ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte costituzionale romena di fronte alla “disinformazione” e alle nuove frontiere della pubblicità politica online: fra micro-influencer e ingerenze estere
Sommario: 1. La Corte costituzionale romena e la “disinformazione” russa: il contesto e l’eccezionalità di una decisione – 2. La Legittimità della decisone nel quadro eurounitario: “disinformazione” o finanziamento estero e illecito? – 3. La decisione della Corte costituzionale romena nel quadro della regolazione del digitale in Unione Europea: strumenti vigenti e nuove sfide - Un nuovo passo verso il consolidamento del paradigma europeo di free speech in ambito elettorale e la sfida dei micro-influencer.
1. La Corte costituzionale romena e la “disinformazione” russa: il contesto e l’eccezionalità di una decisione
Con una decisione dalla portata eccezionale, per la prima volta una Corte costituzionale europea ha annullato delle elezioni per l’impatto su di esse avuto dalle campagne di disinformazione online, o meglio per le violazioni delle normative elettorali sui social media. Con la sentenza 32 del 6 dicembre 2024[1], la Corte costituzionale romena ha infatti annullato le elezioni presidenziali, di cui si era svolto il primo turno, e imposto di ripeterle, estendendo il mandato del Presidente in carica. Nell’ambito del costituzionalismo europeo, la protezione del diritto a un voto “correttamente informato” aveva già trovato una prima applicazione in un caso svizzero[2]: il Tribunale federale svizzero aveva, infatti, annullato una votazione su una riforma costituzionale di iniziativa popolare poiché nell’opuscolo informativo distribuito dal Consiglio federale era contenuto un errore macroscopico su alcuni dati, che comprometteva la libertà di voto “correttamente informato” dei cittadini.
Tuttavia, la sentenza della Corte costituzionale romena appare eccezionale anche rispetto a questo precedente caso per vari motivi: è la prima decisione di una Corte costituzionale europea inerente un episodio di “disinformazione” online; è una decisione che impatta notevolmente su un processo elettorale significativo come l’elezione del Presidente in una repubblica semipresidenziale; è una decisione che evidenzia l’importanza della regolazione “positiva” o funzionalista della libertà di espressione[3], soprattutto nell’ambito digitale.
Dal primo punto di vista, occorre evidenziare che – da quanto si apprende dalle fonti giornalistiche che hanno esaminato gli eventi – vi sono state condotte disinformative, come la creazione di finti profili (anche di soggetti statali/partitici) a supporto del candidato Călin Georgescu, però la maggior parte delle condotte violanti le normative elettorali riguarderebbe l’ingente investimento di denaro in maniera non trasparente nella campagna elettorale su TikTok.
Dal secondo punto di vista, non si può invece mancare di sottolineare come questa decisione abbia avuto un impatto enorme nell’ordinamento romeno, interrompendo il processo elettorale e prestando il fianco a polemiche populiste delegittimanti le istituzioni, in primis la Corte costituzionale[4].
Dal terzo punto di vista è possibile infine mettere in evidenza come la Corte abbia applicato il paradigma europeo di libertà di espressione, rimarcando l’importanza di un discorso pubblico libero dalla disinformazione e dalle interferenze estere e caratterizzato da determinate “regole” e obblighi di trasparenza in materia di pubblicità politica online: in questo la Corte ha abbracciato l’idea che le autorità pubbliche abbiano una «positive responsibility» o delle «positive obbligations»[5] anche nel campo della libertà di espressione durante i periodi elettorali.
Nel contesto di un’accesa campagna elettorale presidenziale, il coup de théâtre, ma non certo d’état[6], della disclosure di alcuni documenti dei servizi segreti è stato l’elemento che ha portato alla decisione della Corte. Da quanto si apprende, i servizi hanno sottolineato il trattamento privilegiato riservato da TikTok a Călin Georgescu in violazione della legislazione elettorale, l’attivazione di falsi accounts di origine russa in suo favore, oltre che un finanziamento di messaggi a suo supporto fatto mediante criptovalute da parte di società legate alla Russia[7]. L’intervento della Corte – deputata alla vigilanza sulle elezioni presidenziali – non è nemmeno stato il primo in questa tornata elettorale, fra i precedenti interventi spiccano l’esclusione della candidata Diana Șoșoacă e un riconteggio di voti[8], ma certamente la decisione in esame ha una portata eccezionale.
La Corte ha infatti preso atto delle violazioni della normativa elettorale segnalate dall’intelligence: «[q]ueste violazioni hanno distorto il carattere libero e corretto del voto espresso dai cittadini, compromesso l’uguaglianza di opportunità tra i competitori elettorali, alterato la trasparenza e l’equità della campagna elettorale, e ignorato le disposizioni legali relative al finanziamento della stessa. Tutti questi aspetti hanno avuto un effetto convergente di disprezzo per i principi fondamentali delle elezioni democratiche»[9]. Per queste ragioni la Corte ha deciso di annullare il primo turno elettorale.
Il presente contributo mira ad analizzare la sentenza della Corte costituzionale romena da due prospettive: quella della sua legittimità nell’ordinamento eurounitario (paragrafo 2) e quella delle sfide alla regolazione del discorso pubblico online dell’UE emerse durante le elezioni presidenziali in Romania (paragrafo 3). Nelle conclusioni si svolgeranno alcune brevi considerazioni finali alla luce delle due suddette prospettive.
2. La Legittimità della decisone nel quadro eurounitario: “disinformazione” o finanziamento estero e illecito?
La Corte costituzionale romena con la sua sentenza n. 32/2024 ha rimarcato che «[l]o Stato ha una responsabilità positiva nel prevenire qualsiasi interferenza ingiustificata nel processo elettorale, in conformità ai principi costituzionali. (…) Pertanto, lo Stato deve affrontare le sfide e i rischi derivanti da campagne di disinformazione organizzate, che possono compromettere l’integrità dei processi elettorali [si veda, a tale proposito, anche i paragrafi 14, 17 e 20 della Dichiarazione interpretativa del Codice di buona condotta in materia elettorale sulle tecnologie digitali e sull’intelligenza artificiale, adottata dalla Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto (Commissione di Venezia) il 6 dicembre 2024]»[10]. Oltre alle disposizioni interne, la Corte sembra basarsi dunque sia sul recente Regolamento (UE) 900/2024[11], per collegare il finanziamento illecito e non dichiarato alla disinformazione, sia sulla Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence della Commissione di Venezia[12].
Premesso che la costituzionalità interna della decisione appare difficilmente contestabile essendo emessa dal giudice delle leggi romeno[13], appare interessante vedere come questa decisione delle Corte si inserisca, da un lato, nell’ambito del sistema convenzionale, tenendo sempre a mente l’importanza dell’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo per valutare il portato della Carta dei diritti fondamentali dell’UE ex art. 52, comma 3 della stessa, e, dall’altro lato, nell’ordinamento dell’UE.
Rispetto al contesto della CEDU si può innanzitutto rilevare come la Commissione di Venezia abbia emanato una dichiarazione interpretativa al suo “codice” sulle buone pratiche elettorali, partendo dall’assunto che «[t]he freedom of voters to form an opinion includes the right to have access to all kinds of information enabling them to be correctly informed before making a decision, the right to private online browsing, and the right to make confidential communications on the internet»[14]. In particolare, si possono esplicitare i paragrafi citati dalla Corte romena a supporto della sua decisione:
Paragrafo 14, «State authorities should address the challenge posed by organised information disorder campaigns, which have the potential to undermine the integrity of electoral processes».
Paragrafo 17, «The State’s duty of neutrality also includes an obligation to build resilience among voters and to raise public awareness about the use of digital technologies in elections, including through the provision of appropriate information and support».
Paragrafo 20, «The positive responsibility of the State to prevent undue interference with the principles of the European electoral heritage must not lead to undue state intervention»
In questi paragrafi la Commissione di Venezia evidenzia chiaramente la necessità dello Stato di regolamentare la libertà di espressione nelle fattispecie della comunicazione politico-elettorale e della pubblicità politica online onde garantire un voto libero e correttamente informato. Al di là di questi specifici paragrafi, si può anche rilevare come nell’Explanatory report si evidenzi che «[t]he voter’s freedom to form an educated opinion may be affected by online information disorders, including the distribution of false information about election campaigns of political opponents. These phenomena have worsened as a result of the use of digital technologies (sometimes with the use of deep fake audio, photos, and videos, automated generated ‘comments’ under posts to manipulate public opinion, etc.)»[15]. La stessa Commissione di Venezia cita, peraltro, il Regolamento (UE) 900/2024 per rafforzare il collegamento fra campagne di propaganda prive di trasparenza e la disinformazione, evidenziando la necessità di un’azione contro tali manipolazioni disinformative mediante autorità indipendenti[16]. D’altronde la stessa Commissione di Venezia ha recentemente affermato che l’annullamento delle elezioni può avvenire anche a causa di ingerenze estere legate alla propaganda online mediante social media[17]; la Commissione ha, tuttavia, rilevato come le affermazioni politiche non possano essere ricondotte alla categoria della disinformazione essendo value judgments e non facts[18]. È allora evidente che – teoricamente – le azioni della Corte costituzionale romena si pongono in linea con i principi espressi dalla Commissione di Venezia: quello che però si deve considerare è la “proporzionalità” della misura, dando per scontata l’effettiva esistenza delle condotte accertate dai servizi.
In questa prospettiva, com’è rilevabile nella sua giurisprudenza, la Corte EDU ha messo ben in evidenza che anche l’annullamento delle elezioni può essere una conseguenza delle manipolazioni elettorali. In questo senso, il test predisposto dalla Corte di Strasburgo prevede sia la presenza di una “volontà” di manipolazione che un “effetto concreto” sulle elezioni: «[f]or the Romanian election, the evidence at hand appears to clearly demonstrate intentional coordination. The scale of automated accounts, combined with evidence of financial sums originating from Russian sources in South Africa, is very likely to meet the threshold of coordination that the Court has focused on thus far. Secondly, and relatedly, the ECtHR consistently places focus on whether ballot tampering and election irregularities (if proven) are likely to decisively influence voters and election results more broadly. As this question is more closely connected to the positive obligations under Article 3 of Protocol 1, it would appear vital that the decision of the Constitutional Court to annul the election is based on evidence that Russian interference on TikTok was likely to have a decisive effect on election outcomes»[19]. L’elemento che appare dirimere sembra, dunque, quello dell’effettivo impatto delle condotte illecite online sulle elezioni presidenziali.
Nel mentre si può segnalare come la Corte EDU abbia respinto la richiesta di misure ad interim da parte di Călin Georgescu, che chiedeva di sospendere gli effetti della decisione della Corte costituzionale romena, di obbligare il governo a riprendere il processo elettorale e ad adottare misure per rimediare al “danno democratico” prodotto. La Corte, con giudizio unanime dei sette giudici coinvolti, ha respinto il ricorso poiché fuori dall’ambito di applicazione delle interim measures: «Mr Georgescu’s request did not concern an imminent risk of irreparable harm within the meaning of Rule 39 § 1 of the Rules of Court»[20]. Naturalmente la negazione delle misure interinali non conduce a ritenere l’azione della Corte costituzionale romena come legittima alla luce della CEDU, soprattutto in base al profilo della proporzionalità dell’annullamento delle elezioni, ma certamente contribuisce a smorzare le accuse di coup d’état mosse da Călin Georgescu. In questo contesto la Commissione di Venezia ha, recentemente, evidenziato la necessità per le corti costituzionali di essere trasparenti nelle valutazioni circa l’effetto delle condotte manipolative sulle elezioni[21]. La cancellazione delle elezioni dovrebbe attuarsi «only under very exceptional circumstances as ultima ratio and on the condition that irregularities in the electoral process may have affected the outcome of the vote»[22].
Nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione Europea, la legittimità di limitare la propaganda russa online come strumento di destabilizzazione dell’Unione e dei suoi Stati membri è stata in passato legata soprattutto alla censura dei discorsi di odio diffusi su canali televisivi[23]. Nel 2022, il Tribunale dell’Unione europea si è invece pronunciato sulla sospensione delle trasmissione dei media legati al governo russo dal mercato delle informazioni europeo, come sancito dal Regolamento (UE) 2022/350. In questa occasione, il Tribunale ha riconosciuto che «[p]er quanto riguarda gli obiettivi perseguiti dal Consiglio, i considerando da 4 a 10 degli atti impugnati si riferiscono alla necessità di tutelare l’Unione e i suoi Stati membri contro campagne di disinformazione e di destabilizzazione condotte dagli organi di informazione posti sotto il controllo della leadership della Federazione russa e che minaccerebbero l’ordine pubblico e la sicurezza dell’Unione, in un contesto caratterizzato da un’aggressione militare all’Ucraina. Si tratta quindi di una questione di interesse pubblico che mira a proteggere la società europea e che fa parte di una strategia globale (v. punti 11, 12, 14 e 17 supra) che mira a porre fine, il più rapidamente possibile, all’aggressione subita dall’Ucraina»[24]. La decisione, come evidenziato in altra sede[25], censurava condotte in parte ascrivibili alla disinformazione e in parte alla propaganda di guerra e, certamente, nella valutazione della legittimità di una misura così pervasiva – come l’esclusione dal mercato delle notizie unionale di canali mediali – è stata proprio la categoria della propaganda di guerra a giocare un ruolo importante nel giudizio di proporzionalità.
Tuttavia, è evidente che nell’ambito dell’Unione Europea le operazioni di manipolazione dei processi elettorali provenienti da paesi esteri è oggetto di una particolare azione di contrasto; com’è stato osservato[26], nel campo della disinformazione e della protezione dei processi democratici, il Democratic Action Plan europeo potrebbe essere rafforzato da un ulteriore piano, il c.d. Democracy Shield.
3. La decisione della Corte costituzionale romena nel quadro della regolazione del digitale in Unione Europea: strumenti vigenti e nuove sfide
«Nella presente causa, la Corte rileva che, secondo le "Note informative" sopra menzionate, i principali aspetti contestati nel processo elettorale per l’elezione del Presidente della Romania del 2024 riguardano la manipolazione del voto degli elettori e la distorsione della parità di opportunità tra i concorrenti elettorali, attraverso l’uso non trasparente e in violazione della legislazione elettorale di tecnologie digitali e di intelligenza artificiale durante la campagna elettorale, nonché il finanziamento non dichiarato della campagna elettorale, anche online»[27]. Dal punto divista tecnologico, occorre dunque domandarsi se l’attuale regolazione del discorso pubblico online predisposta dall’UE sia efficace per rispondere alle sfide emerse nel contesto romeno: in questo senso, si può sottolineare che se il regolamento sulla pubblicità politica online (Regolamento UE 2024/900) troverà piena applicazione nei prossimi mesi, il Digital Services Act – DSA (Regolamento UE 2022/2065) è già teoricamente applicabile.
Il Regolamento (UE) 2024/900 prevede due principali forme di regolamentazione della “pubblicità politica online”. La prima concerne la trasparenza delle comunicazioni politiche, mentre la seconda riguarda il targeting degli utenti. Nello specifico, la disciplina europea si fonda, da un lato, sull’obbligo di identificare i contenuti come pubblicità politica e di rendere chiaramente riconoscibile il partito politico per cui tali contenuti sono diffusi (Artt. 11-12, Regolamento 2024/900) e, dall’altro lato, fatte salve le limitazioni generali in materia di trattamento di dati sensibili di natura politica, introduce uno specifico regime per il targeting degli utenti/elettori sancito dagli Artt. 18 e 19 dello stesso Regolamento.
In questo quadro occorre rilevare come, una delle principali modalità di diffusione di pubblicità politica online nella campagna elettorale romena, ossia il ricorso ai micro-influencers, appaia sfuggire alle norme sulla trasparenza predisposte del Regolamento: non si tratta naturalmente di libere esternazioni politiche di questi micro-influencers, che in tal caso non sarebbero coperte dallo stesso Regolamento in quanto libere espressioni di supporto, ma di finanziamento di micro-influencer per diffondere determinati messaggi. Com’è stato rilevato ad esempio su FrameUp i micro-influencer hanno infatti ricevuto dei veri e propri “copioni” da seguire e sono stati pagati per diffondere i contenuti in favore di Călin Georgescu[28]. «The Romanian TikTok influencers used for Georgescu’s campaign were known for their interest in makeup, cars, fashion, entertainment, Expert Forum explains. They presented themselves online like normal people involved in day-to-day activities. They talk about an ideal candidate for presidency while ironing or applying make-up. We can see them in their car or in their kitchen. They are normal people, just like us, preparing for the voting day. We do not actually know them, but we feel they are our friends –thus, the parasocial relationship we developed with these media characters»[29]. Proprio questa forma di sponsorizzazione indiretta e di pubblicità politica occulta, mediante pagamento di micro-influencers, sembra poter sfuggire alle regole sviluppate dal Regolamento (UE) 2024/900 così come al presunto ban alla propaganda politica su TikTok[30]. Tutto ciò malgrado il Regolamento sia chiaro nei suoi fini: «[è] necessario un livello elevato di trasparenza anche per sostenere un dibattito politico e campagne politiche equi e aperti, come pure elezioni o referendum liberi e regolari, e per combattere la manipolazione dell’informazione e le interferenze, nonché le interferenze illecite anche da paesi terzi. Una pubblicità politica trasparente aiuta l’elettore e gli individui in generale a capire meglio quando è in presenza di un messaggio di pubblicità politica»[31]. D’altronde, il problema dell’impiego di micro-influencer era stato evidenziato anche nell’Explanatory report della Commissione di Venezia «[t]he use of paid influencers’ accounts by government actors and political parties to spread their views or campaign for them is yet another concerning practice»[32]. Come inquadrare e come regolamentare queste attività di promozione occulta non è per nulla scontato. Il ricorso agli influencer è una pratica che assume sempre maggior rilievo in vari settori e che ha visto anche tentativi di intervento da parte dell’AGCOM in Italia. Com’è stato sottolineato[33], tuttavia, l’opzione di creare un parallelismo tra influencer e fornitori di servizi di media audio-visivi, in base al Testo unico dei servizi di media audiovisivi, sembra forse meno incisivo che regolamentarne le attività – nel contesto di quest’analisi in materia di pubblicità politica – nell’ambito della governance digitale.
Appare dunque necessario capire come e quanto potrebbe essere efficace una regolamentazione di tale tipo di condotte in materia di pubblicità politica online. In questo senso, quello che si può rilevare è che alcune forme di sponsorizzazione dei messaggi politici impiegate nella campagna elettorale romena possono sfuggire alle norme sulla trasparenza predisposte dal Regolamento (UE) 2024/900.
Nel contesto delle elezioni presidenziali romene si può, invece, osservare come il DSA avrebbe potuto giocare un ruolo che non pare aver giocato. Dal punto di vista del contrasto alla disinformazione e della protezione delle elezioni, occorre evidenziare come il DSA preveda la necessità per le piattaforme di grandi dimensioni di valutare, a fianco ai rischi legati alla diffusione di contenuti illegali, i rischi che possano condizionare i processi elettorali (terzo rischio). Fra i rischi che sono da valutare e contenere vi è anche la disinformazione: «[t]ali fornitori dovrebbero pertanto prestare particolare attenzione al modo in cui i loro servizi sono utilizzati per diffondere o amplificare contenuti fuorvianti o ingannevoli, compresa la disinformazione»[34]. In quest’ambito il DSA predispone una serie di obblighi di valutazione dei rischi (Articolo 34, Regolamento (UE) 2022/2065) e attenuazione degli stessi (Articolo 35, Regolamento (UE) 2022/2065) che le piattaforme di dimensioni molto grandi come TikTok devono porre in essere.
In questo senso la Commissione, nel suo ruolo di monitoraggio del DSA, ha emesso un “ordine di conservazione” dei dati relativi ai rischi sistemici reali o prevedibili per i processi elettorali nei confronti di TikTok; inoltre sono stati anche attivati i meccanismi di Rapid Response System (RRS) del Code of Practice on Disinformation[35]. Successivamente è stato aperto un procedimento formale contro TikTok[36]: «[t]he proceedings will focus on management of risks to elections or civic discourse, linked to the following areas: TikTok’s recommender systems, notably the risks linked to the coordinated inauthentic manipulation or automated exploitation of the service; TikTok’s policies on political advertisements and paid-for political content»[37]. Il contenuto del procedimento sembra confermare che il caso romeno riguardi non tanto la disinformazione, quanto una serie di comportamenti manipolativi e di finanziamenti illeciti della campagna elettorale. Il meccanismo del DSA è stato dunque attivato anche se occorre rilevare come abbia fallito nel prevenire la manipolazione delle elezioni presidenziali. A tal riguardo è necessario però segnalare che «the risk assessment and mitigation measures contemplated by the DSA have very particular characteristics in terms of enforcement. At this stage, there are still no guidelines or best practices provided by the Commission regarding the “reasonable, proportionate and effective mitigation measures, tailored to the specific systemic risks” that need to be put in place according to the DSA»[38]. Il meccanismo, che fa perno sulla “responsabilizzazione” delle piattaforme digitali, appare ancora non oliato: auspicabilmente il caso romeno porterà a un perfezionamento delle procedure europee in materia. Nell’ambito dell’applicazione del DSA, sono stati espressi anche dubbi sull’efficacia dell’azione della National Authority for Communications Administration and Regulation (ANCOM)[39], il Coordinatore dei servizi digitali romeno, nonché sui servizi di intelligence stessi[40]: a fianco del “fallimento” dei meccanismi preventivi dell’UE si può forse aggiungere anche quello delle autorità nazionali.
In questa prospettiva, si può quindi osservare la non efficace applicazione del DSA, che potrebbe essere meglio implementata dalle autorità nazionali ed europee.
4. Un nuovo passo verso il consolidamento del paradigma europeo di free speech in ambito elettorale e la sfida dei micro-influencer
Sicuramente l’annullamento delle elezioni presidenziali può dire molto internamente all’ordinamento romeno[41] ma «[o]ther countries may look to Romania’s example as a warning to fortify their own electoral processes against similar attacks»[42]. Il caso in esame fornisce molti elementi di interesse. La Corte romena ha avuto modo di ribadire il paradigma europeo di discorso pubblico in ambito elettorale: «[l]a libertà degli elettori di formarsi un’opinione include il diritto di essere correttamente informati prima di prendere una decisione. Più precisamente, tale libertà implica il diritto di ottenere informazioni corrette sui candidati e sul processo elettorale da tutte le fonti, inclusi i canali online, nonché la protezione contro influenze ingiustificate, attraverso atti/azioni illegali o sproporzionate, sul comportamento di voto»[43]; e ancora «[u]n finanziamento legale e trasparente della campagna elettorale è un fattore essenziale per la regolarità del processo elettorale. Anche il finanziamento delle attività online deve essere trasparente, e la pubblicità elettorale online deve sempre essere identificabile e trasparente, sia in relazione all’identità dello sponsor sia alle tecniche di diffusione utilizzate»[44]. Si riaffermano così alcuni capisaldi di quello che ormai appare essere il consolidato paradigma di libertà di espressione del costituzionalismo europeo e dell’Unione Europea che si sta cementando soprattutto nella regolazione del discorso pubblico online[45]. Un paradigma che prevede il diritto a essere correttamente informati – e quindi la non protezione della disinformazione –, la trasparenza della pubblicità politica online – e pertanto gli obblighi di disclosure e disclaimer di tali attività – e, infine, l’esclusione della propaganda esterna all’UE nelle elezioni europee – e dunque l’impossibilità per soggetti esteri di pagare la pubblicità online –.
Naturalmente questa sentenza, descritta anche come «a last resort attempt to prevent a further decline in the rule of law in Romania»[46], non fa venire meno i dubbi sulla tenuta della rule of law in Romania[47]. D’altronde, come sottolineato, «in pochi si sarebbero aspettati che proprio dalla Corte costituzionale romena che, insieme a quella polacca e quella ungherese si è distinta, ultimamente, per mandare segnali di guerra in relazione alla tenuta dello stato di diritto in Europa, provenisse una lezione sui principi guida del costituzionalismo europeo»[48].
Se da questo punto di vista occorre dunque salutare con favore questa “lezione”, com’è stata definita, dal punto di vista tecnologico il caso solleva numerosi interrogativi soprattutto in relazione all’impiego dei micro-influencer nelle campagne elettorali. Questa sembra una nuova sfida alla regolamentazione dell’UE tesa ad applicare il sopravvisto paradigma di libertà di espressione: «[p]arasocial opinion leaders may be used in electoral campaigns, to distribute preexisting electoral content. These parasocial opinion leaders include micro-influencers, trolls and bots, alongside political leaders and normal social media users, that support an idea, a candidate, a political platform or a cause, in an excessive, yet relatable way for other social media users»[49]. La pubblicità politica mediante micro-influencer – al di là dei tentativi di occultarla mediante pagamenti in criptovalute o altre forme non tracciabili – pone infatti una notevole difficoltà dal punto di vista della sua identificazione, sia da parte delle piattaforme che delle autorità pubbliche deputate alla vigilanza sulla corretta applicazione delle normative elettorali, soprattutto perché questo tipo di pubblicità, ove non sia individuato il pagamento, rientra in una forma di supporto politico identificabile pienamente nella libertà di manifestazione del pensiero. Al di là della riaffermazione del paradigma europeo di libertà di espressione, il caso romeno evidenzia quindi le nuove sfide della pubblicità politica online.
[1] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, consultabile in una versione tradotta al seguente link: https://giurcost.org/casi_scelti/AlteCortistraniere/Dec0612104_32.pdf (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[2] Tribunale federale svizzero, sentenze del 10 aprile 2019 (1C_315/2018, 1C_316/2018, 1C_329/2018, 1C_331/2018,1C_335/2018, 1C_337/2018, 1C_338/2018, 1C_339/2018, 1C_347/2018), consultabile al seguente link: https://www.bger.ch/files/live/sites/bger/files/pdf/fr/1C_315_2018_yyyy_mm_dd_T_f_13_11_39.pdf (ultimo accesso 31 gennaio 2025). Su cui si si veda: G. Martinico, Il diritto costituzionale come speranza. Secessione, democrazia e populismo alla luce della Reference Re Secession of Quebec, Giappichelli, Torino, 2019, p. 199 e ss.
[3] Intendendo con “funzionalista” una versione “debole” di tale concetto: «[v]a, quindi, in parte ripensata la premessa metodologica, tuttora accettata da parte della dottrina italiana, che rifiuta qualsiasi ipotesi di funzionalizzazione dei diritti di libertà perché contrastante, in radice, con il principio di libertà individuale. Sul punto è necessario intendersi: se per funzionalizzazione si intende una nozione forte e sostanzialistica, quale subordinazione dell’individuo ai valori imposti dall’ordinamento, è evidente il rischio di trasformare il diritto di libertà in una pubblica funzione, preludio di una torsione del sistema in senso totalitario. Qualora, però, della funzionalizzazione si accolga un significato debole e metodologico, volto a sottolineare la funzione integrativa delle libertà nel sistema costituzionale, la descrizione della funzione delle libertà consente di evidenziare il nesso tra le aspettative soggettive di riconoscimento della persona e l’azione delle istituzioni legittimate dalla Costituzione. […] Anche per questo i diritti di libertà, e la libertà di manifestazione del pensiero in particolar modo, non hanno solo una portata difensiva, ma assumono anche un significato positivo e partecipativo, di riconciliazione tra la dimensione individuale della persona e i rapporti collettivi di natura sociale sino, in alcuni casi, a condizionare le stesse procedure democratiche (si pensi, ad esempio, al diritto di cronaca e alle sue sotto-categorizzazioni, all’assetto dei media radiotelevisivi e non solo)». C. Caruso, La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bononia University Press, Bologna, 2014, p. 326-327.
[4] A. Carrozzini, Shooting Democracy in the Foot?, in Verfassungsblog, 13 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://verfassungsblog.de/shooting-democracy-in-the-foot/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[5] Usando le espressioni della Commissione di Venezia: Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, approved by the Council for Democratic Elections at its 81st meeting (Venice, 5 December 2024) and adopted by the Venice Commission at its 141st Plenary Session (Venice, 6-7 December 2024), Opinion No. 1171/2024, CDL-AD(2024)044-e
[6] Come invece dichiarato dal candidato Calin Georgescu: A. Parsons, Calin Georgescu: Politician Who Was on Brink of Becoming Romanian President Attacks ‘Corrupted Regime’, in Sky News, 7 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://news.sky.com/story/calin-georgescu-politician-who-was-on-brink-of-becoming-romanian-president-attacks-corrupted-regime-13268718 (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[7] «Moreover, according to the documents, ‘almost 800 TikTok accounts created by a “foreign state” in 2016 were suddenly activated last month to full capacity’ backing one of the candidates. Another 25,000 TikTok accounts had become active only two weeks before the first round.’ Georgescu is the ‘candidate’ referred to in the documents, and the ‘foreign state’ is Russia». A. Kleczkowska, The Russian Disinformation Campaign During the Romanian Presidential Elections: The Perfect Example of a Violation of International Law?, in Opinio Juris, 27 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://opiniojuris.org/2025/01/27/the-russian-disinformation-campaign-during-the-romanian-presidential-elections-the-perfect-example-of-a-violation-of-international-law/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025). «I documenti identificano in particolare un account chiamato “bogpr”, associato a un cittadino romeno, che avrebbe effettuato donazioni su TikTok a queste persone per un totale di oltre un milione di euro. Solo nell’ultimo mese l’account avrebbe effettuato pagamenti per circa 362mila euro a utenti che promuovevano Georgescu. In precedenza Georgescu aveva dichiarato alle autorità romene di aver speso «zero euro» per la sua campagna elettorale e di essere stato aiutato esclusivamente da volontari». Redazione, Le Accuse Di Interferenze Della Russia Nelle Elezioni in Romania, in Il Post, 7 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://www.ilpost.it/2024/12/07/interferenze-russe-romania/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025). «Declassified intelligence reports from Romania’s Supreme Council of National Defense (CSAT) and the Directorate for Investigating Organized Crime and Terrorism (DIICOT) revealed a staggering level of interference. A network of over 600,000 bots orchestrated a TikTok campaign for Calin Georgescu, violating electoral law by failing to disclose its political nature. Even more troubling, these operations were funded through €50 million in cryptocurrency, funnelled from a Russian network operating out of South Africa. In the days leading up to the election, as much as €3 million per day was injected into this campaign». M.R. Maftean, A Troubling Triumph in Romania, in Verfassungsblog, 10 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://verfassungsblog.de/triumph-in-romania/(ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[8] B. Selejan-Gutan, The Second Round That Wasn’t, in Verfassungsblog, 7 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://verfassungsblog.de/the-second-round-that-wasnt/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[9] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 5.
[10] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 10.
[11] «La pubblicità politica può talvolta trasformarsi in un “veicolo di disinformazione, soprattutto quando [...] non dichiara il proprio carattere politico, proviene da sponsor esterni all’Unione o è soggetta a tecniche di targeting o di diffusione del materiale pubblicitario” [si veda anche il Regolamento (UE) 2024/900 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 marzo 2024 sulla trasparenza e il targeting nella pubblicità politica, considerando 4]. Di conseguenza, deve essere esclusa l’ingerenza di entità statali o non statali nello svolgimento di campagne di propaganda o disinformazione elettorale». Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 13. «La pubblicità politica può essere un vettore di disinformazione, specie se non ne è esplicitata la natura politica, se proviene da sponsor esterni all’Unione o se è oggetto di tecniche di targeting o tecniche di consegna dei messaggi pubblicitari» Considerando 4, Regolamento (UE) 2024/900.
[12] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit.
[13]Per brevi considerazioni in materia si rimanda a: B. Selejan-Gutan, cit.; A. Carrozzini, cit.
[14] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 3.
[15] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 7.
[16] « The fight against information disorders, including disinformation explicitly aimed at questioning or misleading about the basic aspects of electoral procedures, calls for regulation by the state and an independent body with adequate resources and powers to enforce such regulation». Idem, p. 11.
[17] «The Venice Commission takes the view that “external influence” – not stemming from the electoral actors – can also be relevant in this context. This applies to the influence of non-governmental organisations, of the media – social media in particular –, especially those sponsored and financed from abroad, and foreign State and non-State actors: External influence, including from abroad, can have the same (or even stronger) effects as internal influence (from State officials or political parties). Therefore, the interference with the electoral process by third parties acting from outside is not less detrimental and can have the same (or even more severe) consequences as a breach of election rules by candidates, political parties and State officials». Commissione di Venezia, Urgent report on the cancellation of election results by constitutional courts, issued on 27 january 2025 pursuant to article 14a, CDL-PI(2025)001, p. 14.
[18] «As concerns, firstly, campaign propaganda, it should be noted that electoral campaigns are in essence information campaigns by the candidates designed to convince the voters. Statements on policy made by candidates in the context of an election may often be regarded by their opponents as disinformation or false information. Regardless of form and medium, political statements in the context of campaigning are typically value judgments or statements that fall under the candidate’s freedom of expression, unless they exceed permissible limits, e.g. in the form of hate speech against political opponents. Considering the ECtHR’s jurisprudence on judicial interference with campaign messaging, it is currently hard to see how the form and content of campaign messaging of candidates could amount to a violation of electoral law that may lead to the annulment of the elections». Idem, p. 15.
[19] E. Shattock, Electoral Dysfunction: Romania’s Election Annulment, Disinformation, and ECHR Positive Obligations to Combat Election Irregularities, in EJIL: Talk!, 6 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://www.ejiltalk.org/electoral-dysfunction-romanias-election-annulment-disinformation-and-echr-positive-obligations-to-combat-election-irregularities/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025). Così citando, Krasnov and Skuratov v Russia, Applications nos. 17864/04 and 21396/04, 19 July 2007; Babenko v Ukraine, Application no. 68726/10, 4 January 2012; Kerimova v Azerbaijan, Application no. 20799/06, 30 September 2010; Davydov and Others v Russia, Application no. 75947/11, 30 May 2017. Lo stesso autore segnala come il caso Bradshaw and others v the United Kingdom (Application no. 15653/22) potrebbe condurre a nuove evidenze in questo campo.
[20] ECHR 022 (2025) 21.01.2025 press realise, consultabile al seguente link: https://www.echr.coe.int/w/request-for-interim-measures-refused-concerning-romania (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[21] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 14.
[22] Commissione di Venezia, Urgent report on the cancellation of election results by constitutional courts, cit., p. 19.
[23] Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 4 luglio 2019, Baltic Media Alliance Ltd. contro Lietuvos radijo ir televizijos komisija, Causa C-622/17; Sentenza del Tribunale (Nona Sezione) del 15 giugno 2017, Dmitrii Konstantinovich Kiselev contro Consiglio dell’Unione europea, Causa T-262/15.
[24] Sentenza del Tribunale (Grande Sezione) del 27 luglio 2022, RT France contro Consiglio dell’Unione europea, Causa T-125/22, par. 55
[25] Si permetta un rimando a: M. Monti, Il “Sedition Act” europeo? Spunti dalla comparazione sull’esclusione di Russia Today e Sputnik dal mercato dell’informazione unionale, in Osservatorio costituzionale, 2023. Sul test di proporzionalità applicato: Sentenza del Tribunale (Grande Sezione) del 27 luglio 2022, RT France contro Consiglio dell’Unione europea, Causa T-125/22, par. 148.
[26] D. Vaira, Trick or T(h)reat: disinformazione online e minacce ibride nel panorama europeo. Alcune considerazioni alla luce dell’annullamento delle elezioni in Romania, in SIDIBlog, 29 dicembre 2024, consultabile al seguente link: http://www.sidiblog.org/2024/12/29/trick-or-threat-disinformazione-online-e-minacce-ibride-nel-panorama-europeo-alcune-considerazioni-alla-luce-dellannullamento-delle-elezioni-in-romania/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[27] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 11.
[28] R. Radu, Romania: How a Disinformation Campaign Prevented Free Suffrage, in Disinfo-Prompt.Eu, 17 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://disinfo-prompt.eu/posts/6gVQHsgN02LeYCnVzI6wGx (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[29] Ibid.
[30] «Just because a social platform declares allcontent to be entertainment, or a micro-influencer is known for his or her content on makeup and cars, does not mean the platform will never host political content or the influencer will not share political recommendations, for an advertising fee». Ibid.
[31] Considerando 4, Regolamento 2024/900.
[32] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 8.
[33] E. Albanesi, Le Linee-guida dell’Agcom sugli influencer nella prospettiva dell’attività di informazione e del costituzionalismo digitale, in Rivista italiana di informatica e diritto, 1, 2024, p. 82-83.
[34] Considerando 84, Regolamento (UE) 2022/2065.
[35] Commission, online platforms and civil society increase monitoring during Romanian elections, Press release, Brussels, 5 December 2024, consultabile al seguente link: https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/news/commission-online-platforms-and-civil-society-increase-monitoring-during-romanian-elections (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[36] Commission opens formal proceedings against TikTok on election risks under the Digital Services Act, Press release, Brussels, 17 December 2024, consultabile al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_24_6487 (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[37] Ibid.
[38] J. Barata, E. Lazăr, Will the DSA Save Democracy? The Test of the Recent Presidential Election in Romania, in TechPolicy.Press, 27 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://techpolicy.press/will-the-dsa-save-democracy-the-test-of-the-recent-presidential-election-in-romania (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[39] Ibid.
[40] «Although a similar pattern of foreign interference was recently observed in neighbouring Moldova, the Romanian public authorities have entirely failed to prevent such a scenario from unfolding domestically. The situation has been exacerbated by investigative reporting revealing that while the court annulled the elections, the head of Romania’s Foreign Intelligence Service was on a publicly funded trip to a Formula One race». A. Damian, The Annulment of Romania’s Presidential Election Reflects Both Foreign Meddling and Domestic Failures, in LSE Blogs - Europp Blog, 13 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2024/12/13/the-annulment-of-romanias-presidential-election-reflects-both-foreign-meddling-and-domestic-failures/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[41] «In Romania, it is evident that legislative gaps (such as the lack of effective procedures to prevent foreign interference via social media), poor communication between state agencies and delayed institutional responses contributed to the situation escalating to a point where the elections were annulled at the last moment, after the voting had already commenced. Urgent legislative changes are needed to tighten regulations of electoral campaigns, social media, and particularly platforms like TikTok that played a significant role in this major crisis. Legal safeguards must be clear, proportional, and designed to protect against abuse while meeting the standards of democratic societies» B. Selejan-Gutan, cit.
[42] Ibid.
[43] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 13.
[44] Idem, par. 17.
[45] C. Caruso, Towards the Institutions of Freedom: The European Public Discourse in the Digital Era, in German Law Journal, (First View), 2024; sulla spinta “federalizzatrice” di questa regolazione si permetta un richiamo a: M. Monti, Towards a Federal-Type Regulation of Online Public Discourse by the EU?, in European Public Law, 4, 2024.
[46] Carrozzini, cit.
[47] D. Kosar, O. Kadlec, Romanian Version of the Rule of Law Crisis Comes to the ECJ: The AFJR Case Is Not Just about the Cooperation and Verification Mechanism’, in Common Market Law Review, 6, 2022.
[48] O. Pollicino, Se la disinformazione condiziona i processi democratici, in Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://24plus.ilsole24ore.com/art/se-disinformazione-condiziona-processi-democratici-AGYQYWAC?refresh_ce=1 (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[49] Radu, cit.
Ricordo di Antonio Mantello: «tempus edax rerum»
Sabato 1° febbraio 2025 è venuto a mancare, dopo una lunga malattia, il prof. Antonio Mantello, eminente studioso di diritto romano e di storiografia giuridica della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza-Università di Roma.
Nato a Trivigliano, in provincia di Frosinone, l’11 aprile 1944, il prof. Antonio Mantello si laureò alla Sapienza nel 1967, con il massimo dei voti e la lode, discutendo, con relatore Riccardo Orestano – alla cui scuola si formerà negli anni seguenti – una tesi dal titolo Problemi romanistici nel pensiero di Christian Wolff. Assistente ordinario dal 1970 al 1980, prima presso l’Università di Siena e poi di Roma, è stato, dal 1973 al 1980, professore incaricato presso le Università di Teramo e di Macerata. Presso l’Università di Macerata è stato altresì, dal 1980 al 1986, professore associato, e, dal 1986 al 1994, professore ordinario. Nel 1994 prese finalmente servizio come professore ordinario a Roma, dove per tanti anni ha tenuto la cattedra di “Istituzioni di diritto romano”. Dal 1991 al 2006, è stato anche incaricato dell’insegnamento delle materie romanistiche presso la LUISS-Guido Carli e, durante la permanenza nell’Università di Macerata e fino al suo trasferimento alla Sapienza, direttore dell’“Istituto di diritto romano-Luigi Raggi”. Collocato fuori ruolo nel 2014, nel 2017 ha ottenuto l’emeritato.
La sua attività di ricerca si è indirizzata innanzitutto verso lo studio delle personalità dei giuristi romani, presi nella loro specifica individualità, in relazione al contesto socioeconomico, culturale e ideologico nel quale ciascuno di essi visse e operò, con particolare riferimento alla ricostruzione delle matrici del loro pensiero giuridico.
Da questo tipo di indagine – volta a superare definitivamente gli esiti delle impostazioni dogmatico-pandettistiche in nome dell’integrale storicità e relatività dell’oggetto di studio – ha avuto origine la monografia su Beneficium servile-debitum naturale del 1979 [1], nella quale è stato privilegiato il nesso fra diritto e filosofia, così come individuabile nel confronto fra il pensiero di Seneca figlio, sulla posizione dello schiavo nei confronti del padrone in materia etico-sociale (il cosiddetto beneficium), e il di poco successivo primo inquadramento tecnico-giuridico, attribuito al giurista romano Giavoleno, del rapporto servo-padrone (il cosiddetto debitum naturale), costituente in sé l’avvio della concettualizzazione che la successiva giurisprudenza romana avrebbe fissato nella categoria dell’obligatio naturalis.
Su questo filone di studi, dedicato ai nessi fra sapere giuridico e relativo contesto, si innestano diversi lavori [2]. Dai risultati di queste ricerche emergono nitidamente tutti i condizionamenti subiti dalla mentalità dei singoli giuristi romani e le interazioni tra la scienza giuridica e le logiche dialettico-retoriche, i settori grammaticali, le contemporanee dottrine filosofiche e le tematiche prettamente etiche o etico-economiche.
Altro settore di ricerca è stato lo studio della cd. “tradizione romanistica” (con particolare riguardo alle esperienze giuridiche sette-ottocentesche d’area italiana e germanica), nonché l’analisi del ruolo della giusantichistica e, più in generale, della storiografia giuridica nei contesti ideologici e socioeconomici moderni e contemporanei. A questo filone è da ascrivere, oltre ad una serie cospicua di lavori “minori”[3], la monografia Per una storia della giurisprudenza romana del 1984[4], la quale affronta la dimenticata ipotesi emersa nell’Umanesimo e difesa ancora nel Settecento, secondo la quale i giuristi del tardo Principato romano avrebbero superato il contrasto tra le scuole dei Sabiniani e dei Proculeiani dando vita a tendenze mediatrici. L’opera spiega le motivazioni ideologiche e sociologiche sottese a tale ipotesi, che gettano luce sui successivi sviluppi della storiografia giuridica tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento.
L’ampia, variegata e costante produzione storico-giuridica del prof. Antonio Mantello dimostra una vastità di interessi e di argomenti non comuni, che unisce una profonda sensibilità per i profili tecnico-giuridici del pensiero dei giuristi romani ad un’attenta conoscenza degli aspetti della cultura non strettamente giuridica, con particolare riguardo al pensiero filosofico.
Come rammentato dal figlio nel suo elogio funebre tenuto a margine delle esequie, da attento lettore di Gramsci, il padre era ben consapevole che, se il politico può dirsi uno storico che opera nel presente interpretando il passato, anche lo storico non è nient’altro che un politico che interpreta le categorie economiche, sociali e giuridiche del passato con finalità non avulse dal contesto politico in cui è chiamato a vivere. Allo stesso tempo però egli era fermamente convinto dell’insegnamento del suo maestro e della scientificità del metodo da lui appreso: non esiste ricostruzione storica rigorosa e scientificamente valida che possa emancipare l’oggetto di studio dal suo contesto economico, sociale e politico di origine[5]: l’immersione del sapere giuridico nel relativo contesto storico significava, per il prof. Antonio Mantello, «svolgere un lavoro certosino d’individuazione delle tessere d’un mosaico da comporre e scomporre continuamente, in un gioco infinito che tenda sempre a rendere il presente consapevole delle luci e delle ombre provenienti dal passato: onde consentire il più libero giudizio su quest’ultimo – anche di totale condanna e superamento, se reputato necessario – per costruire il futuro»[6].
Studioso silenzioso e solitario, a tratti scostante anche con i colleghi più prossimi, severo maestro e docente esigente, nei rapporti diretti, soprattutto con i più giovani, dimostrava grande umanità e comprensione. Nei decenni di insegnamento, si è distinto per la costante e appassionata dedizione alla didattica e per la disponibilità verso i suoi studenti, tra i quali vi è stato chi scrive[7]. Già da qualche anno prima dell’isolamento forzato causato dai noti eventi pandemici e prima di ammalarsi irrimediabilmente, il prof. Antonio Mantello non frequentava più, con l’assiduità di un tempo, l’“Istituto di diritto romano e dei diritti dell’Oriente mediterraneo” della Sapienza-Università di Roma: la sua stanza – che era già stata di Feliciano Serrao – è rimasta, da allora, come sospesa nel tempo. Fogli di giornale e tesi di laurea della fine degli anni Novanta, statini di esami sostenuti nel corso dei decenni del suo insegnamento, lettere di vario genere, numerosi volumi antichi e moderni accatastati su una grande ed elegante scrivania, dove giaceva, ancora dopo tanti anni, una copia della sua tesi di laurea, scritta sotto la sapiente guida del maestro Riccardo Orestano[8]; un maestro così venerato dall’allievo da essere stato aggiunto in fotografia, in un quadretto evidentemente più recente rispetto al resto dell’arredamento, ai tre antichi ritratti di Filippo Serafini, Vittorio Scialoja e Pietro Bonfante già appesi da qualche predecessore su una delle pareti della stanza. Alle spalle dell’imponente tavolo di lavoro, un quadro, anch’esso dalle dimensioni sproporzionate rispetto alla grandezza dei locali, che incornicia il manifesto di una mostra sui Fiamminghi a Roma 1508-1608, allestita nella Capitale tra il giugno e il settembre del 1995. Su quel manifesto è riportata una riproduzione del dipinto su tela del fiammingo Herman Posthumus, dove l’autore aveva inciso, su una pietra lì rappresentata tra le crepuscolari rovine di un Occidente al tramonto[9], un’epigrafe recitante alcuni versi delle Metamorfosi di Ovidio (XV, 234-235) – «tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, omnia destruitis» – versi che suonano oggi come un’amara e cinica premonizione della logorante malattia che avrebbe segnato negli ultimi tempi il prof. Mantello[10].
La cerimonia di commiato si è svolta presso la Cappella universitaria della Sapienza: tra gli allievi presenti a commemorarlo non v’era lo storico stretto collaboratore della Facoltà romana, animatore di intensi seminari per lo studio delle “Istituzioni di diritto romano” frequentati negli anni da migliaia di matricole, poi chiamato in anni più recenti come professore all’Università di Foggia, Francesco Maria Silla, purtroppo prematuramente scomparso nel 2023, che dal prof. Mantello aveva ereditato «il rigore negli studi romanistici e la sensibilità nella ricostruzione testuale»[11].
C’erano però, oltre a numerosi colleghi, giovani e meno giovani, della Facoltà romana, molti fratelli accademici appartenuti alla medesima scuola di Riccardo Orestano.
È quel manipolo di studiosi, attratti dalla scomparsa di un insigne scienziato appartenuto anch’egli a quella importante scuola e chiamati a stringersi intorno al suo feretro, a rappresentare la vitalità del lascito scientifico di Riccardo Orestano di cui si è fatto amministratore fruttifero il prof. Antonio Mantello nel corso della sua vita dedicata, con severità e rigore, allo studio e all’insegnamento.
[1] ‘Beneficium’ servile-‘Debitum’ naturale: Sen., De ben. 3.18.1 ss., D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post Lab.), Milano, 1979.
[2] Tra i tanti altri, si vedano in particolare: I dubbi di Aristone [1990], poi pubblicato nella raccolta Variae, I, Lecce, 2014, 229 ss.; Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo [1991-1992], in Variae, I, cit., 353 ss.; Le ‘classi nominali’ per i giuristi romani. Il caso d’Ulpiano [1995], Variae, I, cit., 423 ss.; Un’etica per il giurista? Profili d’interpretazione giurisprudenziale nel primo Principato [1996], Variae, I, cit., 479 ss.; «De iurisconsultorum philosophia»: spunti e riflessioni sulla giurisprudenza del primo principato [2003] (Variae, I, cit., 557 ss.); Natura e diritto da Servio a Labeone [2007], in Variae, I, cit., 657 ss.; Etica e mercato tra filosofia e giurisprudenza [2008], in Variae, I, cit., 707 ss.; Il Platone di Callistrato [2009], in Variae, I, cit., 785 ss. e L’analogia nei giuristi tardo repubblicani e augustei. Implicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici [2009], in Variae, I, cit., 809 ss.
[3] Tra i quali si possono in questa sede ricordare: ‘Die Elemente der Staatskunst’ di Adam Müller. Una fonte per il ‘Beruf’ di Savigny? [1979], in Variae, II, cit., 881 ss.; La giurisprudenza romana fra nazismo e fascismo [1987], in Variae, II, cit., 975 ss.; Das Jherings-Bild zwischen Nationalsozialismus und Faschismus. Die Analise eines ideologischen Vorganges [1996], in Variae, II, cit., 1057 ss.; Ancora su Savigny [1997], in Variae, II, cit., 1141 ss.; Tematiche possessorie e ideologie romanistiche nell’Ottocento italiano [2000], in Variae, II, cit., 1271 ss.
[4] Per una storia della giurisprudenza romana: il problema dei “miscelliones”, Milano, 1984.
[5] «Non si può considerare il passato alla stregua di chi scavi un sito archeologico pago di riportare asetticamente alla luce una sola sua parte, in funzione – non so – di questa o quell’esigenza turistica, economica, politica dell’uno o dell’altro centro abitato del circondario. Che l’esigenza in questione possa essere tenuta presente per le operazioni di scavo, è cosa indiscutibile. Che anzi, più in generale, siano i bisogni del presente a spingere per una ‘rilettura’ del passato, è indubbio. Non scriveva forse Gramsci: “se un politico è uno storico (non solo nel senso che fa la storia, ma nel senso che operando nel presente interpreta il passato), lo storico è un politico e in questo senso (…) la storia è sempre storia contemporanea, cioè politica”? È evidente però che un’effettiva comprensione già della sola parte del sito prescelta e scavata sia possibile attraverso lo studio delle sue peculiari caratteristiche, ma in relazione sempre al(la conoscenza del) modo d’essere del sito stesso, nella sua complessità, nelle sue stratificazioni diacroniche e sincroniche, nei suoi elementi più risalenti e più recenti, senza nulla trascurare e nulla tralasciare. Solo in tal modo la spinta del presente può sortire l’effetto d’una ‘riappropriazione’ e ‘reinterpretazione’ del passato compiuta e soddisfacente» (Di certe smanie ‘romanistiche’ attuali, in Variae, I, cit., 49 s.). La citazione tratta da Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1948, 218 di Antonio Gramsci è posta anche in epigrafe all’Introduzione di ‘Beneficium’ servile-‘Debitum’ naturale: Sen., De ben. 3.18.1 ss., D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post Lab.), cit., 1.
[6] Così si legge nella relazione per la proposta di conferimento del titolo di professore emerito a firma di Andrea Di Porto, allegata al verbale del Consiglio di Dipartimento di Scienze giuridiche del 26 ottobre 2015 e approvata dal Senato accademico il 20 aprile 2017. Su questi indirizzi metodologici si vedano i contributi ripubblicati nel primo volume della raccolta dei suoi scritti collocati nella sezione Concezioni giuridiche e ideologiche, in Variae, I, cit., 1-143.
[7] Di tale passione per la didattica sono testimonianza i due volumi delle Lezioni di Diritto privato romano, editi rispettivamente, nell’ultima edizione, nel 2009 e nel 2012 (Torino).
[8] Del quale con acribia curò, in occasione del decennale dalla morte, la raccolta in più volumi degli Scritti pubblicata, tra il 1998 e il 2000, nella collana Antiqua, preceduta da una sua importante Nota di lettura (ora anche in Variae, II, cit., 1209 ss.).
[9] Paesaggio crepuscolare che ricorda il titolo di un noto libro di Oswald Spengler – Der Untergang des Abendlandes – alle cui pagine, dove l’autore tedesco esprimeva certi giudizi sulla giurisprudenza romana, il prof. Mantello ha dedicato il denso e già citato saggio La giurisprudenza romana fra nazismo e fascismo [1987], cit., 975 ss.
[10] Scriveva nella Premessa all’ultima edizione del primo volume delle sue Lezioni: «il ‘tempo’ – questa entità misteriosa, in bilico fra oggettività e soggettività – sembra aver assunto un moto sempre più veloce: con accelerazione progressiva sono cadute certezze, ne sono nate altre».
[11] L. D’Amati, Raffinato studioso, indimenticabile amico. In memoriam. Francesco Maria Silla, in Quaderni Lupiensi di Storia e Diritto, Anno XIII, 2023, 267 s.
Pubblichiamo un'anticipazione degli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024 e che saranno pubblicati prossimamente in un fascicolo a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo.
Introduzione
di Paola Filippi
Questo fascicolo contiene gli atti del Quarto convegno della Rivista Giustizia Insieme dal titolo La magistratura e l’indipendenza, dedicato a Giacomo Matteotti a 100 anni dal suo omicidio per mano di sicari di Benito Mussolini.
Il convegno si è svolto nella magnifica biblioteca di Sant’Ivo alla Sapienza, in un luogo ove sono conservati gli atti dei più importanti processi svoltisi durante il ventennio fascista. Omicidi e pestaggi a opera dell’Ovra e della milizia fascista rimasti impuniti anche per la mancanza di indipendenza della magistratura del ventennio.
L’omicidio di Giacomo Matteotti – delitto politico, snodo dell’avvento del fascismo – è strettamente collegato all’indipendenza della magistratura.
È importante ricordare i magistrati coinvolti nelle vicende processuali. E questo è necessario farlo anche perché, come ha scritto Primo Levi, bisogna ricordare «perché quello che accaduto una volta può accedere ancora». Tutto ciò che è accaduto può ripetersi, perché i meccanismi del genere umano non mutano con il passare del tempo.
Il processo richiama prepotentemente la questione dell’indipendenza della magistratura.
La storia dell’omicidio di Giacomo Matteotti è anche la storia dell’indipendenza di magistrati come Mauro Del Giudice e Guglielmo Tancredi, ovvero della diversa declinazione della dipendenza di magistrati come Niccodemo Del Vasto, procuratore che sostituì Tancredi e Fagella, Presidente del Tribunale di Roma, Vincenzo Crisafulli, Procuratore Capo dell’Ufficio di Procura di Roma, Giuseppe Francesco Danza, presidente del collegio giudicante di Chieti e Alberto Salucci, procuratore d’accusa.
È evocativa del valore dell’indipendenza la frase del memoriale di Mauro Del Giudice – conservato presso l’Archivio di Stato – consegnato alla corte di assise di appello di Roma che procedette a carico dei sicari a seguito del decreto luogotenenziale che dichiarò inesistente, tra gli altri, la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Chieti il 24 marzo 1926.
«Ripeto che parlo per vero dire, non già perché mosso da alcun sentimento di rancore o per vendicarmi della persecuzione ventennale subita per avere fatto allora il mio dovere di magistrato indipendente. Sono sull’orlo della tomba ed assai prossimo a render conto a Dio della mia vita trascorsa negli uffici giudiziari. Debbo perciò essere creduto.»
L’esperienza della magistratura degli anni ’20, come ricorda il prof. Scarselli«costituisce per noi un indispensabile spunto per riflettere sulle nostre attuali questioni, e ciò anche perché, nella storia, come molti filosofi ci hanno insegnato, tutto ciò che è accaduto può ripetersi, e i meccanismi del genere umano non mutano con il passare del tempo».
«In primo luogo, in questo ricordo della magistratura, si riesce a rinvenire tutti i tratti dell’essere umano: si va dal senso del dovere di Mauro Del Giudice al lassismo opportunista di Giuseppe Francesco Danza, dall’orgogliosa consapevolezza della funzione giudicante di Lodovico Mortara allo scandaloso esercizio della funzione requirente di Alberto Salucci, dalla sete di indipendenza e giustizia di Vincenzo Chieppa agli atteggiamenti privi di rigore quali quelli tenuti dai magistrati del processo a Benito Mussolini tra il 1919 e il 1922, fino alla smoderata ambizione e al trasformismo di giudici quali Michele Isgrò e Giuseppe Montalto, disposti a dirigere un Tribunale Speciale a servizio di un dittatore per motivi personali di tipo carrieristico.»
L’indipendenza della magistratura è un bene prezioso.
La definizione di Stato di diritto presuppone un sistema di norme chiare, giustificate quanto alla loro obbligatorietà dai principi costituzionali e unionali, e che in qualche modo ne siano la realizzazione, esige la sottoposizione indifferenziata alla legge di tutti i cittadini e tutti gli enti e presuppone l’autonomia e la separatezza dei poteri e dunque l’indipendenza del potere giurisdizionale.
Non a caso, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento 2020/2092 del 16 dicembre 2020 del Parlamento europeo, come primo elemento sintomatico di una situazione di violazioni delle Stato di diritto, al primo punto ovvero alla lett. a), sono indicate «le minacce all'indipendenza della magistratura».
La nozione di stato di diritto è strettamente collegata a quella di società democratica che trova il suo necessario contrafforte in un sistema giudiziario efficiente, imparziale e indipendente.
L’indipendenza del potere giurisdizionale, di coloro che emettono la decisione, ma pure della magistratura requirente costituisce un diritto del cittadino.
La parità di tutti i cittadini davanti alla legge pretende l’indipendenza del potere giurisdizionale così come pretende l’indipendenza del magistrato e l’imparzialità delle sue decisioni.
Se l’indipendenza del corpo magistratuale e del singolo magistrato che lo compone è un diritto irrinunciabile dei cittadini e della collettività, per il magistrato più che un dovere è un dover essere.
Non a caso l’indipendenza e l’imparzialità, sin dalla prima regolamentazione delle valutazioni di professionalità dopo l’abolizione, negli anni Sessanta, dei concorsi e degli scrutini in cui si articolava il sistema dei c.d. ruoli chiusi – mi riferisco alla circolare Tamburino del 1985 – sono stati individuati – successivamente è stato aggiunto l’equilibrio – come pre-requisiti, ai fini dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
La violazione di tali doveri da parte di un singolo magistrato si riverbera negativamente sull’intero corpo magistratuale.
D’altro canto, come ci ha ricordato Zagrebelsky, «Indipendenza e imparzialità sono doveri fondamentali riguardanti i singoli magistrati e la magistratura nel suo insieme. Vi è un nesso stretto tra ciò che riguarda il singolo magistrato che si esprime e le ricadute sulla magistratura tutta. Quando si dice – e si pretende che abbia portata generale – che la magistratura è “potere diffuso”, si deve poi considerare che il potere giudiziario tutto è coinvolto nel comportamento dei singoli magistrati» (La libertà di espressione e l’imparzialità di Vladimiro Zagrebelsky, pubblicato il 2 gennaio 2024 su questa Rivista, sotto la voce Costituzione e carte dei diritti fondamentali).
Abbiamo individuato come argomento del quarto convegno di Giustizia insieme: “l’indipendenza della magistratura” per tre ordini di ragioni.
La prima: in quanto riteniamo che l’indipendenza della magistratura debba essere costantemente oggetto di attenzione e noi vorremmo dare un senso alla necessità di attenzione perché dall’indipendenza dipende il sistema democratico.
Come ha scritto Licia Fierro nel bel saggio intitolato Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo, «I sistemi democratici non nascono una volta e per sempre, vanno costruiti e ricostruiti ogni giorno».
La seconda ragione è che occorre essere consapevoli dell’esistenza di situazioni potenzialmente idonee a turbare l’indipendenza, situazioni spesso sottovalutate se non addirittura ignorate. Occorre mettere sotto osservazioni le potenziali situazioni di rischio.
La terza ragione è che occorre iniziare a ragionare attorno alla questione dell’indipendenza delle decisioni in relazione all’intelligenza artificiale; a riflettere in tema di indipendenza, prevedibilità e algoritmo.
La prima sessione del convegno è stata dedicata all’indipendenza del magistrato europeo.
Dalla Corte di Strasburgo arrivano segnali che ci rassegnano una allarmante tendenza verso la retrocessione dello stato di diritto in alcuni paesi dell’Unione, come peraltro in paesi occidentali nell’orbita di influenza con l’Unione – penso a Israele.
La Presidente della Corte di Strasburgo, al seminario presso l’Accademia dei Lincei – come richiamato da Simone Pitto nel suo articolo “Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto”, pubblicato il 9 aprile 2024 sulla Rivista – ha segnalato che quanto osservato a Strasburgo in questi ultimi anni non è una mera “retrocessione” dello Stato di diritto ma un chiaro segnale dell’esistenza di un fenomeno di degenerazione ed erosione della democrazia.
Si registra una ampia giurisprudenza della Corte di Strasburgo che segnala interventi diretti a minare l’indipendenza dei magistrati attraverso provvedimenti che modificano la disciplina in settori nevralgici quali la carriera, i trasferimenti, le sospensioni, i procedimenti disciplinari. Si tratta di interventi normativi idonei a influenzare nei paesi sotto osservazione quali Polonia, Ungheria, Bulgaria, Malta, Romania, Slovacchia. Tanto per fare un esempio pendono 450 ricorsi che sollevano dubbi sull’indipendenza della magistratura in Polonia.
Con riferimento all’Ungheria, in relazione al caso Salis, la giudice Ungherese Anna Madarasi ha scritto un interessante articolo che evidenzia l’altra faccia della medaglia ovvero quella della pressione di governi esteri sui magistrati nazionali.
Le sue riflessioni portano a pensare che lì dove è in dubbio l’indipendenza c’è meno rispetto dell’imparzialità nelle decisioni (Quis Custodiet Ipsos Custodes? Note al margine di un processo penale ungheresepubblicato il 24 marzo 2024 – voce diritti stranieri).
È indispensabile la ricerca collettiva degli anticorpi per le criticità che rilevanti in tema di condizionamento dei giudizi e quali i rimedi.
(Si rinvia alla lettura dell’articolo del titolo L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisidi Vladimiro Zagrebelsky del 28 maggio 2021 - voce diritto UE).
La coordinatrice della tavola rotonda è stata Sibilla Ottoni, giudice del Tribunale di Tivoli. Hanno partecipato Simone Benvenuti, professore di diritto pubblico presso l’Università Roma TRE, Leonardo Pierdominici, ricercatore di diritto pubblico presso l’Università di Bologna e Simone Pitto, assegnista di ricerca presso l’Università di Genova.
La seconda sessione è stata dedicata all’indipendenza della magistratura in Italia. Ci siamo interrogati in ordine ai pericoli per l’indipendenza ricollegabili, anche solo in via indiretta, a talune riforme in itinere. Pensiamo alla valutazione professionale fondata sulle valutazioni dei provvedimenti; si tratta di una previsione potenzialmente lesiva dell’indipendenza del giudice per il metus che può condurre il giudice a non emettere la decisione giusta, scevra da condizionamenti, per paura di valutazioni non positive.
Come ha scritto Nello Nappi: «Il conformismo è il vero rischio professionale dei magistrati, perché li esonera da quella “responsabilità empatica” che è indispensabile per riconoscere l’effettivo significato dei comportamenti altrui nel contesto di una comune costellazione di valori» (su questa Rivista in “Equilibri ed equilibrismi” pubblicato il 4 aprile 2024 - voce ordinamento giudiziario)
Premesso che l’ottimismo del cuore ci induce a ritenere che i test psicoattitudinali, come in più sedi ha evidenziato il Presidente Santalucia e come scrive Nappi, non siano altro che “l’ennesima operazione di equilibrismo propagandistico” i test, in astratto, potrebbero divenire uno strumento non utile al servizio giustizia bensì un strumento a disposizione di chi volesse selezionare i vincitori di concorso in base alle idee e al pensiero politico. Non è con i test che si valuta l’equilibrio e, d’altro canto, la valutazione di detto pre-requisito deve essere costante come lo è in base alle valutazioni periodiche alle quali negli organi di governo autonomo decentrato partecipano pure gli avvocati.
Una operazione che pure mette a repentaglio l’indipendenza della decisione, con condizionamenti intenzionali provenienti dall’esterno, è l’attività di dossieraggio e l’attività denigratoria diretta e personale contro magistrati in ragione di provvedimenti emessi. A questo riguardo viene in mente l’attacco del 15 ottobre 200 9al collega Raimondo Mesiano, che il giorno prima aveva condannato la Fininvest a pagare una multa milionaria per danni alla Cir di Carlo de Benedetti, ma anche i recenti dossieraggi, anche successivi al convegno – si pensi alle notizie personali divulgate dalla Stampa riguardo al Presidente Marco Gattuso per rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia -.
È di questi giorni il tweet di Elon Musk del tenore “These judges need to go” riferito ai giudici che si sono occupati delle richieste di convalida del trattenimento di cittadini dell’Egitto e del Bangladesh, ovvero che hanno deciso con riferimento a questioni riguardante la procedura da adottare e quindi scelta squisitamente giurisdizionale.
Le “schedature” realizzate in danno dei magistrati dimostrano plasticamente come anche la privacy sia condizione di libertà e, a un tempo, di democrazia. L’utilizzo distorto dell’informazione può determinare condizionamenti e incidere su scelte decisionali che presuppongono l’indipendenza e così determinare rischi rilevanti per la tenuta delle garanzie democratiche.
A questo proposito occorre richiamare la ricorrente affermazione della Corte di Strasburgo secondo la quale: deve essere costantemente protetto «il ruolo speciale ricoperto nella società dal potere giudiziario che, in quanto garante della giustizia — valore fondamentale in uno Stato di diritto —, deve godere della fiducia della collettività se deve poter svolgere le proprie funzioni».
La sessione è stata coordinata da Michela Petrini, sostituta procuratrice a Spoleto. Alla tavola rotonda hanno partecipano Giuliano Scarselli, professore di procedura civile presso l’università di Siena, l’avv. Cataldo Intrieri del foro di Roma e Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati.
La terza sessione ha riguardato le influenze “ambientali”. La riflessione dalla quale siamo partiti e che abbiamo deciso di esaminare con questa tavola rotonda è strettamente collegata alle enormi trasformazioni che hanno interessato la nostra società negli ultimi vent’anni.
Ci sono fattori ambientali destinati a influenzare surrettiziamente le decisioni giurisdizionali delle quali è necessario acquisire coscienza per elaborare schermi di protezione dell’indipendenza.
La riflessione dalla quale siamo partiti è che con la trasformazione da homo politicus a homo economicus anche lo iurius dicere si trova a fare i conti con gli effetti economici delle decisioni.
Su altro terreno, il PNRR, con la celerità delle decisioni che impone per fini economici, potrebbe limitare la riflessione sottesa alla soluzione dei conflitti. La rapidità nell’assunzione delle decisioni in quest’ottica potrebbe ledere l’indipendenza per la limitazione dei tempi che impone ab esterno, a scapito del cittadino. La celerità, d’altro canto, conduce al conformismo, con i danni ai quali abbiamo fatto riferimento, richiamando le parole di Nello Nappi e all’automatismo a scapito della ponderazione. I condizionamenti a scapito dell’indipendenza si registrano con riferimento al fenomeno del processo mediatico e a tutte le pulsioni populistiche che ne derivano. Spinte che portano il giudice a decidere come Pilato per accondiscendere il popolo.
Ha coordinato la terza sessione Marco Dell’Utri, consigliere della Corte di Cassazione. Hanno partecipato alla tavola rotonda Gabriella Luccioli, Presidente emerita della Prima sezione della Corte di Cassazione, Bruno Montanari, professore di filosofia del diritto presso l’Università di Catania e la Cattolica di Milano, Geminello Preterossi, professore di filosofia del diritto dell’università di Salerno e direttore scientifico dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici di Napoli.
Infine la quarta sessione è stata pensata per analizzare l’indipendenza e l’intelligenza artificiale. Un terreno tutto da esplorare nel quale è nostra intenzione declinare il profilo dell’indipendenza in un ambito del tutto nuovo. “L’intelligenza artificiale garantisce l’assenza di condizionamenti?”
Ha coordinato l’ultima sessione Angelo Costanzo, consigliere della Corte di Cassazione e hanno partecipato alla tavola rotonda Nicola Zamperini, giornalista esperto di culture digitali, Giancarlo Montedoro, presidente di sezione del Consiglio di Stato, Ombretta di Giovine, consigliera della Corte di Cassazione.
Giudicare: un compito necessario e impossibile a un tempo
Recensione a Glauco Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, II ed. Laterza, Bari-Roma 2025, pp.208.
Sommario. 1. Processo penale: uno stretto ponte tibetano - 2. Contraddittorio e ricerca della verità - 3. Le strutture portanti dell’attuale processo penale - 4. Processo penale e comunicazione - 5. La separazione delle carriere - 6. Questa nostra giustizia imperfetta.
1. Processo penale: uno stretto ponte tibetano.
“Giudicare: un compito necessario e impossibile a un tempo. Necessario, soprattutto quando abbiamo a che fare con fatti di reato, perché una società non può lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. Impossibile, perché non siamo in grado di conoscere la verità. O, meglio, non possiamo mai avere la certezza di averla conseguita.” Incipit della nuova edizione ampliata e aggiornata della “Prima lezione sulla giustizia penale” di Glauco Giostra, professore emerito di procedura penale presso l’Università la Sapienza di Roma. L’A. ripropone l’immagine del processo “come uno stretto ponte tibetano… Affinché abbia tenuta sociale è necessario che la collettività riconosca che lo stesso costituisce la via meno imperfetta e per cercare di attingere la verità nel contesto storico, culturale e scientifico in cui è chiamato ad operare: soltanto così il prodotto finale, la sentenza, si rende eticamente accettabile socialmente accettato, nonostante la sua insopprimibile fallibilità.” L’intento di dirigersi anche a lettori non giuristi è raggiunto grazie alla chiarezza dell’esposizione, nonché al Glossario, cui nel testo si fa rimando quando compaia un indispensabile termine specialistico. Le duecento pagine del volumetto sono ricchissime di spunti di approfondimento per chi abbia già avuto modo, come studioso o pratico, di confrontarsi con le tematiche del processo. Troviamo analisi accurate, anche prese di posizione nette, ma proposte sempre all’esito di un esame degli argomenti pro e contro; mai scorciatoie argomentative o posizioni “assolutiste”.
Subito un esempio: “la condizione di terzietà del giudice è un elemento necessario, ma non sufficiente per avere la certezza che possa assolvere la sua funzione con neutrale obbiettività. Ogni persona investita del titanico compito del giudicare ha un vissuto, un patrimonio culturale e un assetto emotivo che fatalmente ne influenzano le capacità di percepire, di valutare e di decidere.” (p.5).
Il nucleo centrale della riflessione dell’A. è nella parte intitolata “Il volto costituzionale della nostra giustizia penale”. La svolta è avvenuta con il codice di procedura penale del 1989:” Il tempo del ‘più informazioni si hanno, meglio si decide ‘, doveva lasciare il posto ad un ‘meglio si decide, quando le informazioni sono assunte con un metodo che ne garantisca l'affidabilità’ ” (p.41). Dieci anni dopo, superate resistenze e passi indietro, le regole del giusto processo vengono fissate “con la riscrittura dell'articolo 111 Costituzione, peraltro di assai discutibile fattura tecnica.” (p.44)
Dopo la netta presa di posizione: “Il contraddittorio costituisce uno strumento, ancor oggi il meno imperfetto, per la ricerca della verità o meglio per ridurre il più possibile lo scarto fra verità giudiziale e verità storica” (p.45-46), l’A. mette in guardia contro ogni “sorta di rappresentazione ‘agiografica’ del nostro sistema processuale: avere consapevolezza critica dei suoi limiti può servire al legislatore e all'interprete almeno per contenerne le conseguenze.” (p. 50). Infatti “Il processo penale costituisce l'ambito giurisdizionale in cui il contraddittorio risulta di più necessaria, ma anche di più difficile realizzazione.” (p.55) Non si sottace la difficoltà di assicurare la cosiddetta “parità delle armi” tra accusa e difesa: “A differenza di quanto accade nel processo civile, in cui i contendenti disputano per l'affermazione dei propri speculari interessi, nel processo penale abbiamo un soggetto privato che difende la sua libertà e la sua reputazione e un soggetto pubblico che non ha interessi in senso proprio a limitare la prima e a macchiare la seconda, ma che deve accertare con obiettività l'esistenza di un fatto penalmente rilevante e individuarne il responsabile.”( p.56)
Richiamata l’imparzialità istituzionale del Pm, l’A. avverte quanto però operi la “legge psicologica dell'inerzia” (Cesare Musatti): “L'organo inquirente formula un'ipotesi per cercare la verità, ma sovente finisce per cercare la verità della sua ipotesi. Ha un'attenzione selettiva, una visione monoculare, parziale della realtà. In questi ineludibili termini il pubblico ministero è parte.” (p. 68). Non giova eludere le differenze: “Il legislatore ordinario è chiamato quindi ad un compito molto difficile: non deve puntare ad un'impossibile uguaglianza delle parti, attesa la congenita asimmetria strutturale del rito penale, ma deve costruire un sistema in cui l'accusa e la difesa abbiano equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale e quindi sull'esito finale del processo.” (p.69).
2. Contraddittorio e ricerca della verità.
Di qui la particolare attenzione al contraddittorio nella formazione della prova. Sottolinea l’A. che il contraddittorio trova la sua massima espressione quando sono assicurate l’oralità e la contestualità del confronto. La pratica, peraltro, ci insegna quanto i tempi lunghi dei dibattimenti finiscano per mettere in crisi questi principi. Quando i giudici (togati e popolari) si ritirano in camera di consiglio per la decisione a conclusione di un dibattimento durato mesi, se non anni, il ricordo dell’assunzione orale della prova è soppiantato dalla rilettura del verbale di quella udienza. Il principio della ragionevole durata del processo è sì un diritto dell’imputato, ma anche garanzia di un processo giusto, che si fondi sull’effettività dei principi del contraddittorio e dell’oralità.
Sul tema della verità l’A. ritorna in più passaggi: “Tra le tante verità possibili quella espressa dal processo costituisce la migliore verità che una società è in grado di darsi nel rispetto dei diritti dei suoi consociati.” (p. 10). Ma vi sono limiti alla ricerca della verità: limiti valoriali (non solo la tortura, ma “l’ordinamento ripudia il ricorso a metodiche lesive della dignità umana, anche ove utili all’accertamento della verità” p. 17) e limiti epistemologici (“connaturati alla fallibilità dei nostri strumenti di conoscenza” p.21). Limiti, ma contraddittorio come lo strumento meno imperfetto “per la ricerca della verità”.
L’A. senza neppure citarle liquida così le teorie del processo come “gioco di parti”, indifferente allo scopo purché siano rispettate le “regole del gioco”. Si è già citata la immagine del processo come stretto ponte tibetano: “la via meno imperfetta per cercare di attingere la verità”.
Non mancano coloro che, in omaggio ad una mitica purezza del modello accusatorio, fanno proprie teorie che, pur presenti tra autori americani, sono ormai da tempo abbandonate in quella Inghilterra che è pur sempre la patria del processo adversary. A far giustizia di sbrigative posizioni giova una citazione da un testo del 2001 di Lord Justice Auld (all’epoca presidente di una Royal Commission sulla riforma del processo penale inglese): “Il processo penale non è un gioco. È la ricerca della verità secondo la legge, attraverso una procedura accusatoria nella quale l’accusa deve provare la colpevolezza secondo uno standard particolarmente elevato”.[1]
Qualche anno fa Mireille Delmas Marty scriveva: “In effetti, se l’esercizio del dubbio fonda l’etica del giudice penale, è perché il riferimento alla verità, ed alle incertezze che inevitabilmente l’accompagnano, resta al centro della giustizia penale”.[2]
Una volta riaffermato che la “verità processuale” non può essere la verità assoluta[3], possono essere severamente liquidate, come osserva Paolo Ferrua, le semplificazioni: “Si è diffusa una dannosa tendenza a concepire il processo accusatorio come pura soluzione di conflitti tra le parti, dominato da una esasperata disponibilità della prova, da una logica di laissez faire, pronta a sacrificare le esigenze di giustizia sostanziale».[4]
Uno studioso inglese, John Spencer, professore all’Università di Cambridge e profondo conoscitore dei sistemi continentali, affrontando il problema delle regole probatorie nel processo penale nel confronto tra sistemi di tradizione accusatoria e di tradizione inquisitoria, si chiedeva se si potessero ravvisare segni di avvicinamento. “A prima vista la risposta è: ‘no, il fossato si allarga’ […]. Questa visuale, tuttavia è ingannevole. Malgrado certe differenze evidenti e talora profonde, ciascuno dei due gruppi ha già fatto proprie, in parte, idee dell’altro, più razionali e più civili […]. Soprattutto, però, contrariamente a quanto talora si sente, i due gruppi sono unanimi su ciò che è per ciascuno lo scopo essenziale delle regole probatorie: dappertutto è l’accertamento della verità.”[5]
John Spencer riporta a sostegno l’osservazione di un celebre giudice inglese, Lord Denning: “Neppure in Inghilterra il giudice è semplicemente un arbitro chiamato a rispondere alla domanda How’s that? che è l’espressione tradizionale del giocatore di cricket che crede di avere segnato un punto e chiede all’arbitro di dargliene conferma”. Peraltro anche nell’accusatorio in declinazione Usa dove il giudice nel processo con giuria avrebbe un ruolo di mere umpire (mero arbitro) non mancano temperamenti. Anche se esercitata con molta parsimonia il giudice ha la facoltà di convocare un teste per interrogarlo personalmente e può rivolgere domande a quelli convocati dalle parti.[6] Si consideri il rilevante ruolo del giudice nell’ammettere o escludere prove. Inoltre, a conclusione del dibattimento,” il giudice impartisce le instructions alla jury, rendendola edotta delle norme sostanziali, processuali e probatorie applicabili e sul significato dello standard di prova a cui deve attenersi nel decidere.”[7]
Secondo il nostro A. quello dei poteri da conferire al giudice è “uno dei passaggi più delicati e più stretti del nostro ‘ponte tibetano’ […] È un problema delicatissimo di bilanciamenti, di dosaggio. Inaccettabili le soluzioni estreme. Sia quella che vorrebbe il giudice passivo spettatore, sia quella che ne vorrebbe fare l'attore protagonista. Anche in questo caso, bisogna tener presente che dialettica tra le parti e imparzialità del giudice sono mezzi, non fini: è quindi bene prevederne temperamenti quando ciò, per esperienza e per logica, risulta utile al perseguimento della verità. In tal senso si è opportunamente orientato il nostro legislatore, che riconosce al giudice poteri di intervento di ufficio, ma soltanto a carattere residuale (anche nel senso di successivo alle iniziative delle parti) e comunque con un invalicabile confine: il giudice non può mai formulare, neppure parzialmente, l’accusa, né gestire l'istruzione dibattimentale secondo una propria ipotesi di ricostruzione dei fatti.” (pp.141-142)
3. Le strutture portanti dell’attuale processo penale.
La parte III è dedicata alla ricognizione delle “Strutture portanti dell’attuale processo penale”, segnalando le innovazioni più recenti. Oggi, sulla richiesta del Pm di applicare una misura cautelare, decide il Gip come giudice singolo; con legge del 2024 si è previsto un Gip collegiale. L’entrata in vigore della riforma è stata rinviata di due anni, ma si può sin da ora prevedere che formare questo collegio di tre giudici sarà possibile, e con difficoltà, solo nei grandi Tribunali metropolitani, una dozzina in tutta Italia. Per il resto si dovrebbe provvedere con magistrati applicati ad hoc, magari provenienti dal settore civile, con una serie di ricadute negative a livello organizzativo.
Una recentissima modifica ha introdotto la figura dell'interrogatorio anticipato per garantire un confronto preventivo tra accusa e difesa dinanzi al giudice prima che questi si pronunci sull'emissione del provvedimento cautelare. Anche qui ottimo proposito, ma di difficile praticabilità, soprattutto perché calibrato su indagini con un solo indagato, mentre nella realtà normalmente gli indagati sono diversi.
Ancora una innovazione di grande interesse: la “giustizia riparativa”, ma, avverte l’A. come sia “impervia la difficoltà di disciplinare le interazioni tra il percorso di giustizia riparativa e il processo penale. Abbiamo a che fare infatti con due mondi che hanno grammatica e sintassi più che diverse opposte” (p.170).
4. Processo penale e comunicazione
La parte IV è dedicata alla narrazione della giustizia penale. La posizione dell’A. è netta. “Ogni ordinamento moderno è alla difficile ricerca di un punto di equilibrio ottimale tra le esigenze dell'informazione, della giustizia e della riservatezza individuale. A me sembra che quello espresso dal nostro sia largamente insoddisfacente: mal tutelate le prime, iperprotettive le seconde, garantite random le ultime” (p.174). Un’accurata trattazione è dedicata a tutte le problematiche coinvolte e non poteva essere altrimenti, data la costante attenzione dell’A. a questa tematica a partire dal pionieristico studio del 1989 “Processo penale e informazione”. Vale la pena, dunque, di riprendere diversi illuminanti passaggi.
La “giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101 co. 1 Cost): dunque informazione sul modo con il quale viene resa giustizia, quale controllo e fonte di legittimazione. “Un controllo sociale inteso non certo ad approvare o a contestare la singola decisione, bensì a verificare se la collettività si riconosce nelle vigenti regole della iurisdictio o se ritiene necessario darsene di diverse, qualora il metodo, le controindicazioni e i risultati non corrispondessero più alla sua mutata sensibilità.” (pp. 171-172).
Durante la fase delle indagini preliminari” vi è la necessità di garantire altri interessi confliggenti non meno meritevoli di tutela. [..] La difficoltà per il legislatore è riuscire a tutelare la riservatezza delle indagini senza prolungare il black out informativo oltre il necessario, arrecando ingiustificato pregiudizio al diritto della collettività ad essere informata; nonché, realisticamente, determinando una decrescente tenuta del divieto di pubblicazione.” (pp.172-173). Quanto alla tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti, l’A. liquida diffuse quanto infondate polemiche. “È bene fare a riguardo una precisazione. Solitamente si dice che va tutelata la riservatezza dei soggetti estranei al processo: a me sembra che il discrimine non debba intercorrere tra soggetti, bensì tra atti rilevanti e atti irrilevanti per il processo. Rispetto ai primi, che riguardino imputato, persona offesa o soggetti terzi, deve prevalere sempre l'interesse pubblico alla conoscenza; rispetto ai secondi, invece, dovrebbe sempre prevalere l'interesse alla tutela della riservatezza della persona, a prescindere dal suo rapporto con il procedimento.” (p.173).
Un argomento portato a sostegno dei limiti alla pubblicabilità degli atti non più segreti è quello della tutela della cosiddetta verginità cognitiva del giudice. Di questi atti è consentita la pubblicabilità del solo contenuto, ma non del testo né integralmente né parzialmente. “Si ritiene che il convincimento del giudice possa subire qualche condizionamento dalla riproduzione letterale dell'atto, mentre resterebbe impermeabile al suo riassunto giornalistico. Da un punto di vista teorico siffatto ragionamento regge, ma la realtà induce a riflessioni un po’ più pragmatiche. […] appare improbabile che in un domani lontano, tra anni, il giudice sia condizionato dalla pubblicazione, oggi, di un atto non segreto, quando ancora ignora se quel procedimento sarà archiviato, se verrà instaurato un rito speciale, se la competenza potrà essere sua.” (p.175-176) Anche su questo tema la conclusione dell’A. è netta:” Insomma, questo divieto di pubblicare in tutto in parte un atto non segreto sembra una barriera di cartapesta, che, senza giovare alla giustizia, fa male alla cronaca giudiziaria. Sarebbe opportuno quindi abbandonare questa tartufesca distinzione atto /contenuto e fare affidamento su un giudice che sappia distinguere tra la conoscenza psicologica e quella giuridica, utilizzando soltanto quest'ultima per le sue decisioni, l'unica peraltro utilizzabile per motivarle” (p.176).
Una questione delicata si pone: “quando la notizia rimasta impigliata nella rete a strascico dell'inchiesta penale, pur processualmente irrilevante, sia di pubblico interesse: di pubblico interesse, si ribadisce, e non di mero interesse del pubblico”. L’A. cita la famosa sentenza Dupuis contro Francia (Corte Edu 12 novembre 2007) e in quella linea conclude: “Le notizie rilevanti per il processo, ancorché lesive della reputazione o della privacy, dovrebbero essere sempre conoscibili e divulgabili dal giornalista: in tal caso l'interesse pubblico alla conoscenza è in re ipsa, avendo il popolo il diritto di sapere conviene amministrata la giustizia in suo nome (art. 101 comma 1 Cost.). Le informazioni irrilevanti per il processo, invece, potrebbero essere legittimamente divulgate solo ove si dimostri, e in tal caso sarebbe onere del giornalista dimostrarlo, che ricorre un interesse pubblico alla loro conoscenza.” (p.182)
5. La separazione delle carriere.
Non si può evitare una notazione su un tema di attualità. La separazione delle carriere è ritenuta da più parti imposta dal modello accusatorio; il Ministro Nordio addirittura evoca la categoria teologica del “consustanziale” (Concilio di Nicea). A fronte della grandissima attenzione alla effettività del contraddittorio e alle garanzie di difesa, colpisce che alla questione della separazione Glauco Giostra dedichi non più di poche, ma decisive, righe ritenendo “angusti i margini in termini di architettura del sistema per separare a livello ordinamentale il pubblico ministero dal giudice senza mettere a rischio l'indipendenza del primo, che pure la stessa Costituzione vuole sia assicurata.” (p.60). Questione non eludibile.
6. Questa nostra giustizia imperfetta.
Ed infine l’Epilogo, con le parole dell’A. “Se dalla nostra piccola lezione ormai al termine fossimo riusciti a ricavare la grande lezione della irrinunciabilità etica e politica di questa nostra giustizia imperfetta, amministrata da uomini imperfetti, ma indipendenti da ogni potere e soggetti soltanto alle imperfette regole a cui la collettività chiede loro di attenersi, avremmo ben speso il nostro tempo” (p.186).
Chi avrà modo di leggere questa “Prima lezione” ne trarrà una guida per avventurarsi nei tanti problemi aperti della nostra giustizia, fuori dell’approssimazione, della faziosità e della demagogia oggi così diffuse.
P.S. Il recensore si è attenuto alla norma introdotta per i limiti alla pubblicabilità degli atti non più segreti usando la tecnica del “riassunto”, ma l’ha anche molto spesso violata pubblicando molte citazioni parziali del testo. Ad evitare il rischio che il lettore si appaghi dei riassuntini e delle citazioni parziali, vale anche in questo caso la regola di esperienza che la lettura del testo integrale è sempre preferibile. E poi, come dicono certe pubblicità in Tv, vi assicuro che nel lavoro di Glauco Giostra: “Vi è di più, molto di più!”.
[1] In A rewiew of the Criminal Courts of England and Wales, September 2001, www.criminal-courts-rewiew.org.uk , p. 11: The criminal process is not a game. It is a search for truth according to law, albeit by an adversarial process in which the prosecution must prove guilt to a heavy standard.
[2] M. Delmas-Marty, La prova penale, in L’indice penale, 1996, n. 3, pp. 609-610.
[3] Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, V ed., Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 94-135 e p. 546 ss; L. Ferrajoli, L’etica della giurisdizione penale, in Etica e deontologia giudiziaria, Vivarium, Napoli, 2003, p. 31.
[4] P. Ferrua, Contraddittorio e verità nel processo penale, in P. Ferrua, Studi sul processo penale, Vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Giappichelli, Torino, 1992, p. 48-49
[5] J.R. Spencer, in Procedure penali d’Europa, cit., pp. 614-616).
[6] V. Fanchiotti, La giustizia penale statunitense. Procedure v. antiprocedure, Giappichelli, Torino 2022, p. 93
[7] V. Fanchiotti, ivi, p. 100
Il finalismo rieducativo di cui all’art. 27, comma 3, della Costituzione nell’attuale contesto degli istituti di pena
Sommario: 1. Premessa – 2. La funzione della pena nella costituzione – 3. L’ “essere” e il “dover essere” nell’esecuzione penale – 4. Le recenti modifiche alla disciplina dell’esecuzione penale e gli interventi normativi ancora in itinere – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La presente pubblicazione si riallaccia ad alcuni dei temi trattati nel capitolo della memoria resa dal Procuratore Generale della Corte dei conti in occasione del giudizio sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio 2023, avente ad oggetto la gestione affidata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria[1].
Prima di addentrarsi nell’analisi, tuttavia, si vuole evidenziare l’esistenza di un diffuso pregiudizio, serpeggiante nella pubblica opinione, che vede il mondo delle carceri come una sorta di realtà a sé stante, un’isola solo lambita dal diritto e poco interessante per i giuristi: il tema, infatti, viene spesso ricondotto a mere esigenze di sicurezza, da soddisfare attraverso l’innalzamento di mura invalicabili entro le quali costringere i rei quanto più a lungo possibile, se necessario costruendo nuove prigioni, inasprendo le pene, infliggendole al massimo edittale, prevedendo nuove e sempre più specifiche figure di reato e circostanze aggravanti, in modo da allontanare il tempo in cui il reprobo potrà, malauguratamente, contaminare con la propria presenza la società dei liberi.
Quel che sembra essenziale, in un’ottica populista, insomma, è che si provveda a “buttare via le chiavi” delle celle, affinché sia compiuta la “vendetta pubblica” per il male fatto e ci si protegga da nuove aggressioni[2].
La certezza della pena – nella prospettiva descritta – equivale alla certezza del carcere, che dovrebbe fungere da deterrenza alle scelte criminali.[3]
Questa visione, purtroppo oggi assai diffusa, potrebbe indurre a considerare la relazione che ha dato origine al presente lavoro il frutto di un’eccentrica incursione della magistratura contabile in un territorio estraneo al proprio orizzonte e, comunque, di scarso rilievo giuridico.
Al di là della non condivisibilità dell’obiezione e dell’approccio sotteso – anche per ragioni legate al dettato costituzionale – non deve dimenticarsi che l’attività di ogni articolazione dell’amministrazione è soggetta, oltre che alle regole peculiari del settore, anche alle norme e ai principi generali che sovraintendono l’esercizio dei pubblici poteri, necessariamente proteso, in base al principio sancito dall’art. 97 della Costituzione, alla cura degli interessi pubblici agli stessi affidati, da perseguirsi mediante un corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
Un esempio concreto, tratto dalla casistica afferente alla sottoposizione al visto di atti, rende evidente il rapporto fra i compiti intestati alla Corte dei conti e la tematica oggetto di indagine[4].
Nel caso di specie, il punto di contatto concerne la qualità del vitto offerto ai detenuti, cui deve essere garantita “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”, come prescritto dall’art. 9 della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” .
Si fa riferimento alle diverse delibere con cui la Sezione Regionale di Controllo per il Lazio ha ricusato il visto sui decreti di approvazione di contratti riguardanti la fornitura del vitto nell’ambito di numerose strutture carcerarie site nella regione.[5]
Nelle ipotesi esaminate, l’amministrazione aveva formulato bandi di gara riguardanti il solo servizio obbligatorio e principale di vitto, assegnandolo alle aggiudicatarie che avevano presentato consistenti ribassi, tali da condurre ad un impegno alla consegna delle derrate alimentari necessarie al confezionamento dei pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena) ad un prezzo estremante contenuto (in due ipotesi 2,39 euro; 2,25 euro e 3 euro nelle altre); la fornitura del sopravvitto, acquistato dai detenuti con i fondi del proprio peculio, invece, era considerata meramente accessoria e la possibilità di richiederla ex post era rimessa alla valutazione discrezionale degli istituti di pena, i quali, di fatto, in realtà, si erano sistematicamente avvalsi di tale facoltà.
Il Collegio del controllo, valutate tali circostanze, osservava che il servizio di vitto non era economicamente sostenibile ove svincolato dai ricavi del sopravvitto e che quest’ultimo, in effetti, non aveva una natura realmente accessoria, data la sua centralità sotto il profilo della convenienza dell’operazione, interamente gestita da un’unica impresa in posizione di potenziale conflitto di interessi, a tutto discapito della qualità della fornitura dei beni alimentari primari.
La Sezione, quindi, considerato che le offerte avevano riguardato solo il vitto, ravvisava la violazione degli artt. 35, comma 4, e 95 del codice dei contratti, nella versione applicabile ratione temporis, e del sotteso principio della tutela della concorrenza e – scorgendo anche il rischio della compromissione dei basilari diritti dei detenuti fondati sugli artt. 27, comma 2, e 32 Cost. – trametteva le proprie delibere anche al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Il tema dell’eventuale inadeguatezza dell’alimentazione offerta ai detenuti, peraltro, si palesa estremamente attuale: si attendono, infatti, gli esiti del processo – avviato in seguito ad un esposto presentato dalla Garante di Roma Capitale – inerente al reato di frode nelle pubbliche forniture a carico dei vertici di una ditta incaricata del servizio di vitto cui è stato contestato di aver servito cibo scadente ed avariato o, comunque, non conforme alle prescrizioni del capitolato. –
Sembra opportuno, quindi, che ciascuno degli attori istituzionali coinvolti si impegni in un’attenta vigilanza sulla quantità e qualità del vitto e sull’accessibilità dei costi del sopravvitto, trattandosi di aspetti inerenti alla cura del bene primario della salute degli ospiti degli istituti di pena.
Sotto altro profilo, si rammenta che la Corte svolge un controllo successivo sulla gestione, effettuato, sulla base di programmi annuali, accertando, anche in base all'esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa.
Ai fini d’interesse si richiama la deliberazione n.3/2021/G, riguardante “L’attuazione della legislazione di riforma dell’organizzazione della polizia penitenziaria nell’ambito del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, in cui la Sezione centrale di Controllo per le amministrazioni dello Stato ha espresso la raccomandazione di procedere alla copertura delle piante organiche e all’allocazione delle risorse umane sotto il profilo territoriale.
La Corte dei conti e il mondo dell’esecuzione penale, dunque, non sono così distanti, posto che la prima è custode e garante della corretta gestione delle risorse pubbliche, ivi comprese quelle afferenti al settore di interesse, a vantaggio e presidio dell’intera collettività, composta, ovviamente, anche da coloro vivono una situazione di privazione della libertà.
2. La funzione della pena nella costituzione
La realtà penitenziaria, dunque, si presta ad essere scrutinata sotto il profilo dell’efficacia dell’apparato in rapporto all’obiettivo istituzionalmente prefissato, che non può indentificarsi nel mero contenimento del reo o nell’inflizione di un male simmetrico a quello compiuto.
Il legislatore costituzionale, infatti, all’art. 27, comma 3, della Carta fondamentale ha chiaramente stabilito che finalità della pena consiste nella rieducazione del reo, da interpretarsi come tensione verso la risocializzazione e il reinserimento sociale.[6]
La pena, inoltre, per dirsi rispettosa del sistema di principi e valori costituzionali, deve essere in linea con ulteriori disposizioni, dal momento che i detenuti – seppure inevitabilmente privati di una parte della loro libertà, essenzialmente quella di movimento – restano titolari dei diritti all’integrità fisica, al lavoro, alla professione della propria religione, ai rapporti familiari e all’affettività, all’informazione, alla libertà di pensiero, alla salute, all’istruzione, rispettivamente tutelati dagli artt. 2, 4, 19, 21, 29, 30,31, 32, 34 Cost., che devono essere loro garantiti.[7]
L’applicazione dell’art. 3 Cost. implica, poi, la necessità di rivolgere un’attività di recupero sociale nei confronti di coloro che hanno trasgredito a causa di una condizione di inferiorità ed emarginazione, dovendosi riservare ai soggetti che delinquono pur senza trovarsi in una situazione di svantaggio, tecniche rieducative diverse.
Altre norme, riguardanti direttamente lo stato di restrizione della libertà personale, rilevano in negativo, indicando ciò che la pena non deve essere: l’art. 13, comma 4, Cost., rende punibile ogni violenza fisica e morale inflitta a coloro che versano in tale situazione e lo stesso art. 27, comma 3, Cost. vieta i trattamenti contrari al senso di umanità.
Lo Stato, infine, in base all’art. 117 Cost., che impone il rispetto dei vincoli internazionali, è tenuto al rispetto delle fonti convenzionali quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
3. L’ “essere” e il “dover essere” nell’esecuzione penale
I principi sopra elencati, però, rischiano di restare formule astratte ed inattuate, come se avessero un valore meramente programmatico.
Se è vero, infatti, che sul piano normativo e teorico la pena detentiva non può consistere in una “vendetta pubblica” né in uno strumento esclusivamente securitario, sul piano concreto e fattuale la realtà degli istituti di pena – per come descritta dai rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e risultante dalle testimonianze dei garanti territoriali, dai magistrati di sorveglianza e dalle pagine dei quotidiani che scandiscono il triste elenco, in continua progressione, dei detenuti che hanno scelto di togliersi la vita – appare ben lontana dal rispecchiare il modello delineato dalla Costituzione.[8]
Il sovraffollamento degli istituti, in crescente aumento, costituisce il primo ed il più evidente elemento (anche non certamente l’unico) che marca il divario fra l’essere e il dover essere nell’ambito d’interesse: al 9 dicembre 2024 erano presenti 62.363 detenuti (di cui 9.918 in attesa di primo giudizio) a fronte dei 46.666 posti regolarmente disponibili ed di una capienza regolamentare di 51.165 (con un divario di 4.499 posti); il relativo indice passa dal 115,36% registrato il 30 giugno 2022 all’attuale percentuale di 133,64%.
Si tratta di una situazione prossima a raggiungere il livello di criticità sanzionato con la “sentenza Torreggiani” dell’8 gennaio 2013, ma, del resto, le condanne pronunciate nel contesto dell’ordinamento interno, certificano la persistenza nel contesto delle carceri italiane di situazioni tali da dover qualificare le condizioni detentive quali inumante e degradanti.[9]
Il sovraffollamento poi, influendo negativamente sulle condizioni di vita dei detenuti e sull’ambiente lavorativo degli operatori interessati, produce ulteriori tragici corollari, fungendo da spinta, quanto meno concausale, delle scelte suicidarie.
Si delinea così un rapporto di correlazione che, oltre ad essere intuitivo, è stato di recente oggetto di un’accurata analisi da parte del Garante nazionale, rappresentata nel “Focus suicidi e decessi in carcere anno 2024”, costantemente aggiornato.
I numeri, nella loro fredda asetticità, in realtà – se si rammenta che ogni cifra esprime la decisione di uno uomo o di una donna di togliersi la vita, non tollerando il protrarsi delle proprie sofferenze – sono impietosi: alla data del 20 dicembre 2024 sono stati accertati 83 suicidi (cui aggiungere 20 decessi per cause ancora da accertare), con un incremento rispetto al 2023, in cui, a quella data, si erano registrati 66 casi.
Fra i parametri esaminati dal Garante rientrano l’età, il reato ascritto, la posizione giuridica, il tempo di permanenza nell’istituto, la tipologia delle sezioni (aperta o chiusa), le motivazioni del gesto, se note (riconducibili, in alcuni casi, a “sconforto”) e il sovraffollamento degli istituti.
Il raffronto basato sull’ultimo degli indici elencati, come sopra anticipato, appare particolarmente significativo: su 54 degli istituti in cui si sono verificati gli eventi suicidari, 51 registrano un indice di affollamento superiore a 100 e, fra questi, 22 superiore a 150.
Alla luce dei dati esposti, quindi, appare del tutto plausibile che l’affollamento dei luoghi, la sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva, insieme alle fragilità individuali, compongano il contesto entro il quale si collocano sia le scelte suicidarie sia, più in generale, gli eventi critici espressione del disagio detentivo, quali gli atti di autolesionismo, le aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo e le proteste.
Il tema delle proteste, in particolare, induce ad una riflessione in merito al clima di tensione che contribuisce a suscitarle e alle modalità della loro repressione, tenuto conto delle informazioni fornite da Antigone nel “Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione.”[10]
L’associazione riferisce di vicende processuali, ancora in itinere, riguardanti, fra l’altro, le ipotesi di gravi abusi e violenze che sarebbero state inflitte ai detenuti ristretti presso le Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e di Melfi come ritorsione per le proteste intentate durante l’emergenza COVID.
Non sono state dimostrate le eventuali responsabilità dei singoli, innocenti fino ad un’eventuale condanna definitiva, ma, in ogni caso, lo scenario che risulta dalle pagine del rapporto merita attenzione, anche a proposito del dibattito riguardante l’istituzione del nuovo reato di “rivolta penitenziaria”, che secondo quanto sostenuto da qualificati operatori ed esegeti[11], esprimerebbe una scelta di criminalizzazione non adeguata alla cura degli interessi da proteggere in luogo di altri interventi volti a mitigare le difficoltà e le asprezze che caratterizzano i luoghi di pena.
Gli aspetti che rendono la pena una forzata permanenza in luogo insalubre a scapito della finalità rieducativa, comunque, non si riducono al sovraffollamento e alle sue ricadute[12]: il catalogo è ampio e, fra gli altri, ci si limita a citare il tema delle difficoltà dei detenuti ad accedere alle cure mediche, specie se afflitti da patologie psichiatriche, nonché la questione della preclusione allo svolgimento di colloqui di carattere riservato, pur all’indomani della storica sentenza della Consulta n. 10/2024, che, secondo quanto chiarito dalla I Sezione della Cassazione con la sentenza n. 8/2025, non fonda solo una mera aspettativa ma sancisce il diritto all’esercizio dell’affettività all’interno degli istituti.[13]
4. Recenti modifiche alla disciplina dell’esecuzione penale e interventi normativi ancora in itinere.
Il quadro normativo è stato di recente inciso da innovazioni (in parte ancora in fieri) in ordine alle quali – senza pretesa di esaustività – si propongono le brevi riflessioni che seguono.
4.1. Occorre prendere in esame, in primo luogo, il D.L. n. 92 del 4 luglio 2024, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia”, convertito nella legge 8 agosto 2024, n. 112, proponendo preliminarmente una duplice considerazione di carattere generale.
Una prima riflessione attiene alla scelta dello strumento della decretazione di urgenza, previsto dall’art. 77, comma secondo, Cost., con riguardo ai relativi presupposti e alle misure individuate.
Sotto il primo profilo, non può dubitarsi che le condizioni critiche in cui versa il sistema carcerario integrino la straordinaria necessità e urgenza richiesta dalla disposizione richiamata, trattandosi di una situazione che, anche in ragione dell’elevato numero dei suicidi, richiede provvedimenti incisivi e non più procrastinabili.
Sul fronte delle misure, invece, si riscontra un disallineamento fra il presupposto dell’urgenza e il differimento dell’attuazione di alcune disposizioni, non di immediata applicazione, come pure è previsto dall’art. 15, comma 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400,[14] e, soprattutto, come suggerito dalla gravità dell’emergenza da fronteggiare.
Una seconda osservazione, non disgiunta da quella che precede, attiene alla ratio ispiratrice della riforma, prevalentemente mossa dal proposito di migliorare il funzionamento degli istituti di pena attraverso l’incremento del personale di polizia penitenziaria e della dirigenza e dall’esigenza di razionalizzare alcuni benefici, semplificando anche le relative procedure di accesso; l’intento di ridurre la popolazione carceraria, invece, non è ricompreso fra le finalità perseguite.[15]
a) Passando all’esame delle singole disposizioni, deve sicuramente apprezzarsi l’assunzione di agenti e di nuovi dirigenti, oltre allo scorrimento delle graduatorie dei concorsi per ispettori già espletati, di cui agli articoli 1, 2 e 3, volta a ridurre la scopertura di organico che affligge il settore, con un intervento dichiaratamente attuato extra ordinem, vale a dire ulteriore e aggiuntivo rispetto al ricambio reso necessario dal turn over.[16]
Residuano, tuttavia, alcune perplessità.
La prima attiene alle significative e perduranti carenze del personale di Polizia penitenziaria, che rendono la misura, seppur utile e sicuramente apprezzabile, non risolutiva. [17]
Inoltre, la possibile diminuzione del periodo di formazione degli agenti prevista dall’art. 4, pur ispirata a comprensibili finalità acceleratorie dell’immissione in servizio, rischia di incidere negativamente sulla loro preparazione ad affrontare il compito estremamente delicato e complesso della gestione quotidiana delle persone detenute, anche sotto i profili della tutela dei diritti fondamentali delle persone custodite e delle capacità di fronteggiare eventi critici, purtroppo, non infrequenti.
Del resto, il motto del Corpo recita despondere spem munus nostrum (garantire la speranza è il nostro compito) e non sembra che possa prescindersi da un addestramento che possa aiutare gli agenti ad onorarlo con il loro faticoso lavoro quotidiano.
Si osserva, ancora, che le nuove assunzioni non riguardano altre figure, pure gravemente carenti all’interno delle carceri ed essenziali per poter delineare percorsi risocializzanti, quali educatori, psicologi, mediatori culturali, della cui presenza beneficerebbe l’intera comunità penitenziaria[18].
b) In fase di conversione, al fine di far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari, è stato inserito un articolo 4-bis[19], che istituisce di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria – cui sono attribuiti amplissimi poteri, in carica sino al 31 dicembre 2026, chiamato a compiere tutti gli atti necessari per realizzare “nuove infrastrutture penitenziarie” e “opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti” .
Si tratta del primo passo di un programma molto vasto ed articolato, ancora non concretamente delineato: in attesa di apprezzarne lo sviluppo, sulla base della lettura della norma, si ritiene di dover diversificare il giudizio a seconda degli obiettivi da perseguire, nei termini esplicitati.
Il proposito di riqualificare le strutture esistenti, recuperandone porzioni fatiscenti e ripensando gli spazi della detenzione, nell’ottica del miglioramento delle attività trattamentali e delle condizioni di vita dei detenuti (anche sotto il profilo dell’individuazione di aree dedicate all’affettività) appare pienamente condivisibile.
Alla costruzione di nuove carceri, destinate inevitabilmente a saturarsi, invece, sembra che debbano essere preferite altre strategie, incentrate su una visione non carcero – centrica e di respiro più ampio della mera repressione, tanto più che le deficienze di organico riguardanti tutte le figure professionali coinvolte nell’esecuzione penale renderebbero poco produttivo l’impegno rivolto alla realizzazione di nuove strutture, destinate anche esse a restare sguarnite di personale[20].
c) L’art. 5 interviene in materia di liberazione anticipata; le detrazioni, finora concesse su istanza dell’interessato, verranno applicate d’ufficio della magistratura di sorveglianza che le calcolerà al momento della valutazione di istanze riguardante l’accesso a una misura alternativa (o ad un altro beneficio) o all’approssimarsi del fine pena, a meno che il detenuto non presenti una richiesta sorretta da uno specifico interesse.
Anche a tale riguardo, pur apprezzandosi l’intento semplificativo della novella, non possono sottacersi alcuni dubbi.[21]
Una prima criticità attiene alla scelta di fare a meno delle valutazioni semestrali, che, diradando il confronto con gli interlocutori istituzionali, rischia di amplificare il senso di solitudine dei detenuti.
Ciò in quanto gli interessati sono esposti a un giudizio consuntivo, espresso, nel caso di pene di consistente entità, solo dopo un prolungato silenzio, venendo privati del riscontro fornito dalle periodiche indicazioni, valorizzate nella sentenza della Corte costituzionale n. 276/1990, e utili a rafforzare buoni propositi e a scoraggiare tempestivamente il protrarsi di condotte non consone.
Eventuali ritardi nella decisione, inoltre, specie con riferimento alle decisioni da assumere in vista dell’approssimarsi del fine pena, inciderebbero in modo significativo sulla posizione del detenuto, dal momento che eventuali difficoltà ad ottenere una pronuncia tempestiva comporterebbero una indebita permanenza in carcere.
La mancata previsione di una disciplina intertemporale, infine, rischia di confondere, oltre che gli aspiranti beneficiari, anche i qualificati interpreti che dovranno applicare le nuove disposizioni.
Sullo sfondo restano due questioni irrisolte.
La prima riguarda il sottodimensionamento degli organici sia magistratuali che amministrativi degli uffici di sorveglianza – oberati da un’enorme mole di lavoro, non supportati dalle misure di rafforzamento previste dal PNRR e non adeguatamente informatizzati – non superabile dagli accorgimenti semplificatori introdotti.
La seconda attiene al sovraffollamento, sul quale il legislatore non ha inteso incidere mediante un incremento del numero dei giorni di detrazione della pena, pur trattandosi di uno strumento utilizzabile per alleviare, in questo caso con effetto immediato, il congestionamento del sistema, come già avvenuto all’indomani della condanna inflitta all’Italia con la “sentenza Torregiani”.
d) L’art. 6 ha previsto un incremento del numero colloqui telefonici, aumentati dal numero di uno la settimana a sei al mese a seguito di una modifica da apportare, per mezzo di un regolamento da adottarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, all’art. 39 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230; nel frattempo, le direzioni dei singoli istituti potranno autorizzare ulteriori colloqui oltre i limiti attualmente previsti.
La norma si propone di sistematizzare la materia, interessata da diverse modifiche, limitando la discrezionalità sull’ampliamento dei colloqui.
La portata dell’innovazione (che risente di uno scarso coordinamento con l’art. 2-quinquies della legge 25 giugno 2020, n. 70, fonte, fra l’altro, di rango superiore al regolamento), tuttavia, avrebbe potuto essere più significativa, fino a spingersi a concedere ai detenuti, in assenza di esigenze cautelari ovvero di ragioni ostative di carattere processuale o legate alla pericolosità sociale del soggetto, la libertà di intrattenere quotidiani contatti con i loro cari, attenuando il rischio suicidario e favorendo la risocializzazione; la nuova disciplina, inoltre, avrebbe potuto essere ispirata ad una maggiore coerenza rispetto ai principi recentemente espressi dalla Corte Costituzionale in tema dell’affettività dei ristretti e di colloqui telefonici.[22]
e) L’occasione di adeguarsi ai principi affermati dalla Consulta non è stata colta neppure in riferimento alla lettera f dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, incisa dalle sentenze n.186/2018 n. 97/2020 che ne hanno dichiarato l’incostituzionalità nelle parti in cui prevedeva il divieto di cucinare cibi ed affermava l’assoluta impossibilità di scambiare oggetti, anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità: la norma, infatti, è restata immutata nella sua formulazione, se non per la modifica del segno di interpunzione, in precedenza un punto fermo, divenuto un punto e virgola che precede la nuova lettera f-bis, inserita dall’art. 7 del decreto in commento, alla lettera b dell’unico comma.
Tale disposizione vieta ai detenuti ostativi l’accesso ai percorsi di giustizia riparativa, ponendo una preclusione assoluta, non in linea con l’orientamento del giudice delle leggi che ha ritenuto le limitazioni contenute nel richiamato 41-bis compatibili con i principi costituzionali solamente a condizione che siano finalizzate in modo congruo e proporzionato a prevenire rischi per la sicurezza, risolvendosi altrimenti in una mera vessazione (cfr. le sentenze della Corte Costituzionale n. 351 del 1996 e n.149 del 2018)[23].
f) L’art. 8, concernente le “misure penali di comunità” prevede la creazione di un registro presso il Ministero della Giustizia, in cui potranno essere iscritte quelle strutture che, oltre ad offrire una residenza, garantiscano lo svolgimento di servizi di assistenza, riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo anche a vantaggio di soggetti che soffrono di dipendenza da alcool e stupefacenti o di problematiche psichiatriche il cui trattamento non necessiti di ricovero in reparti specificamente attrezzati.
Al fine di agevolare l’ingresso degli interessati, le strutture verranno incluse in elenco tenuto e aggiornato dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, che provvederà anche ad esplicare un’attività di vigilanza, secondo le modalità che verranno dettagliate con decreto del Ministro della Giustizia da adottarsi ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988, cui si rimandano ulteriori aspetti esplicativi; a beneficio dei detenuti sprovvisti di domicilio idoneo e che sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, vengono stanziati 7 milioni euro annui.
In sede di prima la lettura, la norma sembra apprezzabile in quanto comporta una deflazione della popolazione carceraria e il reindirizzamento verso percorsi risocializzanti esterni, anche estesi a soggetti che versano in particolari difficoltà.
La disposizione, che così come altre esaminate, non è di immediata applicazione, tuttavia, rivela, in nuce, potenziali criticità che potranno essere scongiurate in fase di redazione della normativa secondaria e della successiva attuazione.
Si fa riferimento, in primo luogo, alla necessità che l’organizzazione delle strutture non ricalchi quella che caratterizza gli istituti penitenziari, posto che, in questo caso si assisterebbe a un’inammissibile privatizzazione dell’esecuzione penale e, nella sostanza, all’elusione della ratio sottesa alla disposizione.
La previsione, inoltre, non sopperisce alle difficoltà di gestire i numerosi detenuti tossicodipendenti o affetti da patologie psichiatriche necessitanti della presa in carico presso apposite strutture terapeutiche, attualmente non adeguate e presenti in numero significativamente inferiore alle esigenze effettive.[24]
4.2. In secondo luogo, occorre fare riferimento al disegno di legge di iniziativa governativa (c.d. pacchetto sicurezza) approvato dalla Camera dei deputati il 18 settembre 2024 e attualmente all'esame del Senato, recante "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario", ispirato prevalentemente all’esigenza di fornire una risposta alle esigenze di maggiore sicurezza e tutela dei cittadini.
Al riguardo, deve evidenziarsi che, se al D.L.n.42/2024 può essere imputato di non esplicare significativi effetti deflattivi del numero dei detenuti, il disegno di legge sopra menzionato è addirittura destinato a produrre un aumento della popolazione carceraria, quale inevitabile ricaduta dell’introduzione di nuovi reati e di circostanze aggravanti, nel quadro della criminalizzazione o della più severa repressione di condotte per lo più espressione di contesti di marginalità sociale[25].
Due fattispecie meritano un attento scrutinio.
a) L’art.15, comma 1, interviene sugli artt. 146 e 147 c.p., rendendo facoltativo anziché obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e per le madri di prole fino a un anno, così come già avviene nel caso di figli di età da uno a tre anni, mantenendo quale unica distinzione fra le due ipotesi la necessità che, nel primo caso, l’esecuzione abbia luogo in un istituto a custodia attenuata per detenute madri; l’esecuzione, inoltre, non potrebbe essere rinviata qualora sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti, presumibilmente riscontrabile nel caso di serialità di pregressi reati contro il patrimonio e nella mancanza di fonti di reddito.
Sul piano concreto, occorre tener presente che il numero delle detenute madri, alla data del 9 dicembre 2024 era pari a 12 e, ipotizzando un corrispondente numero di madri in attesa o con prole inferiore ad un anno interessate dalla misura, non pare di scorgere un fenomeno di entità tale da giustificare un allarme sociale.[26]
Sempre su un piano fattuale, si fa presente che l’attenuazione della rigorosa previsione mediante l’indicazione di un più idoneo luogo di custodia è più apparente che reale, posto che sul territorio sono presenti solo cinque ICAM, con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, la detenuta madre, specie se residente in una delle regioni del sud, subirebbe il peso della scelta fra la prosecuzione della gravidanza e la cura del neonato in alternativa alla vicinanza degli altri affetti presenti nel proprio territorio, teoricamente garantita dagli artt. 28 e 42, comma 2, dell’ordinamento penitenziario.
Ciò premesso, la modifica non persuade, segnando una netta inversione di tendenza rispetto al percorso normativo e giurisprudenziale teso alla tutela della detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child”, secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e all’attuazione degli artt. 27, comma 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art.31 della Costituzione, che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia.
Il differimento obbligatorio della pena, fino ad ora concesso ai sensi dell’art. 146 c.p., infatti, costituisce un importante tassello del predetto sistema di tutela, la cui dismissione nuocerebbe a bambini molto piccoli, che, trovandosi fin dalla nascita costretti in spazi ridotti in una situazione di deprivazione sensoriale, rischierebbero una grave compromissione del proprio sviluppo psichico e motorio.
Il costo dell’incremento della sicurezza “percepita”, in definitiva, verrebbe scaricato su pochi soggetti estremamente vulnerabili, spesso già vittime di un contesto di marginalità sociale e di disuguaglianza economica, se non del tutto incolpevoli, come i nascituri e i minori.[27]
b) L’art. 26, dedicato al “Rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari”, al primo comma, lettera b, introduce nel codice penale l’art. 415-bis, rubricato “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, sanzionando con la pena della reclusione da uno a cinque anni (da elevarsi fino al limite di anni 20 al ricorrere delle aggravanti previste) la partecipazione alla rivolta attuata mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite, incriminando anche le condotte di resistenza passiva, quando le stesse “avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.”
Un rischio, non teorico, è che un detenuto responsabile di un reato non eccessivamente grave, trovandosi coinvolto in una rivolta carceraria – anche in quanto resistente passivo – subisca una condanna che, al ricorrere delle aggravanti previste, potrà arrivare fino a 20 anni.
La norma ha sollevato molteplici critiche, soprattutto per la rilevanza attribuita alla resistenza passiva, che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, non integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. né può giustificare l’uso legittimo delle armi scriminato dall’art. 51 c.p.
Si è dubitato, in primis, della compatibilità della disposizione con principi di ragionevolezza, di offensività e di proporzionalità, tanto più in considerazione dell’equiparazione delle condotte di resistenza passive agli altri comportamenti sanzionati; la norma, inoltre, non pare rispondere ad uno standard di sufficiente determinatezza, risultando suscettibile – data la genericità del riferimento al “contesto” di realizzazione della condotta – di una applicazione arbitraria, declinata in funzione dell’esigenza di reprimere ogni contestazione sollevata all’interno di strutture inadeguate e afflitte da una situazione emergenziale di sovraffollamento.[28]
Fermi restando i sospetti di legittimità sopra avanzati, si dubita anche dell’efficacia di una risposta meramente repressiva alle gravi criticità del mondo penitenziario, trattandosi di un elemento di acutizzazione di un clima di tensione che, al contrario, avrebbe bisogno di essere smussato attraverso l’ascolto delle esigenze dei detenuti e il miglioramento delle loro condizioni di vita.
Questa opinione, che si ritiene meritevole di attenta considerazione, è stata espressa, con sostanziale unità di vedute dall’accademia, dagli organismi rappresentativi del foro e non da ultimo, a una rappresentanza di coloro che operano all’interno delle carceri.[29]
5. Considerazioni conclusive.
Le conclusioni rassegnate in seno al capitolo della memoria del Procuratore generale, nonostante siano trascorsi alcuni mesi, appaiono del tutto attuali: permane, infatti, la presenza delle criticità che marcano il divario fra la pena legale e quella reale, contraddicendo l’attuazione del finalismo rieducativo, poco credibile quando rivolto ad individui che subiscono la compromissione di diritti fondamentali e della propria dignità.[30]
Le massime autorità civili e politiche hanno colto la gravità della situazione, lanciando messaggi di forte impatto: il Papa, con l’apertura della porta santa Rebibbia, e il Capo dello Stato, nel discorso di fine d’anno, auspicando che i detenuti possano “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine.”
Appare particolarmente significativo, inoltre, in considerazione delle specifiche ed elevate competenze dei firmatari, l’appello rivolto alle istituzioni alla società civile, dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) e dall’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "G.D." Pisapia (ASPP), che, alla luce dei dati contenuti nel report sui suicidi in carcere predisposto dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, hanno espresso il proprio sconcerto per l’allarmante realtà delle carceri italiane.[31]
Ciò posto, si intravede un duplice percorso attraverso il quale la pena può cessare di essere “vendetta pubblica” per diventare un momento di speranza, di riflessione e di ripartenza, come preteso dalla carta fondamentale.
Una prima misura, di immediata praticabilità, potrebbe riguardare l’introduzione di meccanismi di sfoltimento della popolazione carceraria, eventualmente da rivolgersi a quella porzione che sta scontando pene brevi o esigui residui di pena (nel più recente report del Garante il numero dei detenuti che stanno scontando una pena di durata inferiore ad un anno risulta pari a 1.418 e quello dei condannati ad una pena inferiore ai due anni è di 3000; in riferimento ai residui di pena al di sotto delle predette soglie sono presenti rispettivamente 8.137 e 8.378 detenuti)[32].
Si tratta di interventi non procrastinabili nelle more dell’attuazione delle riforme già varate, o della realizzazione di progetti in itinere, in quanto, parafrasando il detto che recita che “l’ottimo è nemico del buono”, in questo caso può dirsi che l’“ottimo” è nemico del senso di umanità e del rispetto dovuto ad ogni individuo, dato che, nell’attesa di una futura riorganizzazione, si consuma un incessante sacrificio di vite umane.
Anche le strategie a lungo termine, peraltro, dovrebbero presupporre una visione non carcero -centrica che – valorizzando una lettura evolutiva dell’art. 27 Cost. nella parte in cui declina al plurale il sostantivo “pena” quale strumento tendente ad attuare il finalismo rieducativo – conduca all’effettivo ampliamento dello spettro delle sanzioni, ricomprendendovi soluzioni alternative alla detenzione (da riservarsi agli autori dei reati più gravi), meno devastanti per chi è tenuto a scontarle, con miglior impatto risocializzante, più efficaci e meno costose per l’erario.
Ancora più a monte, potrebbe immaginarsi un impegno delle istituzioni diretto a prevenire e non a reprimere comportamenti illeciti, incidente sulla fascia di popolazione condannata da una situazione di marginalità sociale e di povertà economica e culturale a condurre quell’esistenza degradata che è l’anticamera della trasgressione delle norme penali: per questo bisognerebbe arruolare quell’ “esercito di insegnanti” invocato da Gesualdo Bufalino.
Infine, tornando al nesso fra il mondo delle carceri e l’ambito delle funzioni del giudice contabile, si evidenzia che il contrasto alle disfunzioni descritte non è estraneo ai compiti della Corte.
La stessa, infatti, in qualità di custode delle risorse pubbliche, è chiamata a scongiurarne gli sprechi e a garantire, in corrispondenza ai diversi ruoli assegnati a ciascuna delle sue articolazioni, il loro corretto impiego: sul punto occorre ribadire con chiarezza – in via conclusiva – che le risorse costruttivamente utilizzate per creare condizioni di vita più umane nelle carceri, migliorando le attività trattamentali e le offerte formative, nella prospettiva di un reale reinserimento dei soggetti interessati, non sono sprecate, ma ben impiegate per garantire la sicurezza di tutti.
[1] La Corte dei conti, secondo quanto previsto dall’art. 40 del Regio Decreto 12 luglio 1934, n. 1214, delibera sul rendiconto generale dello Stato a Sezioni riunite e con le formalità della sua giurisdizione contenziosa, comportanti la trattazione in udienza pubblica e la partecipazione del Pubblico Ministero contabile. Quest’ultimo agisce a tutela dell’interesse generale alla regolarità della gestione finanziaria e patrimoniale. Vd. anche l’art. 6 del Regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, approvato con le delibera delle SS.RR. n. 14 del 16 giugno 2000.
[2] L’espressione è tratta dal titolo del volume di M. Bortolato – E. Vigna Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, edito da Laterza nel 2020.
[3] Cfr., sulle ragioni del superamento di una simile concezione, il contributo di R. Bartoli, intitolato Sulle recenti riforme in ambito penale tra populismo, garantismo e costituzionalismo, apparso, il 3 ottobre 2024 sulla rivista Sistema penale,
[4] L’attribuzione alla Corte di conti della funzione di controllo della legittimità di atti è coeva alla sua stessa istituzione, risultando dall’art. 13 della legge 14 agosto 1862, n.800; la disciplina del controllo preventivo di legittimità è contenuta nell’art. 24 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, nell’art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 e nell’art. 27 della legge 29 settembre 2000, n. 300; disposizioni successive hanno modificato il novero degli atti da sottoporre a controllo differenziando le relative discipline.
[5] Cfr. le deliberazioni n.101/2021/PREV, n. 102/2021/PREV. n. 103/2021/PREV e n.104/2021/PREV. della Sezione di controllo per la regione Lazio.
[6] La disposizione in esame, peraltro, trova un importante riflesso in alcune delle disposizioni contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, che all’art. 1, comma 2, prevede l’attuazione di un trattamento che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale, specificando, all’art. 15, che il trattamento deve essere svolto “avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia;” e che, salvo casi di impossibilità, “al condannato e all'internato è assicurato il lavoro”.
[7] L’importanza di garantire ogni diritto che non sia necessariamente inciso dallo stato di restrizione è facilmente intuibile; la Corte costituzionale, nella decisione 11 dicembre 2012, n. 301, ha chiarito che “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale.”
[8] G. Fiandaca, nella premessa del suo saggio Punizione, edito da “il Mulino”, rivela che, in occasione della sua esperienza di Garante regionale dei detenuti, l’osservazione ravvicinata della drammatica condizione dell’universo penitenziario gli ha consentito di prendere atto dei molti fattori che oggettivamente determinano un ampio divario tra la astratta configurazione della pena detentiva e la sua dimensione concreta.
[9] La sentenza riguarda sette ricorsi, depositati tra il 2009 e il 2010, da altrettanti detenuti che lamentavano di aver subito un trattamento inumano e degradante per essere stati alloggiati in celle scarsamente illuminate di nove metri quadrati, da condividere con altre due persone, con limitazioni all’accesso all’acqua calda per le docce, per periodi che andavano da 14 a 54 mesi, tra il 2006 e il 2011.
In quella occasione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani in relazione ai trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, detenuti in una situazione di sovraffollamento degli istituti che li ospitavano, aggravata anche dalle descritte disfunzioni nei servizi.
A quell’epoca il sistema carcerario italiano ospitava intorno a 65.905 persone detenute.
Dopo la sentenza “Torreggiani” il Governo italiano ha adottato il decreto-legge 23 dicembre 2013 n.146 (c.d. decreto “Svuota-carceri”), successivamente convertito nella legge 21 febbraio 2014, n.10, introducendo nell’ordinamento penitenziario nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati destinatari di trattamenti non rispettosi dell’art. 3 della CEDU.
In particolare, l’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario, ha previsto il reclamo giurisdizionale da proporre al magistrato di sorveglianza, dettandone la relativa disciplina mediante il rinvio agli artt. 666 e 678 c.p.p.; l’art. 35-ter, rubricato “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”, che consente ai destinatari di trattamenti inumani o degradanti (a causa del sovraffollamento o per altre cause) di conseguire un ristoro per la violazione subita, consistente in una riduzione della pena da espiare, nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito, o, in via subordinata, in un indennizzo economico, corrispondente ad 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito.
[10] Cfr. la sezione del rapporto riguardante i procedimenti penali per il reato di tortura di cui all’articolo 613 bis c.p.
[11] Vd. il contributo del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Cagliari L. Patronaggio pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 10 dicembre 2024 e l’intervista rilasciata il 28 dicembre 2024 dal segretario generale del sindacato UilPa della Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio, su “Il Dubbio.”
[12] Cfr. il contributo di C. Mistrorigo, pubblicato il 12 dicembre 2024 sulla rivista Sistema penale, intitolato Una fotografia delle indegne condizioni presenti nelle carceri italiane in una ordinanza del magistrato di sorveglianza di Firenze a seguito di reclamo ex art. 35 bis o.p. e dell’allegata ordinanza del magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze, e sulla stessa rivista, la lettera scritta da detenuti nel carcere di Brescia, Nerio Fischione, Canton Mombello, pubblicata il 17 agosto 2024 (Dai detenuti una lettera straziante e una lezione dal carcere).
[13] Cfr., su Sistema penale il contributo del 5 gennaio 2025 di G.L. Gatta, La Cassazione sull'affettività in carcere come diritto: ammissibile il reclamo del detenuto al quale sia negato un colloquio con il coniuge in condizioni di intimità e l’articolo di F. Cimino, Il diritto all’affettività ristretta. A quasi un anno dalla pronuncia della Corte costituzionale in materia di colloqui intimi, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 12.
[14] L’art. 77, sotto il profilo di interesse, deve comunque essere letto alla luce delle decisioni della Consulta n. 16 del 24 gennaio 2017 e n.170 del 12 luglio 2017.
[15] Questo aspetto è lucidamente evidenziato – insieme a molti altri – nel documento dalla Conferenza dei Garanti territoriali intitolato Alcune note sul Decreto-Legge n. 92 del 4 luglio 2024, recante «Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia» e proposte di intervento IMMEDIATO al fine di porre termine alle condizioni drammatiche delle carceri italiane apparso il 22 luglio 2024 sulla rivista “Sistema Penale” (D.l. Nordio e carcere: il documento della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali).
[16] Cfr. l’audizione del Capo del Dap, Giovanni Russo sul D.l./2024, resa in data 10 luglio alla Commissione Giustizia del Senato.
[17] Cfr. la Relazione sul rendiconto generale dello stato per il 2023, Volume II, tomo I, e precisamente la nota 36 di pag. 226, dove si chiarisce che “nel corso del 2023 si è provveduto all’assunzione di 312 unità di personale non dirigente nei diversi profili. Ciò nonostante, dato l’effetto del turn over, detto personale passa dalle complessive 36.257 unità del 2022 alle 35.818 rispetto ad un organico incrementato da 42.384 unità a 42.666.”
[18] Il tema – insieme a quelli inerenti alle modifiche alla liberazione anticipata, ai colloqui con i familiari e all’albo delle comunità, inquadrati nel contesto del decreto – viene affrontato nel contributo di E. Romano intitolato D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente, pubblicato su Giustizia Insieme il 9 luglio 2024 e nell’ articolo di F. Gianfilippi Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario, pubblicato il 10 giugno sulla stessa rivista; vd. anche l’Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024”, pubblicata su Giustizia Insieme il 15 luglio 2024.
[19] La disposizione è stata da ultimo modificata dall’art. 6 del D.L. 29 novembre 2024, n. 178, convertito nella legge 23 gennaio 2025, n. 4, che, fra l’altro, ha prorogato la durata in carica del Commissario.
[20] Le modifiche e le innovazioni apportate al decreto sono oggetto del contributo di F. Gianfilippi La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere, pubblicato su Giustizia insieme il 6 settembre 2024.
[21] Si rinvia ai contributi di E. Romano D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente e di F. Gianfilippi: Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario e “La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere”, già citati.
[22] Si fa riferimento alle decisioni n.10 del 26 gennaio 2024 e n. 85 del 13 maggio 2024.
[23] Cfr. sul punto, le Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura di M. Ruotolo, pubblicato in data 11 luglio 2024 su Sistema penale, anche per gli spunti riguardanti altri aspetti del decreto, all’epoca in corso di conversione, incluso il tema dei colloqui telefonici; vd. anche l’“Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024”, cit.
[24] Si rimanda ai contributi menzionati alle note 20, 21 e 23.
[25] Cfr. l’articolo di G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati di Cesare Beccaria, pubblicato il 7 novembre su Sistema Penale
[26] Fonte: “Report analitico” del Garante Nazionale, tabella n.6, pag.10.
[27] Cfr. su Sistema penale, l’”Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 4/2024 – Crimini di strada e condizionamenti sociali e ambientali: l’applicazione della disciplina della continuazione ai reati commessi dalle “borseggiatrici.” e i contributi di M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236) pubblicato il 9 ottobre 2024” sulla stessa rivista nonché l’articolo di F. Gianfilippi, Il DDL Sicurezza e il carcere pubblicato su Giustizia insieme” il 29 ottobre 2024.
[28] Cfr. i menzionati interventi di G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati, di Cesare Beccaria; di Fabio Gianfilippi Il DDL Sicurezza e il carcere e di M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236).
[29] Cfr. su Sistema penale l’articolo di R. Cornelli Il Ddl Sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche”, pubblicato il 27 maggio 2024; vd. sempre su Sistema penale, i documenti con cui le camere penali italiane hanno deliberato lo stato di agitazione (Pacchetto sicurezza: l'Unione delle Camere Penali Italiane delibera lo stato di agitazione, del 2 ottobre 2024) e, in seguito, l’astensione dalle udienze (Pacchetto sicurezza: l'Unione delle Camere Penali Italiane delibera l'astensione dalle udienze dal 4 al 6 novembre e indice una manifestazione nazionale chiamando a confronto Avvocatura e Accademia, del 31 ottobre 2024, nonché, su Giustizia Insieme il comunicato dell’associazione italiana dei professori di diritto penale (Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, del 24 ottobre 2024).
[30] Cfr. l’articolo “Detenuti senza dignità”, a firma del magistrato di sorveglianza Marcello Bortalato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, sulla rivista Questione Giustizia.
[31] Cfr., sulla rivista Sistema penale, il contributo del 1° gennaio 2025 intitolato Record di suicidi ed eventi critici in carcere nel 2024: i dati nel report del Garante dei detenuti. Il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno: l'alto numero di suicidi "è indice di condizioni inammissibili e sulla stessa rivista, pubblicato in data 27 dicembre 2024, il documento dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) e l'Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "G.D." Pisapia (ASPP), intitolato Un triste primato del 2024: l’ennesimo record dei sucidi in carcere.
[32] Fonte: Report analitico del Garante Nazionale, tabella n.8 di pag. 10.
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