ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo tra poteri del giudice e diritti delle parti (Nota a Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, 31 gennaio 2022, n. 153)
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il rinvio dell’udienza: il ruolo della discussione orale nel processo amministrativo e la necessità di evitare pronunzie a sorpresa. – 3. Una comparazione processualistica: il rinvio dell’udienza nel processo civile e penale. - 4. Il rinvio dell’udienza di discussione: potere o dovere del giudice amministrativo? – 5. Osservazioni critiche: in alcuni casi sussiste il diritto delle parti al rinvio dell’udienza.
1. Il caso di specie.
La sentenza che si annota interviene su una fattispecie molto peculiare attinente alle tasse portuali, di imbarco e sbarco, introdotte dall’art. 33 della l. n. 82/1963, dapprima per alcuni porti, e applicate, a partire dal 1994, con la l. n. 84/1994, alla totalità dei porti, con devoluzione per intero, alle Autorità portuali competenti[1], delle tasse portuali sulle merci sbarcate e imbarcate, a partire dal 2006.
La questione attiene all’individuazione del soggetto su cui ricade l’onere di queste prestazioni patrimoniali.
In particolare si può affermare che si è dinnanzi ad una tassa di scopo di una prestazione doverosa, collegata, diversamente dalla imposta, al soddisfacimento di un servizio o di una funzione differenziata e determinabile, così da essere dovuta non dalla generalità dei contribuenti in ragione del loro status economico, ma solo dai fruitori, attuali o potenziali, di tale servizio o di tale funzione; più nello specifico, di una prestazione stabilita per fare fronte a spese volte a realizzare opere, specialmente, di infrastrutturazione[2].
Si ricade, pertanto, entro il campo di operatività di cui all’art. 23 Cost., ovvero delle prestazioni patrimoniali che possono essere imposte solo in forza di una legge e non anche di un provvedimento amministrativo[3].
Tuttavia, al di là della questione sostanziale sottostante che si è introdotta sommariamente, l’oggetto di interesse della sentenza che si commenta concerne il regime processuale del rinvio dell’udienza di discussione richiesto da una dalle parti nel corso dello svolgimento del giudizio di appello a seguito dell’introduzione di un documento sopravvenuto.
Ed è su questo che ci si deve soffermare.
2. Il rinvio dell’udienza: il ruolo della discussione orale nel processo amministrativo e la necessità di evitare pronunzie a sorpresa.
Nel giudizio di appello dinnanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia l’appellante, ovvero l’Autorità di sistema portuale del Mare di Sicilia orientale, tramite il suo difensore, l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, ha chiesto di essere autorizzato a presentare un documento sopravvenuto, ritenuto di essenziale rilievo ai fini del decidere e ha chiesto rinvio della discussione della causa.
In particolare, il documento in questione è un decreto del presidente dell’Autorità portuale del Mare di Sicilia occidentale n. 374 dell’11.12.2021, con il quale si è proceduto alla revisione dei diritti portuali, ponendoli a carico delle imprese portuali anche per ogni contenitore imbarcato-sbarcato.
Il collegio ha ritenuto non sussistenti i presupposti per concedere il richiesto rinvio ad altra udienza.
Secondo il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, nell'ordinamento processuale vigente non esiste norma giuridica o principio ordinamentale che attribuisca alle parti in causa il diritto al rinvio della discussione del ricorso, fuori dai casi tassativi di diritto a rinvio per usufruire dei termini a difesa previsti dalla legge.
Al di fuori di tali ipotesi, le parti hanno solo la facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare un eventuale differimento dell'udienza.
Ciò in quanto alle parti spetta la disponibilità delle proprie pretese sostanziali e, in funzione di esse, del diritto di difesa in giudizio, ma le stesse non hanno anche la disponibilità dell’organizzazione e dei tempi del processo, che compete al giudice, al fine di conciliare e coordinare l’esercizio del diritto di difesa di tutti coloro che si rivolgono al giudice.
La decisione finale sui tempi della decisione della controversia spetta al giudice, e la domanda di rinvio deve fondarsi su “situazioni eccezionali” (come recita il comma 1-bis dell’art. 73 c.p.a.: “Il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza (…)”).
Tali situazioni eccezionali possono essere integrate solo da gravi ragioni idonee a incidere, se non tenute in considerazione, sulle fondamentali esigenze di tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantite, atteso che, pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti.
Nella specie, la motivazione indicata nella istanza di rinvio non rientra tra quelle che potrebbero giustificare un eventuale differimento perché attinente alla sopravvenuta entrata in possesso di un documento utile ai fini della causa.
Secondo l’orientamento consolidato del giudice amministrativo, pertanto, non sussiste un diritto della parte al rinvio della discussione della causa, spettando la decisione finale in ordine ai concreti tempi della discussione comunque al giudice[4], il quale deve verificare l'effettiva opportunità di rinviare l'udienza, giacché solo in presenza di situazioni particolarissime il rinvio dell'udienza è per lui doveroso, e in tale ambito si collocano, fra l'altro, i casi di impedimento personale del difensore o della parte, nonché quelli in cui, per effetto delle produzioni documentali effettuate dall'Amministrazione, occorra riconoscere alla parte, che ne faccia richiesta, il termine di sessanta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti.
Questa tesi, ampiamente suffragata dal Consiglio di Stato, sembra aver trovato anche un fondamento normativo.
Difatti, il d.l. 9 giugno 2021, n. 80, conv. in legge 6 agosto 2021, n. 113, ha modificato l’art. 73 del Codice del processo amministrativo inserendovi un comma 1-bis ove si prevede che “non è possibile disporre, d'ufficio o su istanza di parte, la cancellazione della causa dal ruolo. Il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio”.
Questa novità è stata prontamente accolta con favore dal giudice amministrativo[5], perché la disposizione dovrebbe inquadrarsi nel più ampio contesto di riforma del processo amministrativo volto a contrastare la formazione di nuovo arretrato nella giustizia amministrativa che incide, a sua volta, sul grado di efficienza e di affidabilità dell'intero sistema economico nazionale[6], chiamato peraltro a fronteggiare le nuove sfide del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.).
Con la disposizione in esame il legislatore avrebbe, in via generale, ritenuto prevalente l'interesse pubblico alla celerità della decisione[7], in coerenza con il principio della ragionevole durata del processo[8], rispetto a quello, particolare ed eccezionale, di protrazione della trattazione della causa.
Questa esigenza è certamente condivisibile, occorre però comprendere come ciò si concili con le incomprimibili garanzie difensive delle parti.
Nella ricostruzione tradizionale del processo amministrativo l’udienza di discussione veniva configurata come una delle fasi principali, momento indispensabile di contatto tra le parti ed il collegio giudicante[9].
Questa visione, specialmente a seguito dell’introduzione del Codice del processo, è stata parzialmente superata.
La prassi di articolare diffusamente gli scritti difensivi, difatti, ha portato il legislatore a prevedere nel Codice che la discussione debba avvenire in modo sintetico dopo aver concesso tuttavia la possibilità alle parti di illustrare le proprie domande ed eccezioni in modo particolarmente ampio negli scritti difensivi da depositare antecedentemente all’udienza di discussione, ovvero nelle memorie e nelle repliche.
Si è passati, quindi, da un’impostazione in cui era possibile in sede di discussione orale della controversia arrivare sino ad ampliare l’oggetto della domanda[10] ad un processo in cui l’udienza di discussione ha, proprio per l’ampiezza degli scritti difensivi delle parti, un’importanza più limitata, anche se non del tutto svanita.
Si pensi a quanto previsto dallo stesso art. 73 del Codice al comma 3.
Qui si dispone che, “se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie”.
È il problema delle c.d. pronunzie della terza via.
Il Codice prevede un vero e proprio obbligo per il giudice amministrativo: questo dovere del giudice di venire in soccorso alle parti ex art. 73, co. 3, cod. proc. amm. è posto a garanzia della pienezza del contraddittorio; costituisce cioè un meccanismo di tutela volto ad evitare pronunzie "a sorpresa" su profili che esplicano una influenza decisiva sul giudizio[11], con la conseguenza che l'omessa comunicazione di una eccezione rilevata d'ufficio determina nel giudizio di appello l'annullamento con rinvio della causa[12].
Il Codice si è preoccupato di garantire l’integrità del contraddittorio, tutelando le parti contro le sentenze della terza via pronunziate su questioni nuove, non poste all’attenzione delle stesse.
È evidente che in questo caso il ruolo dell’udienza di discussione come momento di necessario dialogo collaborativo tra parti e giudice è fondamentale. Se una delle parti non fosse presente in udienza e la controversia fosse decisa per una questione rilevata d’ufficio su cui non è stato instaurato il contraddittorio il suo diritto di difesa non potrebbe che risultare ampiamente compromesso.
Il problema è stato avvertito in modo particolare successivamente alla modifica che la legge cost. 23 novembre 1999, n. 2 ha apportato all’art. 111 Cost. ove è stato introdotto il primo comma secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
La necessità di evitare decisioni a sorpresa nel processo amministrativo era già stata, in realtà, evidenziata precedentemente alla modifica costituzionale[13], in quanto si sosteneva, giustamente, che i principi del giusto processo costituzionalizzati nel 1999 fossero già presenti nel nostro ordinamento[14].
La riforma costituzionale ha però avuto l’effetto di valorizzarli ancor di più e portare prima la giurisprudenza e poi il legislatore a riflettere su quali fossero le modalità migliori per tutelare l’integrità del contraddittorio nel processo amministrativo[15], che ha risentito molto, sul punto, anche delle correlative novità apportate nel giudizio civile.
Ed infatti, l'obbligo del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, a pena di nullità della sentenza, è stato espressamente introdotto, nel processo civile, prima per il giudizio di Cassazione con la novella apportata all'art. 384, co. 3, cod. proc. civ. dall'art. 1, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40; poi, in via generale, con quella apportata all'art. 101, co. 2, c.p.c. dall'art. 45, co. 13, della l. 18 giugno 2009, n. 69.
Quest’obbligo, in quanto correlato al potere-dovere del rilievo d'ufficio delle questioni non riservate all'eccezione di parte, quale espressione di un principio generale del processo, doveva ritenersi operante quantomeno dopo l'entrata in vigore delle novelle apportate al cod. proc. civ. anche nel processo amministrativo già nella disciplina previgente l'entrata in vigore del nuovo cod. proc. amm., ove risulta ormai codificato dall'art. 73, co. 3; ma anche a prescindere dalle stesse, esso era, come detto, già in precedenza ricavabile — rectius, ricavato — in via sistematica dalla garanzia costituzionale del giusto processo[16].
Al di là dell’espressa codificazione della norma del Codice del processo, il principio risulta ancor di più rafforzato dalle modifiche apportate dalla legge n. 69 del 2009 al cod. proc. civ., ed in particolare all’art. 101, dedicato alla garanzia del contraddittorio[17].
Questa norma, difatti, dopo aver previsto che “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa”, dispone al co. 2 che “se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”[18].
Come si può notare, al di là della fisiologica differenza dei termini, la norma dell’art. 73, co. 3 del Codice del processo amministrativo presenta un contenuto simile a quanto previsto nel co. 2 dell’art. 101, cod. proc. civ.[19], con la differenza che però questa prevede testualmente, quale conseguenza della sua inosservanza da parte del giudice, la nullità di ogni sentenza della terza via[20]: non è così nel processo amministrativo, perché, la nullità è circoscritta ai soli casi in cui si registra, in concreto, una violazione del contraddittorio come garanzia costituzionale, ex artt. 24, co. 2 e 111, co. 1 Cost., delle parti[21].
La preoccupazione del legislatore di evitare che vi sia una pronunzia assunta su una questione non sottoposta all’interlocuzione delle parti è forte e gli interventi normativi adottati in questo senso paiano adeguati, ma sul punto, sin dall’inizio degli anni 2000, è intervenuta in maniera decisa anche la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Questa, difatti, già con la sentenza n. 1 del 2000, sulla spinta della riforma sul giusto processo dell’art. 111 Cost., ha affermato in modo risoluto che il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d'ufficio, sulla base dell’art. 183, co. 3, cod. proc. civ. deve indicarla alle parti[22], per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio[23].
È evidente che il ruolo della discussione in udienza pubblica non può perciò essere del tutto marginalizzato. Ciò che occorre comprendere è se e quando il giudice amministrativo debba disporre il rinvio dell’udienza.
3. Una comparazione processualistica: il rinvio dell’udienza nel processo civile e penale.
Si è anticipato che sino alle modifiche intervenute nel 2021 il rinvio dell’udienza non trovava espressa disciplina nel Codice del processo amministrativo.
Diversa è la situazione per quanto concerne il processo civile e il processo penale ove la disciplina è articolata.
Partiamo dal primo.
L’art. 115 delle disposizioni attuative Cod. proc. civ. dispone anzitutto che il collegio può rinviare la discussione della causa per non più di una volta soltanto per grave impedimento del tribunale o delle parti e non oltre la seconda udienza successiva a quella fissata dal giudice istruttore.
Qui occorre già tenere conto della prima differenza del processo amministrativo rispetto a quello civile: difatti, come è noto, nel primo non è presente la figura del giudice istruttore[24].
L’art. 115, tuttavia, non si limita a dettare questa prescrizione, rinviando invece ad un’altra norma delle disposizioni attuative, ed in particolare a quella dell’art. 82, dedicata al “rinvio delle udienze di prima comparizione e d’istruzione”.
Nello specifico, il quarto comma di questa disposizione prevede che “il giudice istruttore può, su istanza di parte o d'ufficio, fissare altra udienza d'istruzione, ferme le disposizioni dell'articolo precedente. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti non presenti alla pronuncia del provvedimento”, mentre il quinto prescrive che, “se le parti alle quali deve essere fatta la comunicazione prevista nel primo e nel terzo comma precedenti, o alcuna di esse, non compariscono nella nuova udienza, il giudice istruttore verifica la regolarità della comunicazione e ne ordina, quando occorre, la rinnovazione, rinviando la causa, secondo i casi, all'udienza di prima comparizione immediatamente successiva, ovvero ad altra udienza d'istruzione”.
Queste disposizioni attuative debbono essere lette unitamente all’art. 168-bis, cod. proc. civ., che, disciplinando la designazione del giudice istruttore, fissa il principio secondo cui, “se nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore designato non tiene udienza, la comparizione delle parti è d'ufficio rimandata all'udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice designato” (co. 4); e, inoltre, che “il giudice istruttore può differire, con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni. In tal caso il cancelliere comunica alle parti costituite la nuova data della prima udienza” (co. 5)[25].
Da ultimo, occorre ancora tenere conto, per il procedimento dinnanzi al tribunale in composizione monocratica, che l’art. 281-sexies cod. proc. civ. fissa il principio secondo cui “il giudice, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte, in un'udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”[26].
Dalle disposizioni del codice emerge un quadro definito della disciplina del rinvio dell’udienza nel processo civile.
In caso di grave impedimento di una delle parti il collegio può rinviare la discussione della causa.
Una lettura piana dell’art. 115 disp. att. cod. proc. civ. dovrebbe condurre a ritenere che il collegio ha il potere, ma non il dovere, di rinviare la discussione della causa al verificarsi di determinate condizioni.
Questa sembra essere la lettura dominante che emerge dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Difatti, è principio consolidato quello secondo cui l'istanza di rinvio dell'udienza di discussione della causa per grave impedimento del difensore deve fare riferimento all'impossibilità di sostituzione mediante delega conferita a un collega, venendo altrimenti a prospettarsi soltanto un problema attinente all'organizzazione professionale del difensore[27], non rilevante ai fini del differimento dell'udienza[28].
La carenza organizzativa del difensore incaricato non consente la concessione del differimento dell'udienza fissata, di modo che è del tutto legittima la sentenza pronunciata a seguito del diniego del provvedimento di rinvio[29].
Ciò anche laddove la parte sia rappresentata all'udienza di discussione da altro difensore, che sostituisca ildominus impedito a presenziarvi e che si limiti a richiedere il differimento per grave impedimento dipendente da concomitante impegno professionale del medesimo dominus, impegno di cui il difensore presente in sostituzione non provi l'esistenza e l'anteriorità rispetto alla controversia da discutere, così precludendo di ricondurre l'istanza di rinvio a legittima causa e non a mera strategia difensiva[30].
L’orientamento della Cassazione, che, come si vedrà, è ripreso anche dalla giurisprudenza amministrativa, appare troppo limitativo delle facoltà processuali delle parti.
Il grave impedimento che comporta la necessità di rinvio da parte del giudice deve concretizzarsi in un impedimento personale che non consenta al difensore neanche di delegare un sostituto processuale o di un delegato d’udienza.
La lettura non appare soddisfacente perché la presenza in udienza del difensore o di un suo sostituto non è equivalente e perciò interscambiabile.
Il sostituto, per quanto possa essere adeguatamente a conoscenza della controversia, non può sostituirsi completamente al difensore patrono della causa, che in udienza avrà la possibilità di illustrare gli aspetti più problematici della fattispecie al giudice.
Ciò vale nel processo civile come in quello amministrativo.
Per quanto articolati siano nelle discipline vigenti gli scritti difensivi antecedenti all’udienza, la presenza del difensore nella stessa è fondamentale, specialmente, come si è visto precedentemente, con riferimento alle questioni sollevate d’ufficio dal giudice, che possono essere valutate solamente dal difensore[31].
In modo altrettanto evidente, occorre sottolineare che la cattiva organizzazione del difensore non può divenire il grimaldello per configurare l’istanza di rinvio dell’udienza come abuso del diritto o, rectius nel caso di specie, del processo[32].
È chiaro che il giudice ha il potere di direzione del processo e dei suoi tempi di svolgimento, ma le garanzie difensive ed il diritto ad un equo processo non possono essere soppressi in nome soltanto di una astratta celerità del giudizio.
Una disciplina non dissimile è prevista nel codice di procedura penale.
L’art. 420-ter, co. 5, stabilisce che, in caso di assenza del difensore, dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato[33], il giudice, con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad altra udienza.
Questa disposizione non si applica però “se l'imputato è assistito da due difensori e l'impedimento riguarda uno dei medesimi ovvero quando il difensore impedito ha designato un sostituto o quando l'imputato chiede che si proceda in assenza del difensore impedito”.
Anche in questo caso l’orientamento della Cassazione è alquanto rigoroso con riferimento alla richiesta di rinvio del difensore per impedimento dovuto ad altro impegno professionale.
Difatti, si afferma che il difensore che chiede il rinvio del dibattimento per assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento per concomitante impegno professionale non può limitarsi a documentare la contemporanea esistenza di questo, ma deve fornire l'attestazione dell'assenza di un codifensore nell'altro procedimento e prospettare le specifiche ragioni per le quali non possa farsi sostituire nell'uno o nell'altro dei due processi contemporanei, nonché i motivi che impongono la sua presenza nell'altro processo, in relazione alla particolare natura dell'attività che deve svolgervi, al fine di dimostrare che l'impedimento non sia funzionale a manovre dilatorie.
L'impossibilità di farsi sostituire in entrambi i processi non deve solo essere affermata, ma deve essere illustrata e giustificata, non potendo ritenersi sufficienti a tal fine affermazioni del tutto apodittiche e prive anche di un minimo nucleo giustificativo[34].
Anche queste affermazioni vanno recepite con buon senso.
Certamente, data l’organizzazione del processo penale, il difensore potrà articolare la sua attività nominando sin da subito un sostituto ma laddove non lo faccia e vi sia un unico difensore possono sussistere ragioni di grave impedimento che forniscono un valido titolo all’istanza di rinvio motivate, per esempio, da gravi ragioni di salute (si pensi, d’altronde, alle situazioni createsi con la pandemia da Covid-19 relative a quarantene o isolamenti domiciliari) o attinenti alla propria sfera personale[35].
4. Il rinvio dell’udienza di discussione: potere o dovere del giudice amministrativo?
Occorre ora verificare come in questo quadro generale si collochi il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, date le sue peculiarità.
Si è già anticipato che, per quanto sia articolata la trattazione scritta, rimane fondamentale il ruolo dell’udienza di discussione.
Con la sentenza che si commenta, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia sostiene la tesi secondo cui, nell'ordinamento processuale, non esiste una norma o un principio ordinamentale che attribuisca alle parti in causa il diritto al rinvio della discussione del ricorso, fuori dai casi tassativi di diritto a rinvio per usufruire dei termini a difesa previsti dalla legge.
È il caso, ad esempio, della richiesta di rinvio d’udienza per poter proporre motivi aggiunti nel caso di impugnazione di un nuovo provvedimento sopravvenuto connesso a quello già oggetto di ricorso.
In questi casi, il giudice, salva l'ipotesi eccezionale di veri e propri abusi processuali, non può negare il rinvio né subordinarlo a un suo scrutinio preventivo dei motivi aggiunti, nei termini in cui sono preannunciati dalla parte che abbia dichiarato di volerli proporre, perché ciò si risolverebbe in un'inammissibile valutazione prognostica sull'idoneità della domanda (o del motivo) all'accoglimento prima ancora che questa sia stata compiutamente proposta, incidendo sulla stessa sua proposizione[36].
Vi sono però altri casi in cui sembra difficile negare che le parti possano avere titolo a chiedere il rinvio dell’udienza.
È vero che non esiste una norma del Codice che attribuisce alle parti un diritto al rinvio dell’udienza, anzi l’unica disposizione prevista al riguardo, introdotta peraltro solo nel 2021, è quella del co. 1-bis, art. 73 secondo cui “il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio”.
Occorre, tuttavia, interpretare correttamente questa norma alla luce dell’ordinamento processuale amministrativo.
Il processo amministrativo si regge sul principio della domanda[37], instaurandosi solamente perché il ricorrente vi ha interesse[38].
È difficile, pertanto, trovare un senso logico ad un’astratta impossibilità di rinvio di discussione della controversia qualora, per esempio, il ricorrente e l’Amministrazione stiano, nelle more del giudizio, cercando di individuare una soluzione conciliativa della controversia, potendo ciò astrattamente condurre il giudice a chiudere il processo con una pronunzia di cessazione della materia del contendere che soddisferebbe tutte le parti in causa.
Quindi, laddove le parti rappresentino concordemente l'esistenza di vicende esterne al processo, tali da poter determinare il superamento della situazione di fatto o di diritto sulla quale si è originariamente innestata la vicenda processuale, in modo da rendere la sentenza inattuale o potenzialmente interferente con lo svolgimento dell'attività amministrativa ancora in corso[39], dovrebbe ritenersi l’esistenza di un dovere del giudice di rinviare l’udienza ad una data utile alla parti per giungere ad un’eventuale soluzione deflattiva del contenzioso.
Il giudice amministrativo in merito a queste soluzioni è alquanto rigido sostenendo che le parti non hanno il potere di incidere sull’organizzazione e sui tempi del processo[40].
Secondo l’orientamento prevalente, non esiste in capo alle parti un diritto al rinvio della discussione, poiché il principio dispositivo deve essere calato nel sistema di giustizia amministrativa, dove l'esistenza di interessi pubblici, al cui assetto occorre dare certezza, impone, salvo situazioni oggettive tempestivamente allegate – non ricomprendenti neppure l’esigenza di acquisire mezzi istruttori necessari per la migliore difesa in giudizio[41] - che, una volta fissata (su istanza di chi promuove il giudizio), l'udienza di discussione del ricorso, essa si svolga nella data stabilita[42].
Alle parti sarebbe riconosciuta la sola facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare il differimento dell'udienza o la cancellazione della causa dal ruolo, rimettendone al Collegio la valutazione dell'opportunità[43].
Ne consegue, quindi, che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, le parti non hanno un diritto all’istanza di rinvio, ma è il giudice che ha il potere, e non un dovere, di disporre il rinvio al ricorrere di determinate circostanze. Il potere diviene un dovere solo a fronte di situazioni eccezionali, che incidano direttamente sul diritto di difesa delle parti.
Un caso di esercizio di questo potere può essere, ad esempio, quello della costituzione delle parti oltre il termine, che come è noto, è solo ordinatorio.
Difatti, ove la costituzione tardiva comporti una lesione del diritto di difesa della controparte, il giudice può disporre il rinvio dell'udienza a data fissa, nel termine che riterrà congruo rispetto alle eccezioni sollevate per la prima volta in udienza al fine di consentirne la valutazione a garanzia del contraddittorio sostanziale[44].
Il potere di cui è titolare il giudice amministrativo deve essere però correttamente inquadrato nelle tradizionali classificazioni giuridiche.
Non si tratta di un potere discrezionale, che significhi bilanciamento di vari interessi pubblici, ma è invece il potere di cui normalmente dispone, che è un potere interpretativo, il potere di interpretare, cioè, le disposizioni processuali, al fine di raggiungere l'obiettivo proprio del processo, che è quello di rendere giustizia in tempi ragionevoli[45].
Così, proprio perché si tratta di un ordinario potere interpretativo, il giudice amministrativo ha ritenuto recentemente che la pendenza della questione innanzi all'Adunanza Plenaria in merito alla corretta interpretazione dell'art. 48, co. 17, 18 e 19-ter, d. lgs 18 aprile 2016 n. 50, cod. contratti pubblici, in materia di raggruppamenti temporanei di imprese e procedure di liquidazione, non giustifica il rinvio dell'udienza di trattazione in attesa della decisione del giudice della nomofilachia sul contrasto giurisprudenziale, fermo restando che non vi sono motivati dubbi in ordine alla corretta interpretazione da dare alle disposizioni applicabili nella fattispecie[46].
Il potere interpretativo del giudice, come si è visto, diviene doveroso a fronte di determinate circostanze che possano ledere il diritto di difesa di una delle parti.
Rimane da comprendere se il motivato impedimento personale del difensore a partecipare alla discussione configuri in capo alla parte un vero e proprio diritto al rinvio.
Il primo principio da tenere in considerazione è che, ove venissero accolte generiche e non motivate istanze di differimento rispetto a quelle tassativamente previste a tutela del diritto di difesa, rischierebbe di essere pregiudicato il diverso principio, parimenti di rango costituzionale, della ragionevole durata del processo[47].
Non è questo il caso dell’istanza di rinvio motivata da un legittimo impedimento del difensore a partecipare all’udienza.
In questo caso, analogamente a quanto avviene dinnanzi alla richiesta di un termine di differimento per poter proporre motivi aggiunti a fronte di produzioni documentali, l’esercizio del potere da parte del giudice è doveroso[48]e, in maniera corrispondente, si può ritenere che in capo alla parte si configuri un diritto al differimento dell’udienza.
La conclusione pare essere pacifica ma occorre dare conto di un orientamento che, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, è fin troppo rigoroso.
Si afferma, infatti, che la richiesta di rinvio d'udienza presentata da uno dei difensori in ragione della sua impossibilità a partecipare all'udienza deve essere esaminata con riferimento, oltre che al principio del giusto processo, anche al principio della ragionevole durata e della leale collaborazione processuale, dovendosi considerare non solo le esigenze del difensore che chiede il rinvio, ma anche le esigenze organizzative generali del Tribunale e quelle delle altre parti.
In tal senso, non esisterebbe in capo alle parti un diritto potestativo al rinvio della discussione ogni qualvolta il difensore si trovi nell'impossibilità di presentarsi personalmente in udienza per assolvere al proprio mandato, dovendosi valorizzare il dovere di cooperazione che fa obbligo al difensore, il quale sia nelle obiettive condizioni di non poter comparire, di porre in essere ogni attività, materiale o giuridica, necessaria e sufficiente a rendere ugualmente possibile la celebrazione del processo, anche attraverso l'istituto della sostituzione processuale[49].
L’assunto, astrattamente considerato, deve essere contestato.
È vero che la richiesta di rinvio non può essere utilizzata per porre in essere solamente una pratica difensiva dilatoria, perché ciò si porrebbe in contrasto con le esigenze di ragionevole durata del processo e di conseguente deflazione del contenzioso.
Deve essere, però, il giudice a verificare che tutto questo non si verifichi.
La presenza del difensore patrono della causa alla discussione è, come si è detto, il più delle volte fondamentale ed è difficilmente colmabile con l’istituto della sostituzione processuale.
Primo perché il difensore che patrocina la causa è in grado di illustrare in sede di discussione aspetti della controversia che il collegio potrebbe voler chiarire.
Secondo, ma non quanto ad importanza, perché in sede di discussione potrebbero essere sollevate dal giudice questioni d’ufficio cui il sostituto processuale difficilmente è in grado di replicare, con la conseguenza che verrebbe lesa l’integrità del contraddittorio.
Così, salvo che l’istanza di rinvio paia, ictu oculi, concretizzare un abuso del processo, a fronte del legittimo impedimento personale del difensore si deve affermare la configurazione di un diritto della parte al rinvio della discussione, sempre subordinato alla sussistenza del consenso delle altre parti.
5. Osservazioni critiche: in alcuni casi sussiste il diritto delle parti al rinvio dell’udienza.
La pronunzia del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia che si commenta si inserisce nel filone tradizionale della giurisprudenza secondo cui, al di fuori dei casi eccezionali direttamente incidenti sul diritto di difesa delle parti, non esiste un diritto al rinvio dell’udienza in capo alle stesse.
In effetti, se si guarda al dato letterale delle norme del Codice del processo questo orientamento è confermato, anche dopo l’introduzione del co. 1-bis all’art. 73.
Occorre, però, fare attenzione e ricostruire correttamente il quadro ordinamentale.
In linea di principio, al giudice amministrativo, in virtù del suo potere di direzione del processo, spetta un potere, che si è detto essere interpretativo e non certamente discrezionale, di rinvio dell’udienza.
L’esercizio di questo potere diviene doveroso laddove ci siano delle situazioni che incidano direttamente sul diritto di difesa delle parti e sull’integrità del contraddittorio sostanziale: si pensi alla richiesta di proposizione di motivi aggiunti di ricorso a fronte della produzione documentale di controparte o al legittimo impedimento del difensore di una delle parti qualora il giudice voglia sollevare una questione d’ufficio.
In questi casi, non si può negare, come invece sembra fare la giurisprudenza, che in capo alle parti sussista un diritto al rinvio.
Sotto questo profilo, la questione non può essere liquidata semplicemente affermando, come fatto anche dalla pronunzia in commento, che “pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti”.
Quali sono questi interessi pubblici coinvolti?
Anzitutto, principi di rango costituzionale.
Quindi, certamente, la ragionevole durata del processo. Ma occorre anche considerare il principio del giusto processo e la necessità di garantire la pienezza del contraddittorio.
Ecco, in tutti i casi ove questa possa venire lesa, vi è un diritto delle parti al rinvio della discussione che, se caratterizzato dal consenso di tutti, determina un dovere del giudice di procedere al differimento dell’udienza.
[1] Sulla controversa natura giuridica della Autorità portuali v. F. Benvenuti, La disciplina degli enti portuali e il provveditorato al Porto di Venezia, in Riv. dir. nav., 1959, 3 ss.; L. Acquarone, Aspetti pubblicistici della disciplina delle imprese portuali, in Ann. Genova, 1965, 44 ss.; Id., Demanio marittimo e porti, in Dir. mar., 1983, 84 ss.; G. Sirianni, L’ordinamento portuale, Milano, Giuffrè, 1981; G. Pericu, Porto (navigazione marittima), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1985, vol. XXXIV, 18 ss.; G. Falzea, Riflessioni sulla natura giuridica e sulle funzioni dell'ente portuale, in Studi in onore di G. Vignocchi, Modena, Mucchi Editore, 1992, 579 ss.; E. Bani, Autonomia e ‹‹indipendenza›› dell'autorità portuale, in Aa. Vv., Autorità portuali e nuova gestione dei porti, Padova, Cedam, 1998, 106 ss.; Id., Porto e funzione portuale: premessa ad uno studio del bene porto, Milano, Giuffrè, 1998; S.M. Carbone, La cd. privatizzazione dei porti e delle attività portuali in Italia tra disciplina nazionale e diritto comunitario, in Dir. maritt., 2000; G. Vermiglio, Autorità portuale, in Encicl. dir., Agg., VI, Milano, Giuffrè, 2002, 192 ss.; A.M. Citrigno, Autorità portuale, Milano, Giuffrè, 2003; M.R. Spasiano, Spunti di riflessione in ordine alla natura giuridica e all’autonomia dell’autorità portuale, in Foro amm. TAR, 2007, 2965 ss.; M. Calabrò, Il controverso inquadramento giuridico delle autorità portuali, in Foro amm. TAR, 2011, 2923 ss.; M.R. Spasiano (a cura di), Il sistema portuale italiano tra funzione pubblica, liberalizzazione ed esigenza di sviluppo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013; M. Ragusa, Porto e poteri pubblici: una ipotesi sul valore attuale del demanio portuale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017; P. Rubechini, Critica della ragion portuale: una prima analisi del d.lgs. n. 169/2016, in Giorn. dir. amm., 2017, 19 ss.; A. Natalini, S. Scognamiglio(a cura di), Porti: storia, economia, amministrazione del sistema portuale italiano, Bologna, Il Mulino, 2020.
[2] Sul punto, per un’ampia disamina, cfr. F. Tundo, Il regime tributario delle Autorità portuali, in Riv. dir. trib., 2011, 681 ss.; G. Croce, La tassa portuale, in Dir. e prat. trib., 2005, 20897 ss.; G. Marongiu, Sulla natura e sulla debenza della “tassa portuale”, in Fisco, 2004, 43 - p. I, 7244 ss.; M. Basilavecchia, Le problematiche tributarie nella gestione del demanio marittimo, in Boll. trib., 2002, 1367 ss.;
[3] Per un’analisi del dettato costituzionale cfr., ex multis, A. Fedele, Art. 23, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1978, 103 ss.; E. Tosato, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, in Aa. Vv., Scritti in onore di Gaspare Ambrosini, Milano, Giuffrè, 1970, Vol. III, 2134 ss.; S. Fois, La riserva di legge. Lineamenti storici e problemi attuali, Milano, Giuffrè, 1963; v., inoltre, R. Balduzzi, F. Sorrentino, Riserva di legge, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1989, Vol. X, 1207 ss.; E. Corali, Cittadini, tariffe e tributi: principi e vincoli costituzionali in materia di prestazioni patrimoniali imposte, Milano, Giuffrè, 2009.
[4] V., da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 24 maggio 2021, n. 3990, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Così, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 17 dicembre 2021, n. 13120, in Guida dir., 2022, 2 ss.
[6] Sulle problematiche delle udienze da remoto per lo smaltimento dell’arretrato nel processo amministrativo v. le riflessioni di F. Volpe, Il processo amministrativo dopo l’estate del 2021, in Giustiziainsieme, 1° ottobre 2021.
[7] Sul punto cfr. M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, Giappichelli, 2017; V. Parisio (a cura di), I processi amministrativi in Europa tra celerità e garanzia, Milano, Giuffrè, 2009.
[8] Sull’applicazione di questo principio cfr. N. Bassi, Ragionevole durata del processo e irragionevoli lungaggini processuali, in Giorn. dir. amm., 2009, 1182 ss.; M. Poto, Processo e ragionevole durata: la bestiola tutta pace e tutta flemma, in Resp. civ. e prev., 2008, 1071 ss.; C. Saltelli, La ragionevole durata del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2007, 979 ss.; F. Auletta, La ragionevole durata del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2007, 959 ss.; in generale cfr. G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505 ss.; L.P. Comoglio, La durata ragionevole del processo e le forme alternative di tutela, in Riv. dir. proc., 2007, 590 ss.
[9] Cfr. M. Nigro, L'ammissione delle prove nel processo davanti al Consiglio di Stato: poteri collegiali e poteri presidenziali, in Foro amm., 1966, III, 209 ss.
[10] Per una ricostruzione di questa evoluzione del processo amministrativo v. M. Nigro, Processo amministrativo e motivi di ricorso, in Foro it., 1975, V, 18.
[11] Profili che si possono concretizzare in qualunque questione di diritto o di fatto nonché ogni elemento valutativo, fino ad allora ignorato, che, se considerato rilevante, esige di venir sottoposto a contraddittorio: sul punto cfr. G. De Giorgi, Poteri d'ufficio del giudice e caratteri della giurisdizione amministrativa, in Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Annuario 2012, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, 23 ss.
[12] Sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. III, 24 marzo 2020, n. 2065, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] V., ad esempio, C.E. Gallo, Lo svolgimento del giudizio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1986, 520 ss.
[14] Così M.P. Chiti, Influenza dei valori costituzionali e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1994, 117 ss.
[15] Su come il dovere di collaborazione del giudice con le parti, che si concretizza nell’obbligo di indicazione delle questioni rilevate d’ufficio, debba farsi discendere dai precetti costituzionali dell’art. 111, co. 1 Cost. ma altresì dall’art. 24 Cost., cfr. F. Ceglio, Le sentenze della “terza via” nel processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2007, 905 ss.
[16] In tema cfr. l’affermazione di Cons. Stato, Sez. II, 12 dicembre 2019, n. 8447, in Foro amm., 2019, 2003 ss.
[17] Su questa disposizione cfr. D. Buoncristiani, Il nuovo art. 101, comma 2º, c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice, in Riv. dir. proc., 2010, 403 ss.
[18] Secondo la giurisprudenza di Cassazione, come ad esempio Cass. civ., Sez. III, 5 maggio 2021, n. 11724, in Giust. civ. Mass., 2021, l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, stabilito dall'art. 101, co. 2, cod. proc. civ., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese.
[19] Secondo G. Crepaldi, Le pronunce della terza via, Torino, Giappichelli, 2018, 67, “in entrambi i giudizi, civile ed amministrativo, deve ammettersi che le rispettive discipline consentano l’introduzione di tutti gli strumenti utili ad una difesa in senso ampio, dal deposito di memorie contenenti le rispettive posizioni e le ragioni giuridiche rispetto alla questione rilevata d’ufficio, sino alla produzione di mezzi di prova, primi fra tutti i documenti, compresa la possibilità che le parti rimodulino la propria pretesa modificando le domande e le eccezioni già presentate”.
[20] In tema cfr. M. Gradi, Il principio del contraddittorio e la nullità della sentenza della “terza via”, in Riv. dir. proc., 2010, 827 ss.; A. Giordano, La sentenza della “terza via” e le “vie” d'uscita. Delle sanzioni e dei rimedi avverso una “terza soluzione” del giudice civile, in Giur. it., 2008, 913 ss.
[21] Sul punto cfr. L. Bertonazzi, Forma e sostanza nel processo amministrativo: il caso delle sentenze “a sorpresa” e dintorni, in Dir. proc. amm., 2016, 1048 ss., che riprendendo le parole di S. Chiarloni, Questioni rilevabili d'ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 569 ss., osserva come si è evitato di importare nel processo amministrativo “un caso tipico formalismo delle garanzie”.
[22] Quest’orientamento dell’Adunanza Plenaria non era condiviso da parte della dottrina perché si riteneva che l’art. 183, co. 3, cod. proc. civ. non potesse ricomprendersi tra le norme di diritto processuale comune applicabili (anche) al processo amministrativo né estensibile allo stesso in via analogica stante la sua stretta attinenza alle funzioni — collaborative rispetto alle parti in causa — proprie del giudice istruttore nell'ambito della prima udienza di trattazione: così, ad esempio, G. Iudica, Questioni rilevabili d'ufficio e contraddittorio nel processo amministrativo, in LexItalia, n. 1/2000.
[23] Cons. Stato, Ad. Plen., 24 gennaio 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 305, con nota di A. Travi, Riduzione del termine per l'appello nei giudizi in tema di opere pubbliche; in Dir. proc. amm., 2001, 12 ss., con nota di F. Ceglio, L’Adunanza Plenaria indica un nuovo modello di processo amministrativo: la decisione n. 1 del 2000.
[24] Per una ricostruzione generale della fase istruttoria nel giudizio amministrativo si rinvia a C.E. Gallo, La prova nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 1994; più di recente v. altresì P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva “temperata”, in Dir. proc. amm., 2016, 85 ss.; L. Giani, Giudice amministrativo e cognizione del fatto (il pensiero di Antonio Romano), in Dir. amm., 2014, 537 ss.
[25] Cass. civ., Sez. II, 26 agosto 2021, n. 23455, ha statuito che il rinvio d'ufficio dell'udienza, a norma dell'art. 168-bis c.p.c., co. 4, non determina la riapertura dei termini per il deposito della comparsa e per la proposizione dell'appello incidentale. La sentenza è reperibile in ilprocessocivile.it, 14 settembre 2021, con nota di F. Agnino, La Corte di Cassazione torna sugli effetti del differimento dell’udienza ex art. 168-bis c.p.c.
[26] Cass. civ., Sez. III, 10 giugno 2020, n. 11116, in Giust. civ. Mass., 2020, ha affermato che, in tema di decisione della causa ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., la facoltà delle parti di chiedere un differimento dell'udienza di discussione può essere esercitata esclusivamente dopo la pronuncia dell'ordine del giudice di discussione orale, poiché solo in tale momento e non prima si determina l'avvio del relativo subprocedimento e si attivano i corrispondenti poteri delle parti, i quali intanto hanno ragione di estrinsecarsi in quanto il magistrato si sia indotto a procedere con la definizione immediata.
[27] Cass. civ., Sez. VI, 28 gennaio 2021, n. 1793, in Giust. civ. Mass., 2021.
[28] In questo senso Cass. civ., Sez. Un., 26 marzo 2012, n. 4773, in Giust. civ. Mass., 2012, 3, 397 ss.
[29] Così, ad esempio, Cass. civ., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25783, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2016, n. 9245, in Giust. civ. Mass., 2016; con riferimento all’applicazione di questa disposizione anche al processo tributario e sull’irrilevanza, per il rinvio dell’udienza di discussione, della successiva assunzione di altro impegno professionale cfr. Cass. civ., Sez. VI, 15 luglio 2016, n. 14600, in Giust. civ. Mass.
[30] Così Cass. civ., Sez. I, 27 agosto 2013, n. 19583, in Giust. civ. Mass., 2013.
[31] Non si può che concordare con C.E. Gallo, L’impedimento del difensore ed il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, in Foro amm. CdS, 2011, 1031 ss., secondo cui “il sostituto processuale od il delegato d'udienza non sono di norma in grado di far fronte alla rappresentazione di una questione rilevabile d'ufficio e, a questo punto, l'unica soluzione ragionevole del problema non potrà che essere un rinvio dell'udienza di discussione”.
[32] E quindi, compiere un atto formalmente lecito, tendente però a perseguire finalità estranee al suo scopo: così F. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 874 ss.; sul punto cfr. altresì, tra gli studi più recenti, L. De Gaetano, Alcune riflessioni in materia di abuso del processo ed eccezione di legittimazione passiva sollevata in appello, in Dir. proc. amm., 2021, 432 ss.; P.M. Vipiana, L’abuso del processo amministrativo, in G. Visintini (a cura di) L’abuso del diritto, Napoli, Esi, 2016, 247, secondo cui la valenza certa dell’abuso del processo, quale argomentazione giuridica, è quella di costituire uno schema argomentativo “in cui collocare una serie di istituti che già trovano la loro disciplina in sede normativa. A tale livello l’abuso del processo assurge a mero minimo comun denominatore di tali istituti: una sorta di fil rouge fra essi oppure, in altri termini, una scatola in cui collocarli tutti. In tale ruolo l’abuso del processo è una figura inidonea a ledere: sicuramente non indispensabile, ma forse non inutile a creare, a fini sistematici e didattici, una base unitaria ad un numero di istituti eterogenei”; sul cattivo esercizio del diritto nel processo amministrativo si rinvia altresì a S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, Jovene, 2012, 156 ss.; M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 593 ss.; M.G. Pulvirenti, Riflessioni sull’abuso del processo, in Dir. e proc. amm., 2016, 1091 ss.; A. Panzarola, Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2016, 23 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2016, 1 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1262 ss.; Id., Abuso del processo nella forma del venire contra factum proprium in tema di giurisdizione. Note critiche, in Dir. proc. amm., 2015, 685 ss.; S. Baccarini, Abuso del processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1203 ss., secondo cui “non si tratta di comportamenti vietati o comunque illeciti perché in diretta violazione delle norme processuali, ma di uso improprio di uno strumento processuale, in sé lecito, che produce effetti pregiudizievoli sul procedimento”; G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss.; Id., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138; K. Peci, Difetto di giurisdizione e abuso del processo amministrativo, commento a Cons. St., Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855, in Giorn. dir. amm., 2015, 691 ss.; E. Boscolo, Le condizioni dell’azione e l’abuso del processo amministrativo, in Giur. it., 2014, 8 ss.; S. Chiarloni, Etica, formalismo processuale, abuso del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1281 ss.; quanto all'utilità dell'introduzione del concetto di abuso del processo nel giudizio amministrativo cfr. C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1022, secondo cui “si tratta di una norma di chiusura, volta a reprimere un uso distorto dello strumento processuale, che, di conseguenza, è utile per il fatto di esserci, anche se ci si augura che non debba mai essere utilizzata, risultando bastante il suo significato educativo”; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Encicl. dir., Giuffrè, Milano, 2008, Annali, II, tomo I, 6, secondo cui, ai fini della costruzione di una definizione di abuso del processo amministrativo, occorre tenere conto della particolare posizione delle parti nel giudizio amministrativo; tale circostanza, secondo l’Autore, reca due conseguenze di non poco momento: “la prima è che gli schemi classici dell’abuso processualcivilistico non trovano sempre pedissequa applicazione nel processo amministrativo: basti pensare al regime della condanna alle spese di lite in caso di soccombenza, assai di rado utilizzata dal giudice amministrativo, sia in sede cautelare che di merito, in virtù di un’atavica quanto ingiustificata esigenza di salvaguardia del pubblico erario. La seconda è che la sostanziale disparità delle parti nel processo amministrativo è essa stessa causa, talora, d’abuso, sia delle parti (dell’amministrazione, ma anche del ricorrente), sia del giudice”; si rinvia, inoltre, al contributo di G. De Stefano, Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss.
[33] Cass. pen., III, 26 maggio 2021, n. 35974, in Dir. e giust., 2021, 5 ottobre, ha specificato che la richiesta di rinvio dell'udienza per legittimo impedimento del difensore, anche qualora inviata in cancelleria mediante posta elettronica certificata, determina comunque l'onere del giudice di valutare l'impedimento dedotto.
[34] Così Cass. pen., Sez. V, 7 ottobre 2020, n. 30741, in Dir. e giust., 2020, 5 novembre.
[35] Cfr., al riguardo, l’orientamento già espresso da Cass. pen., Sez. I, 9 dicembre 2008, n. 47753, in Cass. pen., 2003, 12, 4785; Cass. pen., Sez. V, 1° luglio 2008, n. 29914, ivi, 2009, 10, 3916; Cass. pen., Sez. V, 20 settembre 2006, n. 35011, ivi, 2008, 3, 1074.
[36] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 9 luglio 2019, n. 4793, in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] In generale, sul principio della domanda, cfr. C. Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., VII, Torino, Utet, 1991, 44 ss.; G. Verde, Domanda (principio della), I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXI, Roma, 1989, 1 ss.
[38] In tema v. M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, in Dir. proc. amm., 2019, 1051 ss.
[39] Sul punto v. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 2215, in Foro amm., 2018, 287 ss.
[40] Da ultimo, ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 24 maggio 2021, n. 3990, in www.giustizia-amministrativa.it.
[41] Così si è espresso T.A.R. Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 18 aprile 2017, n. 139, in Foro amm., 2017, 929 ss.
[42] Così T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 14 maggio 2020, n. 672, in Foro amm., 2020, 1101 ss.
[43] Da ultimo, T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 23 aprile 2021, n. 377, in www.giustizia-amministrativa.it.
[44] Così Cons. Stato, Sez. III, 20 gennaio 2016, n. 196, in www.giustizia-amministrativa.it; da ultimo T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 15 gennaio 2019, n. 45, in Foro amm., 2019, 146 ss.
[45] Concorde è l’opinione di C.E. Gallo, L’impedimento del difensore ed il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, cit., 1031 ss.
[46] Così T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 17 dicembre 2021, n. 13120, in Guida dir., 2022, 2.
[47] T.A.R. Toscana, Sez. II, 12 marzo 2018, n. 369, in www.giustizia-amministrativa.it.
[48] V., ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 16 gennaio 2020, n. 505, in www.giustizia-amministrativa.it.
[49] In questo senso T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 18 maggio 2017, n. 382, in www.giustizia-amministrativa.it.
Una vita piena di letteratura e di processi: Pier Paolo Pasolini*
di Umberto Apice
Tra gli autori “ribelli”, che, consapevolmente o no, con la loro opera o con la loro vita, infrangono le leggi (quelle che la società a loro contemporanea cristallizza come regole convenzionali del vivere civile, ma talvolta le stesse leggi dell’ordinamento giuridico), un rilievo di primo piano spetta al più controverso scrittore-poeta del Novecento italiano: Pier Paolo Pasolini, la cui breve vita, come ha scritto Piergiorgio Bellocchio, fu “subito, nel bene e nel male, letteratura”. All’indomani della sua morte per mano – apparentemente – di un giovane che aveva le caratteristiche fisiche di uno dei suoi personaggi, un illustre giurista, Stefano Rodotà, scriverà che a carico di Pasolini non si sono celebrati tantissimi processi, ma “un processo solo, ininterrotto per almeno vent’anni, che si gonfia e si arricchisce, di dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità, mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana. […] Pasolini è la somma di tutti i vizi, incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo”[1].
Nel 1961 Pasolini ha 39 anni ed è un artista affermato[2]: ha già pubblicato i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), oltre che la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci (1957), e ha diretto il film Accattone (1961). È diventato un personaggio, un caso: il suo modo d’intendere l’ “impegno” è nuovo, rivoluzionario, investe le concezioni politiche, ma anche i rapporti personali; il suo modo di vivere non simulatamente l’omosessualità è provocatorio; il suo progetto letterario deriva dall’ idea gramsciana di un romanzo nazional-popolare ma nello stesso tempo, aspramente, se ne distacca. Nel cinema propone una rilettura “sacrale” del neorealismo, collegando marxismo e semiologia, spiritualismo e approccio sociologico. Erano gli anni in cui la sinistra diffidava di chi, pur professandosi di sinistra, osava lanciare critiche – come faceva Pasolini – al marxismo reale. In più, Pasolini era uno scrittore trasgressivo: come trasgressivi erano stati Oscar Wilde, Jean Genet, William Burroughs; come lo sono in genere tutti gli artisti che rendono inconsueto ciò che è familiare e che fanno diventare problematico ciò che la gente considera scontato. Era facile identificare in lui il simbolo della trasgressione, dell’alterità sessuale, dell’anticonformismo: e, negli ambienti della destra “nostalgica”, erano tantissimi quelli che provavano nei suoi confronti un tale sentimento paranoico di avversione da essere spinti a criminalizzarlo. Ne sono prova i numerosi processi e le numerose denunce-querele, di cui alcune su fatti estremamente improbabili, a suo carico: tra cause civili e penali (furto di manoscritti, rissa, atti osceni in luogo pubblico, diffamazione, calunnia, spettacolo osceno, stampa pornografica, ubriachezza, corruzione di minorenne) il numero dei processi - considerando i vari gradi - può calcolarsi intorno all’ottantina.
Perché questo mio discorso su Pasolini parte dal 1961? Perché il 30 novembre 1961 il quotidiano romano Il Tempo, foglio indipendente ma vicino alla destra, pubblica a piena pagina: “Denunciato per tentata rapina Pier Paolo Pasolini ai danni dell’addetto a un distributore di benzina”. L’articolo è accompagnato da un fotogramma tratto dal film Il gobbo di Carlo Lizzani: Pier Paolo Pasolini attore ha un mitra in mano. Prende così inizio un processo che mi sembra emblematico nella esistenza di Pasolini e nella radiografia di un’Italia ancora vischiosamente fascista. Lui conosceva bene quel rito misterioso che si chiama processo, perché cercava di essere sempre presente nelle udienze che lo riguardavano: voleva guardare da vicino quel meccanismo perverso che è il processo penale. Il destino volle, poi, che, poco prima della fine dei suoi giorni, un suo scritto che provocò molte discussioni (e, chissà, forse anche la sua tragica morte) fosse un articolo di giornale intitolato proprio Il Processo (in Il Corriere della Sera, 24 agosto 1975), dove si affacciava l’ipotesi che fosse necessario mettere sotto processo (metaforico ed etico, prima che politico o giudiziario) tutti i vertici del partito che aveva fino allora governato, con l’indicazione precisa dei nomi – come Zola nel suo J’accuse scritto per la liberazione di Alfred Dreyfus – da Andreotti a Fanfani, da Gava a Restivo: “ammanettati” in un’immagine metaforica, ma non per questo meno affermativa di “una verità storica inconfutabile”.
Per comprendere la biografia di Pasolini, bisogna partire da una premessa: che Pasolini apparteneva a una categoria speciale di intellettuale. Alla stessa categoria apparterrà uno scrittore che non è ancora nato al tempo della morte di Pasolini: Roberto Saviano. Esistono due tipi di intellettuali – dirà Saviano – quelli che raccontano la vita osservandola come da dietro a un paravento, e quelli che ci si devono schiantare addosso, perché solo quando sono al tappeto, agonizzanti, allora riescono a descriverla. Pasolini era del secondo tipo: dentro alla vita. “Scrivere sì, commentare sì, fare analisi sì, ma solo dall’alba al tramonto, perché – sparito il sole – iniziava il suo corpo a corpo con la vita ”[3].
Torniamo alla notizia di stampa apparsa su Il Tempo. Non era una bufala (anche se l’illustrazione col mitra, traslata dal film di Lizzani, era il più lampante esempio di giornalismo scorrettamente suggestivo): era, invece, con tutta evidenza una bufala la denuncia, che, presentata da un ragazzo della provincia laziale, racconta di un’inverosimile tentata rapina in un distributore di benzina e annesso bar – tabacchi della periferia di San Felice Circeo dove Pasolini e Sergio Citti erano alloggiati da qualche giorno per scrivere una sceneggiatura. Questo il racconto della denuncia: un uomo, poi subito identificato per Pasolini, sarebbe entrato nel bar, dopo una breve chiacchierata col ragazzino della mescita avrebbe calzato guanti, estratto una pistola, messo un colpo in canna, puntato la pistola alla tempia del ragazzino, cercato di aprire il cassetto degli incassi, e infine sarebbe stato messo in fuga dalla prontezza del ragazzo che aveva impugnato un coltello. Altri particolari fluviali usciranno fuori: Pasolini che chiude la porta dall’interno con la chiave prelevata dall’esterno, le pallottole che erano d’oro, il cappellaccio che era nero, Pasolini che desiste dopo la reazione della vittima e lancia la minacciosa frase “Noi due ci rivedremo”. E come si discolpa Pasolini? Sin dal primo verbale e per tutti gli anni del processo (saranno sei, con cinque pronunce di diversi consessi giudicanti) Pasolini non negherà di essersi fermato presso quel distributore e di avere scambiato qualche parola con il ragazzo (solo qualche parola, “visto che il suo silenzio era sempre più strano ed a mio avviso dovuto a una psicologia patologica o alla selvatichezza della vita che conduceva”), ma negherà recisamente la parte gangsteristica e quel finale da film sulla mafia (“Noi due ci rivedremo”). In quel periodo – risponderà Pasolini a qualche intervistatore – c’erano coinquilini che facevano sottoscrizioni per farlo sloggiare, direttori di giornali che davano ordini perché il suo nome venisse scritto solo in notizie di cronaca nera, bande di facinorosi che alle prime dei suoi film inscenavano virulente proteste, procedimenti penali che fioccavano contro film e romanzi ritenuti osceni. È ovvio che un processo come quello che vede parti civili due giovincelli innocenti (Bernardino De Santis, l’aggredito, e il fratello Benedetto, titolare dell’esercizio) e come imputato un famoso corruttore di minorenni avrebbe agito da cassa di risonanza per una già iniziata campagna di stampa demonizzante. Possono sembrare manovre ottuse e idiote; ma tutto tiene se lo scopo è additare un bersaglio da colpire e distruggere.
Nel periodo di tempo che precedette il dibattimento di primo grado, precisamente il 2 gennaio 1962, su Paese sera esce una poesia di Pasolini dal titolo Ipotesi sul Circeo: “Vuole ciò che vuole:/ il bandito che arriva/ dall’odiato sole/ per oscura attrattiva…./ Ah, qualsiasi ipotesi/ sia severa e buona; / timorati idioti,/ suona per voi vergogna./ Corruzione o miseria/ o nevrosi: qualsiasi/ sia la censura vera/ è per voi una spia;/….”. Quale sia il riferimento diretto ai fatti del processo è difficile dirlo; o, per lo meno, è difficile dire che la poesia possa offrire un apprezzabile contributo probatorio o confessorio. Eppure, l’alacre avvocato della parte civile chiede che copia della poesia venga acquisita agli atti. Richiesta rigettata: ma rimane l’interrogativo sul perché di una richiesta così assurda. Abbiamo modo di sapere, invece, che cosa pensasse Pasolini della disavventura che gli stava capitando. Orbene, Pasolini si rifiutava di credere all’ipotesi dei due De Santis “comprati”. Più che al complotto preferiva credere alla loro buona fede, o all’allucinazione, o alla nevrosi. L’idea di un complotto gli doveva sembrare paradossale e sproporzionata: essere inviso al fanatismo fascista, questa sì gli sembrava un’idea verosimile, ma non qualcosa di più.
La condanna ci sarà: quindici giorni di arresto (con la condizionale), che ovviamente sembrerà “mite” ai giornali che riportano la notizia. Forse verrà abbozzata in quei giorni la poesia (rimasta inedita fino alla sua morte) sul “terrore per il padre non simile ai padri”, che fa parte dell’autobiografia in versi.
Il successivo iter processuale registrerà altre decisioni di diverso tenore: amnistia applicata in appello, annullamento in cassazione, insufficienza di prove in un nuovo giudizio di appello. E intanto si moltiplicavano le traversie giudiziarie inflitte a Pasolini: guardate a posteriori, oggi, solo una mente sprovveduta può pensare che le varie iniziative provenissero sempre da isolati e fanatici pivelli. Poi, la morte. Per mano di una o più persone: massacrato di botte a margine di un convegno d’amore mercenario. Molti si dissero: “È morto in sintonia con la sua vita”, tirando un sospiro di sollievo, perché non poteva rinfacciare più niente a nessuno e non poteva più arrogarsi il diritto di fare processi (metaforici) a chi deteneva il potere legittimamente. Ad altri però venne un dubbio, che fosse proprio questo il vero movente del delitto: farlo tacere per sempre, impedirgli di fare processi alla classe dirigente. Delitto politico, quindi. Ma non in senso traslato, simbolico: un gruppetto di marchettari, mossi a livello cosciente da una loro logica eminentemente “privata” e a livello inconscio da una logica “politica” indotta dall’esecrazione che era stata ad arte creata intorno alla figura di Pasolini. No: per alcuni (e non sono pochi) si trattò di delitto politico in senso proprio: l’esecuzione del delitto, cioè, prese il via a seguito di precisa commissione da parte di mandanti che si erano determinati in base a un preciso movente “politico”. Ciò, quattordici anni dopo la strampalata accusa della tentata rapina al Circeo: al termine di una vera e propria persecuzione giudiziaria e quando gli atti di accusa – disperate e utopistiche requisitorie – contro la classe politica al potere erano divenuti incalzanti, ossessivi: “Io so i nomi dei responsabili delle stragi, io so nomi e cognomi”.
Negli anni che precedettero la sua morte Pasolini ripensò a quel pomeriggio e a quella sosta nel distributore di San Felice Circeo e, da poeta, raccontò come andarono le cose: “Là dentro c’era un ragazzo torvo,/ col grembiule credo di ricordare, i capelli/ fitti da donna/ la pelle pallida e tirata, una certa folle innocenza negli occhi,/ di santo ostinato, di figlio che si vuole uguale alla buona madre./ In pratica, lo vidi subito, un povero ossesso,/ cui l’ignoranza dava tradizionali sicurezze,/ trasformando la sua cadaverica nevrosi in rigore/ d’obbediente figlio/ identificato coi padri./ Come ti chiami, che fai, vai a ballare, hai la ragazza,/ guadagni abbastanza,/ furono gli argomenti con cui retrocessi dal primo impeto della vecchia libidine/ della controra come un pesce seccato./ Voi avete visto il mio Vangelo,/ avete visto i volti del mio Vangelo./ Non potevo sbagliare, e talvolta le decisioni dovevano avvenire/ in pochi minuti:/ non ho sbagliato mai/ perché la mia libidine e la mia timidezza/ mi hanno costretto a conoscere bene i miei simili./ Conobbi subito anche lui,/ il misero indemoniato del casale, assediato dal sole./ L’inverno veniva,/ era lì nel suo volto,/ con le sue tenebre e le sue case silenziose, la sua castità./ Mi ritirai./ Ma non in tempo perché egli non sentisse, come una donna,/ il terrore per il padre non simile ai padri/ che avevano costituito, per la sua obbedienza, il mondo”[4].
Cosa si può leggere in questa pagina autobiografica? Anzitutto, quello che ugualmente emerge da tutta la sua opera: che la vita, per Pasolini, non era altro che un vasto campo di sperimentazioni talvolta anche dolorose e drammatiche, il cui unico scopo e possibilità di significato era nel dare nutrimento all’espressione poetica.
Inoltre, col senno di poi, vi possiamo scorgere quell’intreccio inestricabile e misterioso che, nel vissuto di un artista, si viene a costituire tra un’incontenibile vitalità e un drammatico disagio esistenziale.
*Paragrafo estratto dal capitolo “Crimini, processi e letteratura” del libro di Umberto Apice - già autore di Processo a Pasolini. La rapina del Circeo, ed. Palomar, 2007 - “Una musa per Temi. Diritto e processi in letteratura”, casa editrice Lastaria, in uscita il prossimo 15 aprile e pubblicato in anteprima su GiustiziaInsieme.
[1] STEFANO RODOTÀ, Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, in LAURA BETTI (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte, Milano, 1977.
[2] Utilizzo, per questa parte riguardante la figura di Pasolini, molti materiali provenienti dal mio Processo a Pasolini. La rapina del Circeo, Bari, 2007, chiedendo scusa al lettore per molte implicite autocitazioni.
[3] ROBERTO SAVIANO, Gridalo, Firenze, 2020.
[4] P.P.PASOLINI, Il poeta delle ceneri. Autobiografia in versi: l’opera fu ritrovata da Enzo Siciliano in un cassetto, fra le carte dello studio di Pasolini in via Eufrate, dopo la sua morte; e fu pubblicata, per la prima volta, nel 1980 sulla rivista “Nuovi Argomenti”.
Il futuro dell’Europa dopo l’invasione dell’Ucraina
di Pier Virgilio Dastoli
L’avvenire dell’Europa e cioè il futuro delle relazioni fra gli Stati che fanno parte del Continente europeo e che sono – con qualche eccezione – membri del Consiglio d’Europa avrebbe dovuto essere discusso nella “Convenzione” convocata a Laeken nel dicembre 2001 con l’obiettivo di dotare l’Unione europea nata a Maastricht nel 1992 di una costituzione sulla via dell’unità politica e non solo economica e nella prospettiva imminente dell’adesione dei paesi dell’Europa centrale che si erano liberati dall’imperialismo sovietico e che avrebbero aderito progressivamente alla NATO iniziando nel 1999 con la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria.
Le conclusioni di Laeken furono adottate tre mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, che furono considerate la sfida di Al Qaeda non solo contro gli Stati Uniti ma contro tutta la comunità internazionale, ed il Consiglio di sicurezza condannò all’unanimità con il voto favorevole della Russia e della Cina quello che fu considerato il più grave attentato terroristico dell’età contemporanea.
La solidarietà della comunità internazionale cominciò lentamente a sgretolarsi prima con l’invasione avviata dagli Stati Uniti nell’Afghanistan, sostenuta dalla NATO e da una coalizione di quaranta paesi un mese dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ma soprattutto con l’invasione dell’Iraq ordinata da George Bush nella primavera del 2003 che divise in due blocchi contrapposti i paesi membri dell’Unione europea.
La “Convenzione sull’avvenire dell’Europa” iniziò a discutere pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle e si concluse pochi mesi dopo l’invasione dell’Iraq ma il tema del futuro del continente europeo non fu mai seriamente affrontato dai “convenzionali” e il capitolo della politica estera e della sicurezza europea, che avrebbe dovuto comprendere anche la dimensione della difesa accantonata dopo la caduta della CED nel 1954, subì le conseguenze delle divisioni fra le apparenti sovranità assolute degli Stati membri e dei paesi candidati all’adesione così come l’organizzazione della governance economica indispensabile per il completamento dell’UEM e della dimensione sociale per andare al di là del liberismo che era al centro della politica del mercato.
Il tentativo, avviato dalla Commissione presieduta da Romano Prodi con l’idea della “politica di prossimità”, di far discutere della questione dei “confini politici dell’Unione europea” verso l’Europa dell’Est - che non avrebbero fatto parte del primo blocco dei paesi già sulla porta dell’Unione e dei paesi sull’altra sponda del Mediterraneo - fu triturato dai governi in una confusa “politica di vicinato” iscritta prima nel trattato-costituzionale (art. I-57) su proposta di Valéry Giscard d’Estaing e poi nell’art. 8 del Trattato di Lisbona mettendo sullo stesso piano le relazioni con l’Armenia, l’Azerbaijan, la Bielorussia, la Georgia, la Moldavia e l’Ucraina da una parte e l’Algeria, l’Autorità Palestinese, l’Egitto, Israele, la Giordania, la Libia, il Marocco, la Siria e la Tunisia dall’altra escludendo sia la Turchia candidata all’adesione, che i paesi dei Balcani occidentali della ex-Iugoslavia ad eccezione della Slovenia che avrebbe aderito nel 2004, della Croazia che avrebbe aderito nel 2013 che la Russia di Putin con cui fu sottoscritto nel 2005 un “partenariato strategico” fondato su uno spazio economico, di libertà, sicurezza e giustizia, di sicurezza esterna, di ricerca e di educazione.
In effetti né i governi, né la Commissione né tantomeno il Parlamento europeo hanno deciso nei quattordici anni dalla firma del Trattato di Lisbona nel 2007 di affrontare seriamente la questione dell’organizzazione della sicurezza e della pace sul continente europeo nonostante la guerra russa in Cecenia (2000), l’invasione della Crimea (2014) insieme al sostegno di Vladimir Putin ai secessionisti del Donbass.
Le tre dimensioni della politica estera, della governance economica e del pilastro sociale – su cui la Convenzione raggiunse un faticoso e inadeguato compromesso – evaporarono ulteriormente quando i governi misero mano al trattato-costituzionale con il Trattato di Lisbona che entrò in vigore nel 2009.
La guerra scatenata dalla Russia il 24 febbraio 2022 ha drammaticamente riaperto il tema dell’organizzazione del continente europeo per garantire la pace, la sicurezza e la cooperazione insieme al rispetto dei diritti che furono al centro degli accordi di Helsinki del 1975 in una dimensione politica che rende urgente l’autonomia strategica dell’Unione europea ben al di là degli strumenti finanziari di emergenza adottati nel 2021 per far fronte alle conseguenze della pandemia ed in particolare il Next Generation EU con un provvisorio debito europeo che dovrà essere rimborsato dagli Stati a partire dal 2026 se l’Unione europea non sarà dotata di una capacità fiscale autonoma.
La cosiddetta “autonomia strategica” nel quadro della sovranità europea riguarda certo la dimensione della sicurezza esterna e della difesa su cui si dovrà pronunciare un Consiglio europeo straordinario a fine maggio ma anche gli attacchi cibernetici, le manipolazioni dell’informazione, la lotta al cambiamento climatico e last but not least l’indipendenza energetica e l’avvio di una vera politica industriale europea.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è piombata sulla Conferenza, che avrebbe dovuto affrontare “il futuro dell’Europa” e non solo quello dell’Unione europea, così come piombò sulla Convenzione del 2003 l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti dividendo i paesi membri dell’Unione ma l’attacco russo al cuore dell’Europa ha questa volta rafforzato la solidarietà fra i membri dell’Unione all’esterno a sostegno dell’Ucraina e all’interno della stessa Unione.
Non sappiamo oggi come si concluderà il conflitto militare ma appare chiaro che l’organizzazione ibrida dell’Unione europea fra la dimensione confederale del Consiglio europeo e la dimensione comunitaria della Commissione dovrà essere radicalmente cambiata così come la ripartizione delle competenze e il peso del bilancio europeo con nuove e più sostanziali priorità nei settori della difesa, dell’energia e delle infrastrutture europee.
Per quanto riguarda la difesa i passi in avanti annunciati dalla Germania prima ed ora dall’Italia per aumentare le spese nazionali rafforzando “il fianco Est della NATO” non bastano ed anzi rischiano di creare degli ostacoli sul cammino di una difesa comune (ma certamente non unica come la moneta) se non verranno finalizzate ad un reale coordinamento fra i paesi europei creando delle economie di scala, unificando i sistemi informatici e di intelligence, partecipando a progetti comuni che privilegino le industrie militari europee, adottando delle regole unificate per il controllo della vendita di armamenti a paesi terzi, ponendo le basi di efficaci missioni europee di peace enforcement, peace keeping e peace building nel quadro delle Nazioni Unite e dell’OSCE.
Per quanto riguarda la politica estera e della sicurezza, il dibattito europeo si sta illusoriamente concentrando sull’idea di ampliare le aree in cui il Consiglio europeo ed il Consiglio possano decidere a maggioranza qualificata eliminando il diritto di veto o ancor peggio di applicare la cosiddetta “clausola della passerella” che consentirebbe al Consiglio europeo – all’unanimità – di autorizzare il Consiglio a votare a maggioranza.
Così come nella lotta alla pandemia e nella gestione delle risorse finanziarie per far fronte alle sue conseguenze economiche a cominciare dal debito pubblico è stata riconosciuta la responsabilità (di governo) della Commissione europea, la stessa strada deve essere intrapresa per giungere ad un’unica politica estera e della sicurezza esercitata dalla Commissione europea e ad una difesa comune coordinata dalla stessa Commissione all’interno del Comitato politico e della sicurezza e di un comando interforze.
Se la prospettiva che emerge dal “cambiamento della storia” imposto dall’invasione dell’Ucraina è quello di gettare le basi di una “comunità federale” dobbiamo mettere in evidenza che non esistono nel mondo sistemi federali in cui la responsabilità delle relazioni esterne sia attribuita agli Stati federati e che l’idea di un sistema di governo ibrido o di un doppio esecutivo esercitato in parte dalla Commissione europea e in parte dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo sarà foriera di inefficacia, di confusione e di permanenti conflitti interistituzionali.
Il primo passo dovrà essere quello di attribuire all’Unione una competenza esclusiva nella cooperazione allo sviluppo e nelle politiche migratorie e di asilo incrementando l’impegno finanziario globale europeo e di unificare le cariche di presidente della Commissione e di presidente del Consiglio europeo.
Per un periodo limitato nel tempo ma con una scadenza vincolante, nel trattato che dovrà andare al di là di Lisbona, si potrà consentire che all’interno del Consiglio europeo uno Stato rivendichi provvisoriamente un suo “interesse vitale” nella definizione delle priorità politiche generali dell’Unione europea aprendo la via ad una integrazione differenziata in un determinato settore così come era stato proposto nel 1984 dal “progetto Spinelli”.
Per quanto riguarda la “resilienza” finanziaria dell’Unione europea, sono necessarie ed urgenti risorse nelle politiche dell’energia, industriale e della difesa insieme al rafforzamento della dimensione sociale sul modello del programma SURE per garantire i beni comuni della prosperità e della sicurezza attraverso vere risorse proprie.
La Conferenza sul futuro dell’Europa si concluderà fra poche settimane non avendo potuto aprire un dibattito sulle conseguenze europee del conflitto in Ucraina e lasciando in sospeso questioni di metodo e di sostanza legate alla democrazia partecipativa sollevate inutilmente nei documenti del 25 febbraio.
Il Gruppo Spinelli al Parlamento europeo ha recentemente aperto uno spiraglio significativo sulla prospettiva “costituente” e questo è coerente con la sua ispirazione originaria rivolta all’iniziativa dell’assemblea durante la prima legislatura che portò il 14 febbraio 1984 all’approvazione del “progetto Spinelli”.
I gruppi politici si stanno orientando verso l’adozione di una risoluzione agli inizi di maggio che chiede la convocazione di assise interparlamentari per rafforzare la democrazia rappresentativa e apra la strada ad alcune modifiche nei trattati nel quadro e nei limiti dell’art. 48 del Trattato sull’Unione europea che richiede una proposta dell’assemblea (e/o della Commissione e/o di uno o più governi), una convenzione interistituzionale, una conferenza intergovernativa e l’unanimità delle ratifiche nazionali che in molti casi richiedono un referendum confermativo o consultivo.
La strada dell’art. 48 è irta di ostacoli ed è fondata sul principio secondo cui i governi sono “i padroni dei trattati” come è stato affermato più volte dal Consiglio europeo e che l’obiettivo dei governi è quello di mantenere sostanzialmente inalterato l’equilibrio (o, per essere precisi, lo squilibrio) fra le istituzioni e fra l’Unione europea e gli Stati membri.
I gruppi politici e il Parlamento europeo dovrebbero aggiungere alla risoluzione sui seguiti della Conferenza sul futuro dell’Europa un appello ai partiti politici europei (a cui il Trattato attribuisce la missione di contribuire “alla formazione della coscienza politica europea) e alle organizzazioni della società civile affinché riconoscano all’assemblea che sarà eletta nel 2024 un ruolo sostanzialmente costituente per andare – dopo quindici anni – al di là del Trattato di Lisbona creando una unità politica in grado di esercitare una influenza determinante sull’organizzazione del continente e sul governo del mondo.
La giustizia italiana da Mani pulite ai giorni nostri, vista da Chiara Saraceno
Giustizia insieme inizia oggi una riflessione sul tema della giustizia italiana dando la parola a personalità del mondo della cultura italiana, giuridica e non, per scrutarne a fondo i mali e le pubbliche virtù.
La fonte di innesco di questa riflessione origina dal saggio proposto da Giovanni Fiandaca - “Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare” presentato al convegno organizzato dall'ANM milanese in occasione del trentennale di Mani pulite ed ospitato da questa Rivista.
Oggi è la volta di Chiara Saraceno, sociologa, Honorary Fellow, Collegio Carlo Alberto.
Intervista di Roberto Conti
1. Professoressa Saraceno, proverò a farle alcune domande partendo dal saggio proposto da Giovanni Fiandaca in occasione del trentennale di Mani pulite. Sul tema si susseguono riflessioni e convegni che tentano un bilancio di quella stagione. Cosa fu, per Lei, e come visse Mani pulite?
Fu innanzitutto un periodo di grande sconcerto per la pervasività della corruzione e per la disponibilità ad essere corrotti. Anche chi riteneva di non essere una ingenua anima candida, l’immagine del funzionamento della società italiana anche nei processi decisionali più minuti che usciva dalle indagini era devastante ed insieme confermava oltre il pensabile le analisi sociologiche e politologiche che individuano nel clientelismo uno dei tratti distintivi del sistema italiano, in particolare, ma non solo, per quanto riguarda il welfare. Ma, mentre queste analisi parlavano di clientelismo in termini politico-elettorali, che producevano politiche particolaristiche e frammentate, la realtà scoperchiata da mani pulite mostrava come a guidare i processi decisionali non ci fossero solo interessi elettorali, ma anche puramente venali, lungo tutto il processo decisionale e in ogni settore e senza distinzioni.
2. Da accademica, cittadina e sociologa, avvertì quella stagione come un momento di stravolgimento delle regole democratiche, magari giustificate da istante populiste o tutto al contrario colse in quell’azione giudiziaria un momento di possibile riscatto della società civile, stanca del malaffare?
Almeno all’inizio prevalse l’idea, la speranza, che fosse l’occasione di una trasformazione positiva della politica e della società italiane. Non parlerei, invece, di “riscatto della società civile”, termine per altro dai contorni e contenuti non chiari e che troppo spesso viene contrapposto in maniera manichea alla politica, come migliore e automaticamente buono. Anche pezzi e soggetti importanti della società civile erano coinvolti nei processi di corruzione, anche se qualcuno ha tentato di operare distinguo tra chi intascava i soldi per sé e chi lo faceva per la propria organizzazione o partito, come se il fatto di corrompere o farsi corrompere per una “buona causa” o comunque per altri costituisse, se non una virtù, una attenuante abbastanza forte da cancellare non solo il danno morale, ma il danno civile e democratico.
Da donna e femminista c’era forse anche un altro aspetto positivo di questo scoperchiamento delle malversazioni operate dai potenti grandi e piccoli: smascherava la supposta superiorità maschile in nome della quale si legittimava l’esclusione delle donne dai luoghi di presa delle decisioni. Se è vero che la rarità delle donne tra i corrotti e i corruttori non era e non è una prova della loro superiorità morale, stante che sono rare anche tra coloro che avrebbero il potere e l’opportunità di farlo, certo quella massa di uomini avidi, cinici, corrotti, con scarso o nullo interesse sia per il bene comune sia per il merito e la competenza avrebbe dovuto provocare una forte delegittimazione al monopolio maschile del potere e una riflessione critica sui meccanismi di selezione delle classi dirigenti. Non è andata così, purtroppo. E forse il prevalere degli atteggiamenti populisti nel sostegno dato a Mani pulite, inclusi i suoi eccessi, e poi l’emergere di movimenti politici populisti a seguito della crisi dei partiti che dal dopoguerra avevano dominato la scena politica italiana, è stato anche la conseguenza del non avere utilizzato quella occasione per un ripensamento radicale delle modalità di scelta delle classi dirigenti, in politica e in economia.
3. Fiandaca non ha mancato di stigmatizzare quello che a Lui pare essere un vero e proprio snaturamento del sistema giudiziario allorché esso diventa espressione di una lotta contro i fenomeni criminali, spesso favorita dalla mediatizzazione del lavoro di qualche magistrato, da ciò cogliendo il germe di quel populismo giudiziario capace di produrre distorsioni marcate nei rapporti fra il mondo giudiziario e quello politico.
Questa rappresentazione della giustizia in termini di lotta, che accomuna Tangentopoli e Mafiopoli, la inquieta, la rassicura, o trova che debba giustificarsi in relazione agli obiettivi democratici che la animarono?
Premetto che questa immagine della giustizia come “vendicatrice” delle ingiustizie si contrappone a quella di una giustizia che chiude gli occhi rispetto ai potenti (inclusi i criminali potenti) cui qualche volta è collusa. Sono due immagini semplicistiche e che si legittimano reciprocamente nella loro semplificazione un po’ manichea, ma che hanno sicuramento fondamento empirico. Per questo l’immagine “militante” del giudice che, anche tramite rivendicazioni pubbliche, si contrappone al malaffare dei potenti non solo tramite la precisa applicazione della legge e l’utilizzo di tutti e meccanismi inquisitori consentiti dalla stessa, ma anche uscendo dai binari e utilizzando i propri potere di ricatto e di squalifica, può provocare simpatia e adesione, almeno finché non si viene toccati direttamente.
Non so quanto davvero Tangentopoli e Mafiopoli siano state occasione di uscita dalle regole e di prevaricazione da parte della magistratura. Sospetto che, almeno in parte questo tipo di accuse (non mi riferisco a Fiandaca) sia oggi la conseguenza di una sconfitta delle speranze di cambiamento in meglio che esse a suo tempo avevano sollevato: la fine dei vecchi partiti ha aperto la strada ad altri non certo migliori, i fenomeni di corruzione e concussione non sembrano essersi ridotti. E la mafia è ormai diffusa su tutto il territorio nazionale, anche se in forme meno esplicitamente violente e meno visibili. Accanto alle critiche agli abusi, alle uscite dal seminato, ci sono quelle di “aver fatto tanto rumore per nulla”, delegittimando ogni seria e sistematica azione di intervento.
Ciò detto non credo che gli obiettivi democratici si possano salvaguardare davvero tramite un uso non solo fuori dalle regole, ma autoritario ed autorefernziale del potere giudiziario.
4. L’analisi di Fiandaca rispecchia l’attuale comune sentire della società rispetto al ruolo della magistratura, al punto da riguardare l‘intero apparato giudiziario o rimane, secondo lei, confinata nell’ambito della giustizia penale?
A me sembra che oggi il comune sentire nei confronti del ruolo della magistratura non sia influenzato tanto da Tangentopoli o Mafiopoli, ma dalla lunghezza estenuante dei processi da un lato, che non consentono di ottenere giustizia in tempi accettabili, dalla conoscenza delle faide e corruzioni che attraversano la magistratura dall’altro. Si aggiunga la disinvoltura con cui certi magistrati passano dalla professione alla politica e ritorno. Senza distinzione tra penale e civile. Se Tangentopoli aveva provocato una fiducia eccessiva nella magistratura e un’idea parzialmente sbagliata del suo ruolo, oggi anche la magistratura viene spesso percepita come una casta autoreferenziale e fuori controllo, che pretende privilegi e impunità per se stessa senza molto curarsi degli interessi dei cittadini (e del paese). Anche questa è una immagine semplicistica, in bianco e nero, naturalmente.
5. In occasione di un Suo intervento su questa Rivista - Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?- Lei si è soffermata sul ruolo della giurisdizione in tema di diritti fondamentali. La necessità di inventare il diritto, per dirla con Paolo Grossi, e di operare “in supplenza” come Lei stessa ha detto, in ragione di una legislazione carente o non adeguata al quadro costituzionale, si pone in contrapposizione o in continuità rispetto alla prospettiva che sembra prediligere Fiandaca?
Questo mi sembra un problema diverso da quello di cui abbiamo parlato prima. Qui si tratta vuoi di norme che non corrispondono più al sentire comune, vuoi di un vuoto normativo che lascia privo di riconoscimento giuridico e alla mercè dell’interpretazione di chi ha un qualche potere alcuni bisogni, relazioni fenomeni. Ciò è stato e in parte è ancora vero per il fine vita, affidato alla discrezionalità dei medici o di un comitato di bioetica. Per il cognome materno per cui la mancanza di una norma continua a generare asimmetrie tra padri e madri, per la possibilità delle coppie omogenitoriale di vedersi riconosciuta una genitorialità di coppia e di evitare che i loro figli siano giuridicamente privi di un genitore. Il ruolo della giurisdizione è importante, ma anche a doppio taglio, nella misura in cui può dare esiti difformi creando discrezionalità invece che diritti. Per altro, non è solo una questione di norme obsolete o mancanti. Come tutti noi, i magistrati hanno i propri valori e modelli culturali che influenzano il modo in cui valutano le questioni che vengono loro sottoposte e che richiederebbero da parte loro una sorveglianza critica e autocritica. Ciò tuttavia non sempre avviene. Lo testimoniano, ad esempio, diverse sentenze (e le loro motivazioni) su casi di violenza contro le donne, che rispecchiano modelli di genere e di rapporti di genere fortemente asimmetrici e dove è la vittima ad essere ritenuta colpevole della violenza subita. La giurisprudenza spesso ha avuto un ruolo innovativo nel campo dei rapporti familiari, tra i sessi e le generazioni, precorrendo i cambiamenti giuridici. Ma è stata è anche un campo di decisioni contraddittorie. Lo stesso vale anche in altri settori, ad esempio sull’immigrazione.
6. Fiandaca dice che “sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo… aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico”. Questa sembra essere un’occasione ghiotta per sentire la sua opinione sul “modello” di giudice che la società del nostro tempo reclama.
Non so quale sia il “modello di giudice che la società reclama”. Per quanto mi riguarda, penso che, proprio perché ha un ruolo così importante e delicato, accanto alla preparazione giuridica un magistrato dovrebbe avere anche una formazione di tipo sociologico e psicologico, non per farlo entrare in professioni che non sono la sua (come invece taluni giudici sembrano voler fare in cere motivazioni di sentenze), ma per metterlo in grado di meglio leggere i contesti in cui opera e i mutamenti e conflitti anche culturali da cui sono eventualmente attraversati. Quest tipo di formazione dovrebbe essere ricorrente, se non continuo, ovvero non limitarsi agli inizi della carriera, come mi sembra oggi avvenga (mi è capitato di partecipare a corsi dedicati a neo-vincitori di concorso in magistratura). Uno scambio e confronto tra saperi diversi sarebbe utile a tutti, non solo ai magistrati, ovviamente.
7. L’attuale contesto può portare ad un governo dei giudici, per dirla con le parole usate dal Prof. Sabino Cassese per intitolare la sua personale analisi sul mondo giudiziario italiano?
Non mi sembra. C’è il rischio che alcuni giudici utilizzino la propria funzione in modo “strategico” per influenzare le dinamiche politiche, ma non sono l’unico potere in campo. E la loro azione, più che a portare al governo dei giudici può facilitare varie forme di populismo più o meno ribellista. Per altro, è ciò che successe dopo la stagione di Mani Pulite. C’è il rischio che agiscano, anche non intenzionalmente, da apprendisti stregoni, D’altra parte, mi preoccuperebbe anche se, per evitare di interferire nelle dinamiche politiche, si astenessero dal portare avanti azioni giudiziarie dovute.
8. Trova demagogiche le periodiche commemorazioni dei magistrati caduti nell’adempimento del loro servizio organizzate dai magistrati e da organizzazioni della c.d. società civile, ovvero vi intravede una formidabile rappresentazione di come la giustizia è stata avvertita dalla collettività, proponendosi essa come “modello ideale ed etico anche per le generazioni chiamate a svolgere il servizio in magistratura?
Perché demagogiche? Mi sembra giusto ricordare chi è stato colpito solo per aver fatto il proprio dovere perché segnala a noi tutti che rispetto a certi settori e reati, tipicamente di mafia, la funzione del magistrato può essere di frontiera e rischiosa. Ma non può diventare una sorta di auto-assoluzione per tutto ciò che non va nella magistratura ed anche per l’incapacità dello stato a contrastare la mafia, non solo tramite il potere giudiziario. Poi, ovviamente, non sono solo i magistrati a cadere nell’adempimento del proprio dovere – ci sono poliziotti, carabinieri, cittadini comuni che si ribellano alla prepotenza criminale - che non sono ricordati con altrettanta solennità.
9. La durata dei processi costituisce la spina nel fianco della magistratura italiana. Crede che sia appagante e reale l’immagine dei magistrati lenti che guidano una corriera sgangherata, senza offrire elementi capaci di rappresentare le cause delle lentezze, scaricandone unicamente il peso su chi opera nel settore giudiziario?
Credo che quell’immagine rappresenti una parte del problema, che va sicuramente affrontata anche se non esaurisce le questioni in gioco. Non sono tuttavia sufficientemente competente in materia per dire la mia circa ciò che si dovrebbe fare.
Grazie infinte, Professoressa Saraceno.
La Corte Costituzionale ridisegna l’architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, sanando le fratture tra il volto iniquo della stessa e la società civile. (Nota a Corte Cost. Sent. n. 28/2022) Parte II
di Elena Quarta
Sommario (segue): 5. Ulteriori riflessioni sul monito della Corte Costituzionale - 5.1. Corte Costituzionale sentenza 20 dicembre 2019 n. 279 - 5.2. Le criticità come veicoli di riqualificazione: spunti propositivi - 6. Gli interventi della Magistratura come input propulsivo allo sviluppo dello Stato-ordinamento verso una direzione di equilibrio tra preservamento statale e recupero del rapporto con l'Uomo.
5. Ulteriori riflessioni sul monito della Corte Costituzionale
La Corte infine specifica che “resta ovviamente ferma la possibilità che nell’esercizio della menzionata delega di cui alla legge n. 134 del 2021 vengano individuate soluzioni diverse, e in ipotesi ancor più adeguate, a garantire la piena conformità della disciplina della sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria ai principi costituzionali così come poc’anzi declinati.
E resta ferma, più in generale, la stringente opportunità – più volte segnalata da questa Corte – che il legislatore intervenga, nell’attuazione della delega stessa ovvero mediante interventi normativi ad hoc, a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale (sentenza n. 279 del 2019)[44] ..”; La Corte ribadendo quanto già affermato nella sentenza del 2020 ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi[45].
Nonostante l'importante traguardo raggiunto per il tramite dell'art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134, questo monito, nello specifico, lascia emergere la necessità di individuare delle criticità, di individuare un linguaggio ed un contenuto normativo che non stridano sul piano sociale e che al tempo stesso diano le risposte che la società chiede.
Lo studioso E. Dolcini non ha mancato di evidenziare la struttura della pena pecuniaria comminata ex lege tra i molteplici elementi di diversità tra il d.d.l. Governativo (d.d.l. AS 2353, intitolato “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” )e le Proposte della Commissione Lattanzi All’art. 9 dell’articolato si prevedeva che nel codice penale, per le comminatorie della multa e dell’ammenda, venisse adottato “il sistema delle quote giornaliere, in numero non inferiore a 5 e, di norma, non superiore a 360”. Tale previsione poteva preludere ad una significativa valorizzazione della pena pecuniaria comminata ex lege, tale da avvicinare, tra l’altro, il rapporto tra condanne a pena detentiva e condanne a pena pecuniaria a quello riscontrato in altri Paesi europei prossimi al nostro. La previsione è però scomparsa nel d.d.l. AS 2353: anche una volta realizzata la riforma, il modello delle quote giornaliere è dunque destinato a rimanere per la sola pena pecuniaria sostitutiva. La pena pecuniaria comminata ex lege rimarrà fedele al tradizionale modello della somma complessiva, solo apparentemente “orientato alla capacità economica del condannato”: come in altri ordinamenti, in primis nell’ordinamento tedesco, disposizioni quali quella dell’art. 133 bis c.p. sono da sempre lettera morta, e producono l’unico effetto di tacitare la cattiva coscienza del legislatore[26]. Ciò, tra l’altro, rende altamente problematico dar vita ad una razionale disciplina della conversione, che presuppone la visibilità del ruolo esercitato dalle condizioni economiche del condannato nella commisurazione della pena pecuniaria, così da scongiurare qualsiasi incidenza delle condizioni economiche sull’ammontare della pena da conversione [46]” Un modello, quello della pena pecuniaria a tassi giornalieri, di cui la scrivente è forte sostenitrice [47] e che lo stesso studioso Dolcini aveva posto in evidenza fin dal lontano 1972 forse primo nella letteratura penalistica italiana [48].
L’esperienza più significativa, sotto il profilo dell’effettività, è quella statunitense: essa dimostra che l’introduzione del sistema di commisurazione per tassi giornalieri comporta tassi di riscossione della pena pecuniaria più elevati, una conseguente contrazione dei casi di conversione, un potenziamento del ruolo della pena pecuniaria. Negli Stati Uniti, la pena pecuniaria, cui viene assegnata sia funzione retributiva che general e special-preventiva nella forma dell’intimidazione, viene applicata per lo più a reati non felony, reati stradali (sia nelle upper courts che nelle lower courts) – essenzialmente guida in stato di intossicazione da alcool o da stupefacenti e guida imprudente –, reati contro l’ordine pubblico (es. breach of the peace offences), ‘drug offences’, ossia reati connessi alla vendita e al possesso di sostanze stupefacenti, alcune forme di furto e l’aggressione (assault), mentre non è comminata per i reati contro la persona (HILLSMAN et Alii 1984). Tale sanzione è stata, per così dire, osteggiata per lungo tempo dalla dottrina penalistica americana per via della sua non rispondenza all’ideale rieducativo, dominante in quell’ordinamento sino al 1975. A partire dagli anni novanta, tuttavia, tale situazione è mutata profondamente. Con la crisi dell’assistenzialismo penale e l’affermarsi, a partire dagli anni settanta, di un diverso orientamento politico-criminale centrato sulla finalità retributiva, deterrente e neutralizzatrice della pena, nonché del sentencing determinato (MANNOZZI 1996), una conseguente nuova centralità del carcere (GARLAND 2004) ha condotto ad un problema di sovraffollamento carcerario. In risposta a tale emergenza, il legislatore americano ha iniziato a volgere la propria attenzione verso quelle che vengono chiamate «intermediate sanctions», ossia sanzioni, secondo la felice espressione di Norval Morris e Michael Tonry (MORRIS-TONRY 1990), «between prison and probation». In questo contesto, accanto ad una preferenza per nuovi tipi di ‘sanzioni intermedie’, come il community service, l’intensive probation, l’electronic monitoring, l’house arrest, i days-reporting centers, si iscrive il rinnovato interesse anche per la pena pecuniaria, la più tradizionale fra le alternative sanzionatorie. Fiorisce infatti a partire dagli anni ‘90 una cospicua letteratura dedicata all’istituto della «fine» e in particolare si introduce in via sperimentale in alcuni tribunali locali, sull’esempio delle esperienze europee, il sistema, di origine scandinava, dei tassi giornalieri, noto nell’ordinamento statunitense come «day-fines». Soprattutto si segnalano rispetto a questa sanzione, in quegli anni, significativi esperimenti condotti sul modello dei day-fines. In particolare si è introdotto in alcune Corti statunitensi, innestandolo su un precedente sistema di commisurazione della pena pecuniaria a tariffa, un modello di commisurazione bifasica, cercando di verificare sperimentalmente se questo conduca a pene pecuniarie più significative e a un aumento del tasso di riscossione delle pene pecuniarie (HILLSMAN 1990). La risposta è stata positiva per entrambe le ipotesi. Il vaglio della verifica empirica, condotta negli Stati Uniti d’America, ha consentito di trarre una significativa lezione: l’irrinunciabilità del modello per tassi giornalieri al fine di ottenere l’effettività della sanzione pecuniaria (oltre che la necessità di una riforma in senso semplificatore della disciplina dell’esecuzione, magari istituendo un fine office deputato esclusivamente al recupero della pena pecuniaria). Estremamente efficace in quell’ordinamento, secondo le rilevazioni criminologiche, è l’uso della fine rispetto alle persone giuridiche [49]”.Come notato dalla dottrina d’oltralpe, il legislatore Rocco, non utilizzando le potenzialità politico-criminali della pena pecuniaria, «ha fatto invecchiare di mezzo secolo il codice penale in uno dei suoi punti decisivi» (BOSCH 1978, 468)[50].
Altresì appare interessante anche l'analisi del modello in Gran Bretagna. L’esperienza inglese ha visto dapprima l’introduzione del modello dei tassi (determinato secondo il reddito settimanale e non giornaliero) nel 1991 con il Criminal Justice Act e un subitaneo abbandono del medesimo per via di alcuni esiti applicativi oggetto di critiche (pene troppo elevate per fatti di modesta entità) (MOXON 1995). Ciò che colpisce dell’esperienza inglese è soprattutto l’alto tasso di riscossione della pena pecuniaria (CHAPMAN, MACKIE, RAINE 2002): ciò sembra dovuto ad un preciso impegno politico assunto in tal senso dal governo britannico. Ecco dunque la lezione: l’effettiva esecuzione della pena pecuniaria dipende anche, in larga misura, da un preciso impegno politico in tale direzione. In definitiva, proprio l’angolo visuale della comparazione ha consentito di trarre una indicazione preziosa per il legislatore italiano: a fronte della ineffettività della pena pecuniaria a somma complessiva si staglia l’elevata efficacia di un modello di pena pecuniaria, il modello per tassi giornalieri, che, accolto dapprima nei Paesi scandinavi, quindi in Austria e in Germania con le riforme degli anni settanta, e oggi in molti altri Paesi europei, mostra di essere la garanzia della esatta individualizzazione della pena pecuniaria – con conseguenti effetti perequativi della sanzione in denaro, sanzione per sua natura diseguale – e quindi della sua futura esecuzione [51].
In Italia notevoli sarebbero gli impatti positivi sul sistema giudiziario, sul condannato e sul sistema economico complessivamente intesoe[52] da un potenziamento del sistema di riscossione delle pene pecuniarie. Attraverso la riscossione o tramite risparmio di uscite che derivano proprio da un sistema così strutturato [53], si otterrebbero delle risorse che potrebbero essere reinvestite nello stesso sistema carcerario o nei tribunali specificamente in risorse che siano di ausilio per i Magistrati.
D’altronde, come sottolinea la stessa Corte Costituzionale, lo stesso legislatore ha da tempo preso atto degli effetti negativi del sistema carcero-centro. Ne è prova lo stesso istituto della sostituzione della pena detentiva che come si evidenzia nella sentenza n. 28 del 2022 “fu introdotto nel nostro ordinamento nel 1981 con l’obiettivo fondamentale di evitare, per quanto possibile, gli effetti negativi determinati dall’esecuzione delle pene detentive di breve durata [54], (peraltro contenute, nella versione originaria della legge, entro il limite massimo di sei mesi): pene troppo brevi, appunto, perché potesse essere impostato e attuato un programma rieducativo realmente efficace in favore del condannato; ma abbastanza lunghe per determinare gravi conseguenze a suo carico, per reati di bassa gravità, dal momento che l’ingresso in carcere provoca non soltanto una brusca lacerazione dei rapporti familiari, sociali e lavorativi sino a quel momento intrattenuti (con conseguente difficoltà di un loro ripristino una volta terminata l’esecuzione della pena), ma anche il contatto con persone condannate per reati assai più gravi e, in generale, con subculture criminali che possono condurlo a maturare scelte di vita stabilmente orientate verso la commissione di nuovi reati. Di talché, più che a contribuire, in positivo, alla risocializzazione del reo, le pene sostitutive risultano orientate a evitare, per quanto possibile, gli effetti desocializzanti della carcerazione di breve durata, assicurando al contempo – in conseguenza del loro contenuto comunque afflittivo – un risultato di intimidazione e ammonimento del reo, che dovrebbe distoglierlo dalla commissione di nuovi reati in futuro” [55].
5.1. Corte Costituzionale sentenza 20 dicembre 2019 n. 279
Con ordinanza del 7 novembre 2018, il Magistrato di sorveglianza di Avellino ha sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 238-bis comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», introdotto dall'art. 1, comma 473, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella parte in cui, ai fini della attivazione della procedura di conversione delle pene pecuniarie dinanzi al magistrato di sorveglianza, parifica all'ipotesi della comunicazione di esperimento infruttuoso della procedura esecutiva l'ipotesi di mancato esperimento della procedura esecutiva decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell'agente della riscossione. In risposta Corte cost., sentenza 20 dicembre 2019 n. 279, la quale (nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, ha giustamente richiamato l’art. 212 tu spese giustizia.Si riporta il passaggio . “L’art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che, passato in giudicato o divenuto comunque definitivo il provvedimento da cui sorge l’obbligo, la cancelleria del giudice dell’esecuzione notifica al condannato, nelle forme del rito civile – e dunque, ai sensi degli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile – un invito al pagamento con allegato il modello di pagamento, avvertendolo che, in caso di mancato adempimento nel termine di un mese dalla notifica dell’avviso, si procederà all’iscrizione a ruolo. Il condannato è, altresì, invitato a depositare la ricevuta di versamento entro dieci giorni dall’avvenuto pagamento”. Ed è proprio su questo richiamo normativo che si fonda il principio di diritto della sentenza che si sostanzia in quanto segue:: “Al riguardo, va tuttavia considerato che la notifica della cartella di pagamento da parte dell’agente della riscossione è necessariamente preceduta dalla notifica dell’avviso di pagamento, ad opera dell’ufficio del giudice dell’esecuzione; e che già tale avviso ha la funzione di intimare al condannato il pagamento della pena pecuniaria stabilita nella sentenza di condanna, ponendolo così a conoscenza anche delle possibili conseguenze del mancato pagamento”; (Corte Cost. sentenza 20 dicembre 2019 n. 279)[56]. Appare giustissimo il richiamo all’art. 212 tu spese giustizia, perché è una norma che, a seguito della sua abrogazione ad opera della l'art. 1, comma 372, L. 24 dicembre 2007, n. 244 come appena visto, è stata reintrodotta nel Tu spese giustizia dall'art. 68, comma 1, lett. c), L. 18 giugno 2009, n. 69 che ha abrogato la norma abrogatrice. Tuttavia si coglie un problema a livello applicativo, Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 13 settembre 2017, n. 21178 Presidente Amendola – Relatore Barreca rileva che : “l’art. 212 citato (che prevede l’invito al pagamento), si deve ritenere che la norma risulti attualmente incompatibile con quella dell’art. 227 ter dello stesso d.P.R., come modificata a far data dal 4 luglio 2009 ” [57]. A tal proposito nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21778/17 depositata il 13 settembre si pone in rilievo che « In materia di riscossione mediante ruolo delle spese processuali relative a sentenza penale di condanna, l'iscrizione a ruolo del credito effettuata dopo il 4 luglio 2009 - data di entrata in vigore della l. n. 69 del 2009, che ha modificato l'art. 227 ter del d.P.R. n. 115 del 2002 - non deve essere preceduta dalla notificazione dell'invito al pagamento, già previsto dall'art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002, dovendo ritenersi abrogata quest'ultima previsione a seguito della modifica del citato art. 227 ter.»” [58]. Il fenomeno dell’abrogazione può riguardare, distintamente, la validità formale di una disposizione o l’applicabilità di una norma. Si suole distinguere infatti tra abrogazione espressa e abrogazione tacita : la prima consiste nell’emanazione di una disposizione che abbia come contenuto l’espressa abrogazione di altre disposizioni; la seconda si ha quando il contenuto di una norma è incompatibile con altre norme derivate da disposizioni preesistenti. Pertanto, l’abrogazione espressa agisce su disposizioni, privandole di validità formale, mentre l’abrogazione tacita agisce su norme, rendendole inapplicabili. L’abrogazione tacita non incide invece sulla validità materiale della norma precedente Una norma, esplicita o implicita, può essere efficace e materialmente valida ma non applicabile, in tutto o in parte, in generale o solo in alcuni casi: fenomeno questo inspiegabile se la nozione di validità viene invece concepita includendo ciò che qui è stato chiamato applicabilità, o concetti analoghi come l’obbligatorietà. Al contrario, nulla impedisce che ciò che può essere valido o invalido sia soggetto anche a distinte considerazioni in termini di peso o importanza: e sono esattamente le considerazioni di quest’ultimo tipo che possono rendere inapplicabili norme valide. Il caso più evidente di dissociazione tra validità materiale e applicabilità di norme è quello di antinomia normativa, e in particolare di antinomia per la quale non sia previsto un meccanismo autoritativo di rimozione di una delle due norme (situazione questa che, come abbiamo visto, darebbe invece luogo ad invalidità materiale di una delle norme antinomiche). Si tratta dunque principalmente del caso di un’antinomia tra norme di pari grado quanto alla gerarchia materiale, ma differenziate o in senso cronologico (norma precedente vs. norma successiva) o quanto all’ampiezza del campo di applicazione (norma generale vs. norma speciale). In questo caso, la norma precedente non perde validità (non è previsto un meccanismo istituzionale di annullamento), ma diventa inapplicabile; e la norma generale non diventa invalida né in assoluto, né nelle ipotesi disciplinate dalla norma speciale [59]. Dunque in base alle riflessioni dei costituzionalisti, l’art. 212 tu spese Giustizia è una norma dotata di validità materiale. Per tale intendendosi una norma N1 che non presenta contraddizioni rispetto ad altre norme N2, N3..., in tutti i casi in cui tale contraddizione può determinare una pronuncia autoritativa di annullamento di N1 (non ogni conflitto tra norme determina la conseguenza che una delle due norme sia invalida in senso materiale) [60]. Infatti il secondo comma della versione originaria dell'art. 227-ter - introdotto nel T.U. Spese di Giustizia dall'art. 52 comma 1 del Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112- disponeva la notificazione dell'invito al pagamento. Più precisamente il secondo comma del suddetto articolo art. 227-ter rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) disponeva che l’agente della riscossione avrebbe dovuto notificare al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata [61]. A seguito della modifica posta in essere dall’art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69, l’art. 227-ter (Riscossione mediante ruolo) al primo comma dispone: 1. Entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l'espiazione in istituto, l'ufficio ovvero, a decorrere dalla data di stipula della convenzione prevista dall'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni [62], e per i crediti ivi indicati, la società Equitalia Giustizia Spa procede all'iscrizione a ruolo”.
Mutamento di disciplina operato sul testo del d.P.R. 115/2002 dalla legge n. 69 del 2009 dell’art. 227-TER Notificazione dell'invito al pagamento
Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112 Articolo 227-ter (L) (Riscossione a mezzo ruolo). 1. Entro un mese dal passaggio in giudicato o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, l'ufficio procede all'iscrizione a ruolo. | Art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 , l'art. 227-ter(Riscossione mediante ruolo) al primo comma prevede l'iscrizione da parte dell'ufficio ovvero da parte della società Equitalia Giustizia S.p.a. (attuale Agenzia delle Entrate Riscossione), entro un mese dal passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo, o entro un mese dalla cessata espiazione della pena nel caso delle spese di mantenimento in carcere. |
Infatti il secondo comma della versione originaria dell'art. 227-ter - introdotto nel T.U. Spese di Giustizia dall'art. 52 comma 1 del Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112- disponeva la notificazione dell'invito al pagamento. Più precisamente il secondo comma del suddetto articolo art. 227-ter1 rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) disponeva che l'agente della riscossione avrebbe dovuto notificare al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata. | Il secondo comma pesantemente interessato dalla modifica da parte della l. 18 giugno 2009 n. 69, prevede che “l'agente della riscossione procede alla riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46”, contemplativa dell'ipotesi di iscrizione a ruolo non derivante da inadempimento.
In sostanza la vecchia formulazione del secondo comma che prevedeva da parte dell'agente della riscossione una notifica al debitore di una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata”. |
In tal senso, il Magistrato di Sorveglienza G. Vignera sottolinea che “ in mancanza della notifica al debitore della cartella di pagamento e, quindi, della condizione della conversione costituita dalla "accertata impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa", il magistrato di sorveglianza deve disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero affinchè richieda alla cancelleria del giudice dell'esecuzione di riprendere la procedura di riscossione. (Cfr Cass. pen., Sez. I, sentenza 19 maggio 1997 n. 3460, P.M. in proc. Gelsomino, Rv. 207974: "Nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero - cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell'esecuzione - abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria medesima. Pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo a un'effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi, nella prima ipotesi al magistrato di sorveglianza - cui è demandato l'accertamento del passaggio dalla situazione di mera e contingente impossibilità di esazione a una condizione di insolvenza effettiva e concreta - perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, e, nella seconda ipotesi, restituendo gli atti alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, perché riprenda la procedura di riscossione") [63].
Altresì nel parere espresso parere sulla riforma Cartabia Illustrata al Cdc nella seduta del1' l 1-12 settembre 2021 dalla 5 Commissione dell’Associazione Nazionale Magistrati si afferma: “punctum dolens della normativa afferente all’esecuzione della pena pecuniaria è costituito dall’assenza di concrete conseguenze sanzionatorie nei confronti degli agenti della riscossione incaricati di eseguire, anche coattivamente la pena pecuniaria qualora non ottemperino agli obblighi previsti dalla legge. In particolare, nel caso l’esecuzione si riveli infruttuosa l’agente della riscossione deve immediatamente informare il pubblico ministero affinchè il procedimento per la conversione possa essere messo in moto. La formazione di dipendenti specificamente istruiti e responsabili, in numero adeguato, si rende quanto mai doverosa, pena la dispersione di preziose risorse e l’ineffettività della pena pecuniaria” [64].
A modesto avviso della scrivente forse una soluzione potrebbe porre una questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 227–ter del Testo unico in materia di spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002) per come modificato dall’art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nella parte in cui non prevede più “da parte dell'agente della riscossione una notifica al debitore di una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione”.
Il comma così come modificato prevede che “l'agente della riscossione procede alla riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46”, e si sostanzia nell’ipotesi di iscrizione a ruolo non derivante da inadempimento, non assicurando così l’effettiva conoscenza al debitore. L’attuale formulazione si pone in contrasto con la formulazione dell’art. 6 Legge 27 luglio 2000 n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), laddove si afferma che “l’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza degli atti a lui destinati”. In tal senso all’art. 1 della stessa legge si afferma: “le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario.”
Ed anche se nel caso di specie il condannato è a conoscenza della condanna alla pena pecuniaria , si verifica una sottovalutazione della stessa. Più precisamente come posto in evidenza nell’intervista rilasciata alla scrivente dall’Avv. Crippa rispetto alla condanna alla pena detentiva, “la pena pecuniaria richiama un livello di “ allerta ” nel condannato inferiore, lo potremmo verificare con un sondaggio tra i detenuti, chiedendo loro se hanno contezza nella loro condanna dell’ammontare della multa a loro comminata in sentenza. Molto probabilmente la maggior parte non saprebbe indicarne la misura. E quando si pensa al fine pena , sicuramente non è contemplato l’aver sanato il debito di giustizia tradotto in termini pecuniari. E altresì quando si discute dell’esecuzione penale, si discute in termini di giorni/mesi e anni di detenzione. Nel momento in cui si aprono le porte del Carcere chiaramente la percezione è quella di aver concluso l’esecuzione penale in senso stretto”. Inoltre al secondo comma dell’art. dell’art. 6 dello Statuto del Contribuente (D.L. 27 luglio 2000), si afferma che “l’amministrazione deve informare il contribuente di ogni fatto, o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione...”. E nel caso di specie si tratta del venir meno dell’informazione al debitore di un fatto o una circostanza da cui possa derivare l’irrogazione di una sanzione.
Chiaramente si potrebbero estendere le censure alla disposizione che ha espunto dal testo della disposizione censurata il riferimento alla notificazione dell'invito al pagamento, ossia all’art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile)[65], nella parte in cui non prevede più“ da parte dell'agente della riscossione una notifica al debitore di una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione”[66].
5.2. Le criticità come veicoli di riqualificazione: spunti propositivi
Nella Bozza del 19 ottobre 2017 della Legge di Bilancio 2018, nella relazione illustrativa dell'attuale art. 238- bis [67], tu spese giustiziasi legge che il quadro normativo attualmente vigente ha risentito: delle modifiche operate dalla legge n. 69/2009 alla disciplina di cui al d.P.R. n. 115/2002 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nonché della dichiarazione di incostituzionalità (per eccesso di delega) degli articoli 237 e 238 del medesimo testo unico e della abrogazione degli articoli 181 e 182 delle disp. att. c.p.p. ad opera dell’articolo 299 del d.P.R. 115/2002 (non oggetto di sindacato di costituzionalità). Si ritiene, infatti, che la previsione di cui all’articolo 227 del d.P.R. 115/2002 [68], che rinvia, per quanto riguarda la disciplina dell’attività dei concessionari per la riscossione, anche all’articolo 19 del decreto legislativo n. 112/1999, non sia applicabile nel caso di riscossione delle pene pecuniarie, tenuto conto che:
a) l’articolo 227 trova collocazione nel titolo II del d.P.R. 115/2002, rubricato disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario;
b) l’articolo 227-quater, che disciplina sulle norme applicabili di cui al titolo II- bis, contenente disposizioni generali per spese di mantenimento in carcere, spese processuali, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali nel processo civile e penale, non richiama espressamente, tra le disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario, anche l’articolo 227;
c) gli articoli 235-239, dedicati specificamente alle pene pecuniarie non richiama, parimenti, il suddetto articolo [69].
Per completezza espositiva è bene precisare in merito che l'art. 19 del decreto legislativo n, 112/1999, rubricato “Discarico per inesigibilità” trova collocazione nella sezione I del capo II di tale ultimo decreto, dedicata ai diritti del concessionario. Nel testo attuale, detto articolo, al comma 1, prevede quanto segue: "Ai fini del discarico delle quote iscritte a ruolo, il concessionario trasmette, anche in via telematica, all'ente creditore, una comunicazione di inesigibilità. Tale comunicazione viene redatta e trasmessa con le modalità stabilite con decreto del Ministero delle finanze, entro il terzo anno successivo alla consegna del ruolo, fatto salvo quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge. La comunicazione è trasmessa anche se, alla scadenza di tale termine, le quote sono interessate da procedure esecutive o cautelari avviate, da contenzioso pendente, da accordi di ristrutturazione o transazioni fiscali e previdenziali in corso, da insinuazioni in procedure concorsuali ancora aperte, ovvero da dilazioni in corso concesse ai sensi dell'articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni. In tale caso, la comunicazione assume valore informativo e deve essere integrata entro il 31 dicembre dell'anno di chiusura delle attività in corso ove la quota non sia integralmente riscossa."
La disposizione, quindi, prevede che l’agente della riscossione debba procedere alla comunicazione di inesigibilità entro il terzo anno successivo alla consegna del ruolo e che la stessa debba essere effettuata anche se le quote del credito siano interessate da procedure di riscossione già avviate ed ancora pendenti. In tale ultimo caso la comunicazione iniziale assume valore solamente informativo e deve essere integrata dalla comunicazione “finale” da effettuare entro il 31 dicembre dell’anno di chiusura dell’attività di riscossione. Invece, per le quote di crediti contenute in comunicazioni di inesigibilità che non sono soggette a successiva integrazione, perché non interessate da procedure di riscossione pendenti, il discarico dell’agente della riscossione è automatico al 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della comunicazione (articolo 19, comma 3, del d.lgs. n. 112 del 1999). L’esame delle norme appena richiamate evidenzia alcuni punti fondamentali:
a) la disposizione è dettata per regolare il discarico delle quote dei crediti fra ente impositore ed agente della riscossione, quindi per regolare il rapporto corrente fra gli stessi e l’eventuale responsabilità del secondo per i crediti non discaricati;
b) con la c.d. “comunicazione d’inesigibilità” l’agente della riscossione chiede all’ente impositore il discarico delle partite non riscosse, dimostrando di aver svolto l’attività di recupero nel rispetto della legge;
c) la necessità della comunicazione “finale” insorge solo se, al momento di quella “iniziale”, siano in corso procedure di riscossione di cui, quindi, deve essere fatta espressa menzione.
L’articolo 19, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1999 elenca in dettaglio le cause che determinano la perdita, da parte dell’agente della riscossione, del diritto al discarico. Fra queste, alla lettera b), vi era la previsione della «mancata comunicazione all’ente creditore, anche in via telematica, con cadenza annuale, dello stato delle procedure relative alle singole quote comprese nei ruoli consegnati in uno stesso mese …». Tale ultima disposizione è stata abrogata dall’articolo 1, comma 682, lett. b), della legge n. 190 del 2014. [70].
In tale contesto normativo, quindi, conseguente al mutamento di disciplina operato sul testo del d.P.R. 115/2002 dalla legge n. 69 del 2009, la previsione di cui all’articolo 227 ha assunto una valenza limitata all’ambito delle spese nel processo amministrativo, contabile e tributario, difformemente da prima del suddetto intervento, in cui l’attuale articolo 227 era collocato in un titolo che aveva ad oggetto disposizioni per le spese generali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali e che, successivamente, è stato modificato in disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario. L’attuale assenza di una disciplina normativa in esame, pertanto, produce conseguenze sul piano del principio dell’effettività dell’esecuzione delle condanne a pena pecuniaria [71].
L’originaria disciplina del Testo unico precedente alla dichiarazione d’incostituzionalità, con la previsione degli articoli 237 e 238, aveva voluto riservare un trattamento particolare alla riscossione delle pene pecuniarie, che teneva conto della specialità della normativa, che ha al centro il procedimento di conversione. Testimonia tale attenzione la relazione illustrativa del Testo unico, ove al punto 5 si afferma che il riordino aveva dovuto fare i conti con la riforma che aveva uniformato la disciplina della riscossione delle entrate dello Stato, ivi incluse le spese di giustizia e le pene pecuniarie, e che la complessità del riordino si spiegava con il tentativo di creare dei raccordi necessari a salvaguardare la specialità delle normative per consentirne il funzionamento. Nella relazione illustrativa al TU. 2002 si affermava, anche, che la disciplina delle comunicazioni contenuta nella legislazione della riscossione a mezzo ruolo potesse trovare altresì attuazione nell’attività di riscossione delle pene pecuniarie, essendo perfettamente compatibile con le previsioni dell’articolo 237 del testo unico. L’affermazione, avanzata a commento di tale ultima disposizione, teneva conto proprio della disciplina delle comunicazioni all’epoca vigente, che prevedeva che:
- il concessionario dovesse trasmettere la prima informazione entro il diciottesimo mese successivo alla consegna del ruolo e, successivamente, con cadenza annuale (art. 19 d.lgs. n. 112 del 1999);
- il concessionario fosse obbligato a trasmettere mensilmente all’ufficio che ha formato il ruolo le informazioni relative allo svolgimento del servizio ed all’andamento delle riscossioni (art. 36 d.lgs. n. 112 del 1999).
E sempre nell'articolo 227 è richiamata quest'ultima norma (art. 36), tuttora vigente, il cui comma 1 prevede che "Entro la fine di ogni mese il concessionario trasmette al soggetto creditore che ha formato il ruolo, anche in via telematica, e con le modalità stabilite con decreto ministeriale, le informazioni relative allo svolgimento del servizio e all'andamento delle riscossioni effettuati nel mese precedente." Ciò che è, invece, indispensabile evidenziare è che la cd. “comunicazione d’inesigibilità” attiene all’esercizio dei diritti ed al discarico delle responsabilità nel rapporto fra agente della riscossione ed ente impositore, ma non risulta da alcuna norma di legge che la stessa sia un presupposto indispensabile per l’attivazione del procedimento di conversione della pena pecuniaria.
L’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità degli articoli 237, 238 e 299 del Testo unico e la reviviscenza dell’articolo 660 c.p.p. pongono, allo stato, un problema di coordinamento di tale ultima disposizione di legge con la normativa sulla riscossione a mezzo ruolo. Infatti, l’articolo 660 c.p.p. non disciplina le modalità secondo cui si attiva il procedimento di conversione della pena pecuniaria, facendo riferimento – unicamente – all’accertamento della impossibilità di esazione della pena stessa ed alla successiva trasmissione degli atti dal P.M. al magistrato di sorveglianza. Il difetto di coordinamento è confermato dall’attuale mancato richiamo dell’articolo 19 del d.lgs. n. 112 del 1999 nelle disposizioni specificamente dettate per la riscossione delle pene pecuniarie: omesso richiamo cui non può essere attribuito altro significato se non quello che la comunicazione d’inesigibilità non costituisce una condizione indispensabile per l’attivazione del procedimento di conversione della pena. Tale comunicazione, prevista dalla legislazione sulla riscossione a mezzo ruolo, trova applicazione per regolare i rapporti fra ente impositore ed Agente della riscossione, ma non interferisce sul potere dell’Autorità giudiziaria di attivare il procedimento di conversione della pena. Infine, ulteriore conferma di quanto sopra detto si trae dalle proroghe intervenute in materia di comunicazione d’inesigibilità [72].
In riferimento a questo aspetto, nella relazione presentata dal cons. Massimo Romano, che illustra gli esiti dell'indagine condotta in merito a “Il recupero delle spese di giustizia e i rapporti convenzionali tra il Ministero della giustizia ed Equitalia Giustizia” richiamata nella importantissima deliberazione n. 3 del 2017 [73] della Corte dei Conti si pone in rilievo che: " Particolarmente gravi appaiono le conseguenze che derivano dalle reiterate proroghe legislative dei termini per effettuare le comunicazioni di inesigibilità, considerato che esse determinano la caducazione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (art. 660 c.p.p.) una volta decorso il termine di prescrizione decennale, trattandosi di termine ritenuto non suscettibile di interruzione" [74].
L’articolo 227, il cui contenuto non ha subito modifiche dalla data dell’emanazione del d.P.R. n. 115 del 2002, è inserito nel titolo II che, originariamente, recava la seguente rubrica: “Disposizioni per spese generali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali”, mentre l’attuale rubrica [“Disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario”] è stata così sostituita dall’articolo 67, comma 3, lett. g), della legge n. 69 del 2009. Tale articolo – al comma 3, lett. i) – ha, invece, sostituito il capo VI bis del titolo II [rubricato “Riscossione mediante ruolo”], inserito dal d.l. n. 112 del 2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133 del 2008 [il capo VI bis, come originariamente inserito, conteneva solo gli articoli 227-bis e 227-ter), con il titolo II bis rubricato “Disposizioni generali per spese di mantenimento in carcere, spese processuali, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali nel processo civile e penale”. Lo stesso articolo come già diffusamente analizzato, ha inoltre, modificato l' articolo 227-ter [75].
Occorre porsi una domanda: Le presenti criticità potrebbero trasformarsi in veicoli di riqualificazione? La risposta è sì, le criticità possono trasformarsi in spunti propositivi che potenzialmente potrebbero migliorare il sistema di riscossione delle pene pecuniarie.
Nonostante l'importante traguardo a cui si è giunti attraverso la l. 134/2021, in cui al fine di restituire effettività alla pena pecuniaria – oggi eseguita, riscossa e convertita in percentuali medie bassissime – il Governo è delegato a: razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione; rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato; prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione della pena pecuniaria e la sua conversione i caso di mancato pagamento. Restituire effettività alla pena pecuniaria è funzionale non solo a valorizzare la più tradizionale alternativa alla pena detentiva, ma anche: a) il procedimento per decreto (si è detto, infatti, che il legislatore ha previsto di subordinare l’effetto estintivo correlato al decreto penale all’effettivo pagamento della pena pecuniaria); b) la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva fino a un anno (applicabile anche con il decreto penale di condanna).[76]. Altro aspetto che incarna l'inizio di una nuova epoca è sicuramente il già precedentemente menzionato criterio ,- richiamato dalla Corte Costituzionale-, stabilito dall’art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134 [77].
La legge-delega “Cartabia” apre ad un’ampia riforma delle sinora neglette sanzioni sostitutive, delegando il Governo a ridefinirle e a potenziarle secondo un chiaro obiettivo di erosione del primato della pena carceraria e di implementazione della finalità risocializzativa. Come evidenziato da autorevole dottrina (F. Palazzo), la L. n. 134/2021 (c.d. riforma Cartabia) rappresenta una “svolta modernizzatrice nel nostro sistema penale, che non sarà rivoluzionaria né forse risolutiva ma che certo ha l’indubbio merito di aver invertito una tendenza involutiva e di aver posto le basi per ulteriori passi in avanti” [78].
Tuttavia, partendo dalla constatazione che la Corte Costituzionale in più occasioni attraverso il monito ha segnalato l'esigenza di riforma, decodificando i bisogni del condannato, ma al tempo stesso anche del sistema giudiziario, la scrivente ha provato a delineare delle modifiche che potenzialmente potrebbero avere un impatto positivo.
Ad avviso della scrivente uno degli aspetti apparentemente banali su cui si potrebbe incidere è l'innalzamento del numero di rate [79], attualmente previste nel numero massimo di 30 dall'art. 133 ter c.p.[80], pensando ad un recupero di lungo periodo che porterebbe a recuperare notevoli e preziose risorse da reinvestire.
Altro aspetto potrebbe essere un ripristino del secondo comma della versione originaria dell'art. 227-ter - introdotto nel T.U. Spese di Giustizia dall'art. 52 comma 1 del Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112 - disponeva la notificazione dell'invito al pagamento. Più precisamente il secondo comma del suddetto articolo art. 227-ter1 rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) disponeva che l'agente della riscossione avrebbe dovuto notificare al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata.
Altro aspetto potrebbe essere un richiamo espresso da parte dell’art. 660 cpp nelle disposizioni specificamente dettate per la riscossione delle pene pecuniarie dell' art. 19 “Discarico per inesigibilità” Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112:
Art. 660 Cpp. Esecuzione delle pene pecuniarie.
1. Le condanne a pena pecuniaria sono eseguite nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti.
2. Quando è accertata la impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione, il quale provvede previo accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato e, se ne è il caso, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. La procedura di discarico per inesigibilità delle quote iscritte a ruolo è regolamentata dall'art. 19 del Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112. Se la pena è stata rateizzata, è convertita la parte non ancora pagata.
3. In presenza di situazioni di insolvenza, il magistrato di sorveglianza può disporre la rateizzazione della pena a norma dell'articolo 133-ter del codice penale, se essa non è stata disposta con la sentenza di condanna ovvero può differire la conversione per un tempo non superiore a sei mesi. Alla scadenza del termine fissato, se lo stato di insolvenza perdura, è disposto un nuovo differimento, altrimenti è ordinata la conversione. Ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l'esecuzione è stata differita.
4. Con l'ordinanza che dispone la conversione, il magistrato di sorveglianza determina le modalità delle sanzioni conseguenti in osservanza delle norme vigenti.
5. Il ricorso contro l'ordinanza di conversione ne sospende l'esecuzione.
Altresì si potrebbe pensare ad un ripristino della collocazione dell’articolo 227 che richiama l’efficiente disciplina delle comunicazioni contenuta nel Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112 (contenuta in particolare negli articoli 19 e 36) nel "TITOLO II-bis DISPOSIZIONI GENERALI PER SPESE DI MANTENIMENTO IN CARCERE, SPESE PROCESSUALI, PENE PECUNIARIE, SANZIONI AMMINISTRATIVE PECU NIARIE E SANZIONI PECUNIARI PROCESSUALI NEL PROCESSO CIVILE E PENALE. Si ricorda che lo stesso era collocato nella versione antecedente alla l. 69/2009 nel titolo avente ad oggetto disposizioni per le spese generali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali (Titolo II Disposizioni generali per spese processuali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali Artt. 211- 227) e che, successivamente, è stato modificato in disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario (Titolo II ((Disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario)).
Sicuramente potrebbe essere di utilità un richiamo espresso dell’art. 227 ad opera:
a) dell’articolo 227-quater, che disciplina sulle norme applicabili di cui al titolo II- bis, contenente disposizioni generali per spese di mantenimento in carcere, spese processuali, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali nel processo civile e penale, non richiama
b) degli articoli 235-239, dedicati specificamente alle pene pecuniarie non richiama, parimenti, l’articolo 227.
Altra modifica suggerita, prendendo in considerazione l'importanza di restituire certezza alla disciplina, è quella delineata dalla Direttiva della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria, a firma del Procuratore Generale dott. Bernardo Petralia, recante linee guida in tema di prescrizione delle pene pecuniarie[81]. Nel documento si prende posizione sul contrasto interpretativo relativo alla corretta individuazione del dies a quo da prendere a riferimento per il calcolo del suddetto termine prescrizionale rilevando che sarebbe stato più soddisfacente se il legislatore avesse disciplinato per la pena pecuniaria modalità più espresse di decorrenza del termine di prescrizione o integrato il testo dell’art. 212 TUSG con la precisazione che l’avvenuta infruttuosa notifica dell’avviso di pagamento funge da condizione efficace ai sensi del comma 5 dell’art. 172 c.p..[82].
ART. 212 (R)
(Invito al pagamento)
1. Passato in giudicato o divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo ((. . . )), l'ufficio notifica al debitore l'invito al pagamento dell'importo dovuto, con espressa avvertenza
che si procederà ad iscrizione a ruolo, in caso di mancato pagamento entro i termini stabiliti.
2. Entro un mese dal passaggio in giudicato, o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, ((. . .)), l'ufficio chiede la notifica, ai sensi dell'articolo 137 e seguenti del codice di
procedura civile, dell'invito al pagamento cui è allegato il modello di pagamento.
3. Nell'invito è fissato il termine di un mese per il pagamento ed è richiesto al debitore di depositare la ricevuta di versamento entro dieci giorni dall'avvenuto pagamento.
4. L'avvenuta infruttuosa notifica dell'avviso di pagamento funge da condizione efficace ai sensi del comma 5 dell'art. 172 c.p.
6. Gli interventi della Magistratura come imput propulsivo allo sviluppo dello Stato-ordinamento verso una direzione di equilibrio tra preservamento statale e recupero del rapporto con l'Uomo
La Direttiva e l'intervento della Corte Cosituzionale qui in commento sono solo due esempi delle modalità attraverso cui la Magistratura cerca di colmare i vuoti normativi, sanare le fratture e dare spessore alle assenze. Ed in tal senso pur incarnando lo spirito del proprio tempo si può ascrivere alla contemporaneità il Libro III del De Legibus in cui Cicerone attribuisce uno specifico valore all'imperium dei magistrati. Particolarmente significativo il passaggio in cui si afferma che “Magistratibus igitur opus est, sine quorum prudentia ac diligentia esse civitas non potest, quorumque descriptione omnis rei publicae moderatio continetur.” (leg. III,4) [83], In altri termini sia la Direttiva che l'intervento della Corte Costituzionale sono due immagini esemplificative di come la Magistratura si adopera affinchè l'ordinamento giuridico, ossia il nostro luogo di identità per eccellenza, ritorni ad essere per l'individuo un luogo “più vivibile ed abitabile”, in sostanza un luogo a misura d'uomo. La scrivente in conclusione ritene che l'impegno già profuso dalla Magistratura possa essere un imput propulsivo allo sviluppo dello Stato-ordinamento e che, come in una ideale corsa a staffetta, ora spetti al legislatore delegato raccogliere il testimone.
[44] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[45] Comunicato del 1 febbraio 2022 dell'Ufficio stampa della Corte Costituzionale, Troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria, consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20220201123330.pdf
[46] DOLCINI, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia Sistema penale, 2 settembre 2021, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/dolcini-sanzioni-sostitutive-la-svolta-impressa-dalla-riforma-cartabia
[47] Si conceda il rinvio a E. Quarta, R. Trezza Il Tagessatzsystem tedesco: tassello della proposta di riforma della commissione Lattanzi che avrebbe potuto “migliorare l'esistente senza sovvertirlo” in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume II, Universitalia 2022 pag. 126 e seguenti
[48] E. DOLCINI, Verso una pena pecuniaria finalmente viva e vitale? Le proposte della Commissione Lattanzi Sistema penale, 4 giugno 2021 settembre 2021, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/dolcini-pena-pecuniaria-viva-e-vitale-commissione-lattanzi
[49] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[50] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[51] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[52] Si conceda il rinvio a E. QUARTA ,Analisi economica del diritto: focus vantaggi miglioramento del sistema di riscossione, in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume III, Universitalia 2022 pag. 11 e ss
[53] Una fra tutte il risarcimento del danno da inumana detenzione che potrebbe derivare in caso di pena detentiva conseguente a conversione delle pene pecuniarie inevase ( es. ipotesi di revoca della liberta controllata)
[54] Aspetto che evidenzio diffusamente in E. QUARTA ,Analisi economica del diritto: focus vantaggi miglioramento del sistema di riscossione, in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume III, Universitalia 2022 pag. 11 e ss.
[55] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[56] Corte Cost. sentenza 20 dicembre 2019 n. 279
[57] Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 13/09/2017, n. 21178 Presidente Amendola – Relatore Barreca in Giustizia Civile Massimario 2017, banca dati DeJure
[58] Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 13/09/2017, n. 21178 Presidente Amendola – Relatore Barreca in Giustizia Civile Massimario 2017, banca dati DeJure
[59] G. Pino (Professore di Filosofia del diritto Università di Palermo), Norme e gerarchie normative, Analisi e diritto, 2008 consultabile al seguente indirizzo url http://www1.unipa.it/gpino/Pino,%20Norme%20e%20gerarchie%20normative.pdf
[60] G. Pino (Professore di Filosofia del diritto Università di Palermo), Norme e gerarchie normative, Analisi e diritto, 2008 consultabile al seguente indirizzo url http://www1.unipa.it/gpino/Pino,%20Norme%20e%20gerarchie%20normative.pdf
[61] L'articolo art. 227-ter rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) in versione integrale disponeva: «1. Entro un mese dal passaggio in giudicato o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, l'ufficio procede all'iscrizione a ruolo. 2. L'agente della riscossione notifica al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si procederà ad esecuzione forzata. 3. Se il ruolo e' ripartito in più rate, l'intimazione ad adempiere contenuta nella cartella di pagamento produce effetti relativamente a tutte le rate."».
[62] Art. 1 comma 367 LEGGE 24 dicembre 2007, n. 244 «Entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della giustizia stipula con una società interamente posseduta dalla società di cui all'articolo 3, comma 2, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, una o più convenzioni in base alle quali la società stipulante con riferimento alle spese e alle pene pecuniarie previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, nonché alle sanzioni pecuniarie civili di cui al decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, provvede alla gestione del credito, mediante le seguenti attività: a) acquisizione dei dati anagrafici del debitore e quantificazione del credito, nella misura stabilita dal decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell'articolo 205 (L) del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni; b) iscrizione a ruolo del credito; a tale fine, il titolare dell'ufficio competente delega uno o più dipendenti della società stipulante alla sottoscrizione dei relativi ruoli; c) LETTERA ABROGATA DALLA L. 18 GIUGNO 2009, N. 69. ».
[63] G. VIGNERA, La notificazione della cartella di pagamento quale pre-condizione della conversione delle pene pecuniarie non pagate, Il Caso.it 3 febbraio 2020
[64] Giudice Mauro Lavra ( a cura di), Art. 9 Disposizioni in materia pecuniaria, in 5 Commissione ANM ( a cura di) Parere della Commissione sulla riforma Cartabia Illustrata al Cdc nella seduta del 11-12 settembre 2021, pag. 60 consultabile al seguente indirizzo url https://www.associazionemagistrati.it/allegati/parere-commissione-penale-su-riforma-cartabia.pdf
[65] Art. 67. comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico , la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile): “ Al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: ( ….....) i) il capo VI-bis del titolo II della parte VII e' sostituito dal seguente titolo: "TITOLO II-bis DISPOSIZIONI GENERALI PER SPESE DI MANTENIMENTO IN CARCERE, SPESE PROCESSUALI, PENE PECUNIARIE, SANZIONI AMMINISTRATIVE PECU NIARIE E SANZIONI PECUNIARI PROCESSUALI NEL PROCESSO CIVILE E PENALE. CAPO I RISCOSSIONE MEDIANTE RUOLO Art. 227-bis (L). - (Quantificazione dell'importo dovuto). - 1. La quantificazione dell'importo dovuto e' effettuata secondo quanto disposto dall'articolo 211. Ad essa provvede l'ufficio ovvero, a decorrere dalla data di stipula della convenzione prevista dall'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e per i crediti ivi indicati, la società Equitalia Giustizia Spa.
Art. 227-ter (L). - (Riscossione mediante ruolo). - 1. Entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui e' divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l'espiazione in istituto, l'ufficio ovvero, a decorrere dalla data di stipula della convenzione prevista dall'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e per i crediti ivi indicati, la società Equitalia Giustizia Spa procede all'iscrizione a ruolo.
2. L'agente della riscossione procede alla riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46. Si applica l'articolo 25, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”.
[66] Per prendere visione di un'analisi completa delle criticità dell'intero quadro normativo del sistema di riscossione delle pene pecuniarie inevase si conceda il rinvio a E. QUARTA , Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, vol II, pag. 324 e ss.
[67] Nella Bozza è riportato come art. 239 bis (L) (Attivazione delle procedure di conversione delle pene pecuniarie) Relazione illustrativa dell' art. rubricato Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, in Legge di Bilancio 2018, Bozza 19 ottobre 2017, pag. 91 Documento consultabile all'indirizzo url: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1734279.pdf
[68] ART. 227 (L) Rubricato (Concessionari): 1. Per l'affidamento in concessione del servizio, la vigilanza sui concessionari, il recesso, la decadenza e la revoca, il commissario governativo delegato, la remunerazione del servizio, l'accesso agli uffici pubblici, il discarico per inesigibilità, la procedura di discarico e reiscrizione nei ruoli, il recupero crediti, gli obblighi contabili e di garanzia, gli obblighi di versamento, la cauzione, il segreto d'ufficio, la trasmissione dei flussi informativi, la conservazione degli atti, la delega, la chiamata in causa dell'ente creditore, i giorni festivi, il personale addetto al servizio di riscossione, le sanzioni, il regime fiscale degli atti di affidamento delle concessioni, le potestà legislative delle Regioni a statuto speciale e province autonome, si applicano gli articoli 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, eccetto il comma 5 bis, 18, 19, 20 eccetto il comma 5, 21, 22, 23, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 52 bis, 53, 54, 55, 56, e 70, del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112; nonché l'articolo 4 bis, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 237; l'articolo 16 quinquies, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 452, convertito in legge 27 febbraio 2002, n. 16; l'articolo 46, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e l'articolo 9, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito in legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modificazioni.
[69] Relazione illustrativa , loc. ult. cit.
[70] Circolare 4 agosto 2017 Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi , - Analisi della normativa sul recupero dei crediti per pene pecuniarie nonché di indicazioni operative agli Uffici giudiziari consultabile all'indirizzo url: https://giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.page;jsessionid=J0e-wZ5ETBuXeSbx2UnqjvNV?contentId=SDC41981&previsiousPage=mg_1_8
[71] Relazione Illustrativa cit., pag. 91-92
[72] Circolare 4 agosto 2017 loc. ult. Cit.
[73] La problematica del recupero dei crediti generati dall’attività giudiziaria è stata, infatti oggetto della deliberazione del 7 Marzo 2017, n. 3/2017/G, della Corte di Conti, Sezione Centrale di Controllo sulla Gestione delle Amministrazioni dello Stato, riguardante: “Il recupero delle spese di giustizia e i rapporti convenzionali tra il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia”. La deliberazione ha riguardato l’attività posta in essere per il recupero dei crediti derivanti da sentenze passate in giudicato o da spese di giustizia, come previsto dall’art. 1, commi da 367 a 372, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. In esecuzione della disposizione da ultimo richiamata, il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia s.p.a, con la convenzione intervenuta il 23 settembre 2010 e successive integrazioni, hanno provveduto a definire le modalità di gestione dei crediti originati da provvedimenti passati in giudicato o divenuti esecutivi demandando ad Equitalia Giustizia s.p.a. l’attività di quantificazione delle poste attive e l’iscrizione a ruolo dei crediti sui sistemi di una delle società del Gruppo Equitalia. L’analisi compiuta in dettaglio dalla Corte dei Conti conclude evidenziando i seguenti nodi problematici:
1. l’irrazionalità del controllo operato su Equitalia Giustizia, dapprima da Equitalia s.p.a, a sua volta controllata dall’Agenzia delle Entrate, e oggi demandato al Ministero dell’economia e delle finanze, a seguito del d.l. n. 193/2016. La Corte ritiene più coerente la configurazione di un controllo diretto della società da parte del Ministero della Giustizia;
2. la protrazione del regime transitorio che non ha consentito una valutazione degli effettivi benefici generati dalla convenzione: il modello adottato “si è risolto essenzialmente nella sostituzione di parte dell’attività precedentemente svolta dagli operatori degli uffici giudiziari con quella demandata agli operatori di Equitalia giustizia. É mancato un decisivo intervento nella direzione dell’effettiva reingegnerizzazione dell’intero processo gestionale, che a giudizio della Corte dovrebbe costituire lo strumento principale da utilizzare nell’innovazione dei processi operativi della pubblica amministrazione”;
3. non senza osservare (...) “le evidenti criticità che emergono dal confronto tra l’ingente ammontare dei crediti posti in riscossione e l’importo effettivamente riscosso”, già evidenziate dalla Corte nella relazione “Il sistema della riscossione dei tributi erariali al 2015” (deliberazione n. 11/2016/G );
4. la reiterazione delle proroghe legislative della comunicazione d’inesigibilità che ha determinato la caducazione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (art. 660 c.p.p) una volta decorso il termine di estinzione, sul presupposto che lo stesso non sia suscettibile di interruzione, evidenziando altresì l’urgenza “di un intervento normativo per rendere compatibili i tempi previsti per l’esame delle comunicazioni di inesigibilità con la citata disposizione penale”. ( Circolare 4 agosto 2017 loc. ult. Cit. )
[74] Corte dei Conti Deliberazione 7 marzo 2017, n. 3/2017/G, in Sezione Centrale di Controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, Il Recupero delle Spese di Giustizia e i rapporti convenzionali tra il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia ( Rel: Cons. Massimo Romano), pag. 14 consultabile al link http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sez_centrale_controllo_amm_stato/2017/delibera_3_2017_g.pdf
[75] Circolare 4 agosto 2017 loc. ult. Cit.
[76] G. L. GATTA Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, Sistema Penale, 15 ottobre 2021 consultabile al seguente indirizzo url https://sistemapenale.it/it/scheda/gatta-legge-2021-134-delega-riforma-giustizia-penale-cartabia
[77] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[78]. D. Bianchi, Il rilancio delle pene sostitutive nella legge delega "Cartabia": una grande occasione non priva di rischi, Sistema Penale, 21 febbraio 2022, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/articolo/bianchi-pene-sostitutive-legge-delega-cartabia ; F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, 8 settembre 2021 Sistema Penale, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/palazzo-profili-diritto-sostanziale-riforma-penale.
[79] Si conceda il rinvio a E. Quarta, A. Crippa La visione teorica del sistema di riscossione delle pene pecuniarie al vaglio della critica della ragion pura. Intervista ad una penalista per coniugare teoria e prassi, in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume III, Universitalia 2022 pag. 135
[80] Art. 133-ter. C.p. (( (Pagamento rateale della multa o dell'ammenda).))
Il giudice, con la sentenza di condanna o con il decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l'ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta. Ciascuna rata tuttavia non può essere inferiore a 15 euro.
In ogni momento il condannato può estinguere la pena mediante un unico pagamento.
[81] Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Reggio Calabria, Presrizione delle pene pecuniarie. Problematiche applicative e indicazioni operative consultabile al seguente indirizzo url sistemapenale.it/pdf_contenuti/1575971129_direttiva- procura-generale-reggio-calabria-prescrizione-pene-pecuniarie-e-decorrenza-2019.pdf
[82] E. Andolfatto, Linee guida della Procura Generale di Reggio Calabria in tema di prescrizione delle pene pecuniarie, Sistema penale, 11 dicembre 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/documenti/linee-guida-procura-generale-reggio-calabria-prescrizione-pena-pecuniaria
[83] F. Fontanella, Le leges de magistratibus, in F. Fontanella, Politica e diritto naturale nel De Legibus di Cicerone, Roma 2012 Edizioni di storia e letteratura. 2012, pag. 79 e ss F. Andrew Roy Dick, A Commentary on Cicero: De Legibus (University of Michigan Press 2004) 457.
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