una rapida mossa d’obiettivo, al caso Randstad, si noterà che il problema della legittimazione venga risolto, dal Consiglio di Stato, con la postulazione di una precedenza tra l’esame dei vizi sollevati dall’operatore economico contro la propria esclusione dalla gara e l’esame dei vizi sollevati invece, dal medesimo soggetto, contro l’aggiudicazione.
Il fondamento di questa pregiudizialità dell’ordine delle censure è presto spiegato: le norme che governano l’ammissione alla gara possono assicurare alla Randstad, attraverso il processo, il “bene della vita”; le norme che disciplinano l’aggiudicazione invece no, essendo state “pensate” per soggetti già ammessi alla valutazione comparativa delle offerte.
Ora si dovrebbe aprire un lungo discorso sull’affidabilità di questa impostazione e – si diceva – dell’ordine concettuale “dogmatico”, che ne è il presupposto.
Ci si può tuttavia limitare qui ad alcune osservazioni, riducibili a tre obiezioni. La prima riguarda la capacità altamente suggestiva, ma scarsamente persuasiva, della Schutznormtherorie, che come tutte le teorie necessita di una giustificazione; tanto più difficile, nel nostro caso, quanto più si pone l’accento sul suo essere fortemente e tradizionalmente relativizzata ai canoni dell’ordinamento tedesco, in particolare all’interpretazione del § 42, comma 2 VwGO[[28]].
Nessun principio del diritto pubblico italiano, né sostanziale, né processuale, autorizza a ritenere che le norme di diritto amministrativo, regolando l’esercizio di un pubblico potere, implicitamente stabiliscano chi sono i loro destinatari, tanto da far ritenere questi ultimi investiti, ad esclusione di altri, del potere di far valere in giudizio la loro violazione[[29]].
Egualmente, non è un assioma, ma solo una tesi, l’idea che la garanzia del diritto di agire dinanzi alla giurisdizione amministrativa abbia, quale logica conseguenza, che al dovere dell’amministrazione di eseguire le legge facciano sempre puntuale riscontro situazioni soggettive di vantaggio del cittadino, non esistendo, si sostiene, doveri propriamente “irrelati”[[30]].
In questa visione geometrica e rigorosamente correlativa dei rapporti giuridici con la pubblica amministrazione, è agevole rilevare i termini di una riproposizione, entro il binomio interesse legittimo-interesse di fatto, della vecchia teoria secondo la quale uno dei caratteri distintivi delle norme giuridiche rispetto a quelle sociali sarebbe dato dalla “bilateralità”, come «simmetrica corrispondenza tra l’obbligo di un soggetto e il diritto (in senso soggettivo, come situazione derivante dal diritto oggettivo) di un altro, sempre e necessariamente risultante dalla norma giuridica».
«Facile, pertanto, e fondato il rilievo, tante volte avanzato a critica di questa tesi, che essa non fa se non ipostatizzare in termini che pretenderebbero avere assoluto valore logico un particolare fenomeno di un particolare e limitato settore dell’esperienza giuridica, qual è appunto il «rapporto giuridico» nel diritto privato, se non addirittura lo schema del rapporto obbligatorio civilistico (esempio paradigmatico: quello tra creditore e debitore)»[[31]].
Come minimo, dunque, l’impostazione del problema della legittimazione in termini di relazioni tra la norma, l’ordinamento, il potere, l’effetto, la protezione degl’interessi, imporrebbe una paziente opera di confronto con un universo teorico assai più ampio e complicato.
Il normativismo d’ispirazione Kelseniana, ad esempio, avrebbe forse non poco dire sulla teoria della qualificazione normativa degli interessi, tutta basata sulla “volontà” del legislatore come criterio di “rilevanza” e quindi schiacciata sul dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, che un postulato tipico della teoria “istituzionale” del diritto[[32]].
Comunque sia, e facendo subito ammenda di schematizzazioni in questa sede inevitabilmente inappropriate, l’impressione è che nessuna teoria generale nella sua assolutezza possa valere quale fonte di verità indiscutibili. Assumerne le risultanze a motivo di individuazione dell’interesse legittimo, e, ancor più, quali referenti essenziali dell’accertamento della legittimazione a ricorrere, è una scelta che espone la giurisdizione amministrativa a forti tensioni.
Non si tratta, s’intende, di questione nuova. La riprova la si può avere rileggendo alcune pagine di V.E. Orlando[33], nelle quali, soffermandosi sulla relazione che «deve correre tra la illegalità del provvedimento e la lesione dell’interesse», Orlando considera «affatto ingiustificata» l’impressone che «il far valere, in via di ricorso, una illegalità di un atto amministrativo spetti solo a colui, in difesa del cui interesse era scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata», perché «l’interesse che rende ammissibile un ricorso in via di giustizia amministrativa verrebbe così ad essere ristretto soltanto a quello riconosciuto e difeso dalla legge in un subbietto determinato; donde la conseguenza che solo questo subietto avrebbe la facoltà di ricorrere». Nell’argomento «tutto speciale del contenzioso amministrativo», conclude Orlando, pur non nascondendosi le gravissime questioni che sorgono quando si tratta di determinare l’indole giuridica della Sezione IV del Consiglio di Stato, «il dire che chi propone ricorso debba averci interesse e che quest’interesse debba essere personale, con esclusione di forme analoghe alle azioni popolari, non implica affatto (…) che fra la lesione dell’interesse e la violazione della legge debba esservi una tale intima correlazione».
Può essere interessante notare altresì la precisazione soggiunta da Orlando, ovverosia che «L’ipotesi di un nesso fra l’interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi, è necessariamente implicita nell’esercizio di una giurisdizione vera e propria, appunto perché vi si decide di diritti subbiettivi, dove quel nesso è immancabile».
Tanto basta per escludere che possano essere trasportati nell’ambito della giustizia amministrativa «quei principii che ordinano il modo in cui sono riconosciuti e dichiarati i diritti subbiettivi».
«Giurisdizione vera e propria», quella del Consiglio di Stato, lo è poi diventata. Non, però, giurisdizione nella quale «si decide di decide di diritti subiettivi».
Ci si potrebbe allora chiedere, per un verso, se la presunta evoluzione in senso soggettivo della giurisdizione amministrativa giustifichi l’atteggiamento complessivo del Consiglio di Stato, favorevole all’applicazione della teoria della norma di protezione.
Ma, con eguale fondamento e pari “copertura” – anche costituzionale – ci si potrebbe domandare se la mancanza di quel «nesso, tra interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi», non possa essere visto come uno dei principali elementi caratterizzanti l’autonomia del ricorso giurisdizionale amministrativo rispetto all’azione dinanzi al giudice ordinario.
In fondo, si tratterebbe solo di portare alle logiche conseguenze la ragione che lo stesso Orlando deduceva, ben più ampia della questione sulla natura della Sezione IV del Consiglio di Stato: «mentre è inconcepibile che il medesimodiritto possa competere a più persone, non ripugna affatto che una medesima violazione di legge possa ledere molteplici interessi».
Sulla medesima falsariga, in occasione degli ottant’anni del discorso di S. Spaventa sulla giustizia nell’amministrazione, la denuncia di A.M. Sandulli[34], in difesa degli interessi «sforniti di protezione giuridica», non «presi in speciale considerazione dalle norme», che i meccanismi di accesso al sistema italiano di giustizia amministrativa rendono vittime di una «evidente incongruenza»: «mentre esistono garanzie giurisdizionali idonee ad assicurare l’osservanza del procedimento di nomina di un netturbino o di un becchino del più modesto comune montano, non ne esiste alcuna per assicurare che non venga superata la durata della gestione commissariale». E di seguito – in una sorta di preconizzazione, alla lontana, del caso Randstad – una serie di considerazioni sulla tutela dell’interesse meramente partecipativo rispetto ai concorsi pubblici, elusi dall’amministrazione col meccanismo dalla chiamata diretta, là dove «pur essendo le illegalità di carattere macroscopico, manca (…) la lesione di interessi soggettivi particolarmente qualificati (tali non essendo quelli degli aspiranti a partecipare a un concorso non bandito)». Di qui la correlazione, tratteggiata da Sandulli, tra il potenziamento dell’azione popolare e la «più piena realizzazione dello Stato di diritto».
Allargando poi la prospettiva, non pare difficile rintracciare la medesima istanza garantista, più o meno espressamente enunciata, nello spirito di chi, tra la dottrina, ha esattamente osservato la difficoltà di distinguere, in concreto, la legittimazione dall’interesse al ricorso[[35]].
Di sicuro, questi pochi richiami, volutamente privi di un ordine preciso, dovrebbero essere portati a una ben più articolata analisi, che dimostrerebbe quanto profondamente e costantemente la cultura italiana del diritto pubblico abbia avvertito l’ingiustizia di una troppo razionalizzata riduzione dell’interesse non qualificato a interesse non protetto e “di mero fatto”[[36]].
Quanto detto sin qui sembra però sufficiente alla critica che, in primo luogo, si voleva sollevare: la teoria della norma di protezione non è un coerente sviluppo dell’ordinamento interno, tanto meno dell’ordinamento comunitario; è un esperimento che toglie di peso dalla dottrina tedesca l’interpretazione della norma sul il diritto di ricorrere all’autorità giudiziaria, da parte di chi sia «offeso nei suoi diritti da parte dell’autorità pubblica» (art. 19 comma 4 GG), per farne una chiave di lettura del sistema italiano di tutela degli interessi legittimi (artt. 103 Cost.)[[37]].
Contro la teoria della titolarità come condizione di ammissibilità del ricorso, gioca poi una seconda obiezione d’ordine logico, cui conviene far cenno sommariamente.
È un’obiezione della quale si dà carico lo stesso M. Nigro, la cui dottrina è stata, in questo contributo, oramai più volte richiamata, in funzione per così dire di manifesto della tesi della qualificazione normativa dell’interesse. Se è vero, «in linea di principio», che questa tesi sia «la sola che si accordi» con la nozione d’interesse legittimo come interesse al bene della vita – precisa l’Autore – «non ci si può nascondere la grave difficoltà di riconoscere i casi in cui esiste una qualificazione normativa», giacché, prosegue, citando dottrina tedesca (H. Rupp), «soltanto raramente dalla sola lettura di una legge amministrativa è possibile desumere se la disciplina in essa instaurata abbia per scopo anche la protezione di interessi individuali e quali in concreto siano tali interessi».
In una legislazione amministrativa ancora largamente dominata dalla «concezione obiettiva del principio di legalità», «solo di rado (…) la legge amministrativa regola i conflitti di interesse tra gli amministrati in modo tale che dalla stessa norma o gruppo di norme attributive del potere si posa immediatamente desumere l’esistenza di interessi di specifica rilevanza. (…) Più spesso la legge tace e allora occorre utilizzare elementi indiretti (…), ampliare il campo d’osservazione ricorrendo ad altre norme connesse e utilizzando i princìpi ai quali si ispirano i ‘blocchi normativi’ così formati» – ed è d’attualità, che a questo punto Nigro citi una sentenza del Consiglio di Stato del 1970 in materia di identificazione degli interessi ad opporsi a una licenza edilizia – «ma in tal caso sussiste il problema del modo come vanno formati i blocchi normativi (dove ci si deve fermare nell’opera di ‘aggregare’ alla norma attributiva del potere altre norme?)».
Il problema della «collocazione dell’interesse nel raggio d’azione della norma» resta così irrisolto, aperto a soluzioni empiriche – si può procedere per elementi sintomatici, a volte determinati dallo stesso vantaggio o svantaggio di fatto: «i dubbi spuntano ad ogni momento» – quindi in ultima analisi affidato al ruolo della giurisprudenza, per l’inevitabile arbitrarietà delle soluzioni. Al punto da far dubitare Nigro che soltanto il valore dei diritti propriamente intesi sia veramente «predeterminato dal sistema giuridico in vigore», mentre, all’opposto, l’individuazione dell’interesse sia il risultato di un «giudizio di valore operato dal giudice in ogni caso particolare».
A temperare questa irresolutezza, all’epoca in cui scriveva Nigro, c’era una giurisprudenza amministrativa «di manica larga» (erano gli anni del dibattito sugli interessi diffusi e del caso Italia Nostra); esattamente l’elemento che, via via, è venuto a mancare.
Nei decenni che ci separano da quel tempo e da quel dibattito, inoltre, la legge amministrativa non si è affatto allontanata dalla concezione obiettiva del principio di legalità, quanto meno nel senso di essersi richiamata a un modello organizzativo, per più aspetti ricollegabile ai principi di cui all’art. 97 Cost., dell’amministrazione non mera esecutrice delle leggi.
In un simile contesto, la tesi per cui l’azione di annullamento, nel processo amministrativo, è condizionata alla titolarità dell’interesse qualificato, finisce quindi per sviluppare un modello di giurisdizione amministrativa frequentemente incline a esiti surreali, in cui la giustizia tocca soltanto l’amministrazione a cui nessuno pensa più, quella che può essere «valutata e controllata come se conservasse i caratteri della esecutività»[[38]], protetta dal “cittadino” per mano di un giudice che rifiuta la sua giurisdizione e, così facendo, finisce per porre sotto tutela, piuttosto degli interessi legittimi e del principio di legalità, l’autoritarietà dell’atto illegittimo.
E’ il momento di soggiungere una terza obiezione, che in realtà costituisce il naturale sviluppo della seconda, ma che sembra essere, almeno concettualmente, distinguibile.
Si può tranquillamente fingere che la legge, nel dettare le norme di organizzazione del potere amministrativo, “intenda” proteggere alcuni interessi e non altri.
Si può prendere atto, ad esempio – per stare al caso Randstad – della circostanza che le norme sulla composizione o sul funzionamento della commissione giudicatrice di un appalto pubblico siano emanate in vista della legittimità dell’aggiudicazione, dunque, in questo senso, siano scritte nell’interesse degli offerenti che all’aggiudicazione possono aspirare; non di quelli che, essendo stati o dovendo essere esclusi dalla gara, sono legittimamente fuori gioco.
Ancor più ampiamente, si può dire che, per il giudice amministrativo, sia normale non trovare “identificato”, nelle norme giuridiche evocate dal ricorrente a propria difesa, l’interesse legittimo. Vi si rintraccerà un intento protettivo di interessi astrattamente compartecipi della funzione amministrativa, secondo la norma che il ricorrente assume violata e che, semplificando all’estremo, chiameremo la norma A. Ora il giudice, interpretando la domanda contenuta nel ricorso, potrà dedurre che la norma A non “vuole” tutelare gl’interessi che il ricorrente allega come propri. Si vedrà, se questi sono astrattamente tutelati da norme B, C, D, ecc. Ma non si può negare, intanto, che il ricorrente affermi un bisogno di tutela connesso alla violazione della norma A.
In questo caso – dato per implicito che il ricorrente agisca in nome proprio, affermandosi titolare di un interesse legittimo – potrebbe verificarsi in primo luogo una carenza dell’interesse ad agire (mancanza di utilità pratica o di vantaggio conseguibile da di un’ipotetica sentenza di accoglimento). Se così fosse, palesemente non avrebbe ragione di porsi un problema di individuazione dell’interesse legittimo e di applicazione della teoria della “qualificazione” normativa.
Quando invece l’interesse ad agire sussiste – vale a dire che, dall’osservanza della norma A, un qualche vantaggio il ricorrente lo trae – e tuttavia il giudice amministrativo va oltre, argomentando di una carenza di “mera titolarità” dell’interesse legittimo, in base al fatto che la norma A non lo ha “preso in considerazione”, il giudice amministrativo sta ragionando soprattutto su altre norme (B, C, D, ecc. che invece lo prendono in considerazione), per escludere che queste si possano collocare nel medesimo sistema di cui fa parte la norma A. Non importa sondare quale operazione si compia in questo modo. Di certo non l’interpretazione, in senso proprio, della norma A.
Nel domandarsi quali interessi la norma invocata dal ricorrente abbia voluto tutelare e quali abbia voluto escludere, il giudice amministrativo sta compiendo, beninteso, un’attività di interpretazione, ma non delle norme poste a fondamento del ricorso. Le disposizioni che nel ricorso si affermano violate sono l’oggetto, piuttosto che il parametro, della decisione; decisiva è una regola superiore, diversa da tutte quelle che “qualificano” gli interessi in gioco.
Ci si dovrebbe ora chiedere quale sia questa regola; ma la domanda sarebbe retorica, perché la regola, sul piano normativo positivo, in senso stretto non esiste, è un semplice principio logico, cioè di pura e semplice irrilevanza dell’interesse non protetto[[39]].
Dobbiamo allora concludere che il giudice amministrativo, quando valuta il titolo o possibilità giuridica dell’azione, alla stregua dei principi ribaditi dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2014, decide, aprioristicamente, di far dipendere l’ammissibilità del ricorso da un assioma quale è la “volontà” del legislatore, che «serve non tanto per scegliere (in positivo) il significato di una disposizione, quanto piuttosto per scartare (in negativo) altri significati possibili»[[40]].
Sarebbe d’obbligo, se ve ne fosse il modo, proseguire nella critica che si leva contro questo modo di applicare il diritto. Giacché «le autorità normative (…) non hanno una “intenzione” nello stesso senso in cui può averla un individuo»; e l’intenzione delle autorità normative, «se mai esiste una cosa del genere – non è suscettibile di conoscenza empirica: può solo essere oggetto di congetture. Pertanto, l’ascrizione di una intenzione ad una autorità normativa può facilmente essere contestata, e persino squalificata in quanto tale (quale che sia, cioè, l’intenzione ascritta)».
Ci si dovrebbe domandare allora perché il giudice attribuisca un ruolo così trascendentale dell’interpretazione “teleologica”, ritenuta capace di svelare il fine, l’intenzione non semantica, ma pratica, della norma: non “cosa voleva dire”, ma “cosa doveva realizzare”: quali interessi voleva “prendere in considerazione” insieme al dovere dell’amministrazione di eseguire la legge.
Che le norme sull’aggiudicazione dei contratti pubblici abbiano il fine di tutelare gli offerenti ammessi e non quelli esclusi (benché non «definitivamente»); che le norme sull’interdittiva antimafia abbiano il fine di tutelare la società e non gli amministratori responsabili; che le norme sulle distanze tra le costruzioni abbiano il fine di tutelare le proprietà danneggiate, non i diritti di chi è semplicemente vicino: a tutto questo sarebbe agevole replicare che «l’osservanza o l’applicazione di una norma produce normalmente una pluralità di effetti pratici, e ciascuno degli effetti che una norma può produrre può essere considerato come fine della norma in questione»[[41]]. La possibilità di conseguire un risultato utile dall’annullamento, assieme all’affermazione di un interesse fondato su norme, concreto e attuale, non realizza forse già il “fine” della norma?
Ma la verità è che vanum disputare de potestate[42]: il giudice amministrativo, nel disconoscere dignità d’interesse legittimo all’interesse fondato sulla norma A – e nel disconoscerla perché l’interesse non gli appare qualificato dalla norma A – non sta propriamente affermando il contrario di quanto ora osservato. Sta solo dicendo, e ribadendo, che il processo amministrativo è a disposizione delle sole figure soggettive classificate dalle leggi di organizzazione, e che l’interesse legittimo è individuabile solo quale riflesso dell’imperatività o della supremazia speciale della norma.
Il dubbio che, con questo, il giudice amministrativo si stia pronunciando sull’inesistenza della propria potestas iudicandi, non è semplice da rimuovere. Non depone certo in contrario, anzi, il fatto che la giurisprudenza amministrativa, quando constata la carenza di legittimazione, motivi frequentemente la pronuncia di rito (negativa) con argomenti che si rifanno alla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa[[43]], la quale non è istituita per garantire l’interesse generale alla legittimità del pubblico potere, bensì per «tutelare la situazione soggettiva del ricorrente»[[44]].
4. Per l’annullamento, ai sensi dell’art. 111 Cost., delle sentenze d’inammissibilità del Consiglio di Stato basate sulla “teoria della norma di protezione”.
Torniamo, per terminare, al nodo del problema. Sta davvero accertando il difetto di una condizione dell’azione, il giudice amministrativo, quando, nonostante il ricorrente affermi di agire per un interesse proprio (art. 81 c.p.c.) e bisognevole di tutela (art. 100 c.p.c.), dichiara il ricorso inammissibile per carenza di “legittimazione”, sulla base di un autonomo accertamento di natura teorico-generale sulla “protezione” di quell’interesse da parte dell’ordinamento?
Certo si può sostenere – e lo si è argomentato, non senza ragione – che la risoluzione della questione della “legittimazione” del ricorrente debba rimanere interna al perimetro del giudice amministrativo e non possa dar luogo a una questione di giurisdizione[[45]].
Nondimeno, su quella “terza condizione” andrebbe svolto un accurato approfondimento. Che essa sia stata assunta dal Consiglio di Stato per finalità di tipo deflativo, o per dare risalto all’idea della giustizia amministrativa “risorsa scarsa”[[46]], è piuttosto evidente, per il fatto stesso che la ricerca del giudice amministrativo sulla ratio legis nelle norme poste a fondamento del ricorso, quando porta all’esito squalificante, si tramuta immediatamente in una pronuncia di rito attestante la sussistenza di una ragione ostativa ad una pronuncia sul merito (art. 35 c.p.a.).
Altrettanto percepibili sono tuttavia le conseguenze: la sproporzionata concentrazione delle energie processuali del giudice amministrativo nella soluzione di questioni di rito; l’uso della figura dell’interesse legittimo in chiave assolutoria per l’amministrazione, giacché per ogni ricorrente che non trova accesso al giudizio di merito, v’è un provvedimento illegittimo che rimane non giustiziato, cosicché a soffrirne è anche il principio di legalità dei poteri amministrativi.
Peggio ancora si dovrebbe dire di quelle “zone franche” ove maggiore dovrebbe essere il controllo giurisdizionale: mi riferisco di nuovo ai casi, e sono molti, in cui la legge non delinea per l’amministrazione uno statuto organizzativo definito, quindi non consente l’emergere di rapporti giuridici e situazioni soggettive di “titolarità” che risultino precisamente correlate al potere.
Non è quindi del tutto ingiustificato ritenere che il giudice amministrativo, quando rivendica una potestà di escursione teorico-generale finalizzata a capire se si è in presenza di un interesse legittimo o di un interesse di fatto, e quando declassa l’interesse (affermato dal ricorrente come legittimo) a interesse del quivis de populo, per mancanza di titolarità, non stia accertando la carenza d’una condizione dell’azione, ma rifiutando la propria giurisdizione[[47]].
Aggiungerei, per inciso, che la disponibilità delle Sezioni Unite a decidere questioni di legittimità dell’interesse come questioni di giurisdizione non è – a parte l’eventum litis – un sovvertimento di schemi consolidati, né corrisponde a una parentesi storica della giurisprudenza della Cassazione. Fatta la debita parte all’importanza della problematica attorno all’interesse diffuso, si ricorderanno, proprio nella stagione del caso Italia Nostra, gli indirizzi (là, favorevoli agli attori) delle Sezioni Unite sulla proponibilità della domanda volta alla tutela del diritto all’ambiente salubre e di altri diritti fondamentali della persona nei confronti della pubblica amministrazione (in un confronto serrato tra il diritto soggettivo e interessi sociali, appunto, non qualificati)[48].
Che si trattasse di “diritto soggettivo” e non di “interesse legittimo”, non cambia il dato fondamentale, cioè la competenza delle Sezioni Unite a riportare nell’alveo delle questioni di giurisdizione profili che attengono alla protezione dell’interesse da parte dell’ordinamento; e forse neppure si può escludere che, sotto le ordinarie questioni di riparto, si siano, più spesso di quanto si possa immaginare, dissimulate questioni di “qualificazione”.
Ciò che, piuttosto, si può prendere a riferimento, è il consolidato indirizzo delle Sezioni Unite per cui, nel sindacato sui imiti esterni della giurisdizione amministrativa, le condizioni dell’azione «sono cosa diversa dalla giurisdizione»; «anche la declaratoria d’inammissibilità della domanda postula l’affermazione implicita del potere giurisdizionale dell’organo che l’ha emessa (…) sicché non costituisce diniego di giurisdizione l’esclusione (…) della legittimazione ad agire»[[49]]. La contestazione della mancata decisione nel merito del ricorso per difetto di legittimazione o interesse ad agire resta insomma nell’ambito degli errores in iudicando, per la Cassazione.
Ma allora è bene chiarire: in iudicando, riferito alle condizioni dell’azione, è l’errore che cade sul profilo del richiedere tutela in nome proprio (legitimatio ad causam) o dell’interesse a ricorrere come conseguimento di un’utilità o di un vantaggio. Forse si può concedere che l’accertamento sul divieto di sostituzione processuale e sul bisogno di tutela dell’interesse debbano sottostare a un giudizio più rigoroso, ritagliato sulle esigenze del processo amministrativo (pressappoco come – anche se può sembrare un paragone azzardato – nel giudizio sulla validità delle leggi si configura il giudizio di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata dal giudice a quo, inclusa l’interpretazione che ha permesso alla Corte di aprirsi la strada nelle cosiddette “zone grigie” del sistema).
Comunque sia, la “terza condizione dell’azione”, come la concepisce il Consiglio di Stato, non sembra poter trovare cittadinanza nel sistema italiano di giustizia amministrativa.
Non si sta auspicando qui, beninteso, un meccanico aumento delle sentenze di merito, né una maggiore propensione – fine a sé stessa – a superare i filtri di ammissibilità, come se fosse sempre dovere del giurista predicare in favore di un “allargamento” del canale di accesso alla giustizia da parte del cittadino. Il punto deve restare fermo all’esistenza e all’applicazione delle regole sulle condizioni dell’azione nel processo amministrativo di annullamento.
Ma se intanto le Sezioni Unite incominciassero, a partire dal caso Randstad, a stabilire che, nel giudizio amministrativo, la ricerca del «titolo, o possibilità giuridica dell’azione» non va fatta discriminando tra chi è qualificato e chi è quivis de populo, ma accogliendo un concetto di ingiustizia della lesione ancorato al principio di atipicità degli interessi protetti dall’ordinamento, non vedremmo, a me pare, una “vittoria” della Cassazione[[50]]. Sarebbe un beneficio per il dualismo del sistema italiano di giustizia amministrativa, per l’interesse legittimo, e per lo Stato di diritto: il probabile punto d’inizio di una giurisprudenza del Consiglio di Stato che avrebbe, oltre ai tanti meriti già acquisiti, il pregio di risultare più coerente ai princìpi del nostro ordinamento processuale.
Può darsi poi che l’auspicato abbandono della teoria della titolarità e della qualificazione normativa dell’interesse legittimo richieda un proporzionale incremento di elasticità del giudizio amministrativo, tale da far emergere a posteriori un’esigenza “deflativa”. Qui il discorso dovrebbe risolversi in una disamina ancora diversa, che non può essere utilmente effettuata; ma neppure forse è giusto che lo sia. Sommessamente, verrebbe da osservare, la connessione (pur indubitabile) tra i congegni di deflazione del contenzioso amministrativo e le condizioni dell’azione di annullamento non va supportata oltremisura: a tal fine occorrono strumenti legislativi[[51]], non surrogabili da un’impropria “dogmatizzazione” dei requisiti di ammissibilità del ricorso giurisdizionale.
[1] Argomento che ha riscosso nell’ultimo decennio notevole attenzione, con tesi di differente impostazione (limitandosi ad alcune monografie, C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012; B. Giliberti, Contributo alla riflessione sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2020; M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, Rimini, 2017; S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2018; G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, 2016, I. Piazza, L’imparzialità amministrativa come diritto, Rimini, 2021; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, Napoli, 2021).
[2] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 139.
[3] R. Bin, È scoppiata la terza 'guerra tra le Corti'? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in federalismi.it, 18 novembre 2020; A. Carratta, Limiti esterni di giurisdizione e principio di effettività, in Id. (a cura di), Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, Roma, 2021, 47 ss.; F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022; M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in questa Rivista, 16 marzo 2022; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020; A. Travi, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020;
[4] G. Tropea, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; B. Nascimbene, P. IVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020
[5] G. Tropea, Il ricorso incidentale escludente: illusioni ottiche, in Dir. proc. amm., 2019, 1083 ss.; R. Villata, Ricorso incidentale escludente ed ordine di esame delle questioni. Un dibattito ancora vivo, in Dir. proc. amm., 2012, 1, 363; Id., La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo quale figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., 2018, 347
[6] F. Francario, Il pasticciaccio parte terza, cit., 8.
[7] R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022), in questa Rivista, 6 aprile 2022.
[8] Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, 4 giugno 2021, n. 3721.
[10] TAR Lazio, sez. IV, 25 marzo 2022, n. 3381; TAR Lazio, sez. III-ter, 13 settembre 2016, n. 9697.
[11] TAR Lazio, n. 9697 del 2016, cit.
[12] E. Boscolo, Gli interessi legittimi strumentali e la selettività della legittimazione, in Giur. it., 2016, 1216.
[13] Oltre all’insistenza del Consiglio di Stato sulla pregiudizialità dell’esame del ricorso incidentale escludente: quando quel conflitto con il destinatario del provvedimento impugnato non è più virtuale, ma reale.
[14] Cons. St. Ad. plen., 20 gennaio 2020, n. 6.
[15] Considerato cioè, dalla giurisprudenza amministrativa, come concretizzazione episodica di una legge morale che di norma non incontra il riconoscimento da parte del diritto. Le aperture del giudice amministrativo all’interesse morale ricordano da vicino il permesso di «querela» (quella che Kant chiama la «libertà di penna»), alla quale fa tuttavia da contrappunto la mancanza di una facoltà di disobbedire agli atti arbitrari dell’autorità. Si veda in proposito l’acuta osservazione di C. Mezzanotte, Il giudizio sulle leggi. Le ideologie del costituente, Milano, 1979, 2^ ed. Napoli, 2014, 60, secondo il quale, proprio da questa posizione di Kant, si desumerebbe che «già nelle grandi enunciazioni liberali siano presenti in embrione i fondamentali ingredienti di un sistema di giustizia amministrativa a giudice speciale: libetà individuale dei singoli, legalità dell’atto amministrativo, autoritarietà dell’atto illegittimo».
[16] M. Mazzamuto, op. cit., richiamando la tesi di E. Laferrière, Traité de la juridiction administrative et des recours contentieux, II, Paris, Berger-Levrault, 1888, 406. Anche senza negare lo spirito equitativo del Consiglio di Stato, e ferma naturalmente l’esattezza del rilievo di Mazzamuto, sembra doversi riconoscere che l’interesse “strumentale” pone, per ciò che qui si sta cercando di sottolineare, problemi più complessi dell’interesse morale. Quanto si sta per dire invece porta nella direzione opposta alla prospettiva di Mazzamuto, per cui «Uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa è l’ampiezza degli interessi ammessi alla tutela, rispetto all’elenco più ristretto di interessi giuridicamente rilevanti della tradizione privatistica».
[17] «Un’efficace iperbole per ricordare che, rispetto all’ambiente, per vantare un diritto soggettivo non basta esser persona fisica (…) ma occorre il particolare legame tra l’individuo e l’ambiente che si fonda sulla proprietà», così una nota (anonima, parrebbe) a Cass. civ., sez. I, 29 marzo 1996, n. 2959, in Foro. It., 1996, I, 2422.
[18] F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020.
[19] F. Francario, op. cit.
[20] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 139.
[21] M. Nigro, op. cit., 141
[22] G. Visintini, Atipicità dei fatti illeciti e danno ingiusto, in G. Conte, A. Fusaro, A. Somma, V. Zeno Zencovich (a cura di), Dialoghi con Guido Alpa,un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, Roma, 2018, 589 ss.
[23] Cass. civ., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 591. Sia consentito presumere noto e, limitandoci a questa citazione, omettere una più articolata serie di richiami, che pure sarebbe doverosa, al tema dell’atipicità dell’illecito civile.
[24] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021, 200.
[25] F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in Dir. pubbl., 2019, 511, ss.
[26] Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Foro. it., 1970, III, 201 ss. e commento di E. Guicciardi, La sentenza del chiunque, in Giur. it., 1970, III, 193; cfr. più di recente, in argomento, F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere, in LexItalia.it, n. 7-8.
[27] Casi, tra l’altro, nient’affatto marginali; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, Dir. proc. amm., 2014, 341 ss.
[28] S. Cognetti, Legge amministrazione giudice: Potere amministrativo fra storia e attualità, Torino, 2014, 76; in argomento anche A. Bartolini, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo. La nuova tutela del cd. interesse legittimo, Torino, 2005, 225.
[29] Altra questione è che legge abbia il potere di operare questa limitazione, prevedendola espressamente; ipotesi peraltro piuttosto rara (si veda ad esempio l’art. 8 comma 4 legge n. 241 del 1990).
[30] L. Ferrara, Giudizio di ottemperanza e processo di esecuzione, Milano, 2003.
[31] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1970, I, p. 27-29. Vero (ma non rilevante rispetto a quanto si vuole ora far notare) è che la confutazione crisafulliana della tesi della “bilateralità” ammette, in conclusione, che essa esprima «a suo modo, una giusta intuizione del fenomeno giuridico. (…) Ma dire questo equivale a dire, e a confermare, che il diritto è prodotto e condizione della vita associata, dalla più elementare alla più complessa e articolata; che l’esperienza giuridica è, essenzialmente, relazionale, intersoggettiva e dunque sociale».
[32] Per un’articolata speculazione concettuale, sviluppata da un punto di vista sostanzialmente riconducibile a questa impostazione, P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit.
[33] V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Id. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1914, 722-723.
[34] A.M. Sandulli, Per una più piena realizzazione dello Stato di diritto, in Stato sociale, 1960, I, 3 ss., anche in Scritti giuridici, V, Napoli, 1990, 277 ss.
[35] F. Volpe, Norme di azione e norme di relazione, Padova, 2004, 246; R. Villata, Legittimazione processuale – Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., Roma, 1990, vol. XXIV, 5; R. Ferrara, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto disc. pubbl., Torino, 1993, vol. VIII, 468 ss.
[36] La quale, sotto altro aspetto, è forse il risultato di una ipertrofia, se non di una vera e propria eterogenesi dei fini, della concezione soggettiva del processo amministrativo, se non altro in quella sua variabile estremizzata che culmina nel progetto di «liquidare ogni residua istanza oggettivistica dallo studio del processo amministrativo» (A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, 130).
[37] Che poi l’art. 103 Cost. consenta di riassumere nella figura dell’interesse legittimo una polarizzazione assimilabile a quella che contraddistingue la difesa di diritti assoluti nei confronti dell’autorità, è pure discutibile (L. Perfetti, I diritti sociali. Sui diritti fondamentali come esercizio della sovranità popolare, in Dir. pubbl., 2013, p. 61 ss.).
[38] G. Berti, L’interesse diffuso nel diritto amministrativo, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività, Atti del Convegno nazionale di Bologna, 5 dicembre 1981, Rimini, 1982, 18.
[39] Questi ultimi quattro capoversi (lo si segnala esclusivamente per obblighi di correttezza editoriale) sono tratti da M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, cit., 62-64.
[40] R. Guastini, Interpretare, costruire argomentare, in osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, 11 ss.
[41] R. Guastini, op. cit., 12.
[42] Usiamo liberamente l’espressione di E. Cannada Bartoli, Vanum disputare de potestate: riflessioni sul diritto amministrativo, recentemente citato da F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021, anche in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[43] In tema, F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
[44] Cons. St., Ad. plen. n. 3 del 2022, cit.
[45] M. Mazzamuto, Il dopo Randstad, cit.
[46] Per un caso emblematico della consapevolezza di questo criterio, v. l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria da parte di Cons. St., sez. IV, ord. 9 febbraio 2022, 945; cfr. Cons. St., Ad. Plen., 24 aprile 2015, n. 5.
[47] A. Travi, I motivi di giurisdizione nell’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598/2020, fra ruolo della Cassazione ed esigenze di riforma costituzionale dell’assetto delle giurisdizioni, in A. Carratta (a cura di), Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, cit., 171.
[48] Cass. civ., SS.UU., 9 marzo 1979, n. 1463, in Foro it., 1979, I, 939, con commenti di C.E. Gallo (ivi, in nota) e G. Berti, In una causa con l’Enel, la Cassazione mette in penombra lo Stato di diritto, ivi, 2909 ss.
[49] Cass. civ. SS.UU., 29 dicembre 2007, n. 31226.
[50] A sua volta, alle prese con questioni vere o presunte di scarsità della “risorsa giustizia” (P. Nappi, Riflessioni sul «rispetto della non illimitata risorsa giustizia» come principio processuale, in Il giusto processo civile, 2021, 659 ss.).
[51] M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in federalismi.it, 24 ottobre 2012.
Processo mediatico e difesa della persona*
di Marco Dell’Utri
L’antropologia culturale invita a considerare la dimensione rituale o sacrale del processo, in cui la violenza del conflitto è sublimata nel linguaggio. Fuori dal contesto spazio-temporale del processo, la violenza del conflitto deflagra, ‘scatenata’, pur conservando la propria intima natura politico-culturale, e diviene, attraverso la progressiva democratizzazione dei nostri sistemi, uno dei capitoli più rilevanti della c.d. ‘società dello spettacolo’.
Il richiamo alla riflessione di Walter Benjamin, sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, offre quindi lo spunto per un ripensamento, lungo quelle coordinate, delle forme attraverso le quali la violenza del conflitto processuale diviene, filtrata dalle logiche del capitale, un potente strumento di repressione sociale. Un’operazione a cui è dato rispondere, individualmente, attraverso la rimeditazione, in chiave politica, della protezione dei dati personali e, collettivamente, mediante l’impegno alla trasmissione della cultura come assunzione cosciente di un debito generazionale.
Sommario - 1. Processo, ritualità, violenza. – 2. Processo e riflessione storico-culturale. – 3. Processo, democrazia e società dello spettacolo. – 4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. – 5. Processo, consumo e repressione sociale. – 6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali. – 7. Sulla trasmissione della cultura.
1. Processo, ritualità, violenza
La comprensione dei modi attraverso i quali la comunicazione di massa agisce sul processo richiede lo svolgimento di una riflessione di carattere preliminare, destinata a mettere in luce i termini di una struttura processuale essenziale.
Non aiuta, in questo senso, una certa (diffusa) inclinazione ‘produttivistica’ nella considerazione dei temi del processo.
L’accostamento del processo all’idea della ‘produzione’ induce a guardarvi come a un’attività servente o strumentale alla realizzazione di fini ad essa estranei; un impegno vòlto, attraverso la tecnica giudiziaria, al compimento del prodotto, e dunque del giudizio (la decisione, la sentenza), di regola chiamato a tradurre, in termini matematici, uno dei principali indici di misurazione della produttività del giudice.
Un’antica tradizione di origine aristotelica[1] – la cui più recente riscoperta ha costituito un tratto essenziale di gran parte del pensiero etico-politico del Secondo Novecento[2] – invita a distinguere, della vita pratica dell’uomo, l’attività produttiva (la poiesis, governata dalla techne) dalla prassi (la praxis), avente se stessa quale propria finalità: l’attività per cui l’uomo pone la propria stessa azione come oggetto di un percorso di graduale educazione e perfezionamento, attraverso il governo (non già della ‘tecnica’, bensì) della ‘saggezza’ (phronesis).
Produzione e prassi (poiesis e praxis) valgono a distinguersi dunque in ciò, che il sapere teorico generale di cui l’uomo dispone è destinato, nella produzione che si avvale della tecnica (techne), a trasferirsi sulle cose allo scopo di trasformarle in conformità ad esso; per cui il prodotto, come fine di per sé estraneo all’attività produttiva, diviene lo specchio (o, meglio uno specchio) concretizzato del sapere teorico.
Nel caso della prassi, governata dai canoni della saggezza (phronesis), il sapere teorico generale è viceversa chiamato a combinarsi o a ‘contaminarsi’ con la realtà, con le circostanze e le vicende del mondo, affinché sappia modificarle, ma insieme anche lasciarsene modificare, sì da dar luogo a una nuova forma di sapere capace, con saggezza, di coniugare, e tenere insieme, il generale e il particolare.
Seguendo il filo di queste linee argomentative, alla descrizione dell’attività processuale sembra dunque convenire la qualificazione nei termini di una prassi, ossia di una specifica attività pratica, governata dalla saggezza, che ha fine in sé stessa.
Ogni atto del processo è il giudizio stesso (in taluni contesti, ‘processo’ e ‘giudizio’ sono usati come sinonimi): in realtà, il processo è il giudizio che si va facendo in un tempo e in un luogo determinati, in una dimensione spazio-temporale specificamente qualificata.
È determinante la comprensione della circostanza per cui lo spazio e il tempo giocano un ruolo costitutivo essenziale per la formazione e la realizzazione del processo: fuori da un certo spazio e da un certo tempo non si dà alcun processo, né alcun giudizio.
Il riferimento allo spazio e al tempo del processo non è qui (tanto) inteso nel senso in cui l’essenzialità del luogo compare nella norma costituzionale sulla ‘naturalità’ del giudice (art. 25 Cost.), o nelle norme sulla competenza o nell’istituto della rimessione o del c.d. legittimo sospetto (art. 45 c.p.p.).
Il richiamo alla dimensione spazio-temporale del processo è piuttosto operato, ai fini del discorso che si conduce, in relazione alla singolare concretezza dell’udienza, intesa come spazio strutturato nelle forme di un particolare arredamento e destinato ad essere vissuto in uno specifico tempo, che è il tempo della presenza di soggetti che convengono ed agiscono in una forma regolata.[3]
L’accentuata valenza simbolica della fenomenologia giudiziaria ci avverte che il processo regolato dalla legge è un evento che accade, propriamente, nel luogo e nel tempo di un ‘rito’: la dimensione ‘rituale’ dell’attività giudiziaria (di ‘rito civile’ o di ‘rito penale’ discorrono, di regola, gli studiosi del processo) rivela (secondo quanto insegna da sempre l’antropologia culturale) le forme di quell’essenziale (e irrinunciabile) meccanismo di trasformazione, in simbolo, della violenza del conflitto: in breve, il processo opera la sublimazione e l’addomesticamento della violenza in linguaggio.
In un recente libro sulle ‘storie e le immagini del processo’ (scritto, nel quadro dell’esperienza di studi del c.d. Law and Literature Movement, da uno studioso del processo civile italiano) si legge come costituisca «un dato acquisito all’antropologia culturale e giuridica, la propensione di ogni collettività organizzata a risolvere le liti tra i consociati, e a gestire le reazioni ai comportamenti antisociali, trasferendo le une e le altre in una dimensione metaforica e in un mondo artificiale strutturato, sotto ogni aspetto rilevante, come un dopo una gara. E si potrebbe dire che proprio questa, nelle cosiddette società primitive, è l’origine del processo: il quale consiste fondamentalmente nell’utilizzare una struttura ludica agonistica (che, come tale, sarebbe fine a sé stessa) in funzione della composizione di controversie e affari reali, cioè per attuare finalità socialmente ed economicamente rilevanti».[4]
Questo addomesticamento del conflitto e della violenza in linguaggio trova un suo corrispettivo, nel processo, nella cura delle parole e dei ragionamenti, nella meticolosa e tradizionale abitudine del ceto dei giuristi di lavorare sulla parola, sul senso logico delle proposizioni e delle argomentazioni e, infine, sul rigore che lega il senso di queste argomentazioni al conforto delle evidenze obiettive, delle prove, che si formano nello stesso processo.
La formalizzazione in rito della violenza del conflitto rende l’accadimento del processo un evento ‘grave’, a cui si addice la ‘gravità’ del tono dei partecipanti; è un evento che vive della strutturale ‘pesantezza’ della materialità dei gesti ripetuti e delle parole performative, ossia delle parole che non sono primariamente destinate a comunicare un significato, bensì direttamente a cambiare le cose, a fare, foucaultianamente, ‘cose con parole’.
La strutturale gravità, la pesantezza, spesso l’incomprensibilità, per i laici, del processo, nella ritualità delle sue forme, ci presenta i tratti di una rappresentazione che, fuori dai suoi momenti di maggiore pregnanza emotiva (l’assunzione di una particolare testimonianza; l’atto della lettura del dispositivo) diviene financo noioso.
2. Processo e riflessione storico-culturale
Ma il processo è anche il simbolo di una società che riflette sui suoi valori.
Il riferimento corre in primo luogo, come può intuirsi, alla narrazione evangelica del giudizio di Pilato e del Crucifige popolare.[5] E, prima ancora, all’esperienza di Socrate, primo drammatico atto di un confronto, quello tra le esigenze realistiche della politica e i più larghi orizzonti della cultura, tragicamente consumato lungo il ‘dialogo’ del processo ateniese.[6]
All’esperienza del ‘giudizio’ e del ‘processo’ fu quindi successivamente legata la difesa di quella cultura che la Chiesa aveva lungamente elaborato, conservato e diffuso nei secoli interminabili della clausura monastica e della successiva organizzazione universitaria.
La storia dell’intolleranza e la lunga stagione delle guerre di religione, che tanta parte avrebbero avuto nel disegno dei confini europei, non solo politici, toccano e attraversano la vicenda giudiziaria dell’Inquisizione, consegnando all’orizzonte della ricognizione storica la testimonianza di significative esperienze giudiziarie, di cui gli esempi di ‘intellettuali’ come Tommaso Campanella o Giordano Bruno costituiscono una fedele attestazione.
Nel medesimo arco di tempo, ma nel contesto di un’esperienza storica e culturale del tutto diversa, si collocano le vicende della condanna subita da Tommaso Moro[7], cui occorre risalire per la ricostruzione dei momenti determinanti del processo di consolidamento dell’autonomia politica britannica e della tradizione ecclesiastica anglicana.
Di un altro celebre ‘processo’ - violentemente condotto ed amaramente concluso con il rinnegamento e l’umiliante abiura galileiana – occorre dire, là dove l’esempio di un contesto giudiziario impaziente, ed insofferente al dialogo scevro da pregiudizi, assurge a simbolo del contrasto irriducibile e dell’insanabile conflitto tra il dogmatismo religioso e le orgogliose pretese del pensiero scientifico nascente.
È ancora la sommarietà del processo e, simbolicamente, i suoi terribili strumenti di esecuzione, ad occupare la scena sanguinosa della stagione del ‘Terrore’ e dell’intransigenza giacobina, nel quadro di quella trasfigurazione radicale che fu la rivoluzione borghese, sul piano della riorganizzazione politica, del risveglio delle coscienze popolari, della prima stagione europea della costituzionalizzazione dei ‘diritti naturali’, che solo pochi anni prima aveva conosciuto, sul suolo nordamericano, il proprio battesimo storico.
La rapida ricognizione (evidentemente incompleta, e certamente suscettibile di arricchimenti non meno significativi), intessuta di momenti così cruciali della storia del pensiero e della cultura occidentale, nel loro incontro con il luogo del processo ed, alla fin fine, con il loro ‘giudice’ (dove questi - lungi dall’identificarsi con l’individualità della sua persona - appare più spesso intuito come l’espressione soggettiva della cultura del proprio tempo), invita a riflettere sul dato, storicamente ricorrente, costituito dall’esigenza, talora dalla tentazione irresistibile, del potere, di ricorrere all’organizzazione del ‘giudizio’, ed alla elaborazione dialettica del confronto, là dove le urgenze della storia impongono la necessità di una possibile conferma dell’esistente (talora trepidamente cercata, più spesso violentemente imposta), ovvero la disponibilità all’umile ricezione ed al successivo consolidamento di un ‘nuovo’ pensiero.
In ogni caso, il ricorso al processo appare storicamente alimentato (a fronte dell’incessante violazione dell’ordine costituito) da una continua tensione, connaturata al sistema politico, di ‘ricapitolazione’ del ‘senso’ dei propri valori (normativamente espressi); degli stessi disponendo, di volta in volta, la conferma, la revisione, l’aggiornamento, l’annuncio della caduta, sulla via di una possibile, ma sempre precaria ed incerta, ‘stabilizzazione’.[8]
Dunque, ogni società organizza il suo processo come luogo che è, accanto ed oltre al giudizio sui fatti, anche una forma di laboratorio culturale ed etico-politico.
La valenza politica del processo richiede che del processo socialmente si parli e che del processo si dia notizia; che lo si ponga a oggetto di discussione e su cui sia opportuno si formino opinioni.
A testimonianza di questa osservazione varrà richiamare il contributo fornito dalla storia della cultura, là dove ci insegna come la figura moderna dell’intellettuale sia nata e si sia affermata, in corrispondenza al cosiddetto affaire Dreyfus, ai margini di un processo giudiziario.[9]
Il significato e il valore di quella vicenda chiedono d’essere ricercati nella rottura (che il J’accuse di Zola ebbe plasticamente e clamorosamente a rappresentare) degli argini politico-istituzionali, entro i cui confini una lunga tradizione politica e culturale aveva rinchiuso la ricerca ‘dialettica’ di quella ‘stabilizzazione culturale’ che il processo aveva, talora, simbolicamente rappresentato, e le clausure dell’accademia garantito, nel segno di una riconoscibile vocazione elitaria della cultura.
Nell’ambito di quell’esperienza occasionata dal processo, la ‘pubblicizzazione’ e la diffusione popolare del dialogo sui temi di più rilevante impegno etico politico e sociale, ad opera dei più noti scrittori e ‘intellettuali’ del tempo, valsero a segnalare l’esigenza - ormai non più eludibile - di una più larga ‘partecipazione’ collettiva ai processi di formazione e di consolidamento dell’ancora incompiuta e balbettante democrazia francese, nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo appena trascorso.
Tradotta nei termini di un discorso storicamente e culturalmente più impegnativo, la notazione assume un suo preciso valore ove si connettano il piano del coinvolgimento politico dell’intellettuale e del pubblico esercizio critico sui temi connessi all’attualità, a quello dell’allargamento degli spazi di partecipazione politica delle masse; là dove il dibattito suscitato dall’homme de lettre nell’ambito più vasto dell’‘opinione pubblica’, sottraendo l’esclusività della funzione di ‘laboratorio morale’ della comunità alle clausure dell’accademia, si offre quale occasione di approfondimento della partecipazione democratica collettiva.
In questo senso, l’orientamento repressivo rivelato dalle esperienze processuali più sopra ricordate, fino al tornante della Rivoluzione francese, tende ad attenuarsi e a stemperarsi nella progressiva realizzazione delle garanzie di libertà e di rispetto della persona implicate dall’organizzazione delle moderne entità statuali. In queste, la stessa esigenza (più o meno avvertita nel tempo e nello spazio) della preservazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario da quello politico pone le premesse di una progressiva trasformazione dell’attività giudiziaria, là dove il processo ‘democratico’ tende a divenire, da ‘luogo’ della repressione formalizzata, lo ‘spazio’ delle ‘ragioni degli altri’ nell’interpretazione dei valori comuni.
Uno spazio che acquista il suo senso financo nell’ascolto, solo apparentemente paradossale, che si fa dolente comprensione dell’inaccettabile inclinazione al Male degli uomini condotti al crocevia di Norimberga.
3. Processo, democrazia e società dello spettacolo
Rinunciare all’apertura pubblica dei processi, al valore democratico della partecipazione popolare ai temi processuali, significherebbe ormai, nel contesto della cultura contemporanea, rinnegare i presupposti di un percorso di civiltà politica e culturale.
È sufficiente, a voler esemplificare il significato di simili asserzioni, l’osservazione delle più recenti vicende politiche internazionali e, in particolare, le notizie sul divieto diffuso in Turchia (non solo di riprendere attraverso telecamere o macchine fotografiche, bensì) di disegnare durante i processi: un fatto destinato a fornire una spiegazione molto eloquente sull’essenzialità, in chiave democratica, della comunicazione delle stesse immagini del processo.[10]
Il modo attraverso il quale il processo viene comunicato pubblicamente è, nel nostro tempo, quello che (occorre dire, strutturalmente, e quindi inevitabilmente) ha finto col provocare l’inevitabile e progressiva (ma in larga misura, già compiuta) ‘desacralizzazione’ degli atti della giustizia.
Si tratta di un’operazione che può ritenersi il portato proprio della società dello spettacolo, di quella società che lo stesso Guy Debord aveva definito, negli anni Sessanta, come la società in cui i rapporti tra gli individui sono mediati da immagini.[11]
Il processo di desacralizzazione degli atti della giustizia (che, in ultima analisi, si traduce nella sottrazione del processo alla sua materia sacrale, ossia al suo specifico luogo fisico e al tempo storico della ‘presenza’ infungibile dei suoi attori), avviene dunque attraverso la mediazione dell’immagine del processo.
Si tratta, tuttavia, di un’immagine che, per poter essere veicolata socialmente, per poter catturare l’attenzione e dunque l’interesse dei suoi destinatari, richiede di essere filtrata, manipolata, spogliata di tutti i suoi vestimenti rituali che la rendono grave, pesante, noiosa e incomprensibile, per sottoporla a un processo di semplificazione, di adattamento al consumo, e dunque a quel confezionamento che è esattamente il prodotto circolante nell’industria mass-mediatica.
Naturalmente, si tratta di prodotti di varia natura e di diversa destinazione, poiché l’adattamento del processo alle esigenze della comunicazione di massa cambia a seconda dello scopo della comunicazione: dall’informazione in sé (un telegiornale o un rotocalco di approfondimento civile o politico), alla rappresentazione del processo come forma di spettacolo.
Si tratta di operazioni che, in termini strettamente industriali, vanno da una minore ‘raffinazione’ (secondo lo stile, ad esempio, di un programma come Un giorno in pretura, in cui le fasi del processo vengono riprese e riproposte in modo diretto, sia pure attraverso un lavoro di taglio e di rimontaggio guidato dalle spiegazioni della conduttrice), ad altre forme assai più elaborate, in chiave produttiva, in cui, per lo più a fini di intrattenimento (o di infotainment, secondo il neologismo che designa il progetto di mescolare, in un unico contenitore, informazione e intrattenimento), si tenta di ‘ripetere’ o di ‘rifare’ il processo attraverso il ricorso ad altre forme ed altri strumenti.
In ogni caso, si tratta di trasformare il processo in ‘qualcosa’ di sostanzialmente diverso dal processo, poiché quel ‘qualcosa’, strappando il processo al suo tempo e al suo spazio, ne ha disincarnato l’essenza.
È agevole comprendere questo aspetto di disincarnazione del processo dalla sua ‘essenza sacrale’ attraverso l’evocazione di quelle situazioni in cui, ad esempio, un testimone o la vittima di un determinato reato (si pensi a una violenza sessuale, o anche alla richiesta di rievocazione di momenti particolarmente dolorosi per chi è chiamato a narrarli) viene chiamato dal giudice ad ‘entrare nei particolari’, a precisare la descrizione di momenti o situazioni peculiari, talora vincendo o superando le comprensibili resistenze, i pudori e a volte la stessa sorpresa del proprio interlocutore, impreparato a entrare, pubblicamente, in un discorso per definizione ‘osceno’.
L’oscenità di cui si parla è qui intesa nel senso di ciò che, per consuetudine, dovrebbe rimanere lontano dallo sguardo, e la cui esibizione rimanda con immediatezza a una sensazione di violenza, naturalmente connessa alla sua immagine. Qualcosa che per sussistere necessita dell’oscurità e del silenzio come del suo ambiente naturale; che, se esibita impudicamente, non può che veder compromessa e corrotta la propria natura. Vi sono sguardi che bruciano ciò che vedono e rispetto ai quali il pudore ha il senso di una difesa essenziale.[12]
Quei precisi e delicati momenti del processo (di per sé destinati a contribuire alla ricostruzione dei fatti, solo in questa misura giustificando il potere del giudice o dei difensori di entrare in una sfera altrimenti inaccessibile) diviene, in quel ‘qualcosa’ che è l’immagine spettacolare del processo, pettegolezzo, irriverenza, simulacro di un’autorizzazione all’invasione della vita e dei sentimenti altrui, al solo scopo di un compiacimento fine a se stesso (ossia di un puro consumo a fini di evasione). Diventa violenza nuda.
Questa specifica disincarnazione del processo dalla sua essenza di frammento spazio-temporale (ossia di un fenomeno che ha un senso solo nel luogo e nello spazio che lo ospita e nella ‘presenza’ formalizzata dei suoi attori) determina, come fatto più grave (sotto il profilo del rispetto della persona), la spoliazione di tutti i protagonisti del processo della loro ‘veste’ processuale, e dunque del loro valore di protagonisti di un rituale di esorcizzazione della violenza che, non più sublimata nel linguaggio e nelle forme della sua rappresentazione simbolica, si ‘scatena’ in tutta la sua cruda naturalità e chiede di parteciparvi.
Il grumo di violenza ritualizzata in cui consiste il processo assume, fuori dalle sue forme regolate, la fisionomia della violenza ‘scatenata’, del conflitto senza limiti. Si tratta della rappresentazione per immagini della pura aggressività in cui la richiesta di partecipazione è, propriamente, quella che invita a ‘schierarsi’ secondo la variabile configurazione delle tonalità emotive che (inevitabilmente) prevalgono sul distacco del pensiero logico-critico.
Il disvelamento della violenza del processo al di fuori dei suoi confini rituali porta con sé la conseguenza per cui ogni sofferenza e ogni debolezza personale (nessuna esclusa, dalla sofferenza della vittima colpita nella sua intimità, a quella dell'imputato spogliato di ogni sua riservatezza, a quelle degli stessi professionisti, i difensori o il giudice, inevitabilmente soggetti a errori, a cadute o insufficienze) si trova adesso gettata, nuda e indifesa, in un ruolo di protagonista di un fenomeno (l'immagine circolante del processo) naturalmente violento, totalmente governato dagli obiettivi e dagli interessi dei suoi produttori, ossia degli ‘editori’ dello ‘spettacolo-giustizia’.[13]
Converrà ammonire come i fenomeni descritti non vadano necessariamente ascritti all’espressione di una scelta di tipo banalmente speculativo, trattandosi di epifenomeni strutturali tipici dei modelli di società, come la nostra, che organizza le forme della produzione secondo una struttura di tipo capitalistico, e che si avvale di elevati livelli di sofisticazione tecnologica nelle modalità della comunicazione in un contesto politico di tipo democratico.
La natura strutturale e, dunque, il carattere inevitabile del fenomeno legato alla produzione delle immagini del processo destituisce di qualunque significato ogni eventuale scopo politico destinato a combatterlo o ad eliminarlo; una simile opzione, infatti, equivarrebbe a negare, e in qualche misura a tradire, il senso stesso delle radici di quella stessa cultura civile e democratica, lungamente costruita e faticosamente realizzata nel tempo.
Assume piuttosto valore, da questa prospettiva, l’analisi del senso di tale sviluppo storico e l’indicazione delle tracce che valgano a prefigurare una possibile combinazione tra la necessità sociale del processo e l’inclinazione strutturale alla pervasività propria della comunicazione di massa.
4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Nel corso della seconda metà degli anni Trenta, Walter Benjamin scrisse il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[14], ponendosi l’obiettivo di analizzare – nei termini di un’argomentazione largamente dominata da premesse teoriche d’indole marxiana – il destino dell’opera d’arte, e dell’esperienza della sua fruizione, nel tempo governato dall’operatività di strumenti tecnologici idonei ad assicurare la riproducibilità di quell’opera in forme materiali concretamente capaci di raggiungere un numero illimitato di fruitori.
Là dove, in precedenza, l’esperienza contemplativa legata all’ascolto di un concerto, o alla visione di un quadro, di una statua, di una rappresentazione teatrale, esigeva la contemporanea presenza dell’opera, dei suoi esecutori e del fruitore in un medesimo contesto spazio-temporale (la sala del concerto, il museo espositivo, il teatro), adesso il disco, la fotografia o il film, valgono a ricostruire in modo totalmente sovvertito le modalità del contatto del singolo fruitore con l’opera (o, meglio, con la sua riproduzione) in una forma totalmente dislocata nello spazio e nel tempo, in un luogo privato e in un momento arbitrariamente prescelto, dove l’esperienza contemplativa, totalmente allontanata dalla materialità o dalla concreta ‘presenza’ dell’originale dell’opera, assume connotati che s’intuiscono radicalmente sovvertiti.
Anche “nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.[15]
Le modificazioni delle circostanze indotte dalla riproduzione tecnica dell’opera “possono anche lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte - ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc” e, dunque, “la sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale al suo carattere di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, il carattere di testimonianza storica della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa, il suo peso tradizionale. Questi tratti distintivi possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura”.[16]
La tecnica della riproduzione “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo esserci in massa. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Ma il significato sociale, anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in questa, non è pensabile senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale”.[17]
All’interrogativo su cosa sia l’aura in realtà, Benjamin risponde: “una singolare creazione spazio-temporale: apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra su colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la crescente importanza delle masse e la crescente intensità dei loro movimenti. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, ‘più vicine’ è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più della sua riproduzione”.[18]
L’aspetto positivo dell’universalizzazione dell’esperienza dell’arte attraverso la sua riproduzione tecnica è rappresentato, per Benjamin, dalla politicizzazione della sua essenza che sancisce la fine della sua autorità sacrale e metafisica: “per la prima volta nella storia del mondo la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. In misura sempre maggiore l’opera d’arte riprodotta diventa la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica, per esempio, è possibile tutta una serie di copie; chiedersi quale sia la copia autentica non ha senso. Ma nell'istante in cui nella produzione dell’arte viene meno il criterio dell’autenticità, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”.[19]
5. Processo, consumo e repressione sociale
Il lettore avrà agevolmente compreso lo stretto nesso di corrispondenza analogica che si è inteso istituire, attraverso la riflessione di Walter Benjamin, tra l’esperienza ‘auratica’ dell’opera d’arte e la partecipazione al processo giudiziario nella forma della ‘presenza’, e dunque secondo la sua dimensione propriamente sacrale o rituale.
Converrà seguire sin nelle sue più profonde implicazioni il significato della sostanziale sovrapponibilità dei processi storico-culturali che hanno progressivamente trasformato, attraverso la moltiplicazione e la diffusione delle relative immagini, l’aspetto sacrale e autoritario – e dunque l’aura – dell’opera d’arte (e del processo giudiziario) in un rapporto di massa.
La dissacrazione e la destituzione dell’autorità auratica hanno senso, sul piano storico-culturale, unicamente là dove la riproduzione e la diffusione dell’immagine a beneficio delle masse riesca nell’intento di realizzare il proprio scopo specificamente politico; ciò che si traduce nell’estensione della partecipazione democratica, tanto nei confronti dell’esperienza estetica, quanto della riflessione collettiva sul processo giudiziario come momento di rielaborazione storico-culturale.
Ma in una società in cui i rapporti tra i singoli appaiono largamente informati, o compromessi, dagli interessi del profitto, la strumentalizzazione a fini commerciali dell’immagine dell’opera (o del processo) finirà con lo sterilizzarne la dimensione propriamente politica, frustrandone definitivamente gli scopi, con la realizzazione del vantaggio (commerciale) di pochi e la negazione dell’accesso della massa al senso proprio dell’opera come forma comunicativa, o del processo come laboratorio etico-politico.
Con specifico riferimento all’esperienza cinematografica, Benjamin osserva come il controllo della dimensione politica di quella forma comunicativa potrà aver luogo unicamente “quando il cinema si sarà liberato dalle catene del suo sfruttamento capitalistico. Infatti, attraverso il capitale cinematografico le opportunità rivoluzionarie di questo controllo vengono trasformate in controrivoluzionarie. Il culto del divo da esso promosso, non solo conserva quella magia della personalità che già da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce, ma il suo complemento, il culto del pubblico, contemporaneamente promuove quella corruzione dello stato d’animo della massa che il fascismo cerca di mettere al posto della coscienza di classe. […] In questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse. […] L’industria cinematografica ha tutto l’interesse a pungolare la partecipazione delle masse attraverso ambigue speculazioni. A tale scopo ha messo in movimento un imponente apparato pubblicistico: ha messo al suo servizio la carriera e la vita amorosa dei divi, ha organizzato plebisciti, ha indetto concorsi di bellezza. Tutto questo al fine di falsare, per via corruttiva, l’originario e giustificato interesse delle masse per il cinema, un interesse per la conoscenza di sé e pertanto anche per la conoscenza della propria classe. […] Un bisogno innegabile di nuove condizioni sociali viene segretamente sfruttato nell’interesse di una minoranza possidente”.[20]
Commercializzare la circolazione dell’immagine del processo assume dunque il significato della frustrazione dei suoi contenuti politici, per enfatizzarne la dimensione meramente emotiva, attirando le masse su ciò che ne deprime le capacità di crescita morale e culturale, e rafforzandone gli aspetti di strutturale debolezza istintiva.
Si tratta di un’operazione che si risolve in una grave forma di repressione collettiva (storicamente qualificabile in chiave tradizionalista o reazionaria): la trasformazione di un’esperienza politica in una forma di evasione e, dunque, a sua volta, la canalizzazione di energie politiche di natura critica in soluzioni di continuità comunicativa destinate a dissolvere le spinte del desiderio collettivo in singoli gesti di puro consumo.
6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali
Le riflessioni sin qui rapidamente raccolte sembrano suggerire la necessità di orientare la difesa del processo attraverso la preliminare demistificazione di ogni forma di riproduzione mediatica che, lungi dal proporre costruttivamente una sincera discussione collettiva sul significato del conflitto che si muove all’interno del processo, si risolve tutt’al contrario, in una sterile riproduzione, fine a se stessa, della violenza di quel conflitto nella sua cruda immediatezza, spogliata di ogni forma di sublimazione simbolica.
Da questa prospettiva, si tratterebbe preliminarmente di consolidare, quando non di promuovere, le forme (più o meno) istituzionalizzate di pedagogia deontologica e culturale dei protagonisti del processo, ivi compresi i professionisti della comunicazione mediatica, affinché sappiano comprendere, in ciò di cui il processo si sostanzia, il distinto significato della dimensione politica del conflitto, rispetto a tutto ciò che è meramente privato o incidentale; gli aspetti o i contenuti critico-dialettici del processo (sotto il profilo del significato e del valore delle regole in cui la comunità intende ancora riconoscersi o non riesce più a identificarsi), rispetto alla dimensione della vita meramente personale che, al di fuori dello stretto circuito dell’indagine o del processo, non può e non deve destare o alimentare alcuna diversa forma di curiosità.
Seguendo la prospettiva della difesa della persona, il limite che occorre saper rinvenire, tra le prerogative della comunicazione di massa riferita al processo, sembra dunque identificarsi nel principio per cui deve ritenersi sottratto, alla legittimazione della partecipazione collettiva (di massa) al processo, ogni aspetto della vicenda processuale che, superando i confini di quel campo critico-dialettico rilevante sotto il profilo etico-politico, si insinua negli spazi squisitamente privati e personali dei protagonisti del processo; spazi che, se eccezionalmente si giustificano in ragione delle esigenze ricostruttive del giudizio, fuori da quello finirebbero col costringere i suoi protagonisti ad agire su un territorio che ad essi non può, né deve, appartenere.
Converrà sottolineare come non si tratti qui di proporre una selezione a priori degli argomenti destinati a entrare nel campo della legittima discussione pubblica del processo (un discorso difficile o delicato da condurre in relazione alla pienezza della libertà di manifestazione del pensiero, nella sua dimensione di cronaca o di critica dei fatti della vita sociale), quanto piuttosto di procedere a uno studio accurato della disciplina che attiene al governo e alla protezione dei dati personali che, acquisiti dal (e nel) processo, vengono variamente trattati dai diversi agenti della comunicazione mediatica.
L’attitudine propria del sistema della protezione dei dati personali (secondo lo stile della disciplina che la codificazione italiana ha recepito dall’originaria normativa europea e ancora di recente rivisitata in una chiave di armonizzazione continentale[21]) è quella del continuo e necessario ‘bilanciamento concreto’ tra prerogative o interessi in conflitto; da questo punto di vista, la dimensione della ‘politicità’ delle informazioni contenute nei dati destinati alla circolazione riferita al processo può costituire un criterio decisivo nella risoluzione delle questioni che, di fronte alla contestazione degli interessati, di volta in volta sono condotti all’attenzione del giudice.
7. Sulla trasmissione della cultura
Un’analisi più puntuale o approfondita di temi che appaiono rivestiti di una simile delicatezza e profondità di implicazioni rimane, naturalmente, del tutto estranea ai limiti del discorso che si conduce.
Potrà ragionevolmente destare talune perplessità l’idea di consegnare le forme della tutela della persona, in relazione alla circolazione pubblica delle informazioni sul processo, all’iniziativa dei singoli interessati, consapevoli dei sacrifici e della carica di violenza cui la rappresentazione pubblica inevitabilmente li espone.
L’osservazione della realtà quotidiana offre, sempre più spesso, l’esempio di sconsiderate disponibilità di parti, testimoni, familiari di questi, o dei loro difensori, alla partecipazione (talora retribuita) a forme banalmente spettacolarizzate di vicende giudiziarie.
Si tratta di esperienze che assumono, per lo più – quando non inserite in sofisticati disegni di strategia difensiva – il significato di un’occasione di facile guadagno o, in termini più desolanti, di una sorta di garanzia di esistenza certificata dall’esposizione incontrollata alla generalità.
Di fronte a fenomeni di questa natura, lungi dal congetturare impensabili forme di ‘indisponibilità’ della persona, della propria esperienza esistenziale o delle forme della sua rappresentazione (una soluzione da ritenere di per sé inaccettabile già sul piano della riflessione costituzionale), non resta che affidarsi all’impegno nell’educazione civile, al lavoro condotto nell’umile quotidianità delle nostre scuole, alla cura sollecita del futuro dei nostri giovani.
Si è tentati di domandarsi, in tempi di crisi dell’associazionismo giudiziario, se la trasmissione della cultura non sia, in fondo, oltre ogni legittima preoccupazione per il destino degli organismi che ne esprimono il governo sul piano istituzionale, il senso ultimo dell’impegno civile di quelle donne e di quegli uomini che, alle fortune della ‘città’, hanno inteso dedicare la propria cura; e all’arte dell’incontro – a cui il senso del diritto infine rimanda – un tempo non breve della propria vita.
* Il testo riprende e completa la relazione svolta nel corso del convegno Processo mediatico e presunzione di innocenza, tenutosi a Roma, presso l’Istituto Dante Alighieri, il 1° aprile del 2022, e dell’occasione colloquiale conserva, in larga misura, i toni e lo stile.
[1] Si tratta dei contenuti del libro VI dell’Etica Nicomachea.
[2] A mero titolo di esempio, possono qui richiamarsi H. Arendt, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964 (The Human Condition, 1958); J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1969 e Id., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, Il Mulino, 1973. Più di recente, è possibile esaminare, in rapporto ai temi dell’etica aristotelica, gli approcci dell’opera etico-politica di Martha Nussbaum.
[3] Gli artt. 110, 111 e 112 del R.D. 14 dicembre 1865, n. 2641 (Regolamento generale giudiziario per l'esecuzione del Codice di procedura civile, di quello di procedura penale, e della Legge sull'ordinamento giudiziario) disciplinano in termini rigorosi e dettagliatissimi il modo in cui il giudice e il pubblico ministero devono essere abbigliati (110); la posizione delle tavole del pubblico ministero e del cancelliere (111); la postura del pubblico ministero e del presidente nell’atto di rassegnare le proprie conclusioni o di pronunciare la sentenza (111); la postura dei difensori nell’atto di parlare dopo aver ricevuto la parola del presidente (112).
[4] B. Cavallone, La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Adelphi, Milano, 2016, p. 224
[5] Alla lettura di quella vicenda, in una chiave e in una prospettiva di ordine marcatamente giuridico-politico, è dedicato il libro di G. Zagrebelsky, Il Crucifige e la democrazia, Torino, Einaudi, 1995.
[6] Evento che anima le pagine ineguagliabili del giovane Platone nell’Apologia di Socrate.
[7] Su cui v. E. Reynolds, Il processo di Tommaso Moro, Roma, Salerno Editrice, 1985 (traduz. italiana di The Trial of St. Thomas More, London, Burns and Oates, 1964).
[8] Scrive S. Satta (Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994, pp. 24 s.): “Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo. Paradosso? No, non è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita. Se noi contempliamo il corso della nostra esistenza – il breve corso della nostra vita individuale, il lungo corso della vita dell’umanità – esso ci appare come un susseguirsi, un intrecciarsi, un accavallarsi di azioni, belle o brutte, buone o cattive, sante o diaboliche: la vita stessa anzi non è altro che l’immenso fiume dell’azione umana, che sembra procedere e svolgersi senza una sosta. Ed ecco, a un dato punto, questo fiume di arresta; anzi ad ogni istante, ad ogni momento del suo corso si arresta, deve arrestarsi se non vuole diventare un torrente folle che tutto travolga e sommerga: l’azione si ripiega su sé stessa, e docilmente, rassegnatamente si sottopone al giudizio. Perché questa battuta di arresto è proprio il giudizio: un atto dunque contrario all’economia della vita, che è tutta movimento, tutta volontà e tutta azione, un atto antiumano, inumano, un atto veramente – se lo si considera, bene inteso, nella sua essenza – che non ha scopo. Di quest’atto senza scopo gli uomini hanno intuito la natura divina, e gli hanno dato in balìa tutta la loro esistenza. Di più: tutta la loro esistenza hanno costruito su quest’unico atto. Secondo il nostro credo, quando la vita sarà finita, quando l’azione sarà conclusa, verrà Uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare: qui venturus est iudicare vivos et mortuos”.
[9] La storia francese già forniva, all’epoca dell’affaire Dreyfus, la testimonianza di un altro noto processo, celebrato nel corso del XVIII secolo (precisamente nel 1762), in cui ebbero ad incontrarsi (e a ‘scontrarsi’) le ragioni dell’intolleranza (religiosa) collettiva con il richiamo alla ragione (e all’imperatività morale) dell’uomo di cultura. Il riferimento è fermato qui sul ruolo assunto da Voltaire nel ‘processo Calas’ e al rifiuto opposto dal filosofo francese alla condanna inferta al commerciante tolosano in ragione dei consistenti pregiudizi religiosi che ne avevano favorito la pronuncia. Rispetto a quest’ultima vicenda, tuttavia, il valore di ‘novità’ offerto dalle occorrenze connesse al processo Dreyfus devono essere ricercate proprio nel significato ‘politico’ e ‘sociale’ che ebbero a rivestire le forme (pubbliche) dell’intervento dell’uomo di cultura nella vicenda giudiziaria.
[10] Nel sito Internet della radiotelevisione svizzera (RSI) in una pagina (https://www.rsi.ch/news/oltre-la-news/Niente-più-disegni-in-aula-12734766.html) si scrive: “I disegnatori di processi. La loro matita traccia profili, coglie attimi e cristallizza gli eventi. Seduti tra il pubblico, l’inseparabile taccuino in grembo, mostrano quello che altrimenti l’opinione pubblica non potrebbe vedere. In molti Paesi, fotografie e riprese video sono vietate nei tribunali. Tra questi c’è la Turchia, dove negli ultimi anni – specie dopo il fallito golpe del 2016 – si sono svolti numerosi processi a oppositori del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Politici, giornalisti e intellettuali spesso finiti alla sbarra con accuse a vario titolo di aver complottato contro il governo: eventi che i turchi hanno potuto vedere attraverso gli occhi e le mani di un gruppo di illustratori, che in modo spontaneo hanno voluto contribuire così a tenere il pubblico informato. L’attività di questi disegnatori è iniziata con i processi per le proteste del 2013 di Gezi Park a Istanbul. Da lì in avanti, le illustrazioni delle arringhe degli avvocati e delle testimonianze degli imputati hanno cominciato a essere diffuse in modo sempre più ampio, anche sfruttando il volano dei social network. Visto il massiccio impiego della carcerazione preventiva, ritenuto spesso esagerato dagli osservatori internazionali, è solo attraverso il loro tocco che i volti di molti imputati celebri sono tornati a diffondersi dopo le udienze. Del resto, raccontano questi artisti, gli stessi giudici li hanno a lungo guardati con simpatia, o almeno tolleranza: forse perché una matita spaventa meno di un obiettivo, ed evoca una dimensione di innocenza. Così è stato per lo più fino al novembre scorso, quando a Necmi Yalçin hanno vietato di continuare a disegnare in aula gli imputati nel processo al quotidiano laico Cumhuriyet, il più antico della Turchia, lanciando una nuova sfida alla libertà d’espressione.
[11] “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2017, p. 64).
[12] L’oscenità non sta indubbiamente nella cosa. Essa vive piuttosto nello sguardo che la investe. Il che non significa però che a produrla siano delle specifiche perverse intenzioni. In tal caso, infatti, nulla sarebbe spiegato. La ragione per cui si definisce ‘osceno’ un determinato modo dello sguardo resterebbe ancora misteriosa. Forse l’osceno sta invece nel principio stesso della visibilità. Forse si danno situazioni che, se sottoposte al regime dello sguardo, se trasformate in spettacolo, indipendentemente da chi di fatto sta guardando, sono bruciate da quella stessa visibilità. L’osceno, insomma, si produce quando qualcosa, che ha nell’invisibile il suo habitat naturale, è consumato, fino a ad essere distrutto, dallo sguardo che lo investe. La società dello spettacolo generalizzato, dove tutto, essendo merce, deve luccicare ed essere appetibile, è allora oscena non per contingenza, ma per essenza (V., in questi termini, R. Ronchi, Liberopensiero. Lessico filosofico della contemporaneità, Roma, Fandangolibri, 2006, passim).
[13] Destò una qualche sensazione, alcuni anni or sono, la vicenda che ebbe a riguardare un giudice, autore di un provvedimento destinato a incidere negativamente sugli interessi di un gruppo imprenditoriale di rilevante peso sul piano della comunicazione mediatica. A seguito di quel provvedimento, talune testate del gruppo dedicarono alcuni servizi al giudice, mettendone programmaticamente in ridicolo la figura, deridendone i modi e la stessa ‘stravaganza’ dell’abbigliamento (di cui si sottolineò la singolarità dei calzini color turchese…).
[14] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in W. Benjamin, Opere complete, vol. VI Scritti. 1934-1937, Torino, Einaudi, 2004, pp. 271 ss.
[15] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 273.
[16] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 274.
[17] Op. ult cit., p. 274. “Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sono sorte, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. […] Il valore unico dell'opera d’arte «autentica» trova la sua fondazione sempre nel rituale. […] Rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza” (pp. 275-276).
[18] Op. ult cit., p. 275-276.
[19] Op. ult cit., p. 277-278.
[20] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 290-292.
[21] D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice della privacy) su cui ha inciso, da ultimo, il Regolamento UE n. 2016/679 recepito attraverso il D. Lgs. n. 101/2018.
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