Il reato permanente: profili processuali ed evoluzione giurisprudenziale. Di Maria Teresa Orlando
Sommario: 1. Premessa - 2. Disciplina espressamente dettata dal codice penale e dal codice di procedura penale - 3. Evoluzione giurisprudenziale - 4. Iscrizione nel registro degli indagati del reato permanente e contestazione aperta o chiusa - 5. Termini di scadenza delle indagini preliminari - 6. Art. 414 c.p.p.: Riapertura delle indagini - 7. L’imputazione: art. 407 bis c.p.p. inizio dell’azione penale e art. 516 c.p.p.: modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento - 8. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il reato permanente si caratterizza per il fatto che l’offesa al bene giuridico tutelato dall’ordinamento si protrae nel tempo, in virtù di una condotta persistente e volontaria.
Nel codice penale e nel codice di procedura penale ci sono tre riferimenti a questa figura di reato (art. 158 c.p., artt. 8 e 382 c.p.p.), ma manca una definizione univoca dello stesso ed una elencazione dei suoi elementi strutturali.
Si tratta di un reato che viene definito di durata, caratterizzato dal fatto che l’evento lesivo e la sua consumazione perdurano nel tempo. L’offesa, pertanto, è rivolta nei confronti di un bene che non è suscettibile di una distruzione definitiva bensì solo di una compressione temporanea, come la libertà personale nell’ipotesi del reato di sequestro di persona, sanzionato agli articoli 605 e 630 del codice penale.
I reati permanenti ricomprendono sia fattispecie rivolte verso beni immateriali (ad esempio la libertà) sia quelle lesive di beni materiali, purché ovviamente suscettibili di compressione e non di distruzione definitiva.
Una definizione di tale categoria di reati si rinviene già in una pronuncia delle Sezioni unite risalente al 1956, che aderiva alla teoria bifasica: “la nozione di reato permanente richiede che alla struttura tipica dell'illecito appartenga, secondo la descrizione contenuta nella norma incriminatrice, tanto la causazione del risultato proprio del reato che integra la fase consumativa primaria quanto il mantenimento volontario dello stato di antigiuridicità che ne è conseguito, attraverso cui si realizza una fase ulteriore della già avverata consumazione. - trattasi di ipotesi in cui il precetto penale presenta, alla analisi, un duplice contenuto: anzitutto il divieto o il comando di cagionare l'evento tipico descritto dalla norma; in secondo luogo il comando conseguenziale di rimuovere lo stato di antigiuridicità già prodottosi, sicché, ove l'autore della condotta non provveda immediatamente, pur potendolo, a farlo cessare, la fase consumativa della violazione permane fino a tanto che duri il predetto stato di antigiuridicità”.* Cass Sez. U, Sentenza n. 16 del 00/00/1956 Ud.
La più recente impostazione, sia dottrinale che giurisprudenziale, ha superato la concezione bifasica e considera permanente il reato qualora una condotta, per sua stessa natura, non possa esaurirsi in un unico momento.
La Cassazione in particolare ha definito come reato permanente quale quella particolare ipotesi delittuosa «per la cui esistenza la legge richiede che l’offesa al bene giuridico si protragga nel tempo per una durata che è legata alla persistente condotta volontaria del soggetto agente» (Cass. pen., Sez. unite, 13 luglio 1998, n. 11021).
La premessa in ordine alle caratteristiche fattuali di tale categoria di reati è necessaria al fine di verificare quale sia la disciplina concretamente applicabile a tali fattispecie, in relazione alla specificità delle caratteristiche di tali illeciti.
2. Disciplina espressamente dettata dal codice penale e dal codice di procedura penale
Il legislatore ha infatti espressamente previsto delle norme ad hoc in tema di reato permanente, rispetto all’istituto sostanziale della prescrizione e agli istituti processuali dell’arresto e della competenza territoriale.
È compito invece dell’operatore del diritto inquadrare complessivamente gli istituti non espressamente disciplinati da norme specifiche e verificare in che termini si applichino alle fattispecie permanenti.
L’unica norma nel codice penale che fa espresso riferimento al reato permanente è in tema di prescrizione: all’art. 158 è stabilito che il termine della prescrizione decorre, per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza.
La norma rileva perché evidenzia che il protrarsi della condotta criminale non incide sulla durata del termine, ma sulla decorrenza. I termini naturalmente sono i medesimi dei reati istantanei, quello che è diverso, essendo la condotta criminale in atto, è il momento da cui parte il computo.
Nel codice di procedura penale due sono i riferimenti espressi al reato permanente, l’articolo 8 in tema di competenza territoriale, e l’articolo 382 in tema di arresto in flagranza.
Il Tribunale competente è individuato nel luogo in cui ha avuto inizio la consumazione.
Anche la ratio di questa norma è chiara: la condotta può protrarsi e realizzarsi in luoghi diversi e l’unico dato certo, se le indagini iniziano mentre il reato è in fase di realizzazione, è quello dell’inizio della permanenza, atteso che, tra l’altro, la consumazione può spostarsi in luoghi diversi. Si pensi sempre al reato di sequestro di persona, dove la vittima può essere spostata anche più volte.
L’articolo 382 c.p.p. al secondo comma stabilisce inoltre che nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza. A dire il vero questa norma potrebbe ritenersi una superfetazione, essendo implicito, da uno sguardo sistematico all’ordinamento penale, che la condotta che si protrae nel tempo rientra già nello stato di flagranza descritto al primo comma della norma, del soggetto che viene colto nell'atto di commettere il reato.
Trattandosi tuttavia di prevedere una stringente limitazione della libertà personale il legislatore ha preferito chiarire e disciplinare espressamente la disciplina dell’arresto da parte della polizia giudiziaria quando ricorra la flagranza anche in un reato permanente.
Le norme sinora riportate in tema di reato permanente non sono tuttavia eccentriche rispetto alle caratteristiche di tali fattispecie, e di fatto chiariscono la portata della perduranza della condotta criminale, rispettando i canoni generali dettati in tema di istituti processuali e sostanziali.
Quid iuris rispetto a istituti non disciplinati espressamente per le fattispecie permanenti?
3. Evoluzione giurisprudenziale
Le sentenze in tema di reato permanente hanno affrontato soprattutto questioni processuali attinenti ai termini delle indagini.
La sentenza della Sez. 6, Sentenza n. 38865 del 07/10/2008 Cc. (dep. 15/10/2008 ) Rv. 241751 sul punto è tranchant: “La natura permanente del reato autorizza l'esecuzione delle indagini preliminari per tutta la sua durata”
La fattispecie su cui la Corte si è pronunciata era relativa ad associazione di stampo mafioso, e la Corte ha rigettato l'eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, secondo il ricorrente compiute dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari stabilito dall'art. 405 cod.proc.pen., perchè al momento del loro svolgimento il reato associativo era ancora in atto.
La sesta Sezione della Cassazione, con la sentenza n. 9097 del 17/01/2013 Cc. (dep. 25/02/2013 ) Rv. 254583 – 01, sempre in tema di durata delle indagini preliminari, correttamente individua il termine di durata delle indagini di sei mesi anche in relazione al reato di associazione per delinquere, salvo che nei casi in cui questa sia diretta alla commissione dei reati previsti dall'art. 380, comma secondo, lett. a), b), c), d), f), g) ed i) cod. proc. pen., e sia quindi obbligatorio l'arresto in flagranza.
Il tribunale, nel provvedimento impugnato, era caduto in errore sulla valutazione del termine di durata delle indagini, ritenendo che il reato di associazione per delinquere finalizzato ai furti avesse un termine annuale di durata delle indagini.
La questione giuridica fondamentale, che la sentenza non affronta, tuttavia riguarda l’individuazione della decorrenza del predetto termine.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta la questione in termini innovativi, ma, ad avviso di chi scrive, non del tutto condivisibili.
Con sentenza n. 10687 del 18 gennaio 2023 (dep. 13 marzo 2023), la sesta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata infatti sul rapporto tra iscrizione della notizia di reato, termine massimo delle indagini e perduranza del reato permanente, evidenziando la necessità di una nuova iscrizione allo scadere dei due anni di indagine, previsti come termine massimo dall’art. 406 c.p.p.
La decisione della Corte parte dal pacifico assunto che, qualora oltre i termini di durata delle indagini preliminari emergano elementi di perdurante attualità della condotta delittuosa anche oltre il termine massimo delle stesse (come nel caso dell’ulteriore protrarsi della partecipazione del singolo al sodalizio mafioso), l’attività d’indagine del Pm non può interrompersi, altrimenti “si dovrebbe giungere alla paradossale conseguenza di imporre al PM la chiusura delle indagini già avviate e l’esercizio dell’azione penale per quel reato fino a tale data nonché, al contempo, l’apertura di un nuovo procedimento per lo stesso reato e verso la stessa persona dalla stessa data in poi, a quale dovrebbero rimanere estranee le acquisizioni istruttorie del procedimento chiuso (…)”.
La sentenza in questione parte col criticare l’orientamento, costantemente in passato condiviso dalla giurisprudenza della Suprema Corte e riportato nella sentenza sopra citata del 2008, che stabilisce che, qualora si proceda per un reato permanente, l’esecuzione delle indagini deve ritenersi autorizzata per tutta la durata della condotta.
I giudici hanno ritenuto che questa interpretazione cozzi con il dettato dell’art. 407 c.p.p., che “non prevede eccezioni al principio della durata predeterminata delle indagini preliminari in relazione alla tipologia dei reati, ma soltanto un tempo più ampio per alcune fattispecie più complesse e/o di maggiore allarme sociale”. D’altro canto, tuttavia “laddove, nel corso di un'attività investigativa già avviata in relazione ad un dato reato permanente (ma lo stesso vale per quelli abituali e, comunque, per tutti quelli la cui condotta si protragga nei tempo), successivamente alla scadenza del termine legale emergano nuove circostanze attestanti il perdurare della condotta delittuosa dell'indagato, nulla vieta al Pubblico ministero di procedere ad una nuova iscrizione per lo stesso reato e nei confronti della medesima persona”.
Il collegio evidenzia in particolare che nessuna norma lo impedisce.
La sentenza termina con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto: “Qualora il Pubblico ministero acquisisca, nel corso delle indagini preliminari, elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona già iscritta nel registro di cui all'art. 335, cod. proc. pen., deve procedere a nuova iscrizione ed il termine per le indagini preliminari, previsto dall'art. 405, cod. proc. pen., decorre in modo autonomo per ciascuna successiva iscrizione nell'apposito registro, senza che possa essere posto alcun limite all'utilizzazione di elementi emersi prima della detta iscrizione nel corso di accertamenti relativi ad altri fatti (Sez. 3, n. 32998 del 18/03/2015, M., Rv. 264191). Nel corso delle indagini preliminari, il Pubblico ministero deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato quando acquisisce elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona; ne consegue che il termine per le indagini preliminari decorre in modo autonomo da ciascuna successiva iscrizione (Sez. 2, n. 22016 del 06/03/2019, Nicotra, Rv. 276965: principio affermato in fattispecie - del tutto analoga a quella in rassegna - relativa a più iscrizioni successive nei confronti della stessa persona per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa a seguito dell'acquisizione di nuovi elementi in forza dei contributi dichiarativi di ulteriori collaboratori di giustizia / in relazione a diversi periodi di tempo)”.
La questione, riportata in questi termini, si allaccia necessariamente alle modalità di contestazione della fattispecie permanente, dunque all’originaria iscrizione della notizia di reato e alla scelta che spetta al Pubblico ministero al momento dell’esercizio dell’azione penale.
Dunque, di seguito si affronteranno le questioni relative alle fattispecie permanenti in relazione agli istituti di diritto processuale partendo dall’inizio del procedimento e seguendo l’ordine dettato dal codice di procedura penale.
4. Iscrizione nel registro degli indagati del reato permanente e contestazione aperta o chiusa
Il momento iniziale di apertura del procedimento penale, di iscrizione della notizia di reato nel registro delle notizie di reato da parte del pubblico ministero, è già caratterizzato da una peculiarità rispetto all’iscrizione relativa a reati istantanei.
La contestazione dell’arco temporale in cui si è realizzata la condotta di reato, oggetto dell’imputazione, può essere effettuata in forma aperta o chiusa.
Al primo comma dell’art. 335 il codice di procedura penale prevede espressamente che nell’iscrizione siano indicate, ove risultino, le circostanze di tempo e di luogo del fatto.
Dunque il pubblico ministero, quando iscrive, e poi successivamente, fino a quando esercita l’azione penale, dovrebbe procedere alla contestazione indicando con precisione le circostanze di tempo e così determinando il momento della cessazione della permanenza, o, qualora la condotta non sia cessata, dovrebbe contestarne la perduranza. Lo stesso articolo al comma 2 prevede che, ove il fatto risulti diversamente circostanziato, il pubblico ministero ne curi l’aggiornamento senza procedere a nuove iscrizioni.
Unanimemente la giurisprudenza ritiene corretta una contestazione della condotta nel reato permanente che dia atto che la stessa è in corso.
Viceversa, la sentenza citata nel paragrafo che precede ritiene che la fattispecie permanente consenta, o meglio, imponga al pubblico ministero iscrizioni che si susseguano per segmenti temporali, e per ogni segmento si applichino le norme del codice alla stregua di singoli reati autonomi.
L’impostazione del collegio, portata alle estreme conseguenze, in pratica, prevederebbe di procedere a iscrizioni per segmenti temporali con decorrenza dalla precedente iscrizione e scadenza al giorno della successiva iscrizione.
Aderendo a questa impostazione - benché la sentenza si sia occupata in concreto di una nuova iscrizione, successiva al decorso dei due anni d’indagine dall’originaria iscrizione - sarebbe astrattamente possibile e anzi, doveroso per il Pubblico Ministero, procedere a ulteriori iscrizioni ogni qualvolta la polizia giudiziaria segnali ulteriori condotte che integrino la fattispecie. E per tali segmenti ripartirebbe il termine delle indagini previsto dall’art. 405 c.p.p.: l’impostazione che deriva dall’adesione alla ricostruzione giuridica effettuata dalla sentenza imporrebbe al Pubblico Ministero di procedere a una serie di contestazioni “chiuse”.
Questo approccio tuttavia cozza con la possibilità, derivante dalla caratteristiche stesse del reato e sinora pacificamente ritenuta dalla costante giurisprudenza, di procedere a una contestazione “aperta” sin dalla fase delle indagini, ed in particolare sin dalla prima iscrizione della notizia di reato. Infatti, come è pacificamente consentita la contestazione “aperta” al momento dell’esercizio dell’azione penale, ne deriva che questo potere di valutazione della fattispecie concreta spetta al PM sin dall’inizio dell’indagine.
La previsione di iscrizioni che si susseguono stride in particolare rispetto a talune fattispecie permanenti quali la commissione del reato di sequestro di persona, che è caratterizzata, rispetto al reato associativo, dal dato tendenzialmente chiaro dell’inizio della permanenza, e dove balza all'occhio il dovere dello Stato di proseguire le indagini nei confronti di eventuali soggetti iscritti per tutto il tempo in cui la condotta criminale prosegua (quindi eventualmente anche oltre i due anni previsti dall’art. 406 c.p.p.), e a prescindere dalla richiesta la proroga delle indagini, né può apparire corretta l’iscrizione reiterata del medesimo reato avente ad oggetto la stessa vittima.
5. Termini di scadenza delle indagini preliminari
Il tema attualmente più controverso, in tema di indagini, è risultato essere quello relativo ai termini di scadenza delle indagini preliminari.
Il codice di procedura penale, all’art. 405 stabilisce il termine entro il quale il pubblico ministero è tenuto a chiudere le indagini, che decorre dall’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato per la commissione del reato.
L’art. 406 c.p.p. detta la disciplina per la proroga di tale termine.
La riforma Cartabia ha inciso sulla durata di tali termini, ma non sulle questioni giuridiche legate all’interpretazione di tali norme.
La ratio della norma è chiara: prevedere un termine entro il quale le indagini devono essere concluse, a tutela dell’indagato, onde impedire che una persona risulti sottoposta a indagini sine die e senza un controllo da parte del giudice sull’operato del PM.
Nulla quaestio rispetto ai reati istantanei: si consumano nel momento in cui il colpevole realizza la condotta o l'evento vietati, senza che l'azione si protragga nel tempo. Il fatto nella sua materialità si è realizzato, e il pubblico ministero ha un arco temporale, a partire dall’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p, variabile in relazione alla fattispecie di reato – peraltro modificato dalla riforma Cartabia -, entro cui effettuare le indagini, verificare gli elementi a carico dell’indagato e concludere le indagini, determinandosi per l’esercizio dell’azione penale o per la richiesta di archiviazione del procedimento.
In relazione ai reati permanenti, la norma è pienamente applicabile nei medesimi termini quando la permanenza è cessata: se vi sono atti di recesso dall’associazione, se vi è la prova che l’associazione è stata sciolta, se il sequestro di persona si è concluso e la vittima è stata liberata o è deceduta, la permanenza riguarda un periodo temporale anteriore all‘iscrizione nel registro delle notizie di reato e il pubblico ministero non può indagare sine die, ma deve determinarsi in relazione al fatto nel termine previsto, essendo la situazione equiparabile a quella dei reati istantanei.
La situazione fattuale tuttavia risulta diversa se la condotta criminale è in atto.
La proroga delle indagini avrebbe senso limitatamente al segmento di condotta contestato fino alla data dell’iscrizione. Le condotte di reato successive a quella data potrebbero essere coperte dal limite temporale imposto dall’art. 405 c.p.p.
La citata sentenza prospetta la possibilità – che dovrebbe tradursi in un dovere per il PM – di procedere ad ulteriore iscrizione. Ma la questione giuridica di fondo si riallaccia alle modalità di contestazione dell’illecito penale: l’imputazione, al momento dell’esercizio dell’azione penale, e nella valutazione dei giudici al momento della sentenza sarà una, perché il fatto, sia giuridicamente che naturalisticamente inteso, è uno. Opera come fictio iuris l’interruzione dettata dalla sentenza di primo grado. Dunque la suddivisione in eventuali successive iscrizioni per la medesima fattispecie di reato, onde contestare, rispetto allo stesso fatto, archi temporali che si succedono, cozza contro la necessità di procedere con un’unica imputazione a contestare un fatto di reato unitario.
6. Art. 414 c.p.p.: Riapertura delle indagini
Una ulteriore istituto, che ha richiesto una riflessione in tema di applicazione concreta della norma e sul quale la giurisprudenza si è soffermata, è quello disciplinato all’art.414 c.p.p.
La giurisprudenza di merito e della Suprema Corte è uniforme nel ritenere che, in relazione alle indagini nei confronti di reati permanenti con condotta in atto – la maggior parte delle sentenze sono relative al reato di partecipazione a reato associativo – non sia necessario chiedere la riapertura delle indagini per procedere all’iscrizione, qualora la fattispecie sia stata in precedenza archiviata dal giudice per le indagini preliminari, senza che questo escluda la possibilità di utilizzare elementi probatori raccolti nel procedimento archiviato.
La riapertura risulta tuttavia necessaria se si intenda procedere anche per quel frammento temporale di condotta antecedente alla richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero.
La ratio si rinviene nella circostanza che, se la condotta criminale è in atto, solo per l’arco temporale antecedente alla richiesta di archiviazione vige la preclusione rispetto alla possibilità di procedere. Per la condotta in atto la disciplina applicabile è la stessa di una nuova fattispecie di reato: si procederà a una nuova iscrizione da parte del Pubblico Ministero, sulla base di elementi raccolti che siano temporalmente successivi rispetto alla richiesta di archiviazione. Se si ritiene di dover procedere anche per l’arco temporale antecedente, per il quale è stata ottenuta l’archiviazione, si dovrà invece procedere con richiesta al giudice, ai sensi dell’art. 414 c.p.p., motivando l’esigenza di nuove investigazioni, e il giudice valuterà la prevedibilità in ordine all’individuazione di nuove fonti di prova. (Cass. Sez. 2, n. 14777 del 19/01/2017, Caponera, Rv. 270221; Sez. 5, n. 43663 del 14/05/2015, Caponera, Rv. 264923; Sez. 2, n. 26762 del 17/03/2015, Sciascia, Rv. 264222; Sez. 6, n. 6547 del 10/10/2011, dep. 2012, Panzeca, Rv. 252113).
L’articolo 414 del codice di procedura penale dunque troverà la sua applicazione solo rispetto al segmento della condotta rispetto al quale vi è stata la richiesta del PM e il provvedimento del giudice.
Numerose sentenze si sono soffermate sui reati associativi: il fatto integrativo dell’associazione criminale «può essere scisso in vari "segmenti temporali"; di conseguenza, l'archiviazione pronunciata rispetto a un determinato "segmento", cui non si accompagni il decreto autorizzativo di cui all’art. 414, comma 1, c.p.p., non preclude lo svolgimento di nuove indagini e, quindi, l'esercizio dell'azione penale in relazione a fatti e comportamenti atti a dimostrare la consumazione dell'illecito de quo limitatamente a "segmenti temporali" successivi alla detta archiviazione» (in questi termini, Sez. 2, n. 26762 del 17/03/2015, Sciascia, cit.).
La Cassazione ha inoltre individuato il limite temporale, rispetto al quale non si può procedere alla contestazione della permanenza se non si sia proceduto alla riapertura, nella richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero. Per i segmenti temporali successivi a quella data sarà consentito l'esercizio dell'azione penale per il medesimo titolo di reato, ove sia proseguita la condotta criminosa oggetto dell'originaria contestazione, con mutamento della caratteristiche strutturali del reato (risultando diverso, in ogni caso, il contesto temporale, al di là degli eventuali altri elementi della condotta tipica, quali i partecipi dell'associazione e le modalità oggettive dell'organizzazione del sodalizio, che possono modificarsi nel corso del tempo, sia pure in relazione allo stesso sodalizio oggetto di indagine.
Dunque la sanzione di inutilizzabilità derivante dalla violazione dell'art. 414 cod. proc. pen. colpisce solo gli atti che riguardano lo stesso fatto oggetto dell'indagine conclusa con il provvedimento di archiviazione, che deve essere inteso con riferimento all’arco temporale oggetto dell’investigazione, e non anche fatti diversi o successivi, benché collegati con i fatti oggetto della precedente indagine (Sez. 5, n. 43663 del 14/05/2015, Caponera, cit.; Sez. 2, n. 3255 del 10/10/2013, dep. 2014, Rostan, Rv. 258528),
L’efficacia preclusiva dell'archiviazione, intesa come inutilizzabilità delle antecedenti acquisizioni conoscitive, rispetto a tali fattispecie impedisce soltanto che - in caso di mancata riapertura delle indagini - l'azione investigativa prosegua sulle frazioni temporali della condotta illecita già considerate in precedenza e sfociate nella archiviazione.
La V Sezione della Corte di Cassazione, nella sentenza 33032 del 2017 evidenzia che “ (…) Di tal che non soltanto non è interdetto lo svolgimento di indagini in presenza di nuovi fatti o epifenomeni indicativi di una condotta criminosa (permanente) del soggetto agente della stessa natura di quella archiviata, ma è altresì possibile e logico che, proprio in funzionale connessione con la struttura ontologica del reato permanente, anche i segmenti di condotta sviluppatisi nel quadro della pregressa vicenda processuale siano apprezzati come sintomatico corollario della complessiva condotta di partecipazione associativa criminosa riferibile all'imputato”.
7. L’imputazione: art. 407 bis c.p.p. inizio dell’azione penale e art. 516 c.p.p.: modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento
Con la formulazione dell’imputazione il pm esercita l’azione penale e circoscrive il fatto di reato da provare.
Quando si procede a una contestazione aperta, la regola di "natura processuale" è che la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado. Per giurisprudenza costante, in relazione ai reati associativi – ma la ratio riguarda tutti i reati permanenti – l'accertamento contenuto nella sentenza di condanna delimita la protrazione temporale della permanenza del reato con riferimento alla data finale cui si riferisce l’imputazione ovvero alla diversa data ritenuta in sentenza o, nel caso di contestazione cd. aperta alla data della pronuncia di primo grado (da ultimo Sez.6 n.3054 del 14/12/2017 in proc. Olivieri ed altri Rv. 27213801).
Naturalmente è compito dell'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale (Sez. 2, n.23343 del 01/03/2016, Ariano, Rv. 267080; Sez. 1, n. 39221, del 26/02/2014, Saputo, Rv. 260511).
Peraltro, la giurisprudenza ritiene che rispetto al reato associativo “qualora il reato sia stato contestato senza specificazione del termine finale della condotta, ma con indicazione della sola data di accertamento, il giudice del dibattimento deve verificare in concreto se la fattispecie decritta nell'imputazione si sia già esaurita prima, dopo o contestualmente a tale accertamento o sia ancora in atto, poiché, in tale ultimo caso, deve ritenersi che la contestazione comprenda anche l'ulteriore eventuale permanenza e se ne può tenere conto a ogni effetto penale, senza la necessità di un'ulteriore contestazione da parte del pubblico ministero” (Sez. 2 - , Sentenza n. 15551 del 04/11/2021 Ud. (dep. 21/04/2022 ) Rv. 283384 – 01) .(Vedi: Sez. U., n. 11930 del 1994, Rv. 199170-01). Dunque, il giudice che decide in ordine al reato associativo contestato, ha la potestà di stabilire se in concreto la condotta si sia protratta e se dunque la condotta sia perdurante sino alla sentenza di primo grado anche in mancanza di una contestazione esplicita da parte del PM. Evidentemente la struttura essenziale del reato permanente impone al giudice, quando la contestazione è generica, di valutare fino a quando la condotta si sia protratta, salvo che il PM non abbia espressamente delimitato temporalmente il fatto di reato.
Un dato certo è che, al di là delle iscrizioni che possono essersi succedute, con l’esercizio dell’azione penale il fatto sarà cristallizzato in un’unica imputazione, e vi sarebbe una discrasia rispetto alla pluralità di iscrizioni, suggerite dalla sentenza n. 10687 del 18 gennaio 2023.
È tuttavia possibile modificare l’imputazione ai sensi dell’art. 516 c.p.p. nel corso del processo, ove il fatto risulti diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio. Ciò comporta, in relazione alle fattispecie trattate, la valutazione della modifica in relazione all’arco temporale oggetto della contestazione.
La giurisprudenza ha infatti affrontato anche la questione della delimitazione del "tempus commissi delicti" del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso inizialmente contestato in forma "aperta", operata dal pubblico ministero in udienza, quale forma anticipata di interruzione giudiziale della permanenza.
La questione affrontata è se la stessa integri o meno una ritrattazione dell'azione penale, e dunque se sia consentita o meno.
8. Considerazioni conclusive
Alla luce delle considerazioni sinora effettuate, la questione interpretativa rispetto alle durata delle indagini nei reati permanenti deve partire dal dato “naturale” e fattuale che caratterizza tali fattispecie.
Da una lettura sistematica emerge dunque che il dato della condotta che si prolunga nel tempo, che caratterizza il reato permanente, impone di considerare unitariamente la fattispecie sino al momento in cui non vi siano provvedimenti “definitivi” dell’Autorità Giudiziaria.
Tale è certamente la sentenza di condanna di primo grado, che giudizialmente interrompe la decorrenza del reato. Lo stesso effetto è stato riconosciuto alla richiesta di archiviazione del PM, che pure interrompe la permanenza qualora venga emesso dal GIP un decreto di archiviazione.
Non si può invece ritenere che il provvedimento di iscrizione produca lo stesso effetto, essendo invece in linea con i provvedimenti di esercizio dell’azione penale, in cui il Pubblico Ministero si limita a riconoscere e a contestare la situazione di fatto: se la condotta perdura nel tempo, il Pubblico Ministero ne prende atto nel suo provvedimento.
Dal momento della cessazione della decorrenza, sia essa di diritto o di fatto, decorrono i termini previsti dal codice.
Anche l’art. 382 cpp in tema di arresto in flagranza porta nella stessa direzione: nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza.
Se si aderisse alla tesi della necessità di proroga delle indagini e di nuova iscrizione, la polizia giudiziaria, per quello stesso reato, potrebbe arrestare l’indagato, mentre il Pubblico Ministero, che non abbia richiesto la proroga delle indagini o che non abbia effettuato una nuova iscrizione, non potrebbe dirigere le stesse indagini.
Di conseguenza la richiesta di proroga delle indagini preliminari, e il relativo decreto, qualora la condotta sia in atto, non trova ragione giuridica. Sul punto soccorrono gli articoli del codice penale e del codice di procedura penale già richiamati. L’art. 158 c.p. detta un principio – logico – di carattere generale: La decorrenza dei termini, nei reati permanenti, deve ritenersi spostata al momento della cessazione della condotta. Armonica risulta la disciplina se il termine decorre dalla cessazione della permanenza.
Come non decorrono i termini di prescrizione, così, ad avviso di chi scrive, per le stesse ragioni non decorrono i termini di durata delle indagini quando la condotta criminale è in atto.