Revoca di finanziamenti pubblici per la realizzazione di progetti di accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo:
la giurisdizione è del giudice amministrativo (nota a Cons. Stato, Sez. III, 28 maggio 2020, n. 3375)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’organizzazione del sistema di accoglienza della popolazione immigrata in Italia. – 3. La tesi (respinta) dell’inquadramento del modello di finanziamento dei progetti di accoglienza in una dinamica di tipo contrattuale. – 4. La duplice ratio del riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo: la riconducibilità della fattispecie nell’ambito degli accordi ex art. 15, l. n. 241/1990 e la natura discrezionale del potere esercitato.
1. La vicenda. Nel 2016 un’amministrazione comunale – dopo aver positivamente portato a compimento un progetto triennale di accoglienza nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) – otteneva un nuovo finanziamento da parte del Ministero dell’Interno per un ulteriore triennio (2017/2019). Le modalità di accesso da parte degli enti locali ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo, disciplinate nel Decreto del Ministero dell’Interno del 10 agosto 2016 e nelle relative Linee Guida, individuano, tra l’altro, alcuni requisiti organizzativi e funzionali che i progetti presentati devono soddisfare e la cui permanenza deve essere garantita per l’intero periodo di realizzazione delle attività proposte, pena la revoca del finanziamento stesso.
Ebbene, mentre nel corso del triennio precedente (2014/2016) il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno non aveva rilevato alcuna specifica criticità relativamente alle azioni di accoglienza poste in essere dal Comune in questione, a seguito del secondo finanziamento l’attività di monitoraggio aveva invece fatto emergere diverse (presunte) inosservanze. In particolare, i rilievi effettuati all’esito di numerose ispezioni riguardavano: l’individuazione di strutture di accoglienza inadeguate, il mancato rispetto di alcune prescrizioni relative ai requisiti dei soggetti beneficiari, il mancato svolgimento di procedure di evidenza pubblica per l’individuazione degli enti attuatori del progetto, la non integrale attivazione dei servizi previsti, nonché alcune incongruenze nel reperimento degli appartamenti presso i quali alloggiare la popolazione immigrata e nella determinazione dei relativi canoni di locazione.
Tutte le criticità rilevate venivano puntualmente riscontrate dall’amministrazione comunale, contestandone la fondatezza. Ciò nonostante, il Ministero – ritenendo evidentemente non esaustive le osservazioni presentate dall’ente locale – emanava un provvedimento con il quale disponeva la revoca parziale del finanziamento originariamente riconosciuto.
Il Consiglio di Stato – aderendo alle conclusioni cui era già giunto il T.A.R. Reggio Calabria in primo grado, e dopo aver dichiarato la sussistenza della propria giurisdizione – ha rilevato la sussistenza di comportamenti contraddittori da parte del Ministero, nonché di alcuni vizi procedurali tali da comportare la violazione del principio di leale collaborazione tra amministrazioni e, pertanto, ha confermato l’annullamento del provvedimento di revoca impugnato. Le riflessioni che seguono avranno specificamente ad oggetto il primo dei motivi di appello presentati dal Ministero, ovvero il presunto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
2. L’organizzazione del sistema di accoglienza della popolazione immigrata in Italia. Prima di esaminare le ragioni che hanno condotto il Consiglio di Stato a dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo, appare utile soffermarsi sui caratteri del sistema di accoglienza della popolazione immigrata operante nel nostro Paese. Esso è fondato sostanzialmente su un duplice livello di intervento. Il primo di questi, configurante la c.d. prima accoglienza, è rappresentato dagli hotspot[1] e dai centri di prima accoglienza, luoghi nei quali si svolgono attività di primo soccorso e di identificazione. All’interno dei suddetti centri – gestiti direttamente dal Ministero dell’Interno – si dà avvio anche alle pratiche amministrative per la domanda di protezione internazionale o, al contrario, in mancanza dei presupposti di legge, si procede al trasferimento presso un Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR).
In altri termini, è previsto che l’immigrato, entro 48 ore dal suo arrivo (almeno in linea teorica)[2], venga indirizzato presso un centro di seconda accoglienza, al fine di avviare l’istruttoria finalizzata alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti per ottenere protezione internazionale, o presso un CPR, in attesa di essere rimpatriato. In questa seconda ipotesi, lo straniero irregolare si viene a trovare in una condizione di “detenzione amministrativa” (della durata massima di 180 giorni), che poco si discosta da un vero e proprio carcere[3] e che ha fatto registrare negli ultimi anni numerosi episodi di violazione di diritti fondamentali[4]. Tuttavia, con il c.d. decreto Minniti, d.l. n. 13 del 17 febbraio 2017 (convertito con legge 13 aprile 2017, n. 46), sono state introdotte alcune modifiche, di carattere organizzativo e procedimentale, volte a riconoscere anche nei confronti dell’immigrato irregolare quella dimensione di dignità della persona che non può che prescindere dallo status – regolare o irregolare – della stessa[5].
Per quanto maggiormente rileva in questa sede, i migranti richiedenti protezione internazionale – una volta identificati negli hotspot e nei centri di prima accoglienza – vengono accolti nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), ovvero, solo in assenza di posti sufficienti, nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Il sistema SPRAR, a cui afferisce il progetto di accoglienza oggetto della pronuncia in commento, è stato introdotto con l’art. 32, co.1-sexies della l. n. 189/2002 e configura un modello di intervento che coinvolge contemporaneamente più livelli di amministrazione (Ministero, ANCI, Enti locali), ciascuno con una propria specifica funzione, a carattere programmatorio, gestionale o attuativo. I soggetti che partecipano in forma stabile sono il Ministero dell’Interno e l’ANCI (a cui è affidata con convenzione la struttura di coordinamento del sistema), mentre il coinvolgimento degli enti locali – individuati quali veri attori della realizzazione degli interventi di accoglienza e integrazione – si fonda sulla loro adesione volontaria: in altri termini, partecipano alla rete SPRAR unicamente quelle amministrazioni locali che scelgono di mettere a disposizione aree e risorse per l’accoglienza di nuovi migranti[6]. L’idea ispiratrice è quella di non limitarsi a fornire una mera accoglienza allo straniero, bensì di facilitarne nel contempo l’integrazione nella comunità ricevente, attraverso: a) l’attribuzione temporanea di alloggi diffusi sul territorio (meno impattanti dei centri di accoglienza collettiva); b) l’offerta di servizi di mediazione linguistica e culturale, orientamento e accompagnamento al lavoro per un periodo di 6 mesi, prorogabile al massimo di altri 6, in modo tale da far si che – dopo al più un anno – il migrante abbia tutti gli strumenti per potersi inserire autonomamente nella comunità[7].
Negli anni si sono registrate numerose esperienze di successo di progetti SPRAR, specialmente in comuni economicamente depressi, con forte deficit demografico, che hanno iniziato a “rinascere” proprio grazie alla presenza di un numero sostenibile di migranti, non ghettizzati, bensì fin da subito integrati nelle dinamiche sociali e civili dell’ente locale[8]. Tuttavia, il sistema ha complessivamente evidenziato non poche criticità, rappresentate principalmente dalla scarsa adesione allo stesso da parte delle amministrazioni locali: a fine 2018 la rete SPRAR, pur rappresentando in linea teorica il modello di accoglienza ordinario, copriva solo il 20% dei migranti, mentre l’80% fruiva di quella che era stata immaginata dal legislatore come un’ipotesi eccezionale, ovvero i Centri di Accoglienza Straordinaria[9]. L’esiguo numero di adesioni spontanee alla rete SPRAR ha indotto il legislatore ad intervenire: non, però, individuando strumenti in grado di incentivare i comuni a presentare progetti di accoglienza diffusa, quanto piuttosto riducendo la portata applicativa di tale modello di intervento. Nello specifico, il c.d. decreto sicurezza (d.l. n. 113/2018) ha sostituito la rete SPRAR con il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori non accompagnati (SIPROIMI), incidendo sul profilo soggettivo dei beneficiari del modello di accoglienza integrata e diffusa[10]: quest’ultimo è oggi destinato unicamente a coloro che sono già riconosciuti titolari di protezione, escludendo invece coloro che sono ancora in attesa di ricevere risposta alla loro istanza[11]. I richiedenti asilo, pertanto, sono oggi regolarmente destinati ai centri di seconda accoglienza originariamente individuati come eccezionali, ovvero nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), profondamente distanti dal modello SPRAR: da un lato, essi sono gestiti dalle Prefetture e non dagli enti locali (in un’ottica securitaria); dall’altro lato, essi hanno come obiettivo primario, anziché l’integrazione dei migranti, la loro mera “gestione” temporanea. Con la paradossale conseguenza che – sebbene una parte dei soggetti ivi ospitati sia destinata ad ottenere il permesso di soggiorno – nessuno di loro beneficerà di processi di integrazione, se non all’esito (positivo) della loro istanza[12].
Ciò premesso, al fine di inquadrare correttamente le conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, occorre sottolineare che il sistema di accoglienza ex SPRAR/SIPROIMI – sebbene abbia visto ridursi il proprio ambito di applicazione[13] – si conferma un modello di intervento espressione di una multilevel governance, imposto, del resto, dalla complessità stessa del fenomeno[14]. In particolare, al Ministero dell’Interno è affidato il ruolo di coordinare tale tipologia di intervento con gli ulteriori modelli di accoglienza operanti in Italia, nonché di monitorare la gestione economica dei progetti finanziati; il Servizio Centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico, affidato con convenzione all’ANCI, svolge il compito di coordinare e supportare sul piano tecnico/operativo le amministrazioni locali nella realizzazione dei progetti territoriali; gli enti locali, in ultimo, gestiscono in via diretta – avvalendosi di enti del terzo settore – le attività di accoglienza e di integrazione della popolazione immigrata.
3. La tesi (respinta) dell’inquadramento del modello di finanziamento dei progetti di accoglienza in una dinamica di tipo contrattuale. Una volta delineati i caratteri essenziali del sistema di c.d. seconda accoglienza, è possibile esaminare più specificamente il modello di finanziamento dei relativi progetti che gli enti locali sono chiamati a realizzare.
Ai sensi dell’art. 32, 1-sexies della l. n. 189/2002, il Ministro dell’interno provvede al sostegno finanziario dei servizi di accoglienza diffusa afferenti alla rete SPRAR, attraverso l’emanazione di un decreto contenente le modalità di presentazione delle domande di contributo, i criteri per la verifica della corretta gestione dello stesso e le modalità per la sua eventuale revoca. Il successivo art. 32, 1-septies istituisce, a tali fini, un apposito Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Gli enti locali interessati, in forma singola o associata, presentano le istanze per accedere al contributo – allegando il progetto di accoglienza ed il relativo piano finanziario – istanze che sono valutate da una commissione ministeriale e, ove ritenute ammissibili, inserite in apposite graduatorie, per poi essere finanziate progressivamente in base alla disponibilità del Fondo.
In tale contesto assume notevole rilevanza il d.m. 10 agosto 2016, con il quale si è provveduto, tra l’altro, a disciplinare l’accesso degli enti locali ai finanziamenti di cui al suddetto Fondo ministeriale[15]. Gli elementi maggiormente significativi ivi previsti sono rappresentati: dal superamento del sistema dei bandi periodici, essendo stabilito che le domande di contributo possono essere presentate in qualsiasi momento; dalla deroga alla originaria soglia massima di finanziamento ministeriale dell’80% del valore del progetto (fortemente disincentivante), il che ha consentito di giungere all’attuale assetto in base al quale il Ministero dell’Interno eroga il 95% delle risorse economiche necessarie per la realizzazione delle misure di accoglienza[16]. In ultimo, per quanto maggiormente rileva in questa sede, occorre precisare che ai sensi dell’art. 27 dell’allegato al d.m. 10 agosto 2016, all’atto dell’assegnazione del contributo viene attribuito un punteggio di 20 punti a ciascun progetto, suscettibile di subire decurtazioni in ipotesi di inosservanze degli obblighi connessi all’erogazione dei servizi di accoglienza, decurtazioni che possono condurre anche alla revoca, parziale o totale, del contributo.
Stante il modello di finanziamento descritto, nella vicenda in esame la difesa del Ministero dell’Interno ha sostenuto di poter qualificare la revoca parziale del finanziamento ministeriale in termini di atto negoziale, rientrante in una dinamica di tipo contrattuale. In tale ottica è stata richiamata quella giurisprudenza consolidata che – in relazione a fattispecie concernenti l’erogazione di sovvenzioni o contributi pubblici nei confronti di operatori economici – afferma la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario “in ordine alle controversie originate dalla revoca di un contributo statale, sia, in generale, quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge ed alla pubblica amministrazione è demandato il solo compito di verificare l'effettiva esistenza dei presupposti per la sua concessione, senza alcuno spazio discrezionale in ordine all'an, al quid ed al quomodo dell’erogazione, sia, in particolare, quando la revoca discenda dall'accertamento di un inadempimento (da parte del fruitore) delle condizioni stabilite in sede di erogazione o comunque dalla legge stessa”[17].
Secondo la prospettazione del Ministero, nella fattispecie oggetto della sentenza in commento la giurisdizione del giudice ordinario discenderebbe dalla circostanza che la revoca adottata dal Ministero dell’Interno sarebbe stata disposta non nell’esercizio di un potere discrezionale di autotutela, bensì sulla base della oggettiva rilevazione di taluni inadempimenti di specifici obblighi individuati in sede di erogazione del contributo. Si tratterebbe, in altri termini, di un atto che – ancorché formalmente qualificato provvedimento di “revoca” – configurerebbe in realtà un atto avente natura paritetica, con la conseguenza che la posizione giuridica del privato che risulta lesa avrebbe la natura di diritto soggettivo.
4. La duplice ratio del riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo: la riconducibilità della fattispecie nell’ambito degli accordi ex art. 15, l. n. 241/1990 e la natura discrezionale del potere esercitato. Sulla base di un duplice percorso argomentativo, il Consiglio di Stato ha ritenuto di non poter aderire a quanto prospettato dalla difesa Ministeriale, concludendo per la sussistenza della propria giurisdizione in ordine alla fattispecie de qua. In particolare, i giudici di Palazzo Spada inquadrano il rapporto tra ente erogatore del finanziamento (Ministero) ed ente beneficiario del contributo (ente locale) nell’ambito di un più ampio contesto di esercizio coordinato di funzioni, che comprende anche l’ANCI. A supporto della ricostruzione offerta, la pronuncia in commento ricorda che il sistema di accoglienza e integrazione dei richiedenti protezione internazionale rinviene la sua origine in un atto di tipo convenzionale, ovvero in un protocollo di intesa siglato nel 2001 tra il Ministero dell’Interno, l’ANCI e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) per la realizzazione del PNA (Programma Nazionale Asilo), protocollo che già prevedeva il coinvolgimento degli enti locali, secondo un modello di condivisione di responsabilità tra questi ultimi ed il Ministero dell’Interno.
In tale ottica, invero, potrebbe richiamarsi anche il d.lgs. n. 142/2015 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonchè della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), il cui art. 8 rileva la necessità che il sistema di accoglienza sia fondato sulla leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, sin dal momento della programmazione, prevedendo a tal fine Tavoli di coordinamento sia a livello nazionale che regionale (art. 16). In particolare, a livello nazionale, il Tavolo è chiamato ad individuare le linee di indirizzo del sistema di accoglienza, nonché i criteri di ripartizione regionale dei posti, d’intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali. I Tavoli regionali si occupano, invece, di individuare i criteri di ripartizione dei posti all’interno di ciascuna Regione nell’ambito del Sistema SPRAR.
Il “momento” del finanziamento governativo, pertanto, rappresenta semplicemente il tassello di un più ampio sistema di governance multilivello[18], che presuppone a monte un percorso di concertazione interistituzionale a carattere programmatorio, ed a valle la concreta realizzazione degli interventi da parte degli enti locali. A questi ultimi, come detto, è affidato il compito di progettare e porre in essere (coadiuvati da organizzazioni del terzo settore) le azioni di accoglienza diffusa ed i servizi di integrazione. Per un corretto inquadramento della funzione esercitata dalle amministrazioni locali giova richiamare il Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria[19], ove si chiarisce che “lo SPRAR – per sua stessa natura, a partire dalla titolarità degli enti locali – è e deve essere percepito come parte integrante del welfare locale […] non è altro rispetto al welfare, […] deve poter essere considerato come valore aggiunto sul territorio, capace di apportare cambiamenti e rafforzare la rete dei servizi, di cui possa avvalersi tutta la comunità dei cittadini, autoctoni o migranti che siano”.
L’intervento degli enti locali viene pertanto a configurarsi, nel contempo, come espressione di funzioni proprie (welfare locale) e come ultima fase (attuativa) di un articolato (ma unitario) esercizio di funzioni coordinate, tutte finalizzate al perseguimento di un fine comune. Nell’ambito di tale complesso sistema di intervento, in altri termini, gli enti locali non si pongono affatto come meri beneficiari di contributi finanziari governativi al pari di operatori economici ai quali è occasionalmente affidato l’esercizio di un’attività di interesse pubblico. Il rapporto tra enti locali e Ministero non può ridursi a mero rapporto di tipo sinallagmatico, configurando, piuttosto, una relazione di tipo convenzionale attraverso cui due o più pubbliche amministrazioni, mediante azioni coordinate ispirate al principio di leale collaborazione, perseguono obiettivi di interesse comune. Anche il ruolo di controllo esercitato dal Ministero (art. 20 d.l. n. 113/2018 e artt. 25 e 27 dell’allegato al d.m. 10 agosto 2016), idoneo a sfociare – nel caso – nella emanazione di provvedimenti di revoca quale quello oggetto di impugnazione, viene a configurarsi quale espressione di un rapporto di tipo convenzionale, le cui esigenze di efficienza ed efficacia impongono che, come in un cerchio, l’azione abbia inizio (finanziamento) e fine (verifica della qualità dei servizi di accoglienza offerti) in capo al medesimo soggetto istituzionale.
Si viene a configurare, in altri termini, un accordo riconducibile alla fattispecie disciplinata in termini generali dall’art. 15 della l.n. 241/1990, ai sensi del quale “Le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di comune interesse”[20]. Sul punto, del resto, la giurisprudenza è chiara nell’affermare che i protocolli di intesa quali quello de quo, rappresentano uno dei moduli convenzionali, sussumibili nel genus dell’accordo ex art. 15 cit., atti a disciplinare l’esercizio coordinato di funzioni nell’ambito di un sistema di multilevel governance[21].
Una volta ricondotto l’atto di revoca impugnato nell’ambito dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, ne discende conseguentemente la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, sub specie di giurisdizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. a) n. 2 del d.lgs. n. 104/2010 (Codice del processo amministrativo). Si tratta, come noto, di una peculiare fattispecie di giurisdizione esclusiva, in quanto non propriamente collegata ad una “materia”, bensì ad una modalità di esercizio del potere (l’accordo), con la conseguenza che – a prescindere dagli interessi pubblici perseguiti – è riservata alla giurisdizione del g.a. qualsiasi controversia che abbia origine dalla formazione, conclusione o esecuzione di un accordo fra pubbliche amministrazioni[22]. Nel caso di specie, appare evidente come il provvedimento con il quale il Ministero dell’Interno ha revocato parzialmente il contributo originariamente concesso all’ente locale rappresenti un atto di esecuzione del protocollo di intesa tra Stato e enti locali sul quale si fonda l’intero sistema di protezione dei richiedenti asilo in Italia[23]. Ad avvalorare la correttezza di tale ricostruzione può richiamarsi, infine, una recente pronuncia del T.A.R. Toscana, avente ad oggetto una fattispecie analoga, nella quale si afferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ipotesi di impugnazione di un provvedimento di revoca di un contributo pubblico concesso dalla Regione ad un Comune nell’ambito di un patto territoriale (ulteriore schema convenzionale riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 15, l. n. 241/1990) in sede esecutiva del rapporto di contribuzione[24].
Trattandosi di giurisdizione esclusiva del g.a., non assume evidentemente alcuna rilevanza il profilo circa la natura giuridica (diritto soggettivo o interesse legittimo) della situazione giuridica soggettiva di cui si chiede tutela[25]. Ciò nonostante, il Consiglio di Stato afferma condivisibilmente che – se anche dovesse applicarsi alla fattispecie de qua il generale criterio di riparto del petitum sostanziale – la giurisdizione sarebbe comunque da attribuire al giudice amministrativo. All’ente locale beneficiario del finanziamento, infatti, non è possibile riconoscere la titolarità di un diritto soggettivo all’ottenimento ed alla conservazione del contributo finanziario, tale da radicare la giurisdizione del giudice ordinario. Come dimostrato dalla ricostruzione della vicenda, il provvedimento di revoca in questione non è scaturito dalla semplice verifica oggettiva di specifici inadempimenti da parte dell’ente locale (espressione di un potere vincolato), bensì da un complesso procedimento di monitoraggio nell’ambito del quale gli uffici ispettivi del Governo sono stati chiamati ad effettuare valutazioni a carattere discrezionale tese a determinare se i rilievi emersi nel corso dei controlli potessero o meno comportare la decurtazione del punteggio originariamente riconosciuto al progetto di accoglienza. Il Ministero dell’Interno, in altri termini – secondo la logica del contrarius actus – ha riesercitato il medesimo potere autoritativo discrezionale di cui si era valso in sede di valutazione del progetto e di attribuzione del punteggio, il che comporta, da un lato, che la posizione giuridica soggettiva da riconoscere in capo all’ente locale è di interesse legittimo, e dall’altro lato, che la giurisdizione (quand’anche non si volesse ritenere sussistente la giurisdizione esclusiva del g.a.) spetta al giudice amministrativo.
La stessa giurisprudenza della Cassazione richiamata dal Ministero al fine di supportare la tesi della sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, del resto, ha chiarito che la regola dell’attribuzione delle fattispecie di revoca di contributi pubblici alla giurisdizione del g.o. subisce delle specifiche deroghe, nei casi in cui la mancata erogazione (o il ritiro/revoca di essa) consegua all’esercizio di poteri di carattere autoritativo, espressione di autotutela della pubblica amministrazione, sia per vizi di legittimità, sia per contrasto, originario o sopravvenuto, con l’interesse pubblico[26]. Come ribadito anche da recentissima giurisprudenza[27], allorquando la revoca di un provvedimento non consegua all’esercizio di un potere vincolato, essa incontra precisi limiti di carattere motivazionale e procedurale, connessi al necessario rispetto dei principi di correttezza, ragionevolezza, e proporzionalità dell’azione amministrativa, in una prospettiva di valorizzazione della stabilità degli effetti dei provvedimenti amministrativi[28].
[1] C. Leone, La disciplina degli hotspot nel nuovo art. 10-ter del d.lgs. n. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2/2017, 1 ss. Ad oggi risultano operativi cinque hotspot presso Lampedusa, Taranto, Pozzallo, Messina e Trapani (cfr. la Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale per l’anno 2019, in www.garantenazionaleprivatiliberta.it).
[2] Nella realtà, purtroppo, la permanenza nei centri di prima accoglienza può durare settimane, anche per le difficoltà che spesso si incontrano nell’attività di identificazione, nonché nella individuazione di una idonea destinazione presso un centro di seconda accoglienza. Cfr. G.G. Nucera, La disciplina del trattenimento dei migranti in Italia e la sua conformità agli obblighi internazionali di tutela dei diritti umani, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 52 ss.
[3] G. Colavecchio, L’impatto del Decreto sicurezza sugli istituti di trattenimento dei migranti e dei richiedenti asilo alla luce del Diritto internazionale e dell’Unione europea, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 89 ss.; M. Calabrò, C. Frettoloso, R. Franchino, A. Violano, Legal, technological and environmental aspects of refugee camps, in Migration and the built environment in the Mediterranean and the middle east, Ariccia, 2016, 311 ss.
[4] S. Mirate, Gestione dei flussi migratori e responsabilità statali: riflessioni problematiche tra normative interne, prassi amministrative e giurisprudenza CEDU, in Resp. civ. e previdenza, 2017, 43 ss. In ordine a tale profilo, è nota la pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso Khlaifia e altri c. Italia (15 dicembre 2016), nella quale la CEDU ha condannato l’Italia per violazione di alcuni diritti fondamentali nella gestione dei centri di prima accoglienza, in ragione dell’assenza di una chiara regolamentazione delle modalità di trattenimento degli immigrati, nonchè della mancanza di adeguate forme di comunicazione circa i loro diritti, le ragioni e la durata della loro detenzione (cfr. M. Savino, L’"amministrativizzazione" della libertà personale e del "due process" dei migranti: il caso Khlaifia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2015, 50 ss.). Diverse pronunce della Corte Costituzionale hanno, inoltre, avuto modo di pronunciarsi sul tema della tutela dei diritti fondamentali dei migranti, a prescindere dal loro status (cfr. Corte Cost., n. 2/2013; Corte Cost., n. 306/2008).
[5] L’art. 19, l.n. 46/2017, dispone che nella individuazione di nuovi CPR debba tenersi conto «della necessità di realizzare strutture di capienza limitata idonee a garantire condizioni di trattenimento che assicurino l'assoluto rispetto della dignità della persona». La medesima norma richiama anche il diritto di visita, nonché i poteri di verifica e di accesso del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
[6] P. Bonetti, Le nuove norme italiane sul diritto di asilo: trattenimento, identificazione e accoglienza dei richiedenti asilo, in Studium iuris, 2016, 708 ss.
[7] F. Manganaro, Politiche e strutture di accoglienza delle persone migranti, in www.federalismi.it, 21/2019, 24.
[8] D. Ferretti, Il welfare locale alla prova delle migrazioni. Un’analisi dei progetti Sprar nelle città medie italiane, in Autonomie locali e servizi sociali, 2017, 95 ss. Per una rassegna delle esperienze più significative si rinvia alla pagina web https://www.sprar.it/buone-prassi.
[9] L’Atlante SPRAR 2017, presentato a novembre 2018, fotografava un sistema di accoglienza per i migranti che contava complessivamente 165.773 posti, dei quali 129.904 erano nei Cas e solo 35.881 nei centri appartenenti alla rete SPRAR (https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2018/11/Atlante-Sprar-2017_Light.pdf).
[10] C. Sbailò, Immigrazione: il fallimentare approccio europeo e i limiti della risposta neo-sovranista, in www.federalismi.it, 3/2019.
[11] A ciò si aggiunga che si è contestualmente abolita la c.d. “protezione umanitaria”, il che comporta che coloro che sono titolari di tale protezione “residuale” in Italia (ad oggi più di 10.000 persone) sono destinati ad essere espulsi sia dalla rete SPRAR che dai CAS alla scadenza del periodo loro concesso. Per un commento critico a tale modifica normativa si rinvia a S. Agosta, Dalla certezza del diritto all’incertezza dei diritti (costituzionali) degli stranieri vulnerabili: il rischio della singolare nemesi delle Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale ed immigrazione, Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 24 ss.
[12] “La scelta normativa risponde evidentemente all’idea che garantire percorsi di integrazione “in via preventiva” a tutti i richiedenti asilo, prima di conoscere quali di essi abbiano effettivamente diritto a ricevere protezione internazionale, sarebbe contrario ai principi di economicità e ragionevolezza. Tale posizione, tuttavia, non tiene in debito conto i “costi indiretti” derivanti dalla mancata offerta ab initio di servizi di integrazione nei confronti di coloro che, all’esito dell’iter procedimentale, otterranno il permesso di soggiorno e – pur trovandosi sul territorio italiano da diversi mesi – non avranno beneficiato sino ad allora di alcuna politica inclusiva, con evidenti conseguenze su tempi e efficacia della loro integrazione” (M. Calabrò, La possibile rimodulazione del ruolo degli enti locali nella gestione dei flussi migratori, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 121).
[13] Secondo quanto emerge dall’analisi degli ultimi dati pubblicati (febbraio 2020), attualmente si registrano 688 enti locali titolari di progetto, per un numero complessivo di 808 progetti, destinati ad accogliere complessivamente 31.264 immigrati (cfr. https://www.siproimi.it/i-numeri-dello-sprar).
[14] M. Savino, Le libertà degli altri. La regolazione amministrativa dei flussi migratori, Milano, 2012.
[15] S. Penasa, L’accoglienza dei richiedenti asilo: sistema unico o mondi paralleli?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2017, 14-23.
[16] Da quanto appena osservato, sia detto per inciso, emerge tra l’altro come il citato fenomeno della modesta adesione da parte degli enti locali alla rete SPRAR non possa trovare una giustificazione di tipo finanziario in quanto, come visto, quasi l’intera operazione grava sul bilancio statale. “La suddetta criticità di sistema può spiegarsi, piuttosto, con il timore degli amministratori locali di “inimicarsi” i propri elettori aderendo spontaneamente ad un programma destinato a condurre nuovi migranti sul territorio” (M. Calabrò, La possibile rimodulazione del ruolo degli enti locali nella gestione dei flussi migratori, cit., 122).
[17] Cass. civ., Sez. Un., 9 agosto 2018, n.20683. In termini cfr. Cass. civ., Sez. Un., 5 novembre 2019, n. 28332; Cass. civ., Sez. Un., 20 luglio 2011, n. 15867; T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 31 marzo 2020, n. 224; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 febbraio 2020, n. 1397; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 2019, n. 7136.
[18] F. Campomori, La governance multilivello delle politiche di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia, in Istituzioni del federalismo, I, 2019, 5 ss.
[19] Pubblicato dal Ministero dell’interno nell’agosto del 2018 e reperibile al seguente link: https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2018/08/SPRAR-Manuale-Operativo-2018-08.pdf.
[20] R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in M.A. Sandulli, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 779 ss.; G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale, Milano, 1996.
[21] Cons. Stato, Sez. II, 14 novembre 2019, n. 7825; Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2017, n. 18985; Cons. Stato, Sez. III, 24 giugno 2014, n. 3194; Cons. Stato, Sez. VI, 2 settembre 2013, n. 4345; Cass. civ., Sez. Un., ord. 13 luglio 2006, n. 15893.
[22] Cass. civ., Sez. Un., ord. 12 aprile 2019, n. 10377; Cass. civ., Sez. Un., 24 gennaio 2019, n. 2082; Cass. civ., Sez. Un., 23 marzo 2009 n. 6960. In dottrina, F.A. Giordanengo, La giurisdizione esclusiva sugli accordi ex art. 15 L. n. 241/1990, in Urbanistica e appalti, 2015, 933 ss.; M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazioni e privati, ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 4/2019, 674 e ss., ove si legge che “il legislatore fin da subito ha inteso introdurre un'ipotesi di giurisdizione esclusiva per tutte le controversie in materia non solo di formazione e di conclusione, ma anche di esecuzione del rapporto, in cui dovrebbe essere meno marcato l'esercizio di un potere discrezionale della pubblica amministrazione”.
[23] In senso analogo cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2011, n. 741; Cons. Stato, Sez. V, 18 aprile 2012, n. 2244; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. IV, 17 aprile 2012, n. 1023.
[24] T.A.R. Toscana, Sez. I, 26 febbraio 2020, n. 256.
[25] Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2017, n. 18985; Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1405.
[26] Cass. civ., Sez. Un., 8 giugno 2016, n. 11710.
[27] Cons. Giust. Amm. reg. Sicilia, Sez. I, 26 maggio 2020, n. 325.
[28] Da ultima si sofferma sui presupposti necessari per procedere alla revoca di benefici pubblici erogati M.A. Sandulli, nel suo La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in questa Rivista, 2020. L’Autrice, occupandosi nello specifico della revoca prevista in caso di benefici ottenuti in base ad una dichiarazione non veritiera, dimostra come ciò che il testo normativo qualifica in termini di “revoca” rappresenti in realtà una vera e propria misura a carattere sanzionatorio, priva, tuttavia, della “soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo tipici di queste ultime”, 7.