I beni culturali, il patrimonio immateriale ed i vincoli di destinazione d’uso (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752)
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La nozione di bene culturale. - 3. Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale secondo l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ed il Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752. - 4. Osservazioni conclusive.
- Il caso di specie.
La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752, che si annota interviene nel dibattito, sempre di attualità, che si sviluppa intorno al concetto ed alla individuazione del bene culturale, ed in particolare del patrimonio immateriale[i] che può essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento.
Il problema, come si vedrà, concerne l’eventuale esistenza del potere del Ministero della Cultura di apporre un vincolo di destinazione d’uso ad un bene culturale per tutelare il patrimonio immateriale, in specie le attività culturali.
Partiamo, tuttavia, dall’inizio. La controversia attiene il ristorante il “Vero Alfredo”, fondato nel 1908 in Roma, via della Scrofa, trasferitosi nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore, in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dichiarato di interesse storico artistico nel 2006, ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
Tale edificio, in origine di proprietà pubblica, è stato trasferito al Fondo Comune di Investimento Immobiliare di Tipo Chiuso (FIP) ai sensi del decreto legge n. 351/2001, convertito in L. n. 410/2001, per essere successivamente alienato a società private, nel rispetto delle disposizioni del Codice dei beni culturali.
Difatti, tenuto conto che l’immobile rientrava tra i beni vincolati ex lege, ai sensi degli artt. 10, co. 1 e 5, e 12, co. 1, del Codice (trattandosi di immobile di proprietà pubblica, opera di autore non più vivente e risalente ad oltre 50 anni), è stata chiesta l’autorizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (oggi Ministero della cultura) ai fini dell’alienazione.
Il Ministero ha subordinato l’autorizzazione ad alcune prescrizioni, richiedendo, in particolare, la conservazione delle attuali destinazioni d’uso degli immobili e, comunque, vietando la destinazione ad usi, anche a carattere temporaneo, non compatibili con l’interesse culturale accertato o tali da creare pregiudizio alla conservazione e al pubblico godimento.
Il Ministero, inoltre, ha comunicato alla società proprietaria dell’immobile ed alla società che gestisce il locale ricettivo l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 14, d.lgs. n. 42 del 2004 avente ad oggetto il locale ristorante, le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati al suo interno, in quanto ritenuti di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), Codice beni culturali, anche in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7-bis del medesimo Codice in relazione alla tutela delle espressioni di identità culturale collettiva.
Nelle more, la società proprietaria ha agito in executivis per ottenere il rilascio dell’unità immobiliare, condotta sine titulo da “L’Originale Alfredo”, nuova denominazione del “Vero Alfredo”.
Ma il Ministero della Cultura non si è fermato qui perché, con il decreto ministeriale n. 50 del 13.7.2018, non si è limitato a dichiarare l’interesse particolarmente importante dell’immobile, ovvero il ristorante, con le opere e gli elementi di arredo ivi conservati, ma ha pure richiamato, quale parte integrante della dichiarazione di interesse culturale, la relazione storico-critica e il repertorio fotografico predisposti durante l’istruttoria; infatti, si è riconosciuto l’interesse culturale “nella continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi ed opere artistiche, tradizione enogastronomica e sociabilità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, hanno reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di “mondi” e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata; un teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune”.
La conseguenza, per il Ministero, è che inevitabilmente il “Vero Alfredo” debba essere tutelato ai sensi degli articoli 7-bis e 10, co. 3, lett. d) del Codice dei beni culturali, quale “espressione di identità culturale collettiva”, evidenziando come il patrimonio immateriale de “Il Vero Alfredo” sia costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Quest’ultimo decreto del Ministero della Cultura è stato impugnato dalla Società proprietaria dell’immobile dinnanzi al T.A.R. Lazio, sede di Roma, che, con sentenza n. 5864 del 19 maggio 2021, ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha conseguentemente annullato l’atto impugnato.
Secondo il T.A.R. Lazio, difatti, non potrebbero essere vincolate le attività svolte nell’immobile in questione mediante l’assoggettamento dei locali ad un vincolo di destinazione d’uso, in quanto ciò che potrebbe essere vincolato sarebbe soltanto il bene immobile, in presenza delle condizioni, diverse ed ulteriori, prescritte dagli artt. 10 e 13 del Codice per dichiararlo “bene culturale”, idonee a giustificare un vincolo a tutela della conservazione del bene, ma non anche dell’attività svolta al suo interno.
Di conseguenza, seguendo il ragionamento del giudice di primo grado, non sarebbe possibile, sulla base delle previsioni codicistiche, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa; una tale politica, a prescindere dall’arbitrarietà per mancanza di base giuridica, se non per il contrasto con l’intenzione del legislatore delegato, quanto meno per la totale estraneità allo spirito delle Convenzioni internazionali in materia, risulterebbe insostenibile in quanto intrinsecamente irragionevole e sproporzionata.
Avverso questa decisione è stato proposto appello al Consiglio di Stato, in via principale dalla Società che gestisce il locale ricettivo ed in via incidentale dal Ministero della Cultura.
Data l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia di ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha deferito, ex art. 99, co. 1, Cod. proc. amm., la questione all’Adunanza Plenaria che si è espressa in tema con la sentenza n. 5 del 13 febbraio 2023.
Per poter definire la questione attinente ai vincoli di destinazione d’uso è necessario primariamente, tuttavia, delineare la nozione di bene culturale e comprendere come vi rientri anche il patrimonio immateriale[ii].
2. La nozione di bene culturale.
Al riguardo, si può iniziare da due definizioni particolarmente significative[iii].
La prima, più specifica, di stampo gianniniano, definisce il bene culturale come quel bene immateriale di proprietà pubblica, ovvero rientrante nel dominio dell’Amministrazione, inerente a una o più cose e distinto dal bene patrimoniale privato di cui quelle stesse cose costituiscono il supporto materiale[iv].
Più generale e meno tecnica, e forse anche per questo meno criptica, è la definizione fornita invece dalla Commissione Franceschini nel 1967, Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose d’interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio, allorquando affermò che “appartengono al patrimonio culturale della nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”[v].
Questa affermazione di principio, che doveva rientrare in una riforma organica della materia attinente la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, rimase in realtà tale perché non si trasformò in alcun atto avente forza di legge, ma fu un primo passo importante, almeno a livello terminologico in quanto consentì di superare la nozione invalsa sino ad allora di “cose d’arte” propugnata da una certa visione elitaria e fortemente idealizzata dei beni da tutelare che si ritrova nelle due più importanti leggi dell’inizio del XX secolo dedicate agli strumenti di tutela della cultura, ovvero la legge Rosadi, legge 20 giugno 1909, n. 364, e la legge Bottai, legge 1° giugno 1939, n. 1089[vi].
Sulla scorta dei lavori della Commissione Franceschini si giunge, poi, nell’ambito dei programmi di decentramento amministrativo, al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che, ripartendo le funzioni amministrative tra Stato ed enti territoriali in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, definisce questi ultimi come “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge”[vii].
Siamo dinnanzi ad una definizione più ampia, ove il proprium del bene culturale viene individuato nel carattere di testimonianza avente valore di civiltà[viii], cioè espressione di una determinata cultura formatasi nel tempo. In linea generale, quindi, il riferimento alla civiltà deve essere inteso come “insieme dei modi di pensare e di sentire e vivere dei gruppi sociali nel tempo e nello spazio”[ix].
Si supera, quindi, distintamente la nozione fortemente restrittiva di “cosa d’arte” del periodo fascista[x], che richiamava un bene la cui fruizione era limitata a pochi eletti, per una definizione maggiormente inclusiva, che trova un primo passaggio nel Testo Unico per i beni culturali ed ambientali, d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, e poi il suo approdo definitivo nel Codice dei beni culturali, adottato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, c.d. Codice Urbani.
Il Codice compie una scelta definitoria ben precisa ma particolare rispetto al passato: sceglie, difatti, di fornire prima, in via generale, una definizione di patrimonio culturale e poi di specificare in che cosa consistano i beni culturali[xi].
Il legislatore del Codice, difatti, mediante un’operazione di sintesi del tutto innovativa nel nostro ordinamento, ha cercato di ricondurre ad una categoria unitaria il patrimonio culturale (non più solamente storico-artistico), i beni culturali ed i beni paesaggistici[xii].
Non si tratta però di una nuova categoria giuridica, perché le due tipologie di beni rispondono a regole diverse, quanto piuttosto di un’efficace espressione verbale, con la quale si vuole evidenziare che i beni culturali e quelli paesaggistici confluiscono in una medesima funzione, che è quella di contribuire a tutelare e valorizzare l’identità culturale del Paese[xiii]. In altri termini, quest’espressione rappresenta l'intima connessione tra i beni culturali ed il paesaggio, per cui i primi non possono essere adeguatamente apprezzati senza il secondo[xiv].
La nozione richiama d’altronde similari espressioni utilizzate in fonti internazionali, con particolare riferimento alla Convenzione di Parigi del 1972 sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, e soprattutto con riguardo alla Convenzione di Faro approvata dal Consiglio d’Europa il 27 ottobre 2005 sul valore dell’eredità culturale per la società ove si parla espressamente di cultural heritage[xv].
È ancora oggi questione dibattuta se la traslitterazione corretta di cultural heritage sia quella di patrimonio culturale[xvi] ma è indubbio che il richiamo deve correre ad una nozione certamente ampia in cui l’ambiente è parte indefettibile della cultura[xvii], tant’è che oggi vi è chi preferisce parlare di patrimonio culturale UNESCO[xviii] al cui interno sarebbe individuabile altresì un “patrimonio culturale urbanistico”[xix], comprensivo tanto delle testimonianze di civiltà (beni culturali), quanto dei caratteri identitari del territorio (paesaggio culturale), sia nelle loro componenti materiali che immateriali, tutelati come patrimonio universale dell'umanità e che si servono delle limitazioni urbanistiche per conseguire un grado rafforzato di tutela[xx].
Al di là delle teorie sulla correttezza ed utilità dell’espressione patrimonio culturale[xxi], che comunque ci fornisce un indizio non trascurabile sulla dimensione transgenerazionale ed in perenne divenire della cultura e dell’ambiente[xxii]e che è stata ancora di recente utilizzata dal legislatore nel Codice del terzo settore, d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117[xxiii], occorre tenere in considerazione che il quadro definitorio del Codice dei beni culturali si inserisce nei principi fissati dalla Costituzione che, all’art. 9, modificato peraltro da ultimo dalla legge costituzionale n. 1 del 2022[xxiv], stabilisce che la Repubblica tutela il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico della Nazione[xxv].
Sulla necessità di tutela del patrimonio culturale del Paese, in qualunque modo si preferisca intenderlo, non si possono aver dubbi[xxvi].
I beni classificabili come culturali sono molteplici, tutte res materiali in cui “il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato della materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude”[xxvii].
Il patrimonio immateriale[xxviii], come si vedrà anche in seguito, non rimane però del tutto privo di tutela[xxix]perché l’art. 7-bis del Codice[xxx] aggiunge, difatti, che “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”.
Ciò che emerge dagli articoli 2 e 10 del Codice è che l'essere testimonianza di civiltà rappresenta il catalizzatore che determina l'inerenza dell'interesse pubblico culturale non già alla cosa in quanto tale, ma al suo significato, sicché esso trascende la soddisfazione del singolo proprietario, per riguardare l'intera collettività, come interesse alla conservazione ed alla fruibilità del bene culturale attraverso la cosa oggetto di vincolo e tutela. Si parla, al riguardo, di nozione “aperta” di bene culturale, la quale nondimeno si specifica tecnicamente con il c.d. criterio reale e normativo, sicché non esistono testimonianze aventi valore di civiltà che non siano “cose”, individuate come bene culturale dalla legge o in base alla legge[xxxi].
La nozione di cultura nel corso degli ultimi anni, peraltro, ha subito un’importante evoluzione in senso ampliativo, tant’è che il Consiglio di Stato, di recente, ha affermato che, stante il carattere ampiamente discrezionale del potere conferito all'autorità preposta alla tutela, anche lo sport può essere ricondotto al concetto di cultura menzionato nell'art. 10, co. 3, lett. d), Codice dei beni culturali, ai fini dell'assoggettamento a tutela come bene culturale[xxxii].
Occorre fare attenzione, tuttavia: il Codice dei beni culturali non assoggetta qualsiasi testimonianza avente valore di civiltà al proprio regime di tutela e valorizzazione, come avrebbe voluto in origine la Commissione Franceschini, ma solamente “se è [...] considerabile sulla base di una qualificazione, ossia di una fissazione di fattispecie operata dal legislatore”[xxxiii], rispondendo, così, ad uno stretto principio di tipicità ed alla conseguente tipizzazione dei beni considerabili come culturali da parte del Codice, che però, specialmente per quanto attiene al patrimonio immateriale, non è pienamente allineato alle fonti internazionali in un’ottica di integrazione tra gli ordinamenti amministrativi sovranazionali e quelli nazionali[xxxiv].
Ovviamente, come è noto, la disciplina giuridica di riferimento è differente se il bene culturale è di proprietà pubblica o privata[xxxv].
È necessario, peraltro, ricordare che alcune categorie di beni di proprietà pubblica, ed in particolare gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico e le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie, archivi e biblioteche, qualora appartengano allo Stato o ad un altro ente pubblico territoriale, rientrano nella categoria dei beni demaniali[xxxvi], nello specifico di quella del demanio accidentale[xxxvii], ed ai sensi degli articoli 822 e seguenti del Codice civile[xxxviii] sono di regola inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi[xxxix], se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. Al riguardo il Codice dei beni culturali del 2004 detta delle prescrizioni particolari, tanto che si potrebbe affermare che per i beni culturali vige una regola di inalienabilità relativa o limitata[xl].
Tale classificazione del Codice civile[xli] può risultare, almeno secondo taluni, in parte superata, specialmente con riferimento ai beni paesaggistici e culturali, per l’introduzione di una nuova categoria, quella dei beni comuni, avvenuta in particolare grazie all’opera ermeneutica della dottrina e della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Quest’ultime, in una pronunzia sulle valli da pesca venete, con un principio espresso in un obiter dictum hanno affermato che “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, "comune" vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”[xlii].
Si tratta, quindi, come era già stato affermato nel 2007 dalla Commissione Rodotà insediata per la riforma della disciplina dei beni pubblici[xliii], di cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali ovvero al libero sviluppo della persona[xliv], indipendentemente dalla classificazione operata dal legislatore, che sono comuni a tutta la collettività[xlv]. Tra questi beni comuni certamente vi possono rientrare i beni paesaggistici e culturali[xlvi], i quali però, al di là di ogni dibattito definitorio in tema[xlvii], devono ricevere un adeguato livello di tutela dall’ordinamento proprio per la loro caratteristica intrinseca di costituire testimonianza avente valore di civiltà.
Il problema sorge allorché questa testimonianza presenta carattere immateriale e non riguarda in via diretta un bene. Occorre comprendere se il Codice, data la sua rigida impostazione sulle res, consenta una tutela del patrimonio immateriale, certamente voluta invece dalle Convenzioni internazionali; il Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria, è quindi intervenuto in tema.
3. Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale secondo l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ed il Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752.
La questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, su cui è stata a chiamata a pronunziare il principio di diritto, difatti, attiene al rapporto tra poteri di tutela del Ministero della Cultura e patrimonio culturale immateriale.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è chiesta se, in presenza di beni culturali ex art. 10, co. 3, lett. d), Codice beni culturali, ovvero di “cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”, che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis dello stesso Codice, il potere ministeriale di tutela possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza.
Ciò ricordando in generale che solo in casi eccezionali il legislatore ha attribuito al Ministero il potere di imporre misure volte a tutelare l'uso del bene rispetto all'ordinario regime vincolistico che è finalizzato alla mera conservazione in buono stato dei beni culturali con mero divieto di usi non compatibili, ovvero limitato ad indicare in negativo, non a prescrivere in positivo[xlviii].
Il Codice dei beni culturali, difatti, prevede una specifica ipotesi al riguardo, allorquando all’art. 51 vieta di modificare la destinazione d’uso degli studi d’artista se, considerati nel loro insieme, siano dichiarati di interesse particolarmente importante per il loro valore storico[xlix].
Tale potere eccezionale[l], tuttavia, come chiarito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 185 del 2004, deve essere esercitato nel rispetto dei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, anche al fine di evitare i cd. "effetti perversi" derivanti dall'eccesso di attività vincolistica, che rischia di essere controproducente rispetto agli stessi obiettivi perseguiti[li].
Questo potere, quindi, pur con tutti i limiti segnalati anche dalla giurisprudenza costituzionale, esiste nel nostro ordinamento, occorre però comprendere se può trovare applicazione al di là dell’ipotesi particolare espressamente prevista per gli studi d’artista.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 5 del 2023, in modo risoluto ha chiarito che il vincolo di destinazione d'uso del bene culturale può essere imposto allorquando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui emerga l'esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell'integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato[lii].
Ciò a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza[liii].
Il regime vincolistico, dunque, secondo l’Adunanza Plenaria, può concernere non solo il bene materiale ma, proprio attraverso il vincolo su quest’ultimo, indirettamente anche l’attività, testimonianza di un determinato costume o civiltà, che abbia una particolare rilevanza dal punto di vista storico-culturale.
Di conseguenza, rientrano nel potere conformativo attribuito all'Amministrazione anche i c.d. locali storici che, oltre a qualificare spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro storico (che può essere definita come l’anima di una città, alla continua ricerca del suo equilibrio, tra la conservazione del passato e l'elaborazione del nuovo), costituiscono un importante elemento di memoria storica e una testimonianza culturale, la cui tutela e valorizzazione concorre a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio[liv].
Come già ricordato dal Consiglio di Stato nel 2019, difatti, se è vero che l'attività dei negozi storici di per sé non può essere oggetto di vincolo culturale, quest'ultimo ben può essere apposto nei confronti degli immobili nei quale i suddetti negozi sono ospitati, in quanto in tal caso il valore culturale dei beni è ravvisabile nel collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia e della civiltà[lv]. La tutela può dunque essere estesa dal bene alla sua destinazione quando la rilevanza storico, artistica e culturale del bene sia anche la conseguenza dello svolgimento di una determinata attività.
Si tratta di resupposti totalmente differenti dalla sentenza di primo grado del T.A.R. Lazio, secondo cui sarebbe impossibile, sulla base delle previsioni del Codice, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa: una tale scelta risulterebbe insostenibile in quanto irragionevole e sproporzionata.
Ciò sulla base di un consolidato ma oramai risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, anche dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui non sarebbero possibili, in ossequio alle norme previste nel nostro ordinamento, vincoli culturali di mera destinazione, specialmente per attività di natura commerciale o imprenditoriale[lvi].
La sentenza del Consiglio di Stato che si commenta, però, in conformità ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria, è di tutt’altro avviso, superando un orientamento che, occorre ricordarlo, si era originariamente formato sulla legge Bottai del 1939 ove la nozione di bene culturale assunta come parametro di riferimento non teneva in considerazione l’ampliamento della stessa dovuta alle Convenzioni internazionali[lvii].
Difatti, secondo la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, il giudice di prime cure ha errato nel ritenere che il provvedimento impugnato in primo grado, nell’imporre un vincolo di destinazione d’uso, fosse privo di base legale, atteso che quest’ultima è da rinvenire in una lettura sistematica del Codice dei beni culturali e, segnatamente, nel combinato disposto degli artt. 7-bis e 20, per cui le espressioni di identità culturale collettiva debbono essere tutelate e, più in generale, i beni culturali non possono essere adibiti ad usi incompatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione[lviii].
Questo vincolo non si appunta sull’attività commerciale e imprenditoriale in sé considerata ma su come la stessa è esercitata in relazione ai beni che ne sono testimonianza materiale.
Ne discende che esso non si sostanzia nell’obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività né nell’attribuzione di una “riserva di attività” in favore di un determinato gestore (l’attuale, o diverso) ma vale, piuttosto, a precludere, in negativo, ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res (intesa nel suo complesso, come locali e arredi) nonché ad imporre, specularmente, in positivo, la continuità del suo uso attuale, cui la cosa è stata storicamente adibita (id est, nel caso di specie, lo svolgimento di un’attività di ristorazione aperta al pubblico con caratteristiche tradizionali della cucina italiana).
Un bene culturale non può essere adibito ad un uso piuttosto che all’altro indifferentemente: il vincolo di destinazione esiste nel senso che l’uso deve essere compatibile con la natura di testimonianza storica, artistica di una determinata civiltà[lix]. Qualsiasi attività incompatibile sarebbe contraria agli stessi dettami dell’art. 9 della Costituzione per cui la Repubblica tutela e “promuove lo sviluppo della cultura”[lx].
In questo caso, l’espressione di identità culturale collettiva deve essere individuata nelle modalità con cui la cultura ed il costume italiano (e romano) di un certo periodo storico, coincidente con la c.d. “Dolce Vita”, sono rappresentati a livello nazionale ed internazionale ed il “Vero Alfredo” ne è una delle rappresentazioni più significative.
Ciò giustifica l’apposizione su di esso, a differenza degli altri locali tradizionali del centro storico di Roma, in aggiunta a quelli esistenti sui singoli beni che lo compongono, di un vincolo di destinazione d’uso, proprio perché, anche ad esito di un’indagine tecnico-scientifica di carattere demoetnoantropologico, esso è divenuto, al di là dell’intrinseco valore artistico e culturale della sua struttura e degli arredi e opere artistiche ivi contenute, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, luogo di convivialità e incontro tra personalità di spicco italiane e straniere.
4. Osservazioni conclusive.
Principio fondante del nostro ordinamento, ribadito anche dal Codice, è quello per cui la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale.
Questo, primariamente, è costituito da tutti quei beni mobili ed immobili che “presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Il legame con la res, nel senso proprio del termine, è imprescindibile.
Ma l’ordinamento, così come chiarito dall’art. 7-bis del Codice, tutela, e non potrebbe che essere così, anche le espressioni di identità culturale collettiva, testimonianze quindi di una determinata civiltà, contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005[lxi].
Questo, aggiunge la medesima norma del Codice, laddove le espressioni di identità culturale siano rappresentate, nell’ottica di corporalità del bene, da testimonianze materiali e sussista un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
Ora, è noto, perché lo si evince dalla Relazione illustrativa al Codice, che nell’art. 7-bis la ratio della previsione che prescrive la condizione della "materialità" dell'oggetto da tutelare è quella “di evitare interpretazioni fuorvianti sia degli obblighi assunti in via pattizia con altri Stati, sia, e per converso, dei confini fra la tradizionale tutela relativa alle "cose" di interesse storico ed artistico e la salvaguardia afferente a manifestazioni e valori della cultura immateriale”.
È evidente, di conseguenza, che le attività tradizionali, che costituiscono espressioni di identità culturale collettiva, possono essere tutelate come "beni" di interesse culturale a condizione che si traducano in un'entità materiale e che queste abbiano un valore sotto il profilo di quell'interesse storico, artistico, archeologico, etnologico o, per lo meno "testimoniale" contemplato dall'art. 10 del Codice[lxii].
Non è, dunque, l’attività a poter essere tutelata in via diretta.
Ma essa, quale testimonianza di uno specifico costume che si è formato e consolidato in una società nel corso degli anni, può essere soggetta ad un vincolo di destinazione d’uso qualora sia necessario preservare il bene cui inerisce e che ne rappresenta la testimonianza materiale.
Qui abbiamo la vera novità della pronunzia che si commenta e che costituisce la prima vera, significativa applicazione dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023.
Si supera l’orientamento invalso secondo cui sarebbe stato illegittimo il provvedimento di dichiarazione di interesse culturale di un immobile che, in assenza degli stringenti presupposti di legge e in violazione dei principi di proporzionalità[lxiii] e ragionevolezza, avesse preteso di imporre il vincolo di destinazione d'uso all'attività svolta nel locale[lxiv], data l’impossibile adattabilità di questo vincolo alla tutela funzionale di attività imprenditoriali in determinati immobili.
La pronunzia del Consiglio di Stato in commento, al di là delle peculiarità del caso di specie, merita di essere condivisa in quanto, pur rimanendo delineata l’alterità formale tra bene ed attività culturale, si orienta nel senso che quest’ultima, seppur in via indiretta, debba trovare una forma di tutela, sempreché dal raffronto tra l'interesse espresso dal vincolo e le esigenze di garantire nella realtà economica la sopravvivenza stessa dalla res cui l’attività è collegata emergano caratteristiche degne di conservazione e di tutela per l’ordinamento giuridico[lxv].
Certo, data l’impostazione formale del Codice e la sua non perfetta coincidenza con le Convenzioni internazionali in materia di patrimonio culturale immateriale, sarebbe auspicabile uno specifico intervento di riforma del legislatore[lxvi], ricordando d’altronde che la sede per l'introduzione di questi strumenti normativi di tutela avrebbe già dovuto essere quella del Codice delle attività culturali, che, secondo il disegno dell'originaria legge di delega del 2002, si sarebbe dovuto accompagnare alla codificazione della disciplina sui beni culturali.
Sono oramai trascorsi più di vent’anni e così non è ancora stato, ma l’intervento chiarificatore, che potremmo definire di interpretazione estensiva in conformità all’art. 9 della Costituzione, del Consiglio di Stato è un primo passo importante, da implementare seguendo però una nozione corretta di patrimonio culturale ove si possa accertare sempre una testimonianza avente valore di civiltà, anche sotto forma di una “espressione di identità culturale collettiva”.
[i] Altresì definibile come patrimonio intangibile: v., al riguardo, l’ampio studio monografico di M. Timo, L’intangibilità dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2022.
[ii] Secondo A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, "sembra possibile affermare che il valore immateriale consente di affermare l'esistenza di uno statuto giuridico minimo, comune, discendente dalla nozione di bene culturale. Questo statuto comune consente, innanzitutto, sotto un profilo metodologico di cercare i tratti comuni delle varie discipline di tutela e valorizzazione di questi beni, da apprezzare a prescindere dal loro supporto materiale. [...] sicché mi sembra che si debba superare la radicale contrapposizione tra beni culturali materiali ed immateriali, accettando una visione liminale che cerchi di trovare i tratti comuni, aperta a statuti pluralistici, fondata sulla sostenibile leggerezza del valore immateriale dei beni culturali (materiali e immateriali)".
[iii] In tema di beni culturali è da sempre presente una particolare esigenza definitoria: così G. Morbidelli, L'azione regionale e locale per i beni culturali in Italia, in Le Regioni, 1987, 942 ss.
[iv] Così M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 13 ss.
[v] I lavori della Commissione Franceschini sono stati pubblicati con il titolo Per la salvezza dei beni culturali, 3 voll., Roma, 1967.
[vi] Su cui cfr. S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in Id., L'amministrazione dello Stato. Saggi, Milano, Giuffrè, 1976, 153 ss.
[vii] In tema cfr. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 673 ss.; G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega, in Aedon, n. 1/1998; G. Pitruzzella, Art. 148 e art. 149, in G. Falcon (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, Il Mulino, 1998, 491 ss.
[viii] Su questa nozione cfr. C.E. Gallo, S. Foà, I beni culturali, in P. Falcone, A. Pozzi (a cura di), Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, I beni, i mezzi, la giustizia, Torino, Utet, 1998, Vol. II, 67 ss.; B. Cavallo, La nozione di bene culturale tra mito e realtà: rilettura critica della prima dichiarazione della Commissione Franceschini, in Aa. Vv., Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, Vol. II, 113 ss.; M. Cantucci, Beni culturali e ambientali, in Noviss. Dig. It., Appendice A-Cod., Torino, Utet, 1980, 722 ss.
[ix] Secondo l’autorevole insegnamento di M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 9.
[x] Per un approfondimento v. M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma, Società Editrice del Foro italiano, 1952.
[xi] Sul punto cfr. S. Foà, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: la tutela dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2004, 473 ss.
[xii] Per una ricostruzione sul punto cfr. il volume di C.C. Amitrano, M. Ricciardo Calderaro, La gestione del patrimonio culturale tra customer experience e tecnologie digitali, Napoli, Jovene, 2024, spec. 9 ss.
[xiii] V. in tema S. Amorosino, Introduzione al diritto del paesaggio, Bari, Laterza, 2010, 3 ss.; E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati', in Riv. giur. urb., 2009, 61 ss.
[xiv] In questi termini A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, Annali VI, 2013, spec. 96 ss.; S. Settis, Paesaggio, Costituzione e cemento, Torino, Einaudi, 2010.
[xv] In tema cfr. S. Foà, Dalla Convenzione europea al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Obiettivi di tutela e valorizzazione, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Milano, Giuffrè, 2014, Vol. III, 431 ss.
[xvi] Contra, sulla traduzione di cultural heritage in patrimonio culturale cfr. G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro “sul valore del patrimonio culturale per la società”: politically correct vs. Tutela dei beni culturali?, in Federalismi, n. 8-2021, 224 ss.
[xvii] In tema cfr. L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 657 ss.; M. Brocca, Patrimonio culturale e sviluppo dei territori: la componente del paesaggio tra impostazione codicistica e nuove traiettorie normative, in Ist. del federalismo, 2018, 857 ss.
[xviii] Cfr. C. Tubertini, A 50 anni dalla Convenzione Unesco del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale mondiale: riflessioni alla luce dell’esperienza italiana, in Aedon, 2022, 147 ss.
[xix] Sul punto v. M. Cammelli, Politiche urbane e protezione del patrimonio culturale, in Aedon, 2022, 66 ss.; A. Crosetti, Governo del territorio e tutela del patrimonio culturale: un difficile percorso di integrazione, in Riv. giur. edil., 2018, 81 ss.
[xx] Così A. Bartolini, Patrimoni culturali e limitazioni urbanistiche, in Dir. amm., 2022, 995 ss. Oppure, ancora, chi parla genericamente di patrimoni culturali come M. Cammelli, G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, fasc. n. 1-2022 e, da ultimo, D. Siclari, Perché non possiamo non parlare di patrimoni culturali in Italia, in Dir. e proc. amm., 2023, 1 ss.
[xxi] Su cui si rinvia a P. Stella Richter, La nozione di patrimonio culturale, in Foro Amm. CdS, 2004, 1280 ss.; da ultimo cfr. C. Videtta, La dimensione del patrimonio culturale tra frammentazione delle conoscenze e unità del sapere, in Nuove autonomie, 2023, 199 ss.
[xxii] V. P. Chirulli, Il governo multilivello del patrimonio culturale, in Dir. amm., 2019, 697 ss. La tematica ambientale è profondamente interconnessa con quella dei beni culturali, come nel caso della promozione delle energie rinnovabili: v., ad esempio, A. Persico, Promozione dell’energia rinnovabile e tutela del patrimonio culturale: verso l’integrazione delle tutele (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167), in Giustiziainsieme, 1° dicembre 2022.
[xxiii] Cfr. R. Spagnuolo Vigorita, Il patrimonio culturale nelle disposizioni del codice dei contratti pubblici e nel codice del terzo settore, in Munus, 2018, 405 ss.; sul punto v. anche C. Napolitano, Il Tar Lazio e la tutela del patrimonio culturale, in Giustiziainsieme, 3 luglio 2020.
[xxiv] In letteratura, mentre alcuni hanno accolto con favore la novella degli artt. 9 e 41 Cost., come I.A. Nicotra, L'ingresso dell'ambiente in Costituzione, un segnale importante dopo il Covid, in Federalismi, 30 giugno 2021, altri hanno sollevato dubbi sui contenuti della legge di riforma costituzionale come G. Severini, P. Carpentieri, Sull'inutile, anzi dannosa, modifica dell'art. 9 della Costituzione, in GiustiziaInsieme, 22 settembre 2021 o C. Sartoretti, La riforma costituzionale “dell’ambiente”: un profilo critico, in Riv. giur. edil., 2022, 119 ss., che evidenzia come “tuttavia, se l'idea del nostro Parlamento di fare assurgere la tutela dell'ambiente al rango di principio costituzionale codificato è certamente apprezzabile sotto il profilo delle ragioni che lo hanno spinto a questa decisione, desta invece alcuni dubbi e certune perplessità con riguardo ai contenuti dei novellati artt. 9 e 41, e solleva soprattutto un interrogativo di fondo circa la reale necessità di una siffatta riforma costituzionale”. Su questa riforma v. ancora M. Bertolissi, Amministratori, non proprietari dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, in Federalismi, n. 6-2023, 24 ss.; P. Lombardi, Ambiente e generazioni future: la dimensione temporale della solidarietà, in Federalismi, n. 1-2023, 86 ss.; M. Poto, La tutela costituzionale dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, in Resp. civ. e prev., 2022, 1057 ss.; G. Amendola, L’inserimento dell’ambiente non è né inutile né pericoloso, in GiustiziaInsieme, 25 febbraio 2022; R. Montaldo, La tutela costituzionale dell’ambiente nella modifica degli artt. 9 e 41 Cost.: una riforma opportuna e necessaria, in Federalismi, n. 13-2022, 187 ss.; L. Cassetti, Riformare l’art. 41 della Costituzione: alla ricerca di “nuovi” equilibri tra iniziativa economica privata e ambiene?, in Federalismi, n. 4-2022, 188 ss.; R. Fattibene, Una lettura ecocentrica del novellato articolo 9 della Costituzione, in Nomos, n. 3-2022. Cfr. altresì F. Fracchia, L’ambiente nell’art. 9 della Costituzione: un approccio “in negativo”, in Dir. econ., 2022, 15 ss.
[xxv] Si rinvia anzitutto a M.S. Giannini, Sull'articolo 9 Cost. (la promozione culturale), in Aa. Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, 435 ss.
[xxvi] Anzi, occorre implementarla: v. sul punto M. Timo, Implementare la resilienza del patrimonio culturale, in Dir. econ., 2022, 409 ss.
[xxvii] Così T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, Giuffrè, 2001, 47.
[xxviii] Su questo cfr. C.A. D’Alessandro, Il patrimonio culturale immateriale. Il lungo cammino per la sua tutela giuridica e l’apporto culturale di Claude Lévi-Strauss, in Società e diritti, fasc. 13-2022, 136 ss.; F. Ferrara, Il patrimonio culturale immateriale. Considerazioni per un alternativo modello di tutela e valorizzazione, in Ambientediritto.it, fasc. 3-2021, 96 ss.; G. Soricelli, Beni culturali immateriali e diritto al bene culturale: prospettive per una ricerca, in Federalismi, fasc. n. 15-2019, 2 ss.; A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, fasc. 1-2019, 83 ss. Si v. anche le riflessioni di A. Lalli, L’immateriale dei beni culturali nell’era digitale: valori culturali ed economici, in Dir. e proc. amm., 2022, 671 ss.
[xxix] Come ricordato, da ultimo, da Cons. Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752, in Guida dir., 2023, 31 ss.
[xxx] Introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. c), del d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62.
[xxxi] In termini T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 12 ottobre 2021, n. 2212, in Foro amm., 2021, 1504 ss.
[xxxii] Così Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2561, in Foro it., 2023, 6, III, 287 ss.
[xxxiii] Cfr. C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2011, spec. 23 ss.
[xxxiv] In generale si consenta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, L’integrazione amministrativa e la tutela dei diritti. Problemi e prospettive alla luce della crisi sistemica dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2020.
[xxxv] Cfr., ad esempio, C. Videtta, Riflessioni sulla verifica dell’interesse culturale alla luce delle esigenze di semplificazione delle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico espresse dal decreto c.d. “Semplifica Italia”, in Dir. econ., 2014, 309 ss.; in giurisprudenza di recente v. Cass. civ., Sez. II, 28 giugno 2023, n. 18423, in Guida dir., 2023, 29 ss.
[xxxvi] Si deve partire certamente da O. Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico. Capitolo III: Teoria, in Riv. it. sc. giur., XXV, 1898, 1-55; G. Salemi, Natura giuridica dell’uso comune dei beni demaniali, Sassari, Tip. Gailizzi, 1923; P. Bodda, In tema di proroga legale delle concessioni di beni demaniali, in Riv. dir. comm., 1950; A. Barucchi, Riflessioni in tema di beni demaniali e di alcuni loro usi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 329 ss.
[xxxvii] Cfr. le riflessioni di A. Romano, Demanialità e patrimonialità: a proposito dei beni culturali, in V. Caputi Jambrenghi (a cura di), La cultura e i suoi beni giuridici, Milano, Giuffrè, 1999, 406 ss.
[xxxviii] In tema si v. anzitutto A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1959, vol. V, 277 ss.
[xxxix] Cass. civ., Sez. II, 23 maggio 2023, n. 14105, in Giust. civ. Mass., 2023, ricorda, in tema, come l'immobile di proprietà di un Comune che, sebbene non iscritto nell'elenco di cui all'art. 4, co. 1, della l. n. 1089 del 1939, sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 822 e 824 cod. civ., al regime del demanio pubblico, con la conseguenza che non può essere sottratto alla propria destinazione, né può essere oggetto di usucapione, indipendentemente dal momento in cui sia apposto il vincolo, atteso che quest'ultimo ha una mera efficacia dichiarativa, volta ad attestare in capo all'immobile una prerogativa già esistente.
[xl] Così A. Crosetti, D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2014, 81 ss.
[xli] Su cui, in generale, cfr. V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1987, Vol. II, 275 ss.
[xlii] Cass. civ., Sez. Un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giust. civ., 2011, 3, I, 595 ss. Al riguardo v. il commento di F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici, in Giorn. dir. amm., 2011, 1170 ss.
[xliii] Da ultimo v. di S. Rodotà, I beni comuni e l’inaspettata rinascita degli usi collettivi, in Riv. critica dir. priv., 2022, 11 ss.
[xliv] Cfr. al riguardo S. Foà, I beni pubblici, in C.E. Gallo (a cura di), Manuale di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2023, spec. 367.
[xlv] V., in tema, V. Cerulli Irelli, Proprietà, beni pubblici, beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 639 ss.; G. Arena, Da beni pubblici a beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 647 ss.; M. Cafagno, Beni comuni, norme, comportamenti, in Riv. quad. dir. ambiente, 2022, 181 ss.; G. Fidone, Dai beni comuni all’amministrazione condivisa, in Dir. e proc. amm., 2022, 435 ss.; U. Mattei, L’innesto della giustizia ecologica nel codice civile. Eguaglianza e beni comuni fra legge e diritto, in Quest. Giust., 2020, 53 ss.; V. Molaschi, Economia collaborativa e beni comuni: analogie, differenze e intersezioni nella prospettiva di uno sviluppo urbano sostenibile, in Dir. econ., 2020, 345 ss.; E. Boscolo, I beni ambientali (demaniali e privati) come beni comuni, in Riv. giur. amb., 2017, 379 ss.
[xlvi] Sul punto cfr. S. Marotta, Per una lettura sociologica-giuridica dei beni culturali come beni comuni, in Munus, 2016, 439 ss.; V. Caputi Jambrenghi, Bene comune (obblighi e utilità comuni) e tutela del patrimonio culturale, in GiustAmm, 2015.
[xlvii] Per una critica della categoria cfr. G. Perlingieri, Criticità della presunta categoria dei beni c.d. “comuni”. Per una “funzione” e una “utilità sociale” prese sul serio, in Rass. dir. civ., 2022, 136 ss. Si v. anche S. Staiano, “Beni comuni” categoria ideologicamente estenuata, in Dir. e soc., 2016, 415 ss.
[xlviii] L’orientamento della pronunzia in commento, come detto, è innovativo rispetto a quanto sostenuto anche dal Consiglio di Stato in passato. Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933, in www.giustizia-amministrativa.it aveva affermato, ad esempio, che per i beni culturali in senso proprio non è consentito, di regola, il vincolo di mera destinazione d'uso, salvo che per gli studi d'artista, in ragione della specifica previsione dell'art. 51, co. 1, Cod. beni culturali, con la conseguenza che deve ritenersi di dubbia legittimità anche il vincolo di destinazione merceologica per i negozi storici, dato che sotto il profilo della tutela costituiscono un minus rispetto ai beni culturali.
[xlix] Come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2017, n. 5737, in Foro amm., 2017, 2401 ss., lo speciale vincolo previsto dall'art. 51, co. 1, Codice beni culturali, per gli studi d'artista, comporta sia il divieto di modificare la destinazione d'uso dello studio ove l'artista ha operato sia il divieto di rimuoverne il contenuto, costituito da opere, documenti, cimeli e simili, qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico.
[l] Che sussiste, in attuazione dell’art. 9 Cost., per rendere immodificabili l'ambiente e i luoghi nei quali effettivamente operò l'artista, al fine di conservare intatta la testimonianza dei valori culturali in esso insiti, testimonianza che giustifica il valore storico del bene: così T.A.R. Abruzzo, Sez. L’Aquila, Sez. I, 14 febbraio 2013, n. 121, in Foro amm. TAR, 2013, 2, 573 ss.
[li] Corte cost., 24 giugno 2004, n. 185, in Giur. cost., 2004, 5, 3278 ss.
[lii] Pronunzia commentata da G. Botto, Tutelare il valore culturale immateriale: il vincolo di destinazione d’uso, in Giorn. dir. amm., 2023, 517 ss., secondo cui quanto affermato dall’Adunanza Plenaria “pone le basi per una notevole valorizzazione della disciplina vivente in chiave evolutiva, affermando la possibilità di implementare i principi maturati a livello internazionale e sovranazionale tramite un'interpretazione della disciplina nazionale alla loro luce”.
[liii] Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, in Foro amm., 2023, 2, II, 162 ss.
[liv] In tema v., ad esempio, G.P. Cirillo, Il diritto al borgo come una delle declinazioni del diritto alla bellezza e come luogo “dell’altrove”, in Giustiziainsieme, 30 marzo 2023; P. Carpentieri, Valore culturale dei centri storici “vs.” concorrenza e mercato, in Riv. giur. edil., 2019, 425 ss.; A. Sau, La rivitalizzazione dei centri storici tra disciplina del paesaggio, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, in Le Regioni, 2016, 955 ss.; C. Videtta, I “centri storici” nella riforma del Codice dei beni culturali, in Riv. giur. edil., 2010, 47 ss.
[lv] Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933, in www.giustizia-amministrativa.it.
[lvi] Ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198, in Foro amm. CdS, 2011, 2511 ss.; Cons. Stato, Sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009, in Foro amm. CdS, 1515 ss.
[lvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266, in Cons. Stato, 1998, I, 1346 ss.
[lviii] Anche Cass. pen., Sez. III, 29 settembre 2011, n. 42065, in Dir. & Giust., 2011 ha ricordato che gli interventi che incidono sulla conservazione e l'integrità del bene storico sono possibili e, dunque, autorizzabili, esclusivamente qualora essi mirino a valorizzare o meglio utilizzare il bene protetto, anche mediante modifiche d'uso che ne salvaguardino, pur in una prospettiva di adeguamento al mutare delle esigenze, la natura e il valore.
[lix] In tema cfr. altresì P. Marzaro, Vincolo culturale di destinazione d’uso: il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni della p.a. e il rischio dell’”effetto paradosso”, in Aedon, 2023.
[lx] Si rinvia anzitutto a M.S. Giannini, Sull'articolo 9 Cost. (la promozione culturale), in Aa. Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, 435 ss.
[lxi] Su questa cfr. G. Poggeschi, La “Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità e delle espressioni culturali” dell'Unesco entra a far parte del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama degli strumenti giuridici internazionali?, in Aedon, n. 2/2007.
[lxii] L. Casini, “Giochi senza frontiere?”: giurisprudenza amministrativa e patrimonio culturale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 914 ss., sottolineando il ruolo di “custode” del giudice amministrativo in materia di beni culturali, osserva come questo “ha spesso avallato e condiviso alcune scelte coraggiose dell'amministrazione, specialmente quando si è trattato di applicare in modo estensivo la disciplina di tutela anche ad attività o comunque a situazioni di confine: si pensi alle pronunce in materia di locali storici o sulla tutela del decoro”.
[lxiii] Su questo principio si rinvia a L. Lamberti, F.G. Scoca, Valutazioni tecniche, tutela del patrimonio culturale e principio di proporzionalità, in Federalismi, fasc. n. 22-2023, 224 ss.
[lxiv] Così, ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 19 maggio 2021, n. 5864, in Riv. giur. edil., 2021, 4, I, 1355 ss. Contra, però, in senso quasi anticipatorio Cons. Stato, Sez. VI, n. 4147/2005, in www.giustizia-amministrativa.it, con riferimento al caso della Chincagliera La Coroncina, che ha ritenuto legittimo il provvedimento di vincolo impugnato in quanto con esso “non si è provveduto a tutelare l'attività commerciale, determinandone l'inamovibilità, ma si è disposto l'assoggettamento alla disciplina di cui alla l. n. 1089 del 1939 dei locali in cui l'attività stessa è situata. Ciò non comporta l'immodificabilità dell'esercizio commerciale ma impone l'esercizio d'attività compatibili con le caratteristiche storiche ed architettoniche dell'immobile”.
[lxv] In questo senso si esprimeva già Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003, in Riv. giur. edil., 2015, 3, I, 446 ss.
[lxvi] Il problema era già stato evidenziato da A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amm. CdS, 2008, 2261 ss.