ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Consumo di suolo e divieto di edificazione in area agricola (nota a Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 12 marzo 2021, n. 240) di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Il principio del contenimento del “consumo di suolo” alla prova dei fatti: la sentenza del Tar Brescia n. 240/2021. - 2. Il ruolo dei Comuni tra sussidiarietà e leale cooperazione: la sentenza della Corte costituzionale n. 179/2019. - 3. Assenza di una disciplina organica sul consumo di suolo, suggerimenti e proposte.
1. Il principio del contenimento del “consumo di suolo” alla prova dei fatti: la sentenza del Tar Brescia n. 240/2021
Il consumo di suolo è divenuto uno dei temi di maggiore attualità e interesse in ragione delle sue implicazioni ambientali, economiche e sociali. L’esigenza di contenere lo sfruttamento di tale «risorsa limitata che si distrugge facilmente»[1] si collega a quella di promuovere il capitale naturale e il paesaggio, alla vicenda della rigenerazione di aree dismesse o degradate, alla valorizzazione delle aree rurali e, più in generale, intercetta profili atti a qualificare uno sviluppo volto a garantire, come richiesto dalla comunità internazionale[2], la sostenibilità in uno scenario di equità intergenerazionale improntato al rispetto del principio di solidarietà[3].
Si registra, tuttavia, l’assenza di una disciplina statale organica sul consumo di suolo foriera di incertezze, innanzitutto, sotto il profilo applicativo. Non che il legislatore abbia omesso di considerare il tema in questione, ma bisogna constatare sia l’insuccesso delle diverse proposte di legge successive al primo d.d.l. Catania (2012), dal nome dell’allora Ministro per le politiche agricole, donde una spiccata attenzione verso i profili legati alla tutela dei suoli agricoli[4], sia la frammentarietà della disciplina di settore[5], evidentemente inadeguata rispetto all’ambizioso obiettivo di raggiungere l’azzeramento del consumo di suolo entro il 2050 delineato in ambito europeo[6] e talvolta enunciato in sede legislativa regionale[7]. Le Regioni, in virtù del titolo di potestà legislativa concorrente «governo del territorio», si sono difatti rese promotrici in varie occasioni di disposizioni per la riduzione del consumo di suolo.
La dottrina ha incisivamente osservato che il passaggio imposto dalla filosofia del consumo di suolo zero comporterà un vero “cambio di libro” e non un semplice “voltar pagina”[8] e che la limitazione del consumo di territorio e la rigenerazione urbana rappresentano un’occasione di rinascita per l’urbanistica[9]. Occorre prenderne atto in ragione sia dell’attuale fase di transizione digitale, ecologica e di inclusione sociale cristallizzata nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), sia dell’evoluzione che dalla formulazione dell’art. 80 del d.P.R. 616/1977 – secondo cui «le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente» – ha condotto alla riforma del Titolo V della Costituzione e all’elaborazione giurisprudenziale successiva alla sentenza della Consulta n. 303/2003.
Il contributo della giurisprudenza amministrativa, in un simile contesto evolutivo, diviene centrale. Per rendersene conto è sufficiente riflettere su pronunce come quella sul PRG di Cortina[10] o sull’orientamento che, enfatizzando la matrice ecosistemica dei suoli non impermeabilizzati, ha riconosciuto che la destinazione a verde non implica necessariamente lo svolgimento di attività agricola sul fondo, ben potendo servire ad assicurare un migliore equilibrio tra aree libere e aree edificate[11].
La decisione del Tar Brescia n. 240/2021 è interessante perché sembra apparentemente rispondere a una logica diversa. Viene, infatti, censurata la decisione di rendere inedificabile un’area destinata all’agricoltura in base all’asserita necessità di minimizzare il consumo di territorio. Nello specifico, risulta impugnata una variante al PGT che, nel limitare la capacità edificatoria ai “presidi rurali”, preclude a un imprenditore agricolo la realizzazione di un intervento edilizio funzionale alla conduzione del fondo, pur ammissibile ai sensi della normativa regionale[12].
In realtà, secondo il Collegio, non è sufficiente invocare il principio del contenimento del consumo di suolo per giustificare la portata di una simile variante e derogare allo statuto della disciplina edificatoria nelle aree agricole. L’ente locale così introduce una disciplina ulteriore che trascura, da un lato, la legittima aspettativa dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria attività e, dall’altro lato, oblitera la motivazione di una scelta carente sotto il profilo istruttorio nella misura in cui non approfondisce lo stato effettivo del consumo di suolo[13] e, più in generale, prescinde da una strategia preordinata ad azioni concrete finalizzate a limitare la perdita di green field. In tale prospettiva, non è superfluo osservare che una delle censure riguardava l’omessa sottoposizione della variante al PGT alla valutazione ambientale strategica e che il parere sul rapporto preliminare formulato dall’agenzia regionale per la protezione ambientale già rivelava l’esistenza di alcuni vizi alla base dell’accoglimento del ricorso[14].
2. Il ruolo dei Comuni tra sussidiarietà e leale cooperazione: la sentenza della Corte costituzionale n. 179/2019
La tutela del suolo, come risorsa naturale che produce servizi ecosistemici, è stata oggetto di una significativa sentenza della Corte costituzionale: la n. 179 del 31 luglio 2019 rispetto alla quale la pronuncia in nota, alla luce di quanto esposto, si pone solo in apparente contraddizione.
In quell’occasione, è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 4, della l. reg. Lombardia n. 31/2014 che impediva ai comuni di apportare varianti per ridurre le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano nel periodo necessario all’integrazione dei contenuti del piano territoriale regionale e al successivo adeguamento dei piani territoriali di coordinamento provinciale e dei piani di governo del territorio[15]. È bene al riguardo svolgere uno sforzo di analisi per non appiattirsi sulla conclusione secondo cui sarebbe precluso, nei termini precisati, al legislatore regionale incidere sulla potestà comunale di pianificazione urbanistica.
In primo luogo, la Corte evidenzia l’essenza del suolo «quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale». La prospettiva è quella, ben nota, dello sviluppo sostenibile e il riferimento alla funzione sociale del suolo evoca il tenore delle previsioni costituzionali sul diritto di proprietà (art. 42, comma 2)[16].
In secondo luogo, la Corte costituzionale si sofferma sul ruolo dei comuni quali enti più vicini alla cittadinanza cui risultano storicamente assegnate, fin dalla legge n. 2359/1865 sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità, le funzioni di pianificazione urbanistica. In particolare, viene evidenziato che «tutta la complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale, non ha travolto questo presupposto di fondo».
Si tratta di passaggi significativi laddove si ponga mente alle linee evolutive del sistema di pianificazione territoriale e alla disciplina delle tutele differenziate volte alla protezione di interessi lato sensu ambientali, principalmente ascrivibile ai fallimenti indotti dal primo regionalismo e all’inidoneità allo scopo dei comuni, in quanto enti maggiormente esposti alle pressioni della rendita fondiaria e alle spinte delle imprese locali[17].
In disparte l’attrazione verso il “centro” di simili interessi – rispondenti a una logica gerarchica che rivela la prevalenza del piano paesaggistico[18] – cui si è sovente accompagnata l’istituzione di autorità con specifici poteri (come le autorità di bacino o gli enti parco), rimane imprescindibile il ruolo dei comuni ai sensi degli artt. 5, 117, comma 2, lett. p), e 118, commi 1 e 2, Cost. Il potere di pianificazione urbanistica, infatti, rientra in un nucleo di funzioni amministrative essenziali connesse al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale.
Ciò, tuttavia, non significa che al legislatore regionale sia precluso disciplinare e, finanche, conformare detto potere in nome della tutela di interessi generali collegati a una più ampia valutazione delle esigenze diffuse sul territorio[19], come pure sottolineato dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: il predetto riconoscimento «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali»[20]. A tale stregua è stato, altresì, escluso che «il sistema di pianificazione assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti»[21].
La declaratoria di incostituzionalità espressa dalla Corte costituzionale n. 179/2019, pertanto, si radica su altri presupposti.
La norma censurata dal giudice a quo[22] non prevedeva, in realtà, alcuna interlocuzione con il livello di governo superiore impedendo, quindi, all’ente locale di esercitare in anticipo la propria potestas variandi in conformità alle coordinate legislative regionali[23]. Ne è derivato un deficit di proporzionalità, suscettibile di infrangere il principio della leale collaborazione nella misura in cui i comuni divenivano meri esecutori di una valutazione compiuta in sede regionale in grado di condizionarne scelte discrezionali[24], che la Corte ha censurato per lesione delle norme costituzionali sopra menzionate.
Il giudizio della Consulta, a ben vedere, si pone al crocevia tra regionalismo e municipalismo nel rinnovato sistema costituzionale e non riguarda, di per sé, l’allocazione della funzione legislativa regionale quanto invece il relativo esercizio, che non supera il test di proporzionalità rispetto alla tipologia di interessi coinvolti. La sottrazione, sia pur temporanea, ai comuni della potestà pianificatoria, anziché apparire il “minimo mezzo” al fine di raggiungere gli obiettivi prefigurati a livello regionale – quello «strutturalmente più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla pianificazione urbanistica locale»[25] – si rivela, in concreto, contraddittoria agli stessi.
In definitiva, secondo la Corte, la rigidità della norma censurata si dimostra «tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità della legge regionale e quindi coerenti con queste»[26].
3. Assenza di una disciplina organica sul consumo di suolo, suggerimenti e proposte
Il dovere delle amministrazioni di dotarsi di strumenti in grado di fronteggiare il problema del consumo di suolo costituisce una premessa logica per lo sviluppo sostenibile dei territori[27] e, come tale, è destinato a condizionare in modo significativo la discrezionalità di pianificazione urbanistica.
Le sentenze del Tar Brescia n. 240/2021 e della Corte costituzionale n. 179/2019 confermano la necessità di occuparsene a livello strategico, alzando l’asticella della sussidiarietà[28] e in ossequio alla leale cooperazione istituzionale. È vero che l’insostenibilità dei modelli di espansione urbana non può tradursi in uno slogan per giustificare, in ogni caso, scelte apparentemente finalizzate a tutelare gli areali agro-naturali[29], non potendosi prescindere dall’effettivo accertamento dello stato dei luoghi, ma il quadro regolatorio, in linea alle osservazioni espresse nei precedenti paragrafi, dovrebbe superare il limite dei confini comunali.
Data l’assenza di una disciplina organica sul consumo di suolo[30], occorre riflettere su quali strumenti, de iure condito, possano almeno arginarne l’avanzamento e su quali interventi, de iure condendo, siano configurabili.
Dal primo punto di vista, anche in considerazione delle prevedibili difficoltà per il PRG a occuparsi di un problema che ha contribuito a creare, andrebbe valorizzato il ruolo sussidiario di alcuni istituti giuridici, in particolare della pianificazione paesaggistica[31] e della VAS[32]. Inoltre, sarebbe necessario riflettere sulla rigenerazione urbana in termini di alternativa strategica alla impermeabilizzazione delle superfici o soil sealing[33] e accedere a una visione integrata della rigenerazione medesima idonea a intercettare non soltanto la dimensione ambientale della sostenibilità, ma pure quella economica e sociale, con ripercussioni positive nell’ottica della resilienza cittadina[34].
Dal secondo punto di vista, potrebbe immaginarsi una legislazione statale volta a un rilancio dell’urbanistica, in linea all’art. 80 del d.P.R. 616/1977, ovvero proiettata maggiormente alla protezione di una risorsa naturale produttiva di servizi ecosistemici in considerazione della traiettoria evolutiva che, nel nostro ordinamento, ha determinato lo spillover delle tutele di settore chiamate a sopperire alla crisi dell’urbanistica.
Una prospettiva, quest’ultima, che può definirsi “filoambientalista” e valorizza la funzione sociale della proprietà anche attraverso una rilettura del «razionale sfruttamento del suolo» di cui all’art. 44 Cost. in chiave non soltanto produttivistica. Ciò in linea alle previsioni dell’art. 191 TFUE che cristallizzano il principio dell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali[35] e, nel complesso, agli indirizzi espressi dalle istituzioni europee, in primis dalla Commissione, sia pure mediante documenti e atti di soft law[36].
Accedere a una simile impostazione non consentirebbe comunque di prescindere dalla razionalità di provvedimenti simili a quello oggetto del giudizio instaurato davanti al Tar Brescia e definito con sentenza n. 240/2021, secondo cui la potestà pianificatoria comunale non è senza limiti, in particolare, quando disciplina l’attività agricola come produzione[37]. La tensione tra esigenze di sviluppo economico e di tutela ambientale, dopotutto, è un fattore che le istituzioni, a tutti i livelli, hanno sempre dovuto tenere presente anche in ragione del principio di integrazione[38].
Il punto è che in assenza di un quadro di regole chiaro si mina, in radice, la certezza del diritto e con essa l’effettività delle azioni da intraprendere a tutela del suolo naturale. Posto che la difesa di tale risorsa non costituisce una materia, ma un obiettivo da perseguire attraverso una complessa pianificazione dei settori coinvolti[39], da più parti è stata segnalata l’esigenza di un intervento statale idoneo a vincolare i legislatori regionali e, a cascata, gli enti locali tenuti al rispetto di invarianti da riportare nella parte strutturale dei piani urbanistici[40].
Dovrebbe risultare sufficientemente chiara la riconducibilità di un simile intervento alla materia ambientale (art. 117, comma 2, lett. s, Cost.), ferme restando le implicazioni con il governo del territorio (art. 117, comma 3, Cost.). Dovrebbero, inoltre, essere valorizzate le previsioni degli artt. 9 e 44 Cost. e non trascurati alcuni spunti derivanti dall’esperienza legislativa regionale[41]. Tutto ciò in nome del principio del razionale sfruttamento del suolo, della promozione del capitale naturale e del paesaggio, del riuso delle aree già urbanizzate e della rigenerazione delle stesse, in uno scenario proiettato al doveroso rispetto del principio di solidarietà.
[1] Si tratta della definizione di suolo offerta dalla Carta Europea del Suolo del 1972.
[2] Il riferimento è principalmente all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
[3] Come si legge nella Lettera Enciclica Laudato Si’ del 24 maggio 2015 di Papa Francesco «ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni».
[4] I contenuti di tale iniziativa legislativa sono in ampia parte trasfusi nella proposta approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 12 maggio 2016 (AC-2039). Per approfondimenti ulteriori, fra i molti, L. De Lucia, Il contenimento del consumo di suolo nell’ordinamento italiano, in G.F. Cartei - L. De Lucia (a cura di), Contenere il consumo del suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Napoli, 2014, 91 ss.; Id., Il contenimento del consumo di suolo e il futuro della pianificazione urbanistica e territoriale, in G. De Giorgi Cezzi - P.L. Portaluri (a cura di), La coesione politico-territoriale, in L. Ferrara - D. Sorace, A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana, vol. II, Firenze, 2016, 299 ss.
[5] Cfr. G.A. Primerano, Soil Consumption and public policies of territorial government, in E. Picozza - A. Police - G.A. Primerano - R. Rota - A. Spena, Le politiche di programmazione per la resilienza dei sistemi infrastrutturali. Economia circolare, governo del territorio e sostenibilità energetica, Torino, 2019, 73 ss.
[6] Commissione Europea, COM/2011/571 del 20 settembre 2011, Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse. Il suddetto obiettivo inizia concretamente a delinearsi, in ambito europeo, grazie alla Strategia tematica per la protezione del suolo (COM/2006/231 del 22 settembre 2006) coeva alla Proposta di direttiva che istituisce un quadro per la protezione del suolo (COM/2006/232).
[7] Ai sensi dell’art. 1, comma 4, della l. reg. Lombardia 28 novembre 2014, n. 31, a titolo esemplificativo, il dichiarato scopo delle «disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato» è quello di «concretizzare sul territorio della Lombardia il traguardo previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050 a una occupazione netta di terreno pari a zero».
[8] G. Pagliari, Governo del territorio e consumo di suolo. Riflessioni sulle prospettive della pianificazione urbanistica, in Scritti per Franco Gaetano Scoca, vol. IV, Napoli, 2020, 3803.
[9] P. Carpentieri, Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni. La “rigenerazione urbana”, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019.
[10] Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, secondo cui la funzione di pianificazione urbanistica non appare solo strumentale a garantire una disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli, ma è volta allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati. In senso analogo, si veda Cons. Stato, sez. IV, 22 febbraio 2017, n. 821.
[11] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2780.
[12] Il riferimento è agli artt. 59 e 60 della l. 11 marzo 2005, n. 12, s.m.i., che definiscono gli interventi edificatori ammessi nelle aree destinate all’agricoltura mediante l’individuazione dei relativi presupposti soggettivi e oggettivi.
[13] La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che eventuali preclusioni edificatorie in area agricola richiedono una specifica motivazione, in quanto suscettibili di ledere la legittima aspettativa dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria attività (v. Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5453). Nel caso di specie, era stata evidenziata la necessità di disporre di una struttura edilizia per il deposito di materiali e per il ricovero di mezzi agricoli, di un ufficio e di una piccola residenza.
[14] Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 12 marzo 2021, n. 240: «come confermato anche dal parere formulato da ARPA sul Rapporto Preliminare (…), l’obiettivo di riduzione del consumo di suolo, richiamato a motivazione della reiezione dell’osservazione presentata dai ricorrenti, oltre che più in generale delle misure restrittive adottate per l’edificazione in zona agricola e in particolare dell’introduzione dei presidi rurali, non è supportato da adeguata istruttoria e non trova giustificazione né fondamento in una necessaria approfondita analisi sullo stato effettivo di consumo del suolo e nella conseguente individuazione delle azioni necessarie per il suo contenimento».
[15] Al riguardo è appena il caso di osservare che è proprio il documento di piano a contenere, ai sensi dell’art. 8 della l. reg. Lombardia n. 12/2005, le scelte più significative per la trasformazione del territorio.
[16] Per un inquadramento, cfr. V. Cerulli Irelli, Statuto costituzionale della proprietà privata e poteri pubblici di pianificazione, in P. Urbani (a cura di), Politiche urbanistiche e gestione del territorio. Tra esigenze del mercato e coesione sociale, Torino, 2015, 11 ss.; a livello monografico, A. Moscarini, Proprietà privata e tradizioni costituzionali comuni, Milano, 2006.
[17] In questi termini si esprime P. Carpentieri, Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni, cit.
[18] Sul principio di prevalenza del piano paesaggistico, ex multis, Corte cost., 10 marzo 2017, n. 50; Id., 30 maggio 2008, n. 180; Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2011, n. 110; Tar Toscana, sez. I, 21 luglio 2017, n. 945; Tar Campania, Napoli, sez. VI, 2 aprile 2014, n. 1905; Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 6 dicembre 2010, n. 35381.
[19] Corte cost., 27 luglio 2000, n. 378.
[20] Corte cost., 7 luglio 2016, n. 160.
[21] Corte cost., 27 dicembre 2018, n. 245.
[22] Ci si riferisce a Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5711, e la norma cesurata, come anticipato, è l’art. 5, comma 4, della l. reg. Lombardia n. 31/2014 (prima delle modifiche apportate dalla l. reg. Lombardia 26 maggio 2017, n. 16). In particolare, valorizzata in premessa la ratio della citata legge per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato, il Consiglio di Stato si concentra sull’ultimo periodo della disposizione menzionata che, disciplinando la fase transitoria necessaria per l’integrazione e l’adeguamento dei piani in vista della riduzione del consumo di suolo, stabilisce che, in attesa di tale adeguamento, sono comunque «mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente». Esclusa la possibilità di interpretare le disposizioni nel senso indicato dall’ente locale, ossia come comportanti il solo limite a non disporre nuovo consumo di suolo, il Consiglio di Stato giudica rilevanti e non manifestamente infondate le q.l.c. prospettate dall’amministrazione comunale appellante.
[23] Il giudizio amministrativo aveva ad oggetto la variante generale al PGT adottata nel 2015 dal Comune di Brescia, poi approvata, impugnata dai proprietari di alcuni immobili poiché fortemente riduttiva delle possibilità edificatorie risultanti dalle precedenti previsioni urbanistiche.
[24] Le scelte urbanistiche, secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa costante, costituiscono «valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate» (Cons. Stato, sez. IV, 18 agosto 2017, n. 4037; Id., 16 aprile 2014, n. 1871; Id., 15 novembre 2013, n. 5589).
[25] Corte cost. n. 179 del 2019.
[26] Così sempre Corte cost. n. 179 del 2019.
[27] G. Gardini, Alla ricerca della città “giusta”. La rigenerazione come metodo di pianificazione urbana, in www.federalismi.it, n. 24/2020, 52.
[28] G.F. Cartei, Il suolo tra tutela e consumo, in Riv. giur. urb., 4, 2016, 12.
[29] Cfr. E. Boscolo, Beni pubblici e beni comuni: appunti per una sistemazione teorica, in Scritti in onore di Eugenio Picozza, vol. I, Napoli, 2019, 215.
[30] In tema v. L. Giani - M. D’Orsogna, Diritto alla città e rigenerazione urbana. Esperimenti di resilienza, in Scritti in onore di Eugenio Picozza, cit., vol. III, 2014.
[31] Il principio di «uso consapevole del territorio» cui si riferisce l’art. 131 d.lgs. 42/2004 implica pure un «minor consumo di territorio» a norma del successivo art. 135, comma 4, lett. c). Sul piano paesaggistico, proiezione applicativa della riserva di potestà esclusiva statale in materia di tutela del paesaggio, A. Angiuli, Art. 135 (cui adde il commento agli artt. 143 ss.), in A. Angiuli - V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005, 352 ss.; più di recente, S. Amorosino, Artt. 143-145 (ivi anche il commento all’art. 135), in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2019, 1284 ss.
[32] Sulle “potenzialità” della valutazione ambientale strategica, E. Boscolo, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in Urb. app., 2014, 146; a livello giurisprudenziale, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28 giugno 2016, n. 2921.
[33] Con l’espressione “soil sealing” la Commissione europea ha inteso riferirsi al «rivestimento del suolo per la costruzione di edifici, strade o altri usi» (COM/2002/179, Verso una strategia tematica per la protezione del suolo), ossia alla «copertura di una superficie e del relativo suolo con materiale impermeabile artificiale, come fondamenta di case, edifici industriali e commerciali, infrastrutture per il trasporto e altro» (Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, 2012).
[34] Sulla rigenerazione urbana, a livello monografico, A. Giusti, La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018. Cfr., inoltre, i contributi contenuti in P. Chirulli - C. Iaione (a cura di), La co-città. Diritto urbano e politiche pubbliche per i beni comuni e la rigenerazione urbana, Napoli, 2018; F. Di Lascio - F. Giglioni (a cura di), La rigenerazione di beni e spazi pubblici. Contributo al diritto della città, Bologna, 2017; E. Fontanari - G. Piperata (a cura di), Agenda Re-Cycle. Proposte per reinventare la città, Bologna, 2017; M. Passalacqua - A. Fioritto - S. Rusci (a cura di), Ri-conoscere la rigenerazione. Strumenti giuridici e tecniche urbanistiche, Rimini, 2018.
[35] Cfr. G.F. Cartei, Il problema giuridico del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 1285.
[36] Per un’esaustiva analisi, cfr. G. Guzzardo, La regolazione multilivello del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 119 ss.
[37] Cfr. P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in Riv. giur. edil., 2016, II, 238.
[38] Cfr. F. Fracchia, Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in Riv. quadr. dir. amb., 2010, 21.
[39] In tal senso v. Corte cost., 26 febbraio 1990, n. 85.
[40] Cfr. P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, cit., 232.
[41] In particolare, per ciò che concerne la visione “integrata” della rigenerazione urbana: cfr. L. Giani - M. D’Orsogna, Diritto alla città e rigenerazione urbana, cit., 2018 s.; amplius, A. Giusti, La rigenerazione urbana, cit., 63 ss.
Piano di ripresa e resilienza, maxiemendamenti e nuove speranze
di Giuseppe Rana
Questa Rivista ha sollecitato l’attenzione di studiosi ed operatori sulla recente presentazione da parte dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, presentato al Senato il 9 gennaio 2020 e recante Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie ( v. contributi dei professori Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola e Bruno Capponi).
Il lungo elenco delle novelle al codice processuale civile costituisce un vero monumento all’inutilità, almeno se si deve guardare alla questione della tempistica di tutela dei diritti.
In realtà, ragionando in termini molto generali ed aggregati, bisogna pur ammettere che nell’ultimo decennio si sono registrati dei progressi quanto al carico complessivo sul sistema, soprattutto se si guarda al dato nazionale della pendenza complessiva dei processi e della migliorata speditezza ed efficienza di certi settori come i procedimenti di esecuzione immobiliare: tuttavia, se guardiamo al contenzioso ordinario, i progressi sono legati pochissimo agli interventi sul rito, poco agli interventi sulla mediaconciliazione e negoziazione assistita e molto, alla nota diminuzione dei flussi in ingresso, oltre all’impegno di adeguamento organizzativo di molti uffici giudiziari ed agli sforzi dei giudici.
Né sembrano offrire serie prospettive certe scommesse imperniate su una draconiana politica dei costi di accesso, sulla sommarizzazione generalizzata del rito, su severissime sanzioni tese a scoraggiare condotte dilatorie o temerarie o sulla limitazione dell’accesso al giudizio di legittimità: oltretutto molto vi sarebbe da dire sul grado di civiltà e di compatibilità costituzionale di simili ricette. Come dice Giorgio Costantino: “se piove, si apre l’ombrello”, ovvero si cerca innanzitutto di correre ai ripari e di adeguare l’organizzazione alle condizioni date nell’economia e nella società, non di variare artificiosamente le stesse adottando politiche che non sono mai neutrali rispetto ai valori fondamentali in gioco. Diversamente, come ricorda Capponi, è come partire dall’assunto che i pronto soccorso siano pieni di malati immaginari e perditempo e ci si proponga allora di chiudere gli ospedali, irrogando pure sanzioni a chi insista a presentarsi in astanteria con la testa rotta, essendo fondato il sospetto che… se la sia rotta apposta o faccia finta. La domanda di giustizia civile in questo Paese è e sarà sempre elevata e questo fenomeno, più che essere represso e/o deviato verso (per lo più utopiche) sedi diverse di composizione, va rispettato, interpretato e riversato in un ambiente adeguato, ben organizzato e conformato ai valori di riferimento.
Che poi ci siano in generale pochi giudici per troppe cause è convinzione comune. In realtà ciò è vero in termini molto generali, ma bisognerebbe fare molte e molte distinzioni: la Giustizia civile è un campo vasto ed eterogeneo dove bisogni e diritti tra i più diversi incontrano formule giuridiche ed organizzative a loro volta le più diverse. Se dobbiamo concentrarci sulla macroarea più visibile e forse più critica, ossia quella del contenzioso ordinario, allora è certo che in Italia i giudici sono pochi dappertutto ma va tenuto ben presente che i carichi di lavoro (da intendersi grosso modo come rapporto tra numero di nuove cause nell’unità di tempo e giudici disponibili) variano molto da luogo a luogo e da regione a regione, come dimostrò agevolmente un’interessante indagine statistica del Ministero della Giustizia di qualche anno fa e come confermato dagli studi condotti dal CSM.
Questo è uno dei principali motivi, anche se non l’unico, per il quale tribunali e corti anche vicini tra loro vedono carichi molto eterogenei: da giudici con un “ruolo” individuale che va da quantità quasi fisiologiche ed ideali fino a portafogli spropositati ed ingestibili che si traducono quasi ineluttabilmente in tempistiche di lavorazione abnormi ed atteggiamenti burocratici e difensivi. Le recenti revisioni delle circoscrizioni giudiziarie, evidentemente, non hanno risolto queste disparità.
Ma non è questa l’unica distinzione che necessita se si vuol comprendere, almeno grossolanamente, il funzionamento reale della macchina sul territorio in rapporto alla disponibilità delle risorse di magistratura, al di là di luoghi comuni e programmi politici più o meno realistici.
Infatti, chiunque abbia studiato in modo scientifico il funzionamento degli uffici giudiziari italiani ha presto raggiunto la conclusione che non tutti i tribunali o corti, non tutte le loro sezioni e non tutti i loro magistrati si organizzano allo stesso modo a parità di risorse disponibili: anzi il contrario. In molti casi l’utilizzo delle risorse date è (in qualche caso parecchio) migliorabile, anche senza adottare formule e programmi esasperati e contrari alle nostre tradizioni.
Diciamolo: anche il termine “smaltimento”, se riferito alla vicende delle persone, delle famiglie e delle imprese è decisamente sgradevole e andrebbe eliminato dalla scena.
Studi scientifici di buon livello sull’organizzazione degli uffici giudiziari non ne mancano, anche condotti da estranei all’Amministrazione: basti pensare alla lunga analisi condotta dal Ministero in fase di avviamento del PCT a partire dagli anni 2000, all’esame condotto dalla Direzione generale di Statistica del Ministero dell’ultimo decennio (a cominciare dalla gestione di Fabio Bartolomeo), fino all’attività della Settima commissione CSM a partire dal 2010, data di insediamento della Struttura Tecnica per l’Organizzazione. Si tratta di un patrimonio inestimabile di conoscenze che però è rimasto nascosto non solo alla più vasta platea del Foro, dell’Accademia e dell’Amministrazione medesima, ma perfino a qualche attore di vertice, come sembra dimostrare il riferimento fatto alle buone prassi, nel recente e discusso decreto interministeriale.
Quello delle buone prassi, in particolare, è un fenomeno caratteristico della nostra Giustizia, che affonda le sue radici culturali nel più intimo modo di essere e di pensare dei giuristi e degli operatori professionali: se mi si passa l’espressione, nella giusdiversità del sistema. Eppure pochi conoscono i primi studi condotti dalla Struttura Tecnica dell’Organizzazione proprio tra il 2011 ed il 2012. Per non dire della banca dati che lo stesso CSM ha creato degli stessi anni, mettendo a disposizione degli uffici giudiziari e del loro dirigenti un piccolo tesoro di know-how e competenze nate dal confronto laboratoriale di svariate comunità di pratica, germinate spontaneamente sul territorio e composte spesso anche da professionisti e studiosi esterni oltre che da magistrati ed operatori amministrativi. Anzi, non tutti hanno avuto modo di apprezzare che lo stesso concetto di buona prassi nella Giustizia è ormai superato dal concetto più avanzato e significativo di modelli organizzativi. Per rendersi conto di ciò, basterebbe la delibera CSM del 7 luglio 2016, aggiornata poi in data 18 giugno 2018 (entrambe reperibili su https://www.csm.it/web/csm-internet/il-progetto-buone-prassi), alla cui istruttoria e stesura ho avuto la ventura di partecipare, nella quale si è proceduto ad impiantare una prima manualistica ricognitiva delle pratiche di organizzazione diffuse negli uffici giudiziari italiani.
Piuttosto istruttiva, tra l’altro, appare la ricca analisi statistica condotta dal competente ufficio del Consiglio ed allegata alle delibere citate, laddove la distribuzione delle prassi innovative (non solo civili) è censita per territorio, per tipologia di ufficio e per tipologia di attività: partendo dai dati aggregati, le buone prassi validate (ossia considerate utilmente da replicarsi) sono concentrate per il 42% presso gli uffici del Sud e delle Isole, per il 34% presso gli uffici del Nord e per il 24% presso gli uffici del Centro. Nel precedente studio che aveva preso in considerazione il totale delle buone prassi comunicate al CSM dagli uffici giudiziari alla data del 30 maggio 2016 ,il Nord rappresentava l’area geografica degli uffici con il maggior numero di buone prassi (38% del totale nazionale).
L’attenzione dell’organo di autogoverno a queste problematiche varia, fisiologicamente, a seconda del succedersi delle consiliature, ma si tratta di percorso che meriterebbe di essere portato avanti con più convinzione e consolidato.
Sta di fatto che lo studio condotto nell’occasione ha evidenziato non solo un opportuno rifiuto dell’efficientismo fine a sé stesso ma anche che un buon compromesso tra qualità e quantità della giurisdizione si può raggiungere mettendo assieme cultura e metodi operativi provenienti da due fondamentali direzioni: buona struttura di assistenza al giudice e buona programmazione individuale e collettiva del lavoro dei giudici e dei suoi tempi. Per dirla in breve, ufficio per il processo e programmazione per obiettivi. Non per tutti sarà una sorpresa sapere che questi due grandi modelli non sono che il frutto di due esperienze territoriali piuttosto note che si chiamano appunto Ufficio per il processo e Progetto Strasburgo: insomma di buone prassi ormai assurte a modelli organizzativi. Esperienze per certi versi controverse, specie la seconda, ma che certamente corrispondono a veri punti di svolta affermati i quali nulla ormai è più come prima. Infatti se ne è accorto anche il legislatore, per esempio quando ha introdotto le stratificate e frammentate normative che oggi costituiscono l’UPP come lo conosciamo e quando ha introdotto i piani annuali di gestione di cui l’art. 37 l. n. 111 del 2011. Ciò per non dire del Documento Organizzativo Generale che tutti gli uffici giudiziari debbono redigere, ai sensi delle circolari del CSM, ogni triennio: strumenti ancora precari perché frutto di interventi eterogenei e ancora poco coerenti tra loro. Anche per tal motivo hanno prodotto non poche reazioni di rigetto culturale, se non aperti tentativi di sostanziale liquidazione narrativa e burocratica.
Insomma, l’analisi della mole dei dati raccolti a suo tempo consente di concludere che l’intraprendenza delle comunità di pratica locali ha progressivamente condotto al naturale consolidamento (a risorse invariate o raccolte in sede locale) di queste semplici ma fondamentali linee di evoluzione:
a) creazione di strumenti statistici idonei a consentire una reale rilevazione dei flussi e la tipologia ed entità della domanda, nonché di programmazione e selezione delle priorità da trattare, anche nell’ottica dell’abbattimento dell’arretrato rilevante in base alla legge Pinto;
b) istituzione presso l’ufficio, la singola sezione e il singolo magistrato di nuove figure professionali ausiliarie peraltro variamente combinabili: gli assistenti per il processo nella attività di studio (ricerca dei materiali giurisprudenziali e catalogazione dei precedenti), di udienza (verbalizzazione, cura del fascicolo prima dell’udienza e scarico dell’udienza con tecniche avanzate) e amministrativa, anche attraverso l’ impiego appropriato della magistratura onoraria e dei giudici ausiliari per il recupero della funzione conciliativa e di supporto alle attività del magistrato togato; delega di specifiche attività processuali ed ausilio a progetti speciali di smaltimento dell’arretrato;
c) sviluppo del processo telematico specie sul versante delle capacità gestionali degli strumenti del giudice e dell’affidabilità quanto agli utenti esterni;
d) predisposizione di modelli integrati e centralizzati di trattazione di affari seriali e di organizzazione delle cancellerie, anche negli uffici requirenti.
La lezione culturale che proviene da queste esperienze dovrebbe essere chiara a tutti. Come ricordava Capponi (che quest’esperienza ha vissuto anni fa), il giudice solitario che combatte da solo contro pile di fascicoli, aggrappato solo al porto sicuro della sua competenza giuridica e della sua buona volontà, è un modello culturale superato, ormai inefficace di fronte alle nuove sfide. Per di più appare abbastanza distonico rispetto ai valori derivanti da una lettura aggiornata della carta costituzionale. Altrettanto superato è il modello di dirigente di ufficio giudiziario selezionato e legittimato in base alla sua bravura di giudice e non anche per la sua disponibilità a organizzare e dirigere realmente un tribunale o una corte: ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Per dirla in breve, non è più ammissibile una cultura che mette al centro solo l’abilità del giudice a studiare, decidere e ben motivare il caso specifico (che pure deve essere sempre perseguita), senza preoccuparsi troppo di quanti casi nuovi arrivano, di quanti egli può deciderne e istruirne nell’unità di tempo, con quali livelli di approfondimento e con quali criteri di selezione delle priorità. Lo stesso vale quando si tratta di organizzare il proprio ruolo di cause, la propria sezione o il proprio tribunale.
Ma, come dicevamo, la questione delle risorse è reale ed attuale: perché l’ulteriore distinguo da fare in tema di rapporto tra giudici e cause sta proprio nel fatto che la proporzione va costruita coinvolgendo anche un terzo fattore: le risorse umane e materiali a disposizione di ciascuno tra i (comunque pochi) giudici in campo. Poche, ahimè, pure quelle, e mal distribuite sul territorio: così scarse che anche modelli organizzativi efficaci e potenzialmente decisivi non possono che raggiungere ad un certo punto, a risorse invariate, i loro limiti intrinseci.
Se dunque si vuole operare al di fuori di obiettivi di pura declamazione e di operazioni puramente narrative volte a perseguire semplici miti ambientali, le nuove risorse vanno indirizzate in queste direzioni: ufficio per il processo -comprensivo di assistenti qualificati al giudice e di personale amministrativo numeroso, nuovo e motivato)-, definitiva implementazione del PCT ed edilizia giudiziaria. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra dunque andare nella giusta direzione, quando afferma che l’obiettivo di una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta, non possa essere raggiunto solo attraverso interventi riformatori sul rito del processo o dei processi. Occorre muoversi contestualmente seguendo tre direttrici tra loro inscindibili e complementari: sul piano organizzativo, nella dimensione extraprocessuale e nella dimensione endoprocessuale, che sono complementari fra loro. Dunque occorre intervenire, secondo il Governo su:
- Interventi sull’organizzazione: Ufficio del processo e potenziamento dell’amministrazione
- Riforma del processo civile e Alternative Dispute Resolution (ADR)
- Riforma della giustizia tributaria
- Riforma del processo penale
- Riforma dell’Ordinamento giudiziario.
Ebbene, mentre la più gran parte del “maxiemendamento” è dedicata alla riforma del rito processuale, in punto di organizzazione l’unico riferimento rilevante sembra quello all’Ufficio per il processo.
Oggi gli uffici per il processo sono di costituzione obbligatoria, grazie alle disposizioni contenute nelle circolari sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari. Tuttavia avviene che, quando non ci si limiti a decreti-cornice puramente burocratici, privi di un piano esecutivo che attribuisca concrete mansioni sulla base di una specifica visione organizzativa, nella migliore delle ipotesi le risorse umane disponibili sono formate di fatto dai neolaureati tirocinanti previsti dal c.d. decreto del fare o dalla l. n. 111 del 2011 o da convenzioni locali: giovani spesso motivati e preparati ma che, grazie alla permanenza limitata a soli 18 mesi o meno, finiscono con il ricevere dall’ufficio giudiziario più di quello che sono in grado di dare. Le altre risorse (personale di cancelleria e giudici onorari) destinate per legge a comporre l’UPP continuano in gran parte a fare quel che facevano prima, con scarso coordinamento complessivo. In poche parole, anche le esperienze più avanzate e più compiute di Ufficio per il processo mostrano i limiti oggettivi rappresentati dalla inadeguatezza delle risorse umane.
In realtà, la proposta di legge delega, al di là della declamazione del proposito di ricorrere a “personale che ha determinati requisiti professionali anche prevedendo professionalità ulteriori rispetto a quelle previste dalla normativa vigente, da individuarsi, in relazione alla specializzazione degli Uffici, sulla base di progetti tabellari o convenzioni con enti ed istituzioni esterne, adottati dai dirigenti degli Uffici giudiziari”, appare fin troppo prudente. Più chiara e coraggiosa sembrava l’indicazione del PNRR, quando faceva riferimento a risorse, reclutate a tempo determinato con i fondi del PNRR, … impiegate dai Capi degli Uffici giudiziari secondo un mirato programma di gestione idoneo a misurare e controllare gli obiettivi di smaltimento individuati. Senonché secondo il Piano Nazionale, in un primo tempo l’UPP, rafforzato e finanziato dai fondi europei, dovrebbe servire per smaltire l’arretrato, dovendo assicurare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari per sostenere il sistema nell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e ridurre la durata dei procedimenti civili e penali. Invece a pag. 57 leggiamo che nel lungo periodo, al fine di non disperdere lo sforzo e i risultati conseguiti con lo straordinario reclutamento temporaneo di personale, laddove sia possibile, si intende verificare le condizioni per rendere operativa in via permanente la struttura organizzativa così costituita per mantenere inalterata la sua composizione e funzione: questa visione sembra poco convincente, prima di tutto perché esprime una visione riduttiva dell’UPP, legata solo all’esigenza di smaltire l’arretrato e non anche alla qualità delle decisioni; poi perché ha un orizzonte temporaneo esiguo in quanto si lascia intendere che una volta esauriti i fondi europei ci si dovrà… arrangiare di nuovo alla vecchia maniera.
Qualche parola, infine, sulla questione della dirigenza degli uffici giudiziari e della connessa querelle sulla gestione “aziendale” di corti e tribunali, posto che il PNRR si propone di intervenire anche nella direzione della selezione dei dirigenti.
Dico subito che si tratta di un dibattito superato quanto fuorviante. Superato perché ormai da tempo norme primarie e secondarie di varia origine attribuiscono compiti di programmazione gestione ai dirigenti degli uffici ed ai singoli magistrati. Fuorviante nella misura in cui allontana l’attenzione dal vero tema: non è più attuale una conduzione dei tribunali basata solo sulle abilità e culture tradizionali del giurista.
Non solo il mondo, giudiziario e non, è profondamente cambiato ma lo stesso art. 111 Cost., ed altre norme interne ed internazionali hanno imposto che dei tempi del processo si deve tenere conto unitamente agli altri principi che connotano la giurisdizione. Dunque non si tratta affatto di stabilire se i tribunali debbono essere gestiti a modo di impresa privata: piuttosto bisogna perseguire l’obiettivo dell’attuazione dei precetti costituzionali anche attraverso la comprensione e la trasparenza dei meccanismi organizzativi degli uffici giudiziari. Di poi occorre trarne le opportune conseguenze prendendo a prestito, solo se e quando serve, nozioni provenienti da scienze e culture diverse. Nozioni elementari di statistica e programmazione per obiettivi, ad esempio, sono alla portata delle nostre capacità ed intelligenze di giuristi e possono essere utili sia in funzione formativa e culturale sia in ottica di conformazione della giurisdizione ai moderni dettami costituzionali ed internazionali: nulla di più e nulla di meno che questo. E’ fondamentale, una volta conosciuti i flussi in ingresso (quelle che noi chiamiamo in gergo sopravvenienze), analizzare e conoscere a fondo quello che davvero succede a valle e quello che invece dovrebbe succedere, intervenendo sulle giuste leve. Insomma, aprire la black box che nasconde le modalità e di tempi di attraversamento: il tutto con criteri scientifici, certo, ma senza esasperazioni ed arricchendo la nostra cultura tradizionale di giuristi
Insomma, la giustizia civile si può salvare. Ma serve un progetto condiviso tra tutti i centri decisionali e attori, tale da attuare i precetti costituzionali ed assecondare e migliorare culture, tradizioni e logiche di azione del mondo giudiziario e della sua giusdiversità: debbono fare la propria parte Governo, Parlamento, CSM, SSM, Dirigenti, Foro, Accademia, fino ai semplici operatori di provincia. E serve assoluta comunanza di intenti e chiarezza di idee: solo in questo quadro organico possono servire aggiustamenti del rito e interventi sulle procedure di ADR. Affidarsi solo a queste ultime leve è un fallimento annunciato.
Intanto, in attesa di una vera svolta, un serio e strutturato Ufficio per il processo sarebbe piuttosto utile…
Per approfondire:
F.W TAYLOR, L’organizzazione scientifica del lavoro, trad. italiana 2004;
S. ZAN, Tecnologia, organizzazione e giustizia, 2004;
ID., Le organizzazioni complesse, 2011;
L. VERZELLONI, Dietro alla cattedra del Giudice – Pratiche, prassi e occasioni di apprendimento, 2009;
B. CAPPONI, Salviamo la giustizia civile, 2015;
G. PASCUZZI, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell'innovazione giuridica, 2015;
se si vuole, G. RANA, La governance della giustizia civile, 2014;
UFFICIO STATISTICO CSM, L’efficienza giudiziaria dei tribunali civili in Italia, 2018, in https://www.csm.it/documents/21768/137951/L%E2%80%99efficienza+giudiziaria+dei+Tribunali+civili+in+Italia+-+Anno+2018/ce36f18e-0476-3aef-df8f-478e13d670c9;
CSM, Progetto buone prassi, in https://www.csm.it/web/csm-internet/il-progetto-buone-prassi;
Le proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi
Giustizia Insieme vuole proseguire e sollecitare il dibattito sulle prossime riforme della giustizia civile pubblicando il testo finale della Commissione di studio presieduta dal prof. Francesco Paolo Luiso, testo che soltanto in parte è stato trasfuso nella proposta di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S, sui quali hanno già scritto i professori Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola e Bruno Capponi e stanno per essere pubblicati gli interventi dei consiglieri Giuseppe Rana e Raffaele Frasca.
In questo modo la Rivista intende offrire un fattivo contributo alla discussione sulle riforme, nella consapevolezza che soltanto un’ampia convergenza di contributi e condivisioni tra le categorie interessate potrà contribuire a individuare le soluzioni più adeguate per avviare a soluzione un problema che si trascina da troppo tempo, e che presenta infinite sfaccettature. Il testo varato dalla Commissione Luiso è di alto livello, e consente una discussione a tutto campo dei profili ordinamentali, organizzativi, strategici e strettamente processuali.
Giudicato implicito sul regime proprietario e diritto al recupero del bene (nota ad Ad. Plen. 9 4 2021 n. 6).
di Pierfrancesco La Spina
Un'altra decisione in cui il Consiglio di Stato, affrontando il tema della tutela della proprietà privata incisa dall’esercizio illegittimo della potestà ablatoria, mostra lo stretto legame di tale tutela con le regole processuali[1] e, segnatamente, con quelle relative alla “forza” ed alla “portata” del giudicato.
La fattispecie concreta esaminata consiste in una “classica” occupazione appropriativa: per reagire alla quale la proprietaria domandò a suo tempo al Giudice ordinario il risarcimento dei danni per equivalente. Con la pronuncia n. 2860 del 22 novembre 2006 (non impugnata e, dunque, passata in giudicato – alla luce del termine lungo allora vigente – dopo un anno), il Tribunale di Cagliari accolse l’eccezione di prescrizione dell’Amministrazione, individuando il dies a quo nella data della scadenza del periodo di occupazione legittima, durante il quale l’opera nel frattempo realizzata aveva irreversibilmente trasformato il fondo (dando luogo al trasferimento del diritto dominicale in favore dell’Amministrazione).
Probabilmente per il consolidarsi della situazione di fatto, l’Amministrazione medesima – a quanto è dato di leggere nell’analitica motivazione della pronuncia – non definiva il procedimento[2]: cosa che induceva gli eredi ad adire il Giudice amministrativo formulando questa volta, in aggiunta alla domanda di risarcimento per equivalente, quella di risarcimento del danno in forma specifica, allo scopo di ottenere anche la restituzione del bene, previa sua rimessione in pristino. La pretesa partiva dal presupposto che la mancata conclusione del procedimento ablatorio avesse dato luogo al permanere della situazione illecita, vale a dire dell’occupazione senza titolo del suolo, in ordine al quale nessuna perdita del diritto di proprietà poteva dunque immaginarsi. Il Tar Sardegna, con la pronuncia n. 408 del 13 maggio 2019[3], rigettava il ricorso, ponendo in luce che la sentenza del Giudice ordinario rappresentava un limite assolutamente invalicabile: la motivazione è sintetica e sembra basarsi su una logica prevalentemente formale.
In altre parole, secondo il Magistrato amministrativo di prime cure, la pretesa esercitata in sede giurisdizionale amministrativa era da considerarsi strutturalmente omogenea a quella motivatamente respinta a suo tempo dal Magistrato civile (sia pure accogliendo un’eccezione preliminare di merito). In entrambi i casi gli interessati, infatti, si erano avvalsi del rimedio del risarcimento del danno: ed anche se l’articolazione delle domande in sede giurisdizionale amministrativa presentava maggiore complessità, vista la volontà di aggiungere alla richiesta pecuniaria quella di rimessione in pristino e restituzione del bene, “la pretesa risarcitoria, nel suo complesso (sia valore del bene, che occupazione), è stata già oggetto del giudizio civile, definito con sentenza divenuta irrevocabile”.
Il ragionamento dell’adunanza plenaria non si limita ad arricchire il profilo ritenuto centrale dal Tar; ma analizza la portata del giudicato (civile) anche sotto l’aspetto sostanziale, analizzando accuratamente l’assetto di interessi da esso derivante ed evidenziandone la incontestabilità.[4]
L’interpretazione della pronuncia del Giudice di Cagliari, ovviamente indispensabile per individuare il modo in cui il rapporto tra privato ed Amministrazione si era stabilizzato, adotta un apparato argomentativo conforme all’orientamento giurisprudenziale consolidato. Allorché il Tribunale civile di Cagliari aveva respinto la domanda risarcitoria ritenendola prescritta, infatti, ciò era avvenuto sulla base di un presupposto implicito ma non per questo meno chiaro: il perfezionarsi dell’occupazione appropriativa, in virtù della intervenuta trasformazione irreversibile del fondo per i lavori realizzati, implicava infatti, e necessariamente, la definizione dell’assetto dominicale del bene, acquisito dall’Amministrazione in virtù dell’orientamento della giurisprudenza dell’epoca.
Un giudicato il cui oggetto è, in altri termini, dato dall’accertamento dell’acquisto a titolo originario di un diritto assoluto (la proprietà, appunto): situazione in cui, potrebbe dirsi, la “forza espansiva” della cosa giudicata opera al più alto grado. Il diritto di proprietà, come rilevato in dottrina, “sarà sempre lo stesso …. Perciò si individua anche indipendentemente dal fatto genetico … il giudicato sulla proprietà copre tutti i possibili fatti genetici”; e, in definitiva, “il giudicato copre il dedotto e il deducibile”, con l’unica eccezione di ciò che non era ancora deducibile”[5] (il che, come si dirà, anche in una prospettiva puramente processualcivilistica rende coerente la conclusione cui perviene la sentenza in rassegna rispetto a quella, relativa a fattispecie concrete “speculari” in cui la proprietà era stata invece accertata in favore del privato, definite dall’adunanza plenaria con le pronunce n. 2 del 2016 e n. 5 del 2020).
L’aspetto della motivazione che compara per così dire strutturalmente e formalmente le domande spiegate nel giudizio civile prima e in quello amministrativo poi, utilizzato dal Giudice di prime cure per addivenire al rigetto del ricorso, come si accennava viene sviluppato.
Si conferma, pertanto, che il risarcimento per equivalente ed il risarcimento in forma specifica costituiscono rimedi posti a tutela di una situazione soggettiva unitaria (il cui oggetto è l’interesse alla “reintegrazione della sfera giuridica lesa” dal comportamento illecito o dall’atto illegittimo): “il diritto rimane unico, come unica rimane la posizione … fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto della prima … preclude una nuova azione sulla seconda”[6].
Senza dubbio, però, l’interesse maggiore della pronuncia è destato dall’analisi del rapporto tra le domande spiegate nel giudizio amministrativo e il precedente giudicato formatosi in sede civile sotto il profilo contenutistico: analisi che si invera nel comparare con attenzione se il risultato concreto perseguito con la richiesta risarcitoria in forma specifica, ma più in generale con la richiesta di restituzione del bene (che, in tesi, avrebbe potuto anche costituire l’oggetto di una domanda di rivendica) sia compatibile con la definizione dell’assetto proprietario a suo tempo incontestabilmente disposto in favore dell’Amministrazione pubblica.
La verifica in parola, a ben vedere, tiene in considerazione un elemento rilevantissimo: l’esigenza di evitare che il “meccanismo preclusivo” eventualmente individuato nella res iudicata si risolva nella intollerabile lesione del diritto di agire e difendersi in giudizio, tanto più che – nella specie – si tratta di proteggere un diritto fondamentale. La cui salvaguardia, però, deve avvenire pur sempre nei limiti che l’ordinamento delinea[7].
Quando, allora, nella sentenza annotata si ricostruisce la portata del “giudicato implicito” – ritenendo, come detto, che l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione appunto presupponeva necessariamente la “presa d’atto” dell’intervenuto acquisto a titolo originario del diritto dominicale in favore dell’Amministrazione pubblica – si evidenzia che nella controversia che aveva condotto alla sua formazione “tutti gli aspetti del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale” erano stati “oggetto di una valutazione effettiva”; aggiungendosi che, proprio perché tale condizione ricorreva, “l’autorità di cosa giudicata copre l’accertamento, oltre che del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto complesso dedotto come causa petendi, sia esso di natura reale o di natura obbligatoria, dal quale l’effetto trae origine”. E, ponendosi nella medesima ottica, l’adunanza plenaria ritiene pure che l’ampliamento dei confini oggettivi del giudicato deve accompagnarsi all’aumento della “facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio, onde evitare che la parte attrice” possa subire preclusioni derivanti da aspetti del rapporto sui quali non vi è stata alcuna (possibilità di) “vera” interlocuzione[8].
A queste rigorose condizioni (quanto meno in astratto peraltro difficili da revocare in dubbio, dato che il principio del contraddittorio costituisce l’in sé dei procedimenti giurisdizionali) tutto ciò che costituisce il contenuto della cosa giudicata, insomma, diviene davvero indiscutibile: inverandosi in tal modo quel “diaframma dal quale discende il concetto di “cristallizzazione” del diritto accertato nel titolo esecutivo ed il conseguente corollario di “intangibilità” del giudicato, nella sua duplice accezione formale (art. 324 c.p.c.) e sostanziale (art. 2909 c.c.)”. A fronte di esso sull’assetto del rapporto potrà nuovamente disputarsi solo alla luce di evenienze sopravvenute nel tempo[9].
Perde rilievo, altresì, la mancanza di una espressa e formale statuizione sul trasferimento della proprietà del bene: e ciò non solo perché su tale trasferimento, come accennato, i contendenti del precedente giudizio civile avevano dibattuto – sia pure al diverso scopo di individuare con esattezza il termine di decorrenza della prescrizione del diritto al ristoro dei danni – ma anche alla luce del principio di “tassatività” delle pronunce costitutive (art. 2908 del codice civile)[10]. Del resto, l’acquisto della proprietà, nell’ipotesi di accessione invertita, avviene a titolo originario, di modo che la sentenza eventualmente emessa ha natura di mero accertamento[11].
Senza dubbio il risultato cui la pronuncia in commento perviene si presenta non del tutto in linea con l’ormai chiaro divieto che le espropriazioni vengano condotte senza il rispetto dei canoni della “buona e debita forma”. Ma, prosegue la decisione[12], il giudicato civile non si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea (la disciplina della proprietà esula dalle competenze di quest’ultima); e l‘inosservanza della trama di principi derivanti dal diritto convenzionale CEDU non dà luogo all’obbligo di “una riapertura generalizzata dei processi – siano essi civili che amministrativi – definiti con sentenza passata in giudicato, nei quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della c.d. occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati”.
Sembra questa, a ben vedere, la vera esigenza pratica che aveva dato luogo al contrasto giurisprudenziale risolto dalla pronuncia in commento. Una delle due decisioni richiamate tanto nell’ordinanza di rimessione, quanto in quella di che trattasi, nel richiamare la tesi difensiva della parte privata, aveva per l’appunto messo in luce la “sostanziale ingiustizia” del risultato cui perveniva la tesi della intangibilità dell’accertamento giurisdizionale relativo all verificarsi dell’occupazione appropriativa: in quanto finiva per perpetuare “un principio di diritto in base al quale la proprietà privata potrà essere trasferita con un giudicato contra legem (violazione art. 922, 1350 e 2643 c.c.) sebbene il legislatore abbia promulgato normativa atta a porre rimedio agli effetti di tale giudicato”[13].
Sul piano sostanziale, certo, si tratta di un inconveniente. Ma, a parte il fatto che si tratta di implicazione legata anche al “fluire del tempo”, il quale, com’è noto, secondo l’orientamento consolidato della Corte Costituzionale può concorrere a cagionare protezione non omogenea ad interessi di rilievo anche primario[14], giova porre in luce che la protezione della “cosa giudicata” costituisce l’unica e vera ragione che il Giudice amministrativo d’appello pone a base della propria conclusione. In altre occasioni, infatti, l’assenza di pronuncia giurisdizionale incontestabile sul regime dominicale del bene aveva condotto a soluzione opposta: negando, in fattispecie pressoché identica a quella decisa con la pronuncia annotata, qualunque effetto di acquisizione della proprietà in favore dell’Amministrazione nonostante, a rigore, l’applicazione dei principi generali avrebbe dovuto condurre al rigetto della domanda previa emanazione di una pronuncia (retroattiva) di mero accertamento[15].
La logica della decisione dell’adunanza plenaria, dunque, è consapevolmente circoscritta alla individuazione del punto di equilibrio ritenuto ragionevole tra due situazioni giuridiche fondamentali “in conflitto”: il diritto di proprietà e quello di agire e difendersi in giudizio (di cui l’intangibilità del giudicato costituisce articolazione obbligata). Conflitto che viene così risolto a favore del secondo: e, tutto sommato, la soluzione appare coerente con una giurisprudenza, sia del Magistrato ordinario che di quello amministrativo, che mai ha assegnato al diritto dominicale assoluta inviolabilità[16], escludendolo in tal modo dal novero delle situazioni soggettive a “nucleo rigido”[17].
Solo apparentemente, infine, la soluzione prospettata dall’adunanza plenaria colloca, e sia pure per un limitato arco di tempo, l’Amministrazione pubblica in posizione privilegiata rispetto alla controparte privata.
Nella fattispecie concreta, che potrebbe dirsi speculare, in cui l’accertamento del diritto di proprietà è stato pronunciato invece in favore della parte privata, è infatti noto che l’ormai consolidato orientamento del Consiglio di Stato consente invece all’Amministrazione pubblica di rimettere in discussione l’assetto dominicale del bene, emanando il provvedimento di acquisizione contemplato dall’art. 42 bis del testo unico espropriazioni.
La diversità delle situazioni è, però, sotto il profilo “strutturale” evidentissima: in quanto l’acquisizione del bene, com’è pure noto, avviene esercitando una potestà autonoma[18] (quella prevista oggi dal ridetto art. 42 bis). Riguardo tale potestà nessuna “preclusione” potrebbe dunque derivare dall’accertamento della proprietà in favore della parte privata[19]; trattandosi, in altre parole, di un “tratto libero” dell’azione amministrativa o, se si vuole, di “un potere non ancora esercitato”[20]. Ciò nonostante, anche in tal caso il Giudice amministrativo è giunto ormai ad affermare che a volte il giudicato può impedire “seccamente” all’Amministrazione di rimettere in discussione la proprietà, in particolare quando la sentenza ha condannato in termini espressi quest’ultima a restituire il bene[21], accogliendo la relativa domanda dell’interessato (alla cui opzione di recuperare il bene viene in tal modo attribuita decisiva prevalenza, nonostante la realizzazione dell’opera pubblica): così, il diritto dominicale rimane salvaguardato, in senso assoluto, persino dall’esercizio di un “potere” sopravvenuto e, come detto, completamente autonomo (anzi, la legittimità dell’attribuzione di tale “potere” vien fatta fondamentalmente discendere proprio sull’autonomia in parola)[22]. L’effetto preclusivo in parola si accompagna all’esaltazione (o esasperazione?) del principio della domanda[23], il quale concorre ad attribuire assolutezza all’opzione del privato volta ad ottenere comunque – e, si direbbe, a qualunque costo - la restituzione del bene[24].
Il Giudice amministrativo, del resto, non è certo nuovo nell’accentuare l’effetto preclusivo della sentenza nei confronti della “riedizione del potere”, allorché si tratti di proteggere il diritto di proprietà. Basti pensare all’ormai risalente decisione dell’adunanza plenaria 8 gennaio 1986, n. 1[25], in base alla quale persino la notificazione della sentenza di primo grado che abbia annullato il diniego del permesso di costruire impedisce all’Amministrazione la modifica dello strumento pianificatorio in senso incompatibile con il rilascio del permesso medesimo[26].
Testimonianza, di cui la pronuncia annotata costituisce piena conferma, del fatto che il “sistema” non ha mai in definitiva integralmente dubitato dell’attitudine della sede giurisdizionale amministrativa a definire le condizioni di tutela delle situazioni giuridiche fondamentali[27].
[1] Con più specifico riferimento alla relazione tra acquisizione ex art. 42 bis del Testo unico espropri e giudicato, TROPEA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., sez. I, ord. N. 29625/20), in www.giustiziainsieme.it, Gennaio 2021).
[2] “Circostanza aggravante”, si direbbe, delle statisticamente frequentissime fattispecie di espropriazioni irregolari, definite icasticamente come “un’autentica onta per la nostra P.A.” (MAZZAMUTO M., Il fantasma dell’occupazione appropriativa tormenta i giudici amministrativi, in Giur. It., 2012, 2668 ss.).
[3] In www.giustizia-amministrativa.it.
[4] “È nel rendere vana la contestazione che si manifesta la forza del giudicato … La cosa giudicata è il mirabile tentativo dell’ordinamento di dare staticità al concreto, ma questo fine esso non può che raggiungerlo che per una via dinamica, cioè rendendo vana o irrilevante la contestazione” (così SATTA S. - PUNZI, Diritto processuale civile, PADOVA 1992, 237). Chiarissimo è, nella decisione del Giudice amministrativo della nomofilachia nella pronuncia annotata, il richiamo al “principio logico di non contraddizione”, il quale sarebbe irrimediabilmente violato ove il G.A. realizzasse un risultato concretamente incompatibile con quello stabilito in sede giurisdizionale ordinaria.
[5] MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, vol. I, Torino 2017, 175 ss..
[6] Cfr. par. 7.3.2. della pronuncia annotata, che affronta il rapporto tra le due azioni.
[7] La Costituzione italiana, d’altra parte, pur menzionando espressamente la proprietà privata nella parte I, non la protegge certo incondizionatamente. Nel relativo incipit dei lavori dell’Assemblea, infatti, si legge che “la proprietà privata – fermo restando il suo carattere privato – assume una duplice funzione: personale e sociale. Personale, in quanto a fondamento di essa sta l’esigenza di garantire la libertà e l’affermazione della persona; sociale in quanto l’affermazione della persona umana non è concepibile al di fuori della società, senza il concorso della società, e in quanto è primaria la destinazione dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini” (TAVIANI Paolo Emilio, su il Diritto di proprietà, in Commissione per la costituzione, III sottocommissione, rinvenibile in www.Camera.it). Al pubblico potere, del resto, non è affidato unicamente il compito di riconoscere le situazioni giuridiche fondamentali, ma anche quello di proteggerle: onde è chiaro che è solo il potere pubblico stesso a stabilire entro che limiti tale protezione opera (in argomento, tra gli altri, LUCIANI, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giur. Cost., 2006, 1646). La presa di posizione dell’adunanza plenaria dirime su tale aspetto un contrasto di giurisprudenza (anche l’ordinanza di rimessione richiamava, tra le decisioni di segno diverso, Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2020 n. 1827 e 16 novembre 2007, n. 5830, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[8] Sul principio del contraddittorio come “possibilità riconosciuta agli interessati di influire sull’esito del giudizio”, TOSI, Commentario breve alla Costituzione, a cura di CRISAFULLI e PALADIN, Padova, 1990, 24. Da altro punto di vista (nel caso affrontato, dell’Amministrazione originariamente convenuta in giudizio), vale l’affermazione a tenore della quale “nessuna concreta relazione giuridica tra le parti sarebbe realmente stabilita, se fosse consentito a quella soccombente di intentare un nuovo processo sulla base di una ragione, argomentazione, prova prima non addotta e idonea, in ipotesi, a fare determinare diversamente la relazione tra le parti. Solo fatti sopravvenuti o prove o frodi successivamente scoperte potrebbero, sotto certe condizioni, portare a questo risultato” (PUGLIESE G., Giudicato civile (dir. vigente), voce dell’Enciclopedia del diritto, vo. XVIII, Milano 1959, 864).
[9] Sono passaggi della motivazione di Cons. Stato, ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha affrontato, adottando in termini generali un’ottica coerente a quella della sentenza in commento, il diversissimo tema della possibilità di rivedere la penalità di mora inflitta all’Amministrazione dal Giudice amministrativo (della cognizione o) dell’ottemperanza
[10] Sul quale PAVARIN-GHEDINI, sub art. 2908 c.c., in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN-TRABUCCHI, Padova, 1988, 2130
[11] Il profilo, colto nel par. 7.2. dell’articolata motivazione, conduce poi a confermare l’irrilevanza – oltre che delle risultanze catastali – anche di quelle dei registri immobiliari, avendo nel caso di specie la trascrizione efficacia (neppure dichiarativa ma) di semplice pubblicità notizia. Ciò con l’eccezione delle fattispecie dell’usucapione abbreviata e dell’acquisto dall’erede apparente, in cui la trascrizione assume “ruolo” costitutivo, ferma però restando la natura dichiarativa della sentenza (in argomento, GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, 83). Sulla trascrizione degli acquisti a titolo originario, MENGONI, Gli acquisiti a non domino, Milano, 1994, passim.
[12] Par. 7.7
[13] Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2020, n. 1827 e, nella stessa direzione, sez. IV 16 novembre 2007, n. 5830, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Tra le tante Corte Cost., 15 novembre 2018, n. 200, per esteso in www.cortecostituzionale.it.
[15] Ci si riferisce, tra le altre, alla pronuncia Cons. Stato, sez. IV. 16 marzo 2012, n. 1514 (in Giur. It., 2012, 2668, s.m., con nota di MAZZAMUTO, per esteso in www.giustizia-amministrativa.it), relativa a procedura irregolare in cui l’ultimazione dei lavori risaliva addirittura al 1995. Di tale ultimazione, però, nessuna pronuncia giurisdizionale dichiarativa aveva, per l’appunto, attribuito incontestabilità.
[16] Non è un caso, ad esempio, che al diritto di proprietà è sempre stato assegnato il connotato della degradabilità (di modo che mai, per esso, la giurisprudenza ha inverato l’inversione logica descritta da NIGRO, Introduzione, nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Foro amm., 1981, 2143, il quale affermava che “dalla formula di Mortara, c’è diritto soggettivo perché non c’è potere, si passa all’altra, completamente alla rovescia, non c’è potere perché c’è diritto soggettivo, dove potere significa ovviamente anche interesse legittimo e giurisdizione amministrativa”).
[17] Espressione utilizzata, tra le altre, da Cass. civ., sez. un., 1° agosto 2006, n. 17461, in Diritto e giustizia, 2006, fasc. 39, 18, con nota di DI MARZO. Sulle ragioni “pratiche” di tale orientamento, “storicamente” originato da un processo amministrativo al tempo fornito di uno strumentario di tutela incompleto, PIGA, Nuovi criteri di discriminazione delle giurisdizioni amministrativa e ordinaria: siamo a una svolta, in Giust. Civ. 1980, 357 ss.
[18] Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con nota di PARDOLESI.
[19] Il tema del rapporto tra giudicato ed il successivo esercizio della funzione amministrativa è vastissimo. Ex plurimis, BENVENUTI, Giudicato (dir. amm.), voce dell’Enciclopedia del diritto, vol. XVIII, Milano, 1969, 899.
[20] Il tema del giudicato a formazione progressiva è stato affrontato di recente anche dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione 9 giugno 2016, n. 11 (in Foro it., 2016, III, 186, con nota di VACCARI). Si tratta di un modo di descrivere il rapporto tra sentenza del Giudice amministrativo e riedizione della potestà amministrativa oggi criticato, in quanto svilirebbe il giudizio di cognizione (in argomento, SPADARO, Giudicato a formazione progressiva e diritto europeo. Un’occasione sprecata dall’adunanza plenaria, in Diritto processuale amministrativo, 2016, fasc. 4, 1169). Per un’impostazione incline invece ad erodere la potestà amministrativa con la successione delle pronunce del Giudice amministrativo della cognizione, anche laddove tale potestà esprima elevata discrezionalità, Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, in Giustizia-amministrativa.it.
[21] Cons. Stato, ad. plen., 18 febbraio 2020, n. 5 e 9 febbraio 2016, n. 2, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it
[22] Corte Cost. n. 71/2015, cit.
[23] Da ultimo, GRECO, Interesse legittimo ed effettività della tutela, in Giustizia-amministrativa.it.
[24] La questione esula dal tema della protezione del diritto di proprietà, ed involge quello più generale della portata del principio dispositivo e dei suoi possibili inconvenienti: in argomento, SCOCA, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Il corriere giuridico, 2015, 1600 (si tratta di commento a Cons. Stato, ad. plen., 27 aprile 2015, n. 4, per esteso in www. Giustizia-amministrativa.it). Inoltre, COMPORTI G.D., Azione di annullamento e dintorni nell’ottica della soggettività delle forme di tutela, in Giur. It., 2015, 1693.
[25] Per esteso in Foro it., 1986, III, 97.
[26] L’inerenza del diritto di costruire al diritto di proprietà costituisce un orientamento consolidato della giurisprudenza, del quale, nonostante la sinteticità della motivazione, rappresenta ancora sicuro punto di riferimento la sentenza Corte Cost. 30 gennaio 1980, n. 5, in www.cortecostituzionale.it; oltre che, naturalmente, le più risalenti decisioni n. 6 del 1966 e nn. 55-56 del 1968, ibidem. Sul tema, e sulle possibilità di diverse soluzioni legislative a costituzione invariata, si veda la Relazione della commissione di studio per i problemi nascenti dalla sentenza n. 5 del 1980 della Corte Costituzionale, in Riv. Giur. edilizia, 2000, 3, 257); ed il parere Cons. Stato, ad. gen., 29 marzo 2001, rinvenibile sul sito internet www.giustizia-amministrativa.it, reso in vista dell’emanazione del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327.
[27] In argomento, PIGNATELLI, I diritti inviolabili nel riparto di giurisdizione: la resistenza di un “falso” costituzionale, in www.federalismi.it; MAZZAMUTO M., La discrezionalità come criterio di riparto della giurisdizione e gli interessi legittimi fondamentali, in www.giustizia-amministrativa.it.
Cass. S.U., 25 marzo 2021, n. 8500 e fattispecie reddituali a efficacia pluriennale. Sulla rilevanza del valore della stabilità dei rapporti e del consolidamento delle fattispecie impositive in materia tributaria
di Laura Castaldi
Sommario: 1. Premessa - 2. La posizione assunta dalle SS.UU. - 3. Premesse metodologiche - 4. Alcuni contributi al dibattito - 5. Le connesse problematiche alla valenza attribuita al principio di autonomia dei periodi impositivi - 5.1. Disquisizioni intorno all’“inerzia” e alla “non contestazione” con riferimento ad annualità pregresse definitive: a latere fisci - 5.2. (Segue) a latere contribuente - 5.3. Sulla dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale - 5.4. Un caso di prospective overruling procedurale? - 6. Considerazioni conclusive - 6.2. (Segue).
1. Premessa
Ormai da tempo si registravano divergenze di vedute tra gli addetti ai lavori in ordine all’individuazione dei limiti temporali – in chiave necessariamente preclusivo-decadenziale – alla contestabilità nell’an da parte degli Uffici finanziari di quelle che, da ultimo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione - Cass. S.U. 25 marzo 2021 n. 8500 - hanno ritenuto identificare con l’espressione “fattispecie reddituali a efficacia pluriennale” ovvero – anche se giuridicamente non è affatto la stessa cosa – “elementi reddituali ad efficacia pluriennale” : volendo con ciò indicare omnicomprensivamente (ma, come vedremo poi, impropriamente) quei fatti ed eventi al verificarsi dei quali il legislatore tributario ricollega effetti – fiscalmente rilevanti e conformanti il modo di essere sostanziale della fattispecie impositiva – destinati però a spiegarsi temporalmente in una pluralità (talvolta indefinita e indeterminabile ex ante)[1] di periodi d’imposta successivi a quello in cui il fatto ha integrato gli estremi di sua rilevanza fiscale.
In un panorama dagli incerti contorni, il recente profilarsi nella giurisprudenza di legittimità di un orientamento interpretativo che, a nostro parere, scandiva rigorosamente la scansione temporale dei contenuti accertativi degli Uffici in stretta osservanza dei termini decadenziali posti dal legislatore a presidio della loro elevazione, ha suscitato inaspettate reazioni ansiogene. Indotte forse da timori su possibili inefficienze o inadeguatezze della macchina amministrativa nel garantire un’efficace azione di contrasto all’evasione fiscale: e così, alla fine, è scattato l’altolà.
Talché – pur in assenza di un reale contrasto giurisprudenziale - all’indomani delle sent. 9993/2018 e 2899/19, con ben quattro ordinanze interlocutorie[2] le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su di una questione di massima della “particolare importanza”: consistente, appunto e come già detto, nello stabilire se la contestabilità nell’an di un componente redditualmente rilevante ad efficacia pluriennale venga meno per gli Uffici finanziari con il maturarsi del termine decadenziale di rettificabilità in accertamento della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui siffatto componente reddituale pluriennale ha visto integrarsi la sua fattispecie costitutiva, ovvero se tale profilo di sua contestabilità in accertamento si conservi con riferimento a tutti,indiscriminatamente, i successivi periodi impositivi in cui esso è destinato, talvolta per volontà del contribuente talaltra per disposizione di legge, a spiegare i suoi effetti in chiave conformativa della fattispecie impositiva.
2. La posizione assunta dalle SS.UU.
La pronuncia che ne è scaturita – si tratta come è noto della sent. 25 marzo 2021 n. 8500 – ha visto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sposare quest’ultima opzione interpretativa: con un percorso argomentativo che, al di là dell’incedere un po’ farraginoso del ragionamento, si riassume a guardar bene in un paio di decisivi passaggi che possono qui agevolmente sintetizzarsi.
La dichiarazione dei redditi è un atto, recettizio, dichiarativo di scienza: come tale, esso è deputato a riportare ed esporre – in chiave doverosamente partecipativa rispetto agli Uffici finanziari– fatti che assumono rilevanza giuridica in ragione degli effetti (fiscalmente rilevanti) che vi ricollega il legislatore ai fini della determinazione/rilevazione, con cadenza annuale, del reddito imponibile riferibile ad un determinato contribuente.
Alcuni fatti sono, per legge o per volontà del contribuente, destinati a rilevare giuridicamente, in chiave di loro incidenza quanto alla determinazione del risultato reddituale imponibile del contribuente, con riferimento ad una pluralità di periodi d’imposta[3]; con ciò trovando (o dovendo trovare) reiterata esposizione in tutte le corrispondenti dichiarazioni dei redditi interessate da tale loro, temporalmente pluriennale, rilevanza giuridica.
Poiché l’attività ricognitiva in accertamento degli Uffici finanziari ha ad oggetto la verifica di correttezza, fedeltà e compiutezza del risultato reddituale complessivo e unitario annualmente riferibile al contribuente, così come emergente dall’articolato e composito iter di sua rilevazione da costui operato (o che avrebbe dovuto essere operato) in sede dichiarativa, ogni fatto che è destinato a incidere su tale risultato è suscettibile di essere sottoposto a verifica e ad eventuale sindacato da parte degli organi accertatori fino allo spirare del corrispondente termine decadenziale di accertamento, senza limiti contenutistici di sorta: con la conseguenza che rispetto a “fatti” aventi valenza reddituale pluriennale, nessun effetto preclusivo quanto alla loro contestabilità in accertamento potrebbe farsi discendere per effetto della loro eventuale mancata contestazione – e intervenuta incontestabilità per compiuto maturarsi dei relativi termini decadenziali di accertamento – da parte degli Uffici finanziari con riguardo alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo impositivo nel quale si è verificata quella che la Corte chiama (tradendo un certo imbarazzo concettuale) la loro “genesi causale sostanziale”, e che noi riterremmo invece più corretto chiamare la loro fattispecie costitutiva sostanziale.
3. Premesse metodologiche
Ci permettiamo, rispettosamente, di dissentire dalla posizione espressa dalla Suprema Corte.
E la ragione del nostro dissenso si riassume e si sintetizza in una constatazione magistralmente espressa, per l’appunto, proprio dalla Suprema Corte laddove questa – con un ricorso all’utilizzo grammaticale del modo condizionale che si disvela davvero ricco di significato quando calato nel contesto - rileva come “nella soluzione prospettata, l’amministrazione finanziaria potrebbe contestare il fatto generatore ed il presupposto costitutivo dell’elemento pluriennale anche a molti anni di distanza dal suo insorgere”.
Non si poteva dire meglio per evidenziare il risultato ultimo cui conduce il pronunciamento in rassegna e l’incidenza vanificatoria che esso è destinata a spiegare sul senso e sulla funzione da ascrivere alla natura decadenziale dei termini temporali di accertamento nella logica di sistema che impronta la nostra materia, e sul loro impatto rispetto ad un settore – quello delle imposte sui redditi – dove la disciplina sostanziale e – necessariamente di riflesso – quella procedurale e processuale sono impegnate a coniugare il continuum di venuta ad esistenza dell’indice di espressività di capacità contributiva con la necessità di una sua frazionata rilevazione, a sua volta funzionale alla periodicità di suo assoggettamento a prelievo.
Del resto, come la pensiamo in argomento abbiamo già avuto modo di dirlo altrove, in tempi non sospetti e con dovizia di elementi a corredo[4].
Anche per rispetto dell’economia di una nota quale vuol essere la presente, non ci soffermeremo, dunque, in questa sede a disquisire sui diversi passaggi argomentativi che la Suprema Corte dispiega a sostegno della posizione interpretativa adottata: posto che ciò, fra l’altro, comporterebbe il dover scomodare e mettere in ballo una serie di questioni e problematiche assai complesse che finirebbero per essere trattate necessariamente in superficie e, dunque, senza costrutto alcuno. Quando, per contro, la presa di posizione della Suprema Corte, anche se non certo inaspettata quanto al suo contenuto, ha subito sollevato reazioni di segno vario e diverso: talché già si profila un certo fenomeno inflazionistico di commenti che non è nostra intenzione ulteriormente implementare.
4. Alcuni contributi al dibattito
Ci sia però consentito avanzare qualche breve spunto di riflessione, a titolo di mero contributo, al vivace confronto dottrinale e giurisprudenziale già in corso.
In primo luogo, riteniamo che la delicatezza e il polimorfismo della questione in discussione[5] avrebbe dovuto consigliare una maggiore cautela nell’affrontarla nei termini assolutamente generali e oggettivamente indiscriminati prescelti invece dalla Suprema Corte, pur nella dichiarata consapevolezza della sua complessità[6].
La decisione ci sembra sia stata un po’ precipitosa e, tutto sommato, non una buona idea.
Problemi complessi spesso richiedono soluzioni complesse e opportuni distinguo. L’operata scelta per la generalità e univocità di risposta ha finito invece – a nostro parere – per ripercuotersi e andare a discapito della linearità (ma soprattutto della coerenza intrinseca anche solo lessicale) del pensiero dei Supremi Giudici: che infatti prende le mosse da un orizzonte amplissimo – dove sono richiamate a descrivere il quadro di riferimento, senza distinzioni di sorta, perdite e ammortamenti, sopravvenienze attive, detrazioni e crediti d’imposta - prosegue altalenando pericolosamente tra “fattispecie reddituali pluriennali”, “componenti economici e patrimoniali con rilevanza pluriennale”, elementi con “genesi causale sostanziale” in un determinato periodo d’imposta ma “efficacia poliennale”, per infine approdare a circoscrivere l’attenzione e calibrare il discorso – giusta, probabilmente, l’oggetto del contendere rimesso alla cognizione della Suprema Corte – sulle sole categorie reddituali a rilevazione analitico-contabile dove la disciplina di rilevazione della redditività imponibile, per il reddito d’impresa anche in ragione del principio di derivazione, vede una continuità di rilevanza fiscale di molti componenti positivi e/o negativi di reddito in proiezione ultrannuale.
In questo panorama assai composito, il punto di criticità a nostro parere sta nel ridurre il tutto ad una questione di “fatti” o meglio ad una questione di “narrazione di fatti” concorrenti al risultato reddituale imponibile[7] : rispettivamente da parte del contribuente nella dichiarazione e, in termini necessariamente simmetrici, da parte dell’Ufficio nell’atto di accertamento in rettifica (non a caso, quest’ultimo, denominato tale dal legislatore).
Abbiamo l’impressione che la questione non stia esattamente in questi termini. Né in senso assoluto né in senso relativo.
Che né la dichiarazione né l’accertamento siano, o siano solo, una semplice narrazione reciprocamente partecipativa di meri fatti lo dimostra proprio la latitudine del giudicato tributario: che copre con il crisma della definitività l’accertamento/cognizione che il giudice compie non solo della posizione di debito/credito rispettivamente del contribuente e dell’Amministrazione finanziaria, ma anche del modo di essere della fattispecie impositiva, nei suoi elementi costitutivi da cui si estrinseca il rapporto obbligatorio d’imposta intercorrente tra le parti in causa, coltivando la propria attività cognitiva entro il recinto non solo fattuale, ma anche valutativo, che gli viene riportato dalle parti, e nella dichiarazione e nell’atto di accertamento che tale dichiarazione rettifica, nei limiti di ciò che costituisce il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio sotto il profilo oggettivo e motivazionale.
Il contribuente non si limita ad esporre fatti, ma ne offre una declinazione/rappresentazione fiscalmente rilevante proprio attraverso il veicolo della dichiarazione (anche, se del caso, per il tramite di propri comportamenti concludenti a carattere omissivo): lo spirare dei termini decadenziali di rettifica in accertamento della dichiarazione (e, corrispondentemente per il contribuente, di sua emendabilità ex art. 2, co. 8, lg. 322/1998) comporta la cristallizzazione della rappresentazione della fattispecie impositiva che ne scaturisce e che ne è contenuta con quel valore di immutabilità anche pro futuro che è cifra proprio di quell’esigenza di stabilità dei rapporti tributari e presidio alla coerente rilevazione del loro sviluppo temporale che la sentenza della Suprema Corte mette ora pericolosamente in crisi, e sui cui risvolti ci soffermeremo più oltre.
Ma il discorso vale, a maggior ragione, in senso relativo: è sufficiente concentrare l’attenzione sulle cd. “fattispecie ad efficacia pluriennali” che la Corte elenca a titolo esemplificativo nella sentenza per convincersene. Posto che vi si trovano annoverate le perdite pregresse e i crediti d’imposta riportati a nuovo la cui contestabilità, nei termini riconosciuti come ammessi dalla sentenza, non può che comportare necessariamente la rimessa in discussione dell’intero modo di essere dell’imponibile, ovvero addirittura del risultato finale liquidatorio d’imposta, con prospettica riferibilità a periodi impositivi ormai definitivi.
Senza contare che non tutto ciò che la Corte elenca come ricompreso nella sfera d’interesse della sua pronuncia è destinato in realtà a spiegare rilievo in chiave pluriennale sul versante della determinazione del risultato reddituale: com’è invece sicuramente per ammortamenti, sopravvenienze attive, rateizzi di plusvalenze, accantonamenti. Così non è per le detrazioni che incidono ex post sulla liquidazione dell’imposta netta, come pure, e a maggior ragione, per i crediti d’imposta riportati a nuovo che rilevano ai fini della determinazione dell’imposta da versare e fermo restando che anche sul versante dei componenti con rilevanza reddituale pluriennale si potrebbero/dovrebbero operare opportuni distinguo considerando che presentano tale caratteristica anche taluni oneri deducibili (com’è nel caso di cui all’art. 10, lett. e-bis, del T.U.I.R.) che però solo impropriamente possono dirsi concorrere alla determinazione del risultato reddituale complessivo del contribuente.
Ci sembra che una simile multiforme varietà di situazioni meriterebbe un’adeguata considerazione prima di essere pacificamente ricondotta ad un’unica disciplina: per giunta sotto un aspetto di così rilevante importanza qual è quello dell’accertamento.
5. Le connesse problematiche alla valenza attribuita al principio di autonomia dei periodi impositivi
Ci sono poi alcuni, chiamiamoli così, profili di dettaglio (o meglio, di contorno) che rimangono sullo sfondo nell’economia della sentenza ma che – sulla scorta della declinazione interpretativa offerta in ordine al principio di autonomia dei periodi d’imposta, quando sviluppata coerentemente – non paiono di facile risoluzione e aprono prospettive d’indagine tanto complesse quanto inaspettate.
5.1. Disquisizioni intorno all’“inerzia” e alla “non contestazione” con riferimento ad annualità pregresse definitive: a latere fisci
In primo luogo c’è da chiedersi se, ed eventualmente quale, significato debba attribuirsi pro futuro all’eventuale omessa contestazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di un cd. “componente reddituale pluriennale” nel contesto e all’esito di un’attività di controllo e verifica che abbia interessato una annualità rispetto alla quale essa (non contestazione) abbia assunto i crismi della definitività: e ciò nella duplice prospettiva che l’attività istruttoria sia sfociata, alternativamente, in una chiusura delle operazioni senza elevazioni di sorta (e il relativo termine decadenziale di accertamento sia medio tempore maturato) ovvero abbia condotto, sì, alla notificazione di un avviso di accertamento, ma riportante rilievi e contestazioni altri e diversi rispetto al suddetto componente reddituale pluriennale (irrilevante risultando poi a questo riguardo il fatto che l’atto di accertamento sia o meno stato oggetto di ricorso da parte del contribuente).
In questo caso, infatti, la tesi della Suprema Corte – secondo la quale all’(intervenuta definitività per maturazione dei termini di espletamento dell’) inerzia dell’amministrazione all’accertamento – stante la mera eventualità di quest’ultimo – non potrebbe mai attribuirsi alcun significato concludente, men che mai ingenerante un legittimo affidamento nel contribuente quanto alla corrispondente correttezza della propria condotta fiscale nel trattamento di un componente reddituale pluriennale valevole anche pro futuro – si rivelerebbe assai poco pertinente e forse addirittura impropriamente invocata: posto che, nell’ipotesi prospettata, l’inerzia si atteggerebbe a relativa (riguardando il singolo componente reddituale pluriennale) ma non assoluta, inserendosi piuttosto in un’attività di verifica e accertamento positivamente espletata dall’Ufficio: e anzi, solo impropriamente in un contesto siffatto potrebbe parlarsi di inerzia[8], dovendosi invece più opportunamente parlare di mancata contestazione e, dunque, di positiva condivisione, ad opera degli organi accertatori, delle valutazioni fiscali operate dal contribuente in sede dichiarativa quanto al regime applicabile al componente reddituale pluriennale.
Ci lascia davvero perplessi, in un simile orizzonte, sostenere che il principio di autonomia dei periodi d’imposta osti al riconoscimento di un qualsivoglia effetto preclusivo a future contestazioni da parte dell’Ufficio finanziario circa il trattamento fiscale riservato al componente reddituale pluriennale dal contribuente nelle successive dichiarazioni d’imposta.
5.2. (Segue) a latere contribuente
In ogni caso, la posizione assunta dalla Suprema Corte – con conseguenze ancor più complesse a seconda di come risolviamo la questione appena sopra tratteggiata – non può non ribaltarsi e investire specularmente anche la parte contribuente: la quale dunque, simmetricamente, si ritiene alcuna preclusione di sorta dovrebbe incontrare nell’adempimento dei propri obblighi dichiarativi pro futuro, non solo dall’intervenuta definitività (per maturato termine di loro rettificabilità) di precedenti dichiarazioni quanto all’an, quomodo e quantum di rilevanza fiscale assegnato ad un determinato componente reddituale pluriennale dalle stesse emergenti,[9] ma addirittura dalla mancata impugnazione in toto o in parte qua di un avviso di accertamento dell’Ufficio finanziario che tali profili, nei loro diversi profili di espressione, fosse venuto precedentemente a contestare.
Ed invero, posto che il principio di autonomia dei periodi d’imposta – a maggior ragione nella logica seguita dalle Sezioni Unite – spiega rilievo sul piano sostanziale, esso non ha coloriture di parte e, dunque, la sua lettura dovrebbe necessariamente declinarsi a doppio senso e valere tanto per l’amministrazione finanziaria in sede di verifica in accertamento quanto per il contribuente in sede dichiarativa. Insomma, se la definitività non è preclusiva non lo può che essere a doppio senso. Con buona pace della coerenza e continuità di rilevazione della materia imponibile e/o di conformazione della fattispecie impositiva – pur nella periodizzazione della sua rilevazione ai fini della sua, del pari periodica, soggezione al prelievo – che impronta tutta la disciplina sostanziale in materia di imposte sui redditi.
Con l’ulteriore complicazione – ma di questo facciamo solo rapido cenno perché l’argomento, nella sua complessità, richiederebbe ben altri spazi di approfondimento – che un simile scenario potrebbe risultare suscettibile di comportare conseguenze di non poco conto, laddove il cd. componente reddituale pluriennale sia destinato a rilevare fiscalmente non solo direttamente (e dunque in sé e per sé quale elemento concorrente in positivo o negativo alla determinazione del risultato reddituale imponibile di una pluralità di periodi impositivi), ma altresì ad incidere indirettamente nella determinazione di altre componenti reddituali non pluriennali: com’è segnatamente nel caso degli ammortamenti, per quanto attiene poi alla determinazione delle plusvalenze/minusvalenze dei beni cui essi afferiscono nel contesto del reddito d’impresa o di lavoro autonomo.
La prospettiva d’indagine richiede un po’ di sforzo di immaginazione per essere adeguatamente sviluppata ed esplorata, forse non conduce da nessuna parte ma la nostra sensazione è che qualche opportuna verifica in argomento andrebbe fatta, se non altro per capire se la rigorosa logica delle simmetrie fiscali (oggettive e/o soggettive) che impronta in generale tutto il sistema di imposizione sui redditi, ed in particolare la disciplina di rilevazione analitica del reddito d’impresa e di lavoro autonomo, regge comunque in questo diverso scenario e conserva la sua intrinseca coerenza.
La fantasia poi potrebbe portarci lontano e, allargando l’angolo di visuale, farci chiedere se la lettura dell’art. 7 del T.U.I.R. in punto di “autonomia ed annualità dei periodi d’imposta” – ritenuti dalla Suprema Corte i “fattori interpretativi chiave per la risoluzione del problema” – sia destinata a spiegare qualche significativo impatto sul versante della disciplina degli interpelli e, in particolare, quanto al requisito della preventività della loro proposizione rispetto alla posizione in essere della fattispecie concreta, relativamente alla quale si predica l’obiettiva incertezza applicativa di una determinata disposizione normativa. Condizione, quella della preventività, la cui richiesta ricorrenza tanto limita l’accessibilità a siffatto strumento e l’utilità del medesimo nel consolidare il rapporto di cooperazione tra Amministrazione finanziaria e contribuenti di cui è istituzionalmente auspicato veicolo di attuazione[10].
Non è detto che la pronuncia in rassegna sia destinata ad aprire interessanti prospettive di non lieve momento sotto questo profilo.
5.3. Sulla dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale
Ma senza divagare troppo e tornando strettamente in medias res, particolarmente stringenti ci sembrano invece i problemi che, neppure troppo sullo sfondo, emergono dalla sentenza per quanto attiene alla dilatazione dei termini temporali relativi agli obblighi di conservazione della documentazione dimostrativa dell’elemento pluriennale: che, se abbiamo compreso bene il ragionamento della Corte, dovrebbero andare di pari passo, adeguandosi e calibrandosi consequenzialmente – quanto al loro dies a quo e relativo loro dies ad quem – con riferimento ai termini decadenziali di accertamento della dichiarazione relativa all’ultimo periodo impositivo di rilevanza fiscale dell’elemento reddituale pluriennale: permanendo inalterata, lungo tutto il corrispondente arco temporale dichiarativo, e a prescindere da medio tempore intervenute definitività di singole annualità per sopravvenuta maturazione dei termini decadenziali di rettifica delle relative dichiarazioni, la verificabilità in accertamento ed eventuale contestabilità, ad opera dell’Ufficio finanziario, dei suoi fatti generatori e dei suoi presupposti costitutivi, a prescindere dal periodo d’imposta cui sarebbe riconducibile la loro insorgenza.
5.4. Un caso di prospective overruling procedurale?
Ora, a noi sembra che qui il problema non sia solo – in via di principio – di pratica applicabilità sul piano operativo, oltreché di resistenza in chiave giustificativa secondo i canoni della proporzionalità e della ragionevolezza, di un simile costrutto.
E che già, sotto questo profilo, molto si potrebbe dire: quando solo si consideri che – stante la varietà e vastità delle fattispecie annoverate dalla Corte (e annoverabili) nell’orbita delle cd. componenti reddituali pluriennali, come tali soggette ai principi enunciati nel suo pronunciamento – l’obbligo di conservazione documentale nei termini declinati dalla Corte può investire sia imprese che lavoratori autonomi, ma anche semplici contribuenti non tenuti alla contabilità[11], può concernere singoli specifici componenti reddituali, ma anche componenti pluriennali che generano e traggono loro fondamento costitutivo nella stessa complessiva fattispecie impositiva relativa ad un determinato periodo impositivo[12], può abbracciare archi temporali ragionevolmente contenuti, ma anche potenzialmente illimitati o straordinariamente ampi[13]. Il tutto, in evidente attrito rispetto alle evocate semplificazioni e all’alleggerimento dagli incombenti formali che sembra andare per la maggiore in questo frangente storico.
C’è, in verità, qualcosa di più.
Non soltanto le espressioni lessicali utilizzate[14], ma proprio la manifesta difficoltà della scansione argomentativa spesa a supporto in parte qua del ragionamento, sembrano tradire la consapevolezza della Corte circa l’intrinseca novità (potremmo chiamarla, forse più correttamente, ragionevole imprevedibilità) che la propria posizione interpretativa in merito ai termini decadenziali di contestabilità in accertamento dei cd. componenti reddituali pluriennali è destinata a spiegare, come ricaduta procedurale[15], sulla parallela prospettica dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale a carico dei contribuenti. La fatica di far quadrare il cerchio è evidente: come emerge laddove si richiama (a onor del vero con grande onestà intellettuale) il proprio precedente in termini, che però purtroppo suona di tenore esattamente opposto a quanto si pretenderebbe sostenere[16], tentando di dargli un senso coerente con gli assunti predicati; come pure laddove si cerca malamente di sminuire la portata dell’art. 8, co. 5, dello Statuto dei diritti del contribuente per un verso scomodando (fra l’altro discutibilmente) la gerarchia delle fonti, per l’altro sottolineando la connotazione di disposizione di principio da attribuire alla disposizione per contrabbandarne la non applicabilità ai casi di specie, descritti come “ipotesi del tutto caratteristiche”: quando solo poche pagine prima la Corte si è dilungata a constatare la frequenza sempre maggiore che il fenomeno del “differimento pluriennale” registra nel sistema impositivo reddituale per ciò che strumento di equo contemperamento dell’esigenza di preservare il gettito erariale e, al contempo, di ricorrere alla leva tributaria in chiave incentivante per l’attuazione di politiche di modernizzazione e rilancio anche economico (come nel settore edile), ovvero per il perseguimento di obiettivi virtuosi (la tutela dell’ambiente, la salvaguardia del territorio ecc.).
Con un problema di non poco conto che nel frattempo si pone: che sta nell’ esigenza di tutelare, sotto questo versante, il legittimo affidamento medio tempore riposto dai contribuenti nel quadro normativo vigente e nella lettura giurisprudenziale fino ad oggi offertane: esigenza di tutela cui non sembra soddisfacentemente rispondere il richiamo della Corte – quasi alla stregua di una valvola di chiusura – al dovere di ammettere, in sede contenziosa, il contribuente a fornire in altro modo la prova posta a suo carico, in tutti quei casi nei quali vi siano in concreto elementi per ritenere che egli si sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione fiscale. Se non altro perché il problema qui è a monte rispetto al diritto di difesa e della prova in giudizio: e riguarda, appunto e prima ancora, la fase endoprocedimentale istruttoria dell’accertamento. Il cui compiuto e soddisfacente svolgimento – secondo un principio di parità delle parti che è il riflesso della buona fede reciproca – - è spesso la miglior profilassi al proliferare del contenzioso: come dimostra di ritenere il legislatore tributario per effetto del combinato disposto dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997 e dell’art. 12 della lg. n. 212/2000.
Insomma, la pronuncia in rassegna profila un problema di possibile lesione del diritto di difesa per tutti quei contribuenti che alla sua stregua si troveranno in difetto rispetto all’adempimento degli obblighi di conservazione documentale così come da essa conformati, per aver riposto affidamento nel disposto dell’art. 2220 c.c. e nell’art. 8, co. 5, della lg. 212/2000, anche alla luce dell’interpretazione datane dalla stessa Corte con la pregressa sent. 9834/2016: problema che però la Corte non affronta né tanto meno risolve e che pare anche di difficile e complessa risoluzione.
Per quanto ci riguarda, dunque, sono molti i punti d’ombra che la sentenza in commento lascia aperti e che potrebbero forse – lo auspichiamo – condurre a qualche ulteriore approfondimento e opportuna puntualizzazione da parte della Suprema Corte: come del resto è già successo con riferimento ad altre questioni, anch’esse particolarmente complesse e di massimo rilievo.[17]
6. Considerazioni conclusive
Ma il punto più interessante per noi è un altro: ed esorbita dalla stretta presa di posizione in ordine alla condivisibilità o meno, dal punto di vista squisitamente giuridico, della soluzione interpretativa adottata dalla Suprema Corte. Su cui abbiamo appena manifestato brevemente alcune nostre riserve. Esso riguardando piuttosto le ripercussioni a più vasto raggio che la sentenza in rassegna, con i suoi assunti di principio, è destinata a spiegare:
- e sul versante dell’agire amministrativo, in particolare quanto all’efficienza e al suo buon andamento costituzionalmente pretesi;
- e sulle scelte e sulle condotte del contribuente: sia come tale, che nel suo essere, a monte, homo oeconomicus in tale veste del pari tutelato dalla Costituzione nel valore della sua libertà appunto di iniziativa economica;
- e, più in generale, sul buon funzionamento del sistema.
Partiamo da quest’ultimo profilo.
Apparentemente, la posizione della Suprema Corte sembrerebbe rappresentare un ottimo punto di approdo nella ricerca di un difficile e precario equilibrio tra due opposte esigenze:
- per un verso quella, diciamo, di tutela del cd. “interesse fiscale” a che sia garantita la massima ampiezza di controllo/verifica/contestabililità e rettificabilità di tutto ciò che, a vario titolo, emerge dalla singola, specifica, dichiarazione d’imposta del contribuente come concorrente alla determinazione del risultato imponibile e/o alla liquidazione del tributo da versare con riferimento al relativo periodo d’imposta: in un’ottica di salvaguardia del gettito tributario e di efficace contrasto all’evasione, e quasi come contrappeso alla mera eventualità dell’accertamento e all’asimmetria conoscitiva che in tal sede caratterizza la posizione dell’Amministrazione finanziaria rispetto al contribuente quanto alle vicende fiscalmente rilevanti che lo riguardano;[18]
- per l’altro verso, quella del contribuente (ma che la Corte correttamente ascrive a interesse generale ed espressione di civiltà giuridica) a che si pervenga, entro un termine ragionevole, alla stabilizzazione del rapporto giuridico tributario che gli fa carico: così da non trovarsi sine die “in balìa” di quelle che la Suprema Corte chiama iniziative recuperatorie – ma che noi riterremmo più corretto indicare come iniziative contestatorie (e solo conseguentemente recuperatorie) – del Fisco.
È vero sì, infatti, che l’Amministrazione può sempre mettere in discussione i fatti presupposti e gli elementi costitutivi del componente reddituale pluriennale con riferimento a qualunque delle dichiarazioni nelle quali esso componente rileva fiscalmente, a prescindere dalla mancata rettifica (in parte qua?) della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui essi (fatti presupposti ed elementi costitutivi) sono venuti ad esistenza o di altre successive, ma – ecco la chiave di volta – ciò nessuna incidenza spiegherà sull’eventuale intervenuta definitività, per medio tempore compiuta maturazione dei rispettivi termini decadenziali di accertamento, delle precedenti dichiarazioni in cui tale elemento abbia comunque spiegato rilievo nella conformazione della fattispecie impositiva.
Talché – ecco la chiosa della Suprema Corte – niente può eccepirsi quanto al risultato: per ogni singolo periodo impositivo i termini di rettificabilità della relativa dichiarazione e, correlativamente, di accertamento della relativa obbligazione d’imposta rimangono sempre e costantemente quelli di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973.
A noi sembra però che, così argomentando, la Suprema Corte non colga che proprio qui sta il punto di criticità sistematica della soluzione interpretativa sposata: il pegno da pagare per non riconoscere l’allungamento dei termini di accertamento in danno dei contribuenti e, nello stesso tempo, per non prefigurare preclusioni accertative in danno degli Uffici finanziari, sta nel riconoscere come strutturalmente possibile la disomogeneità e non coerente continuità di rilevazione del modo di essere della fattispecie reddituale imponibile in quel suo divenire temporale che trova espressione proprio (anche se non solo) nei cd. elementi reddituali pluriennali.
In evidente contrasto con quella che è la conformazione del rapporto alla stregua della sua disciplina sostanziale.
Quanto ciò sia sostenibile a livello sistematico e costituzionale abbisognerebbe di essere adeguatamente approfondito: considerato che la disciplina procedurale (così come quella processuale) è servente rispetto quella sostanziale e non viceversa.
Si tratta di un campo di riflessione molto complesso, già emerso ed emergente sotto altri e diversi profili nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale[19], che richiede probabilmente un intervento organico a più vasto raggio rispetto al quale non può adeguatamente supplire solo l’elucubrazione giurisprudenziale della Suprema Corte.
6.2. (Segue)
Per quanto attiene poi agli altri due precedenti aspetti, ci permettiamo solo alcune brevi divagazioni senza alcuna pretesa di approfondimento.
Quanto al primo profilo, abbiamo l’impressione che varie siano le questioni su cui meriterebbe riflettere.
Già di per sé, oggi, i termini di accertamento ai fini delle imposte sui redditi sono, nella loro oggettività, estremamente dilatati. Anche volendoci limitare all’attività di accertamento in rettifica, lo spirare del relativo termine decadenziale è attualmente fissato al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione: termine, già considerevolmente ampio, che immancabilmente si sospende, si proroga e ulteriormente si estende per ragioni le più diverse e anche sempre più variegate e numerose (calamità naturali, emergenze pandemiche, manovre condonistiche, interventi di emendatio dell’originaria dichiarazione ad opera dello stesso contribuente, necessità di assicurare il compiuto espletamento di forme varie di contradditorio endoprocedimentale senza che gli uffici patiscano medio tempore il maturarsi di decadenze a proprio danno, e via discorrendo).
A questa già significativa estensione temporale dei termini di accertamento, la posizione interpretativa della Suprema Corte – comunque la si pensi – finisce per certificare anche una altrettanto significativa dilatazione, anche in proiezione temporale, di ciò che ha da formare oggetto di controllo e verifica (ai fini di una eventuale futura contestabilità) a carico degli Uffici. Insomma, ad una (confermata) maggiore latitudine di potere di contestabilità si accompagnerà però una altrettanto simmetrica maggiore latitudine[20] dei compiti di controllo e dei riconnessi oneri istruttori di cui è investita l’amministrazione finanziaria: tanto più gravosi e di difficile espletamento quanto più concernenti, prospetticamente, vicende remote nel tempo, come tali suscettibili di patire approcci ricostruttivi distorti in ragione di fenomeni di decontestualizzazione normativa ma anche, mi si passi il termine, “ambientale”[21]: a loro volta potenziali fattori moltiplicatori di res litigiosa.
Il quadro che ne scaturisce potrebbe porre non pereghini interrogativi non solo sul grado di adeguatezza di risposta dell’apparato burocratico-amministrativo in termini di efficienza, ma anche sulle garanzie di incisività dell’azione accertativa[22]: oltre a profilare pericolosi (e non certo auspicabili) fenomeni di ulteriore parcellizzazione e inflazionamento del contenzioso tributario le cui – notoriamente rallentate – tempistiche di espletamento potrebbero, peraltro, andare ad ulteriore detrimento, incidendo negativamente, per quanto qui interessa, sulla già potenzialmente grave decontestualizzazione cronologica tra attività di accertamento e oggetto accertato.
Quanto al secondo profilo, ci sembra che i problemi siano gli stessi di cui sopra, seppur visti dalla diversa angolazione del contribuente: rispetto al quale essi però assumono una diversa coloritura che potremmo sintetizzare e riassumere nella percezione di una immanente e permanente instabilità (per potenzialmente illimitata contestabilità) del modo di essere del proprio rapporto impositivo reddituale nel suo costante divenire nel tempo: il tutto a discapito di quel valore di certezza che, nel nostro settore al pari di quello penale, si traduce essenzialmente in termini di ragionevole prevedibilità (anche, e talvolta soprattutto, in chiave prospettica) per il contribuente delle conseguenze fiscali delle proprie condotte. Aspettativa che, per costui, non attiene soltanto all’esigenza di essere salvaguardato da possibili oscurità, polivalenza e ambiguità oltre che mutevolezza nel tempo dei dati normativi ma anche dai margini di possibile (e di per sé imperscrutabile nella fondatezza) contestabilità ex post della correttezza fiscale dei propri comportamenti, stanti le significative conseguenze destabilizzanti che ne conseguono[23]: come l’istituzione e la disciplina degli interpelli e dei rulings dimostrano.
Tant’è non è da escludere si registri – come effetto di rimbalzo nell’immediato futuro del pronunciamento in rassegna - un accorciamento, laddove possibile per il contribuente, dei limiti temporali di spendita dei componenti reddituali pluriennali per conseguire il prima possibile il consolidamento della relativa fattispecie. Che non significa affatto mirare conseguire definitivamente il frutto dell’evasione bensì più banalmente archiviare il rischio o l’evenienza della contestazione: fattore di incertezza non solo psicologico ma prima ancora economico e strategico, soprattutto sul piano imprenditoriale.[24]
Il tema è vastissimo e, stanti le sue implicazioni, non può neppure essere accennato in queste brevi note. Viene però da pensare se la sentenza della Suprema Corte non possa essere una buona occasione per soffermarvici adeguatamente l’attenzione.
[1] Come riconosce la stessa Corte facendo riferimento al regime di spendibilità delle perdite pregresse.
[2] Si tratta, nell’ordine, dell’ord. 10701/2020, dell’ord. 15525/2020, dell’ord. 16752/2020 e, infine, dell’ord. 20842/2020.
[3] La Corte parla di “componenti reddituali a rilevanza pluriennale” definendoli come “elementi economici e patrimoniali che, per quanto emersi e consolidatisi nella loro genesi causale sostanziale in una determinata annualità d’imposta sono tuttavia dalla legge fiscale ammessi a produrre effetti sulla formazione della base imponibile di annualità successive eventualmente anche molto lontane da quella di origine”.
[4] Mi permetto di rinviare alla mia nota a commento di Cass. 9993/2018 (CASTALDI, Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib. 2019, 194 ss.).
[5]Consistente nello stabilire la latitudine, non solo contenutistico/sostanziale ma anche argomentativo/motivazionale, dell’attività di accertamento degli Uffici finanziari in relazione ai termini decadenziali di suo espletamento.
[6] Secondo quanto è dato leggere nella sentenza in commento, infatti, “non sembra che la complessità ed eterogeneità delle fattispecie siano tali da impedire o sconsigliare una soluzione unitaria al problema giuridico posto dall’ordinanza di remissione” per ciò che – questa la considerazione della Suprema Corte (sulla condivisibilità della quale nutriamo forti riserve) – la materia dell’accertamento e dei termini di suo esperimento “più di ogni altra richiede regole operative il più possibile stabili e uniformi”.
[7] Che poi la Corte sente comunque il bisogno di declinare in termini di “elementi”, di “dati” o “informazioni” e, più oltre – con l’occhiale specificamente concentrato sul reddito d’impresa – come “voci” e dopo ancora come “componenti” con una polisemia che disvela la consapevolezza da parte dei Giudici della difficoltà di ricondurre ad unicum la tematica da trattare.
[8] Che è termine di coloritura volutamente anodina.
[9] E così alla valutazione di un bene relativo all’impresa come fiscalmente non ammortizzabile (ovvero ammortizzabile solo parzialmente nel quantum) operata dal contribuente nella dichiarazione relativa all’esercizio di suo inserimento nel ciclo produttivo e nei successivi, potrebbe seguire, nonostante il sopravvenuto crisma di definitività per maturazione dei termini decadenziali di accertamento/rettifica di siffatta dichiarazione e di altre successive, una diversa valutazione del contribuente medesimo quanto al trattamento fiscale da riservare a siffatto bene negli esercizi successivi di sua incidenza pluriennale.
[10] Concordiamo pertanto con le riflessioni da ultimo svolte in proposito da FARRI, Le incertezze nel diritto tributario, in Dir. prat. trib. 2021, 720 ss.
[11] Com’è nel caso – fra l’altro richiamato proprio dalla Suprema Corte – in cui si discuta dello scomputo in chiave di detrazione decennale pro quota in rate costanti dei costi per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici, per la ripulitura e ritinteggiatura delle facciate degli edifici ecc..
[12] Com’è laddove si discuta di spendita di perdite pregresse, ovvero addirittura di crediti d’imposta del pari riportati a nuovo da esercizi e dichiarazioni pregresse.
[13] È quanto accade per alcune tipologie di beni – fabbricati destinati all’industria, in genere, ma anche infrastrutture destinate ai servizi pubblici essenziali come porti, aeroporti, autostrade, opere idrauliche fisse ecc. – dalla vita utile particolarmente durevole che, in base ai coefficienti di ammortamento di cui al D.M. 31 dicembre 1988, hanno periodi di ammortamento che abbracciano anche qualche decina di anni.
[14] Non vogliamo scendere nell’esegesi spicciola della sentenza, però ci sembra significativo che la Corte, dopo aver richiamato il proprio precedente (Cass. 9834/16) – meglio descritto alla nt. 18 – ricorra a formule quasi dubitative nel prendere posizione, distaccandosene, rispetto ad esso: in buona sostanza sostenendo come, alla luce del proprio costrutto interpretativo, “non pare inesigibile” che il contribuente sia onerato della diligente conservazione delle scritture “fino allo spirare del termine di rettifica (anche ultradecennale) dell’ultima dichiarazione accertabile”.
[15] La Corte parla di “correlazione servente” che intercorre tra il regime di conservazione documentale e la disciplina dell’accertamento e della sua tempistica.
[16] Il richiamo è a Cass. 9834/2016, nella quale la Suprema Corte, pronunciandosi con riferimento ad un caso di ammortamenti ultradecennali, ha limitato l’ultrattività dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili oltre il termine decennale di cui all’art. 2220 c.c. al solo caso in cui l’accertamento – iniziato prima del decimo anno – non sia ancora stato definito a tale scadenza: osservando come, altrimenti, “l’obbligo di conservazione si protrarrebbe per una durata che dipende esclusivamente dalla volontà dell’Ufficio, rispetto al quale il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die”.
[17] È chiaro il richiamo, nel testo, all’evoluzione giurisprudenziale registratasi in tema di efficacia esterna del giudicato tributario all’indomani del pronunciamento della SS.UU. della Cassazione con sent. 13916/2006: per una cui meditata analisi facciamo richiamo, ex multis, a FRANSONI-RUSSO, I limiti oggettivi del giudicato nel processo tributario, in Rass. trib. 2012, 858 ss. Vd. anche, più di recente, seppur con un’impostazioneche ci trova su posizioni distanti, CORRARO, L’efficacia ultra litem del giudicato tributario tra vecchi modelli e nuove teorizzazioni: il lungo cammino della Corte di Cassazione nel segno di una costante incertezza sistematica, in Dir. prat. trib. 2020, 2547 ss..
[18] Come traspare, neppure troppo nascostamente, nell’argomentare della Corte laddove questa – seppur ad altro fine – ricorda che il sistema impositivo, “soprattutto in campo reddituale, trova il proprio fulcro non nell’accertamento (evento che resta pur sempre secondario nella dinamica complessiva delle entrate tributarie) ma nella fisiologia della dichiarazione quale vero e proprio atto di responsabilità autoimpositiva e autoliquidativa”.
[19] Ci limitiamo a solo alcune recentissime note di significativo rilievo in argomento. Con sent. 11 maggio 2021 n. 12372, la Suprema Corte di Cassazione ha disposto che in caso di perfezionamento dell’accertamento con adesione in relazione ad un anno, a situazione immutata, non è legittima la condotta dell'Agenzia delle Entrate che, per gli anni successivi, aumenti la pretesa rispetto ai pregressi accertamenti poi definiti in adesione. In una tale evenienza, gli accertamenti sono parzialmente nulli e la pretesa va ricondotta nell'entità derivante dall'accordo di adesione perfezionatosi per gli anni pregressi. Con sent. 30 marzo 2021 n. 8740, la Suprema Corte ha stabilito che l’efficacia vincolante della risposta dell’Amministrazione finanziaria ad un interpello, limitata alla questione oggetto di quest’ultimo e al contribuente istante, pur non trovando applicazione, in via generale, in relazione a casi analoghi relativi a soggetti diversi dall’interpellante, può estendersi anche a soggetti diversi che, in relazione all’atteggiarsi e alla struttura della fattispecie impositiva, “nonché all’allocazione dei relativi obblighi”, sono indissolubilmente legati alla questione investita dall’interpello.
[20] Peraltro, declinata in chiave di doverosità: pena la negligenza suscettibile di conseguenze sanzionatorie anche in punto di responsabilità contabile a carico dei verificatori.
[21] Non possiamo infatti dimenticare che tutte le disposizioni di legge (anche quelle tributarie) nel loro risvolto applicativo risentono del contesto storico, politico, economico, sociale e giurisprudenziale in cui sono calate: tanto maggiore è lo iato temporale che intercorre tra ciò che è oggetto della verifica e la verifica stessa, tanto maggiore sarà il pericolo di un disallineamento di approcci valutativi dovuti, appunto, a “decontestualizzazioni”.
[22] Volendo essere più chiari: non siamo sicuri che consentire (ma altresì imporre) agli Uffici finanziari di controllare sempre tutto non finisca per andare a discapito della qualità, tempestività ed efficacia dell’azione amministrativa di accertamento. Non ci dimentichiamo che interrogativi molto simili a quelli di cui al testo condussero alcuni decenni fa ad attenuare la rigorosità del principio di unicità e globalità dell’accertamento, portando all’introduzione dell’accertamento parziale. La situazione, se vogliamo, è perfettamente speculare, ma proprio per questo ci sembra meritevole di attenzione per l’insegnamento che può offrire.
Aggiungiamo anche che molte delle scelte di conformazione della disciplina sostanziale dei tributi sono frutto di una pragmatica scelta compromissoria tra l’esigenza di rispetto del principio di effettività nella rilevazione della manifestazione di attitudine alla contribuzione da assoggettare a prelievo e, da un lato, l’esigenza di snellezza, semplicità e non economicamente gravosa applicabilità della disciplina da parte del contribuente, dall’altro, fattibile, efficace ed efficiente controllabilità ex post da parte degli Uffici finanziari. Insomma, il meglio talvolta è nemico del bene.
[23] Si pensi – tanto per enumerarne solo alcune - agli aggravi sanzionatori, ai possibili risvolti penali, alle misure confiscatorie, ai recuperi in pendenza di causa, ai costi e all’alea del contenzioso.
[24] Ne è indiretta conferma la stretta connessione che intercorre tra gli indici di affidabilità fiscale e la valenza premiale che, in tale contesto, essi spiegano in chiave riduttiva dei termini di accertamento.
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