Punizione, prevenzione e riparazione: itinerari sanzionatori nei reati contro la P.A.
di Fabio Squillaci
Sommario: 1. Premessa – 2. Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena – 3. Conclusioni
1.Premessa
Il dettato costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, III comma Cost.) rappresenta il fulcro del lavoro che segue. Questo è il presupposto essenziale e irrinunciabile da cui si deve muovere quando si parla di pene e delle loro funzioni. Tuttavia, specie gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati segnati – come è noto – da un notevole aumento della popolazione presente negli istituti di pena e la drammatica situazione carceraria ha suscitato “interesse” anche nei confronti della la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato il nostro ordinamento per violazione dell’articolo 3 della Convenzione. È proprio attraverso la riduzione della popolazione ristretta, invero, che si creano i presupposti affinché quella funzione risocializzante possa essere davvero perseguita all’interno degli istituti penitenziari, in cui devono essere necessariamente garantiti e tutelati i diritti dei detenuti. È fuori discussione, del resto, che una detenzione disumana perde gli stessi connotati assegnati dalla Costituzione al trattamento sanzionatorio penale e, primo tra tutti, la sua attitudine rieducativa, coerentemente a quella che è la lettura data dalla Corte circa l’interpretazione dell’articolo 27, terzo comma della Costituzione.
Storicamente, facendo riferimento a una formulazione risalente a Seneca, si possono individuare due diverse concezioni del senso della pena. Da un lato vi sono quelle dottrine che giustificano la pena in base al concetto di quia peccatum est, con uno sguardo rivolto esclusivamente al passato; dall’altro, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne peccetur, guardando al futuro, focalizzandosi sullo scopo, sul miglioramento che può derivare dalla pena. Avendo puntualizzato tale discrepanza tra le due scuole di pensiero, possiamo affermare che il primo gruppo è formato essenzialmente da una sola dottrina, la teoria assoluta o retributiva della pena; e il secondo gruppo è composto da varie dottrine, che sono riconducibili ad almeno tre orientamenti: la teoria della prevenzione, dell’emenda e della difesa sociale.
Il Codice Rocco è riuscito, nell’ambito del sistema sanzionatorio, a fondere le idee della Scuola Classica e della Scuola Positiva, e su questo punto si è sostanziato, a lungo, il connotato dell’originalità dell’impianto sanzionatorio codicistico, noto comunemente con l’espressione di “doppio binario”. Un termine sintetico con la quale si richiama il profilo di coesistenza della pena e della misura di sicurezza. Si tratta, in entrambi i casi, di sanzioni penali che vengono connotate da diversi indici distintivi: infatti, la pena è commisurata alla gravità del reato commesso e la sua funzione è quella di essere la sanzione per il reo in relazione all’avvenuta commissione di un fatto, previsto dalla legge come reato. La misura di sicurezza, invece, non è ricollegata alla commissione del fatto delittuoso, ma al diverso profilo della pericolosità sociale dell’agente, la quale si rinviene nella probabilità, e non nella mera possibilità, della commissione, da parte di quello stesso soggetto, di ulteriori reati. Vengono, quindi, introdotte le misure di sicurezza per ragioni di carattere politico, volendo sanzionare anche circostanze non riconducibili alla commissione di un delitto tout court, ma che richiedevano un controllo da parte dell’autorità istituzionale, come afferma Rocco nella Relazione di accompagnamento al codice del 1930: “La necessità di costituire un sistema di rigida difesa sociale, sistema reclamato dalla mutata coscienza nazionale che ha bisogno dell’impiego di mezzi che assicurino in maniera decisa ed energica la prevalenza degli interessi generali sugli interessi particolari ovvero la subordinazione della parte al tutto per una necessità ferrea di comune disciplina”. Il sistema del doppio binario si rivelò, nei fatti, contraddittorio ed incongruente a causa della sua natura eccessivamente compromissoria. La dottrina vi ritrovò una pesante contraddizione teorica, dovuta al fatto che il sistema così licenziato suppone una concezione dell’uomo come “diviso in due parti”: una parte libera e responsabile, quindi, assoggettabile a pena; e una parte, determinata e pericolosa, assoggettabile a misura di sicurezza.
2.Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena.
Scandita la premessa è opportuno muovere verso lidi più consoni al vero punto focale del lavoro, ovverosia le novità sanzionatorie in tema di delitti contro la P.A. Si fa riferimento al nuovo volto “punitivo” assunto dalla normativa vigente sempre più lontano da schemi repressivi tradizionali ed aperto, finalmente, ad una commistione tra modelli, influenzato forse da quella cultura europeista che considera la “pena” come un unicum pur se pregno di sfumature. La legislazione emergenziale degli ultimi anni in tema di corruzione permette di cogliere a pieno l’itinerario di viaggio del legislatore. Dopo la legge “Severino” legge n. 190/2012 e la legge n. 69/2015, è sopraggiunta il 9 gennaio scorso la legge n. 3/2019, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici». Ad innescare il trend di profonda rivisitazione delle discipline anticorruzione è stata la legge n. 190/2012 che ha rappresentato un reale spartiacque nelle strategie di contrasto ai fenomeni corruttivi. La prima ha seguito lo schema dell’espansione del diritto penale: nuovi reati, fattispecie più ampie, pene più severe; da un altro versante, il legislatore del 2012 ha infranto, mediante lo sdoppiamento della fattispecie di concussione e la creazione del nuovo delitto di cui all’art. 319-quater c.p., un tabù che appariva sino a quel momento inviolabile: l’impunità, in qualità di vittima-concusso, del privato “indotto” ad un pagamento indebito dall’abuso del pubblico agente. La successiva legge n. 69/2015 si è limitata a razionalizzare il materiale normativo eliminando qualche incongruenza normativa. In aggiunta, la penna del legislatore ha ulteriormente arricchito il corpus degli strumenti anticorruzione, mediante l’innesto nel codice penale della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater e l’attenuante della collaborazione processuale, collocata nel nuovo comma 2 dell’art. 323-bis. Questo programma politico-criminale trova ora la sua definitiva affermazione mediante la l. n. 3/2019, battezzata dalla critica legge “Spazzacorrotti”. Sarebbe dunque riduttivo presentare quest’ultimo prodotto della penna legislativa un “accidente” della storia, giacché esso rappresenta piuttosto la chiusura di un cerchio legislativo iniziato poco più di un lustro fa. In secondo luogo, il robusto aumento delle pene comminate per i predetti reati, risponde a esigenze pragmatiche che spaziano da profili filosofici ad aspetti pratici: ad esempio nell’innalzamento dei minimi edittali si cela la voluntas legislatoris di rendere più difficile la sospensione condizionale della pena e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, i cui spazi operativi peraltro sono stati via via compressi pure attraverso manipolazioni dirette delle relative norme. Ovviamente, questa escalation punitiva sottende l’idea, tutt’altro che fondata, che basti inasprire la minaccia edittale e incrementare i tassi di carcerazione per ottenere un corrispondente effetto dissuasivo. Sembra che il legislatore abbia accolto gli approdi dell’AED che ricollega l’effetto di deterrenza al paradigma della convenienza economica degli attori in campo, tanto in chiave di svantaggio per il reo, quanto in chiave di costi di per il soggetto pubblico inquisitore. In tal senso viene svilito il postulato di Beccaria secondo cui la probabilità di condanna è più importante del malum passionis minacciato. Certo, l’assoluta “certezza del castigo”, a cui anelava il padre del diritto penale moderno, appare oramai un’utopia, tanto più che molti studi ormai attestano come conti più che l’oggettiva probabilità della pena la sua percezione psicologica, vale a dire la probabilità attesa.
Oltre alla già riscontrata dilatazione delle fattispecie incriminatrici, all’introduzione di nuovi tipi penali e all’aumento smisurato delle pene edittali, ci sembra paradigmatica l’evoluzione conosciuta dall’immane apparato degli strumenti di abbattimento dei patrimoni illecitamente acquisiti. Un primo ambito di “contaminazione” ha riguardato il sistema delle misure di prevenzione patrimoniale: una regione ai confini del diritto penale, dilatatasi grandemente negli ultimi anni, ben oltre l’originaria sfera dell’antimafia (cfr. la legge “Rognoni-La Torre” n. 646/1982). Sennonché, al di là delle etichette formali, è arduo distinguere dal diritto penale in senso stretto (soprattutto) le misure patrimoniali, essendo queste protese più che al contenimento di una pericolosità soggettiva (dell’indiziato di reati) alla salvaguardia del sistema economico da intorbimenti criminosi.
Le novità su cui intendiamo soffermarci è la nuova sanzione della “riparazione pecuniaria” introdotta all’art. 322 quater c.p. Tale istituto, introdotto nel 2015, e la cui disciplina ora è stata ulteriormente rafforzata, completa quell’effetto “moltiplicatore” della risposta sanzionatoria che in un clima emergenziale si è voluto attribuire ai reati contro la p.a. in difetto di qualsivoglia ragionamento di sistema.
Innanzitutto, l’art. 322 quater c.p. delinea una forma di riparazione coattiva, di tipo non risarcitorio (restando difatti impregiudicato il risarcimento dei danni), non affidata all’iniziativa volontaria del reo e neppure subordinata ad un’espressa richiesta della persona offesa. Inoltre, la quantificazione dell’ammontare dovuto a titolo compensativo non è rimessa all’apprezzamento del giudice né commisurata ai pregiudizi complessivamente subiti dall’amministrazione di appartenenza, ma forfettariamente calibrata sui proventi materiali indebitamente ricevuti. Tali peculiarità rendono la misura del tutto inedita nel nostro sistema penale. Di certo, essa ha assai poco a che spartire con l’idea della riparazione del danno: nel caso di specie, la restituzione coattiva dell’indebito costituisce una sanzione patrimoniale che si aggiunge alla reclusione, operando contestualmente e indipendentemente da questa, anche in sede esecutiva. Va, inoltre, osservato che nonostante il nomen iuris (“riparazione pecuniaria”), l’istituto adombra una vocazione funzionale non solo compensatoria, ma anche (e soprattutto) punitivo-deterrente. In particolare, essa solleva seri problemi di coordinamento e sovrapposizione con l’istituto della confisca del prezzo o profitto del reato ex art. 322-ter c.p. Per queste ragioni, un’irrogazione cumulativa comporterebbe una violazione del ne bis in idem sanzionatorio e del principio di proporzione (art. 3 Cost.), anche per come delineato dai casi Grande Stevens c. Italia et similia, scongiurabile solo attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente (CEDU) orientata. Di fatto, e prescindendo dalle differenze nominalistiche, la somma delle due misure darebbe luogo ad una pena patrimoniale, formalmente inespressa, quantificata nel doppio del vantaggio illecito.
Con riferimento ai reati di corruzione la nuova misura non colpisce anche il privato corruttore, posto il mancato richiamo all’art. 321 c.p.: la norma fa riferimento a quanto ricevuto dal pubblico agente e non anche al vantaggio tratto dal privato e tale circostanza dovrebbe determinare la non applicabilità del nuovo istituto nei confronti del “privato indotto” e nei confronti del “privato corruttore internazionale”. La logica repressiva riformatrice non si esaurisce nell’innalzamento delle pene principali: il vero punctum dolens sono infatti le pene accessorie applicabili alle persone fisiche per i principali delitti contro la p.a. Le apportate modifiche normative, da un lato, tendono ad allungarne la durata e, dall’altro, a presidiarne l’effettività in caso di sospensione condizionale, patteggiamento o a seguito di riabilitazione del condannato. Analogo disegno è stato replicato nei riguardi dei soggetti collettivi, come emerge dall’inasprimento delle sanzioni interdittive irrogabili ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. La ricerca di una severità “oltranzistica” dell’apparato punitivo ha raggiunto risultati per certi versi aberranti con l’estensione ai corrotti e ai corruttori del regime carcerario differenziato preveduto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il tutto in uno scenario appena scosso dalla pronuncia dei giudici di Strasburgo. Inoltre, sono cresciuti sia i casi di interdizione accessoria perpetua sia la durata della corrispondente misura temporanee. Il rigore repressivo è per giunta amplificato dall’attuale innalzamento edittale concernente la maggior parte dei delitti contro la p.a., che riduce sensibilmente le chances di condanna a una pena detentiva inferiore a 2 anni. Se l’innesto dell’induzione indebita del pubblico agente sana una stortura della riforma del 2012, l’inclusione della corruzione per l’esercizio delle funzioni e soprattutto del traffico di influenze illecite suscita non poche perplessità dall’angolazione della proporzione. Tale severità riverbera i suoi effetti anche sulla fase cautelare del procedimento, giacché la novella del 2019 ha altresì introdotto il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione quale ulteriore misura interdittiva applicabile prima della condanna, senza necessità di attenersi ai limiti di pena previsti dall’art. 287, comma 1, c.p.p. (nuovo art. 289-bis c.p.p.). Il legislatore, in secondo luogo, ha inteso enfatizzare la capacità afflittiva delle pene accessorie pure in caso di sospensione condizionale della pena e, sul piano processuale, di applicazione della pena su richiesta delle parti. La stessa logica si riverbera sull’istituto del patteggiamento nonché quelli dell’affidamento in prova al servizio sociale e della riabilitazione. Il nuovo comma 1-ter dell’art. 445 c.p.p. affida al giudice la scelta se applicare le pene previste dall’art. 317-bis c.p. anche nei casi di condanna a pena detentiva che non superi i 2 anni soli o congiunti a pena pecuniaria. Quanto all’affidamento in prova, l’esito positivo della misura estingue gli effetti penali della condanna ad esclusione delle pene accessorie perpetue, mentre, l’istituto della riabilitazione, si è detto, «non produce effetti» sulle pene accessorie perpetue.
3.Conclusioni In definitiva gli ultimi approdi sanzionatori nell’ambito dei reati contro la p.a. rivelano una pericolosa incapacità selettiva del legislatore che, influenzato dalle “emozioni di repressioni esemplari”, ha congeniato un sistema bizzarro che presta il fianco ad innumerevoli censure e rischia di essere colpito dalla scure della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’inasprimento delle comminatorie edittali cela una volontà di sterilizzare gli istituti premiali per alcune categorie di reati, evidenziando il serio rischio di concepire la pena detentiva quale misura fisiologica per i reati commessi dai white collars. Per altro verso lo snaturamento delle pene accessorie che, perduta la loro caratura di automatismo sanzionatorio e lasciati nella disponibilità decisionale del giudicante, diventano da predicato della pena una seconda pena, radicano nel sistema ordinamentale nuove ipotesi di contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale. Da ultimo la misura introdotta dall’art. 322 quater c.p., lasciando intatte le perplessità di cui si è detto, potrebbe rappresentare un principio di rinnovamento della logica punitiva attraverso l’affermazione di una seriazione di reati (ad esempio quelli contro la p.a.) per i quali la risposta detentiva non può essere l’unica concepibile e percorribile. In altri termini, in chiave futuristica, l’istituto de quo è un germe per inaugurare una nuova stagione punitiva in cui il diritto penale qualifichi la sanzione pecuniaria quale unico strumento più idoneo a realizzare quegli obiettivi di prevenzione, punizione ed emenda che sono posti a fondamento dell’art. 27 della