ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Legittimazione, accertamento e risarcimento: il punto sulla capacita’ delle associazioni esponenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 28 maggio 2021 n. 4116)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato – 2. La soluzione della Sezione Terza – 3. Interessi diffusi e collettivi: approdi in tema di legittimazione (soggettiva) ad agire delle associazioni (Ad. Plen. n. 6/2020). La funzione tutoria dell’interesse collettivo come interesse proprio dell’associazione di consumatori – 4. Sulla legittimazione (oggettiva) delle associazioni: azioni di accertamento e annullamento.
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato.
Con la sentenza n. 4116 del 2021, la Terza Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata in tema di legittimazione a ricorrere in capo alle associazioni esponenziali di utenti e consumatori affermando, coerentemente con i più recenti ed ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali[1], l’ammissibilità dell’azione di accertamento, proposta da un’associazione a tutela dei consumatori, essenzialmente volta a verificare l'illegittimità del comportamento asseritamente omissivo dell'amministrazione per i danni causati dalla commercializzazione e dall' utilizzo delle protesi mammarie di gel di silicone.
La vicenda contenziosa trae origine dal ricorso presentato davanti al Tar Lazio dalle due associazioni, Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori (di seguito “Codacons”) e Associazione Italiana per i Diritti del Malato e del Cittadino (di seguito “AIDMA”), nonché da alcune persone fisiche, le quali chiedevano la condanna dei Ministeri della Salute e dello Sviluppo Economico al risarcimento dei danni asseritamente derivati dall’omesso esercizio dei poteri di vigilanza sulla commercializzazione dei presidi sanitari.
A sostegno della domanda, le associazioni allegavano che il responsabile per i dispositivi medici aveva comunicato al Ministero della Salute di aver sospeso la commercializzazione e distribuzione dei presidi a seguito di un’ispezione presso lo stabilimento di produzione – da cui erano emerse difformità rispetto al procedimento di autorizzazione all’immissione in commercio – originata dall’incremento della segnalazione di incidenti; il Ministero della Salute disponeva di conseguenza il ritiro di tutti i dispositivi medici, invitando il distributore italiano del prodotto a ritirarlo dal mercato.
Le parti ricorrenti lamentavano di aver subito, per effetto del comportamento della società produttrice delle protesi, ma anche e soprattutto in ragione dell’omissione di controllo da parte dei Ministeri, ingenti pregiudizi anche di natura non patrimoniale, per cui chiedevano la condanna degli enti resistenti al risarcimento dei danni.
Costituitisi in giudizio i Ministeri, il Tar Lazio[2] dichiarava parzialmente inammissibile il ricorso, con riferimento alla sola domanda proposta dalle due associazioni ricorrenti, e lo respingeva nel merito, poiché infondato, con riguardo alle parti ricorrenti e alle persone fisiche. In particolare, venivano differenziate le posizioni dell’AIDMA e del Codacons. Per la prima, il Tar ravvisava una carenza di legittimazione attiva, e soggettiva, motivata in ragione della mancata iscrizione[3] nell’elenco delle associazioni di consumatori ed utenti previsto dall’art.137 comma 1 del Codice del consumo[4]. Per quanto riguarda il Codacons, invece, il Tar ha sostenuto che la legittimazione al ricorso prevista dal Codice del consumo riguardasse esclusivamente la proposizione di domande di annullamento di atti e non potesse estendersi anche alle azioni risarcitorie, dal momento che la pretesa patrimoniale inerisce a situazioni individualizzabili, riferite alle posizioni dei singoli danneggiati e, non già alla lesione subita dalle due associazioni in sé considerate.
Dunque, a titoli diversi, ma entrambe le associazioni sarebbero prive di legittimazione ad agire, soggettiva in un caso, oggettiva nell’altro.
Avverso la sentenza proponevano appello Codacons e AIDMA, sostenendo nuovamente la sussistenza della responsabilità concorrente e solidale dei Ministeri per omessa vigilanza sui prodotti risultati dannosi e ribadendo la propria legittimazione attiva, nonché la fondatezza della pretesa risarcitoria azionata.
2. La soluzione della Sezione Terza.
Il Collegio ha ritenuto l’appello in parte fondato.
Affrontata, seppur con un obiter dictum dal momento che il difetto era stato sollevato tardivamente ed irritualmente, la questione sulla giurisdizione[5], la decisione della Terza Sezione del Consiglio di Stato ha poi fornito importanti risposte sulla questione della legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti.
Le appellanti avevano contestato, in sede di ricorso al Consiglio di Stato, la dichiarazione di difetto di legittimazione attiva dell’AIDMA, incentrata, secondo il Tar, sulla mancata iscrizione nel registro di cui all’art. 137 del Codice del consumo. Il Collegio ha accolto la ricostruzione delle appellanti, perfettamente coerente con la sua stessa giurisprudenza, culminata con la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 6/2020, secondo la quale l’iscrizione nel registro delle associazioni dei consumatori non costituisce condizione ineludibile ai fini della legittimazione degli enti portatori di interessi collettivi, ben potendo le associazioni di categoria interessate dare dimostrazione di possedere quegli indici univoci e chiari delineati dalla giurisprudenza e da ultimo confermati dalla stessa Adunanza[6]. Dunque, la mancata iscrizione nel registro dei consumatori non può, per mero automatismo, comportare l’assenza della legittimazione ad agire, ma deve verificarsi, come d’altronde era già previsto prima dell’introduzione dell’art. 137 Codice del consumo, la sussistenza effettiva dei citati criteri.
In sostanza, se l’iscrizione nel registro comporta certamente una presunzione iuris et de iure ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire degli enti collettivi, al contrario, la mancanza dell’iscrizione non impedisce di riconoscere la medesima legittimazione in capo ad enti che siano comunque in possesso di adeguati indici di rappresentatività della categoria.
Sotto un diverso profilo si pone, invece, la questione inerente alla legittimazione oggettiva del Codacons. La sentenza impugnata, infatti, aveva fondato, in secondo luogo, la pronuncia di inammissibilità sul fatto che, pur riconosciuta la legittimazione a ricorrere[7] sotto il profilo soggettivo, quest’ultima dovesse riguardare solo la proposizione di azioni dirette all’impugnazione di atti, non potendosi dunque estendere anche a domande risarcitorie. In particolare, la sentenza impugnata affermava che le Associazioni non potessero chiedere il risarcimento del danno spettante ai singoli utenti, in quanto si sarebbe venuta così a realizzare un’inammissibile sostituzione processuale; d’altra parte, non potrebbero far valere, in proprio, alcuna pretesa risarcitoria, perché il pregiudizio descritto riguarda esclusivamente la lesione delle posizioni giuridiche dei singoli.
Pur ritenendo tali premesse condivisibili, il Collegio ha ritenuto ammissibile la domanda proposta dalle due associazioni, riqualificandola, tuttavia, sul piano sostanziale, come “azione di accertamento dell’illegittimità dell’inerzia della amministrazione” il cui carattere, oltre che rispondere al principio di effettività della tutela, risulterebbe anche dal tema decisorio introdotto dalle ricorrenti, nonché dalle posizioni assunte dalle parti resistenti.
Dunque, un “interesse all’accertamento del mancato esercizio del potere di controllo”, volto a verificare l’illegittimità del comportamento, asseritamente omissivo, dei Ministeri.
L’interesse e la legittimazione delle associazioni ricorrenti sussistono, ma vengono ancorati esclusivamente all’azione di accertamento; quest’ultima potrà poi eventualmente fungere da presupposto per la responsabilità risarcitoria delle amministrazioni e, sempre che i singoli utenti possano effettivamente beneficiare degli effetti del giudicato[8], costituire la base per ulteriori iniziative nei riguardi delle soccombenti. Si legge infatti che “la prospettata dimensione generale della lamentata violazione e la sua attitudine a coinvolgere una pluralità di soggetti giustifica la legittimazione degli enti esponenziali della categoria all’esercizio di un’azione diretta all’accertamento della violazione, costituente il presupposto (necessario, ancorché non sufficiente) della responsabilità risarcitoria delle amministrazioni convenute”.
Tale pronuncia si colloca nella scia di quella, già citata, dell’Adunanza Plenaria[9], riconoscendo in capo agli enti associativi esponenziali una legittimità generale in ordine alla tutela degli interessi collettivi, anche in assenza di una previsione di legge che espressamente autorizzi l’esercizio dei relativi strumenti.
Diverse sono le questioni rilevanti affrontate, seppur talvolta implicitamente, dalla sentenza in commento. Il nodo centrale, attinente alla legittimazione, sembrerebbe apparentemente incontrare dei limiti nel generale divieto di sostituzione processuale, sancito dall’art. 81 c.p.c., e nelle norme del Codice del consumo. Il Codice del consumo prevede, infatti, che gli enti esponenziali in possesso dei requisiti di rappresentatività di cui all’art. 137 possano iscriversi nell’elenco delle associazioni rappresentative a livello nazionale, legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti (art. 139). Dette associazioni sono titolate ad invocare provvedimenti inibitori di comportamenti lesivi, nonché ad esercitare azioni riparative del danno subito (art. 140). Proprio a partire dal dato letterale dell’art. 140 Codice del consumo, si è sviluppato un orientamento giurisprudenziale che sostiene la tassatività sia delle ipotesi di legittimazione straordinaria degli enti esponenziali, sia delle azioni esperibili, in relazione alle quali, a detta di tale indirizzo, sarebbe sempre necessaria un’espressa previsione di legge.
Si reputa, pertanto, opportuno soffermarsi di seguito su questi aspetti.
3. Interessi diffusi e collettivi: approdi in tema di legittimazione (soggettiva) ad agire delle associazioni (Ad. Plen. n. 6/2020). La funzione tutoria dell’interesse collettivo come interesse proprio dell’associazione di consumatori.
Aspetto preliminare nella risoluzione delle questioni poste, e tutt’altro che secondario, è quello attinente agli interessi collettivi ed al loro strettissimo legame, tale da valere a qualificarli, con la sussistenza di un ente esponenziale di un gruppo non occasionale. In assenza di un ente che sia predisposto per la loro tutela, non potrà più parlarsi di interessi collettivi, ma semplicemente di interessi diffusi, interessi di mero fatto non tutelabili giuridicamente, a carattere adespota, riferibili in modo indistinto ad una collettività di soggetti[10].
La questione definitoria circa l’interesse collettivo e la sua distinzione rispetto agli interessi diffusi, non è sempre di agevole risoluzione, dal momento che spesso le due espressioni vengono usate promiscuamente, ma è, tuttavia, essenziale scioglierla, perché è proprio sul riconoscimento degli interessi collettivi che si fonda la pronuncia in esame, confermando ancora una volta il superamento della teoria che ancora la legittimazione ad una specifica previsione normativa.
La Terza sezione, collocandosi nel solco dell’orientamento tradizionale, cd. “del doppio binario”, abbracciato da ultimo dalla citata Ad. Plen. n. 6/2020 riconosce la legittimazione generale ad agire in capo alle associazioni, superando il contrasto giurisprudenziale interno allo stesso Consiglio di Stato sorto in passato[11].
La legittimazione a ricorrere in capo alle associazioni di consumatori e utenti deve dunque desumersi, laddove presente, da un riconoscimento legislativo (quale l’iscrizione nel pubblico registro di cui all’art. 127 del Codice del consumo), ma, in assenza di esplicita tipizzazione legislativa, deve ricavarsi dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza[12]. Si fa riferimento, in particolare, a degli “indici di selezione”[13] consistenti: nel fine istituzionale statutario di protezione di un bene a fruizione collettiva; nell’assetto organizzativo dell’ente che deve essere adeguato rispetto al raggiungimento del fine, e che deve comunque presentare il carattere della stabilità e rappresentatività della collettività di riferimento; infine, l’organismo deve essere portatore di un interesse localizzato, in altre parole deve esserci un collegamento territoriale tra l’area di afferenza dell’attività dell’ente e la zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso[14].
Ne consegue l’inesistenza di qualunque automatismo tra la mancata iscrizione nel registro dei consumatori e l’assenza della legittimazione ad agire. Semplicemente, accanto alla legittimazione straordinaria di matrice legislativa, ve ne è una di carattere generale che si giustifica in ragione delle caratteristiche dell’azione giurisdizionale amministrativa e della funzione di tutela dell’interesse collettivo che, per la loro natura stessa, le associazioni sono chiamate a svolgere[15].
È evidente una chiara preferenza del giudice amministrativo per l’associazionismo come canale legittimante principale per la tutela degli interessi degli utenti e consumatori. Non a caso la Plenaria cui la sentenza in commento espressamente rimanda, opera un’approfondita ricostruzione dell’interesse collettivo inteso come risultato della “cd. collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo della sua entificazione”.
Tuttavia, la distinzione tra le due espressioni, interesse collettivo e diffuso, non è così agevole, tenuto anche conto del fatto che spesso la stessa dottrina e giurisprudenza fa ricorso indistintamente all’uno o all’altro termine oppure fa ricorso ad espressioni onnicomprensive, quali quelle di “interessi superindividuali” o “sovraindividuali” oppure ancora “metaindividuali”. Se tradizionalmente, e perlomeno in teoria, gli interessi collettivi si distinguono da quelli diffusi, in quanto sono pertinenti ai membri di una collettività definita e sono al contempo interessi propri della collettività per mezzo del gruppo organizzato che ne diviene portatore[16], nella pratica la questione definitoria si fa più complessa; proprio per questa ragione sembra essenziale prevedere il doppio binario di accesso alla tutela, per evitare che vengano a crearsi delle lacune in quei casi, come quelli previsti dal codice del consumo, in cui gli interessi in questione sembrano assumere più la connotazione di interessi diffusi, posto che consumatori ed utenti comprendono al loro interno soggetti legati da un’aggregazione solo occasionale, che formano un gruppo dalla conformazione indefinita e al cui interno si conservano chiaramente le diverse individualità[17].
Non a caso può riconoscersi un vero e proprio percorso di progressivo innalzamento della tutela degli interessi diffusi o “adespoti”, radicata negli artt. 2 e 118 Cost.: in prima battuta con il riconoscimento, operato in via legislativa, della titolarità degli interessi diffusi in materia ambientale in capo alle associazioni ambientaliste, e successivamente per mezzo dell’orientamento consolidatosi in seno alla giurisprudenza. Si tratta, sostanzialmente, di un processo volto a riequilibrare lo squilibrio dei rapporti tra privati ed il potere pubblico, nell’ottica di un innalzamento delle garanzie nei confronti dell’Amministrazione e della piena attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost. comma 4 quale strumento di resistenza contro il rischio di una regressione in termini di tutela[18] .
È evidente che in base alla nozione stessa di interesse collettivo, la critica alla teoria del doppio binario, imperniata sulla presunta violazione dell’art. 81 c.p.c. perde completamente di consistenza. È lo stesso processo di soggettivizzazione dell’interesse che lo rende imputabile all’ente esponenziale che, di conseguenza, è legittimato all’immediata impugnazione delle disposizioni ritenute lesive di siffatto interesse collettivo. Se si riconosce l’interesse collettivo come “sintesi e sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria” [19], che viene a dotarsi della protezione propria dell’interesse legittimo[20] ai fini dell’azionabilità in giudizio, totalmente inconferente appare di conseguenza la sostituzione processuale.
Quanto, infine, al profilo strettamente consumeristico, altro elemento – letto congiuntamente al principio generale di divieto di sostituzione processuale di cui all’art. 81 c.p.c. – al fine di escludere la legittimazione soggettiva delle ricorrenti, ci viene in soccorso il dato della lettura sistematica della nuova disciplina del titolo VIII bis c.p.c., in cui sono confluiti gli art. 139 e 140 del Codice del consumo. Secondo il Supremo Consesso è la stessa conformazione della nuova class action civilistica, esperibile ex art. 840 bis c.p.c. in generale da tutti coloro che lamentano una violazione di diritti individuali omogenei, a testimoniare una graduale espansione (da inscriversi in quel discorso di percorso progressivo di innalzamento della tutela degli interessi diffusi ut supra) verso la dimensione collettiva di tutte quelle situazioni omogenee e seriali emergenti nell’ambito del consumo[21].
4. Sulla legittimazione (oggettiva) delle associazioni: azioni di accertamento e annullamento.
Appurata la sussistenza della legittimazione soggettiva delle dette associazioni, sorge però, consequenzialmente, il problema di individuare la tipologia di azioni esperibili. Quanto alla legittimazione oggettiva, la Terza sezione conferma quanto statuito dal Tar Lazio, ritenendo inammissibile la proposizione di una domanda risarcitoria, dal momento che il pregiudizio, nel caso di specie, riguarda esclusivamente la lesione delle posizioni giuridiche dei singoli e che verrebbe altrimenti a crearsi, in questo caso sì, un’inammissibile sostituzione processuale. La domanda delle ricorrenti viene, dunque, ritenuta ammissibile, ma solo se riqualificata come domanda di accertamento.
Tale riqualificazione potrebbe destare dei dubbi, ma nel caso di specie non sembra esserci alcun vizio di ultrapetizione del Collegio, che motiva come di fatto vi fosse uno scollamento tra la tutela risarcitoria, formalmente richiesta dalle ricorrenti, e quella di accertamento, sostanzialmente risultante dal tema decisorio introdotto dalle ricorrenti, nonché dalla posizione e dalle eccezioni assunte dalla parte resistente. Quello delle associazioni[22] è di fatto un interesse all’accertamento del mancato esercizio del potere di controllo, “ossia un interesse a verificare che la P.A. ha errato nel non esercitare i doverosi controlli”. Le associazioni avrebbero allora esercitato un’azione volta ad accertare la violazione di doveri istituzionali da parte dei Ministeri. Ed è proprio la dimensione generale della violazione lamentata, per sua attitudine incline a coinvolgere una pluralità di soggetti, a giustificare la legittimazione degli enti esponenziali all’esercizio dell’azione diretta all’accertamento della violazione; accertamento che costituisce il “presupposto (necessario, ancorché non sufficiente) della responsabilità risarcitoria delle amministrazioni convenute”.
Dunque, non domanda risarcitoria, ma domanda di accertamento, che possa costituire la base per l’attivazione di ulteriori iniziative nei riguardi delle amministrazioni da parte dei singoli utenti e consumatori, senza che per questo sia scalfito l’interesse[23] e la legittimazione delle associazioni alla proposizione della domanda di mero accertamento[24].
Se la pronuncia in esame ha definitivamente e ulteriormente chiarito il discorso della legittimazione soggettiva, quanto alla tipologia delle azioni esperibili, la sentenza si arresta però al riconoscimento dell’esperibilità azione di accertamento e, al più, mediante il rinvio alla Plenaria del 2020, di quella di annullamento. È evidente che nel caso di specie, dovendosi verificare l’illegittimità del comportamento omissivo dei Ministeri, non sussiste alcun interesse all’esperimento dell’azione di annullamento, ma è bene tuttavia ricordare che la legittimazione in seno agli enti esponenziali in tal senso è stata pacificamente riconosciuta dal Supremo Consesso consacrando l’intervento del legislatore in materia ambientale che consente alle associazioni ambientaliste di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”[25].
Deve allora necessariamente superarsi quell’orientamento che, argomentando della mancata espressa previsione nell’ambito del codice del consumo dell’azione di annullamento di provvedimenti amministrativi, e postulata la tassatività delle azioni esperibili dalle associazioni a tutela dei consumatori, porta a dubitare della legittimazione generale di queste in ordine alla tutela di interessi collettivi. Una volta “legittimata” l’associazione, sia che la legittimazione scaturisca dalla legge che dal possesso dei cd. indici di selezione menzionati, questa sarà abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque certamente l’azione di annullamento.
Ed anzi, privare gli enti esponenziali di tale tutela, configurando una legittimazione selettivamente limitata quanto al diritto di azione, significherebbe garantire una tutela solo “monca”, privando di conseguenza la situazione soggettiva dell’ordinario diritto di derivazione costituzionale che le è proprio. La naturale conseguenza di una legittimazione solo straordinaria, e soprattutto tipizzata strettamente dal punto di vista delle azioni esperibili, comporterebbe inevitabilmente una frustrazione dell’art. 24 Cost., spezzando quell’irrinunciabile legame tra titolarità della situazione soggettiva sostanziale e accesso al giudice[26].
[1] Culminati, tra tutte, nella pronuncia Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6. Tale sentenza paradigmatica, baluardo del progresso giurisprudenziale raggiunto, è ben salda nel dimostrare che l’evoluzione del dato normativo positivo non può in alcun modo comportare una diminuzione della tutela (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 136)
[2] Nel solco dell’orientamento giurisprudenziale, il cui caposaldo può rinvenirsi in Cons. stato, Sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303, che contrappone a quello tradizionale la specialità di una legittimazione a ricorrere tassativamente prevista nei soli casi indicati dalla legge.
[3] Che risulterebbe, secondo il Tar, requisito ineludibile affinché vi sia legittimazione a ricorrere e resistere in giudizio per la tutela degli utenti dei servizi.
[4] Per maggiore immediatezza si continuerà a fare riferimento agli articoli 137, 139 e 140 del Codice del consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206; si tenga però in considerazione che tali articoli sono oggi trasposti nel nuovo titolo VIII bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe, per effetto della legge 12 aprile 2019, n. 31.
[5] I Ministeri convenuti avevano, infatti, sollevato la questione inerente al difetto di giurisdizione con semplice eccezione formulata in memoria e, dunque, irritualmente rispetto a quanto prescritto dall’art. 9 cpa, che pone in capo alle parti l’onere di far valere il difetto di giurisdizione mediante la proposizione di uno specifico motivo di gravame, potendosi rilevare tale difetto d’ufficio solo nel primo grado di giudizio (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. III, sentenza 29 aprile 2019 n. 2697).
Per tale motivo, nella sentenza in esame la Terza Sezione ritiene, in mancanza di tempestivo appello incidentale, di non poter esaminare la questione, chiarendo però poi, tuttavia, che in un caso analogo il Tar Lazio aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Tale decisione richiama consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze nn. 6324/2020, 15916/2005 e 3134/2001) che ha qualificato come diritto soggettivo la posizione di chi lamenta un danno da omessa vigilanza, poiché non vi è alcuna relazione diretta tra la situazione giuridica vantata e il potere amministrativo dell’Autorità istituzionalmente titolare della relativa funzione. Apparterrebbe, pertanto, “alla giurisdizione ordinaria la cognizione delle controversie riguardanti le pretese risarcitorie correlate all’omessa vigilanza da parte di organismi istituzionalmente preposti a funzioni di controllo e regolazione di particolari settori economici” (Cons. Stato, Sez. III, 28 maggio 2021 n. 4116, p. 6).
[6] Nel dettaglio, i criteri elaborati dalla giurisprudenza impongono di accertare la sussistenza della legittimazione delle associazioni (che non lo siano già ex lege) con riguardo alla sussistenza di tre presupposti: gli organismi devono perseguire statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela del bene a fruizione collettiva, devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, sentenza del 16 febbraio 2010 n. 885).
[7] Riferendosi essenzialmente solo al Codacons, avendo ritenuto l’AIDMA carente di legittimazione in sé in quanto non iscritta al registro di cui all’art. 137, come richiesto dall’art. 140 del Codice del consumo.
[8] Deve verificarsi in concreto se il giudicato sia direttamente azionabile dal singolo utente; come si ricava dall’applicazione analogica dell’art. 2909 c.c., la tutela di mero accertamento dispiega la propria efficacia inter partes, per cui, diversamente da quanto accade rispetto alla sentenza di annullamento, efficace erga omnes, chi non sia parte non rimane pregiudicato dalle statuizioni della sentenza, né può giovarsi dei suoi effetti favorevoli.
[9] Cfr. ancora Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6.
[10] Nel momento in cui un gruppo omogeneo (e non occasionale) si organizza in un ente esponenziale, questo diviene il centro di imputazione di un interesse metaindividuale, il quale “è, per un verso, astrattamente riferibile a ciascuno degli individui facenti parte del gruppo sociale che si riconosce nel soggetto collettivo, mentre, per altro verso, risulta, per così dire, sottratto alla sfera di disponibilità del singolo, in quanto si radica nel soggetto collettivo medesimo che ne diviene l’esclusivo titolare e portatore nel giudizio amministrativo” (R. Ferrara, Interessi collettivi e diffusi – ricorso giurisdizionale amministrativo, in E. d. D., 487).
[11] Si veda Cons. stato, Sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303.
[12] È evidente la differenza, in termini di ricadute applicative, tra quella concezione “iperpositivistica – per cui il diritto di ricorso può derivare solo da una norma che, concernendo un bene della vita, individui in modo intenzionale il destinatario della protezione da essa assicurata nella fruizione del bene stesso” e quella che invece legittima in via giurisprudenziale soggetti “terzi”, che, in base al semplice dato normativo, sarebbero privati dell’accesso alla tutela. Si rinvia sul punto, per una trattazione accurata, a P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 122 ss.
[13] Espressione adoperata in tal senso da A. Sandulli, Il procedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, II, Milano, 2003, 1145.
[14] È evidente la genesi, da far risalire alle fattispecie di tutela ambientale, di quest’ultimo requisito (criterio cd. della vicinitas). È proprio quest’ultimo aspetto, come si legge in P.L.Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., 123, a risultare paradigmatico come fattore genetico della legittimazione processuale: quello della vicinitas è un dato metanormativo, fattuale, ma che viene ritenuto dal giudice sufficiente per l’ammissibilità del ricorso, purché vi sia anche la prova di un concreto pregiudizio derivante dall’atto gravato.
[15] Sul riequilibrio del rapporto tra “generalità” e “specialità” della legittimazione a ricorrere si legga S. Mirate, La legittimazione a ricorrere delle associazioni di consumatori tra “generalità” e “specialità”, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6, in Giornale di diritto amministrativo, 2020, 4, 520 ss.
[16] C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2012, 39.
[17] Sul carattere sia collettivo che individuale delle figure giuridiche del consumatore e dell’utente si legga S. Mirate, La figura del cittadino utente/consumatore, in P. Cendon, C. Pongibò, Il risarcimento del danno al consumatore, Milano, 2014, 535 ss.
[18] Sul ruolo che il principio di sussidiarietà orizzontale ha rivestito nella citata pronuncia della Plenaria, quale fonte di accesso al giudizio, nonché sulle sue “potenzialità fortemente innovative”, si rimanda ancora a P.L.Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., 143 ss.
[19] Ad. Plen. n. 6/2020 punto 6.2.
[20] Sulle criticità scaturenti dall’equiparazione con l’interesse legittimo, dalla ricostruzione a carattere ibrido a metà tra l’interesse pubblico e quello legittimo e dai pericoli della prassi creativa del giudice amministrativo in merito alle posizioni soggettive si legga G. Mannucci, La legittimazione a ricorrere delle associazioni: fuga in avanti o ritorno al passato?, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6, in Giornale di diritto amministrativo, 2020, 4, 529 ss.
[21] S. Mirate, La figura del cittadino utente/consumatore: profili pubblicistici, in Resp. civ. prev., 2020, 1, 40 ss.
[22] Si legge nella sentenza in commento alle pagine 9 e 10.
[23] Si legge ancora nella sentenza in commento “Se è vero che le associazioni dei consumatori non possono intentare azioni risarcitorie di classe, né avanzare azioni risarcitorie per se stesse, nulla esclude tuttavia – come del resto può trarsi argomento sistematico dall’art. 34 del c.p.a. – che tali enti possano avere interesse all’accertamento dell’illegittimità degli atti o delle omissioni delle amministrazioni per l’interesse della categoria”.
[24] E al più di annullamento, come sancito dalla già citata Ad. Plen. n. 6/2020.
[25] Art. 18 comma 5 della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), istitutiva del Ministero dell’Ambiente.
[26] Sulla configurazione della legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo in rapporto al tema delle azioni giurisdizionali si legga C. Cudia, Legittimazione a ricorrere e pluralità delle azioni nel processo amministrativo (quando la cruna deve adeguarsi al cammello), in Dir. pubbl., 2019, 2, 393 ss.
REFERENDUM “CANNABIS LEGALE” – IL QUESITO
È partita la macchina referendaria "Cannabis Legale".
Secondo fonti di stampa, la campagna referendaria ha raccolto 100.000 sottoscrizioni soltanto nelle prime 24 ore per poi superare, in pochi giorni, il numero di 600.000 firme, a ciò facilitata anche grazie all'ampia diffusione degli strumenti di firma da remoto (e rispetto al tema della democrazia diretta "digitale" cfr. Nello Rossi, “Tra Spid e derive plebiscitarie”, La Stampa 18 settembre 2021).
La grande risposta dei sottoscrittori è senz'altro indice che, nella sensibilità in materia di stupefacenti, un’ampia fetta dell'opinione pubblica (a cui la campagna è presentata come referendum per la cannabis legale) non associ alle droghe leggere, quantomeno alla cannabis, alcun disvalore, tale da meritare la persistente soggezione a pena.
Giustizia Insieme apre un momento di riflessione sulla proposta referendaria, muovendo dal quesito.
“Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza“, limitatamente alle seguenti parti:
Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”;
Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”;
Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni;”?”
In disparte ogni considerazione sulla proposta per quanto riguarda l'art. 75: il quesito ne propone un'abrogazione parziale, con esclusivo riferimento alla sanzione amministrativa più avvertita nell’esperienza comune, quella incidente sulla patente di guida, e questa sembra essere una soluzione opportuna onde far fronte alle obiezioni già rese dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 27 del 10 febbraio 1997, dichiarativa dell'inammissibilità di una precedente proposta referendaria in materia.
Soffermando l'attenzione sulla parte relativa all'art. 73, in primo luogo il quesito punta ad abrogare la condotta di coltivazione dal comma 1.
È noto che nei più recenti approdi giurisprudenziali, con riferimento alla coltivazione, in concreto ne è comunque esclusa la punibilità nei casi di inoffensività della condotta, quando la coltivazione sia trascurabile, sì da rendere irrilevante l'aumento di disponibilità della sostanza e non prospettabile alcun pericolo di sua diffusione.
Mentre la proposta viene presentata, all'opinione pubblica, come volta alla legalizzazione, ma meglio sarebbe dire a togliere dall'area dell'illecito la piccola coltivazione di cannabis, per uso personale, si può osservare che, invero, con riferimento a tale tipologia di coltivazione il quesito non sia particolarmente utile, trattandosi di coltivazione capace di sfuggire già oggi, in aderenza agli approdi giurisprudenziali sopra richiamati, dall'area del penalmente rilevante.
Per come il quesito è strutturato, piuttosto, la condotta di coltivazione perderebbe rilevanza penale tout court, ciò a prescindere dalle dimensioni della coltivazione e dalla sua offensività in concreto; ciò, inoltre, anche a prescindere dalla specie coltivata, è a dire non soltanto con riferimento alla cannabis, ma anche con riferimento ad ogni tipologia di sostanza stupefacente la cui produzione non sia il frutto esclusivo di una sintesi chimica, e questo, probabilmente, anche ben oltre le intenzioni dei promotori del referendum (o almeno le intenzioni come dichiarate).
Si pensi, ad esempio, a sostanze stupefacenti quali cocaina ed eroina; il complessivo ciclo di produzione ben può essere suddiviso in più segmenti, comprendendo tanto un segmento iniziale di coltivazione quanto un segmento successivo, distinto, di estrazione e/o raffinazione; in quest'ottica ne discenderebbe la liceità di una condotta che si sostanzi nella sola cura del segmento relativo alla coltivazione (salvo il necessario coordinamento interpretativo con l'art. 28 d.p.r. 309/90, che non è fatto oggetto della consultazione).
Suscita, se possibile, ancora più perplessità l'intervento prospettato in relazione al quarto comma dell'art. 73, è a dire l'abrogazione delle parole "la reclusione da due a 6 anni e"; infelice appare l'etichetta di "cannabis legale".
Il quesito propone l'eliminazione della pena detentiva in relazione a qualunque condotta oggi illecita legata alla cannabis, senza operare alcun distinguo in ordine alla concreta offensività delle condotte (piccolo spaccio al dettaglio, grosso spaccio organizzato): limiti dello strumento referendario, potendosi difficilmente ipotizzare un quesito che, in relazione alla disposizione del quarto comma, possa prospettare l’abrogazione di talune condotte sì e di altre no. Il rischio, legato ai limiti dello strumento, è quello di dar vita non ad un mercato disciplinato, ma ad un mercato lasciato in mano alla criminalità.
La “depenalizzazione” di qualsivoglia condotta legata alle droghe leggere, senza distinguo sull’offensività delle condotte, intanto ha senso in quanto sia stata operata, a monte, una valutazione in ordine alla piena inoffensività dell'oggetto della condotta; operata una tale valutazione, tuttavia, appare contraddittoria, frutto di un compromesso al ribasso, l'idea di abrogare la sola pena detentiva, mantenendo comunque la previsione del fatto come reato, seppure punito con la sola pena pecuniaria. Senza considerare, inoltre, il necessario coordinamento interpretativo con il comma quinto, onde evitare il paradosso per cui una condotta riconducibile al quarto comma dell'art. 73, in ipotesi soggetta alla sola pena pecuniaria, ove di lieve entità debba essere più gravemente punita.
Da una parte si evidenziano quindi i limiti dello strumento, attraverso il quale è difficile operare interventi organici in una materia così articolata. Ma lo strumento ha anche in sé il pregio di avere evidenziato, già soltanto in questa prima fase della campagna, una forte sensibilità rispetto alla materia da parte dell'opinione pubblica che, ove si dimostri davvero incalzante, possa far da traino obbligando il legislatore ad una riflessione attenta sulla tematica, che non si limiti a mere strumentalizzazioni elettorali.
La nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati
di Federica Resta*
L’art. 1 del d.l. 132 del 2021 introduce una rilevante riforma della disciplina dell’acquisizione – a fini “di giustizia” – dei tabulati telefonici e telematici. La nuova disciplina si conforma ai principi sanciti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 2 marzo scorso, in linea con un indirizzo giurisprudenziale consolidatosi a partire dal 2014. In sede di conversione del decreto-legge si potrà, peraltro, riflettere su ulteriori profili meritevoli di intervento normativo.
Sommario: 1. L’esigenza di riforma dopo la sentenza del 2 marzo - 2. Il contenuto del decreto-legge - 3. Aspetti ulteriori.
1. L’esigenza di riforma dopo la sentenza del 2 marzo
L’art. 1 del d.l. 132 del 2021 reca un’innovazione importante della disciplina dell’acquisizione – ai fini dell’utilizzo in procedimenti penali – dei tabulati telefonici e telematici.
Come si evince dal preambolo, i presupposti di straordinaria necessità e urgenza ex art. 77 Cost, sottesi al decreto-legge, sono ravvisati nell’esigenza di adeguare la normativa in materia ai principi sanciti dalla sentenza CGUE del 2 marzo scorso, C-746/18. In linea con un filone giurisprudenziale consolidato a partire dalla sentenza Digital Rights dell’8 aprile 2014 (cause riunite C-293/12 e C-594/12),la Corte ha infatti affermato – con l’efficacia generale riconosciutale da Cass., II, sent. n. 28523 del 2021, dal Tribunale di Roma sezione Gip-Gup, decr. 25 aprile 2021 e dal Tribunale di Rieti con l’ordinanza 4 maggio.2021 - che l’acquisibilità processuale dei dati di traffico va da un lato limitata ai soli procedimenti per gravi reati o per gravi minacce per la sicurezza pubblica e, dall’altro, va subordinata all’autorizzazione di un’autorità terza rispetto all’autorità pubblica richiedente.
Il valore conferito dalla disciplina italiana (art. 132 d.lgs. 196 del 2003) alla gravità dei reati (quale requisito idoneo a regolare la distanza cronologica dell’acquisizione e non la sua ammissibilità) non pareva, dunque, del tutto in linea con le affermazioni (non nuove, ma certo più nette) della Corte. E a fortiori, appariva distonica con il contenuto della sentenza la competenza del pubblico ministero all’acquisizione dei tabulati, in assenza del vaglio del giudice.
Tale previsione, infatti – ritenuta sinora legittima dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità - contrastava con la necessità, sottolineata dalla Corte, di un vaglio sulla richiesta di acquisizione da parte di un’autorità terza. L’accento posto dalla Corte nella sentenza del 2 marzo scorso è, infatti, non sulla sola imparzialità o sull’indipendenza ma, in senso proprio, sulla terzietà dell’autorità cui sia demandato il vaglio acquisitivo. Tale rilievo era già stato avanzato dalla Corte con la sentenza Digital Rights e con la Tele2 Sverige (cause riunite C 203/15 e C 698/15) del 21 dicembre 2016, sebbene con riferimento alla nozione lata di “giudice” che la nostra giurisprudenza ha inteso, in parte dequotandolo, come “autorità giudiziaria”. Per questo, è difficile ravvisare nella sentenza del 2 marzo i presupposti per un prospective overruling, dal momento che essa si limita a chiarire, senza però innovare, principi affermati da una giurisprudenza consolidata, che sin dal 2014 aveva affermato come spettasse “al giudice o a un’autorità amministrativa indipendente” l’autorizzazione all’accesso ai dati. La sentenza del 2 marzo si limita a chiarire inequivocabilmente il significato da attribuire alla nozione di “giudice” a questi fini perché sollecitata sullo specifico punto dall’ordinanza di rimessione, ma già la sentenza Digital Rights vi alludeva (§ 62).
Ciò indusse infatti il sen. Casson a presentare, il giorno dopo la sentenza, un’interrogazione al Governo sulle ricadute della pronuncia, in cui si chiedeva “se intendesse proporre o comunque sostenere una rivisitazione della disciplina vigente in tema di data retention, (...) che eventualmente subordinasse anche (magari con la sola eccezione dei "delitti distrettuali" o comunque di criminalità organizzata per i quali può ammettersi la sola richiesta del pubblico ministero) la conservazione dei dati all'autorizzazione del gip, ferma restando, ovviamente, nei casi d'urgenza, la possibilità per il pubblico ministero di disporre la conservazione con proprio decreto, soggetto a convalida solo in fase successiva, sul modello dell'art. 267, c.2, cpp”.
Analogo principio sarebbe stato poi espresso dalla CGUE nel caso Tele2 Sverige (cause riunite C 203/15 e C 698/15) del 21 dicembre 2016, con cui la Corte di giustizia ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2002/58 (riespansa a seguito dell’invalidazione della 2006/24 ad opera della sentenza Digital Rights) ogni previsione interna che, per fini di contrasto dei reati, tra l’altro, legittimasse l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati in assenza di un previo vaglio “del giduice o comunque di un’entità amministrativa indipendente” (punto 2 del dispositivo; § 120), chiarendo che: è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato, in linea di principio, salvo casi di urgenza debitamente giustificati, ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente e che la decisione di tale giudice o di tale entità intervenga a seguito di una richiesta motivata delle autorità suddette presentata, in particolare, nell’ambito di procedure di prevenzione, di accertamento o di esercizio dell’azione penale. Qui, l’alterità tra il “giudice” e l’autorità richiedente chiarisce bene come per “giudice” vada preferibilmente intesa l’autorità terza chiamata a valutare le richieste della parte pubblica .
Benché, dunque, l’esigenza di giurisdizionalizzazione del procedimento acquisitivo dei tabulati fosse già chiara dal 2014, la sentenza del 2 marzo ha sgombrato il campo da ogni possibile dubbio, superando l’indirizzo della giurisprudenza interna volto a ritenere il pubblico ministero autorità legittimamente deputata al vaglio acquisitivo dei tabulati in ragione della sua indipendenza, con “sopravvenuto contrasto tra l’art. 132, c.3, d.lgs. 196 del 2003 e la normativa dell’Unione europea, così interpretata dal giudice europeo, nella parte in cui attribuisce la competenza ad emettere il decreto motivato di acquisizione al pubblico ministero anziché al giudice”.
I principi affermati dalla Corte hanno determinato, in questi pochi mesi, già esiti contrastanti. In un caso, ad esempio, è stata sollevata questione pregiudiziale interpretativa della disciplina europea (Trib. Rieti, ord. 4.5.2021) non ritenendosi esperibile la disapplicazione della normativa interna, disposta invece da altro giudice che ha direttamente autorizzato l’acquisizione dei tabulati, ritenuta indispensabile ai fini probatori e ravvisando la concreta gravità dei reati per cui si procedeva in quanto, a fortiori, riconducibili a quelli che legittimano le intercettazioni ex artt. 266 e 266-bis c.p.p. (Trib. Roma, sez. Gip-Gup, decr.25.4.2021). La Corte di Cassazione (sez. II, sent. 28523/21) ha invece sottolineato l’esigenza di un intervento legislativo che sciolga i nodi non risolti dalla CGUE, la cui sentenza «sembra incapace di produrre effetti applicativi immediati e diretti a causa dell'indeterminatezza delle espressioni ivi utilizzate al fine di legittimare l'ingerenza dell'autorità pubblica nella vita privata dei cittadini».
Condividendo l’esigenza di un intervento legislativo, la segnalazione del Garante per la protezione dei dati personali del 22 luglio invitava il legislatore a “differenziare condizioni, limiti e termini di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico in ragione della particolare gravità del reato per cui si proceda, comunque entro periodi massimi compatibili con il su richiamato principio di proporzionalità”, subordinandone l’acquisizione “all'autorizzazione del giudice, ferma restando, nei casi d'urgenza, la possibilità per il pubblico ministero di provvedervi con proprio decreto, soggetto a convalida solo in fase successiva, sul modello dell'articolo 267, comma 2, c.p.p”. Analoghe indicazioni erano state espresse anche dall’o.d.g. 9/2670-A/10 a prima firma Costa, accolto dal Governo, nella seduta del primo aprile dell’Assemblea della Camera in sede di esame del disegno di legge europea 2019-2020.
2. Il contenuto del decreto-legge
In linea con tali indicazioni, il decreto-legge dispone, all’articolo 1, la piena giurisdizionalizzazione della procedura di acquisizione e la selezione dell’ambito oggettivo di applicazione della procedura stessa, esperibile solo nell’ambito dei procedimenti per reati connotati da una determinata gravità, in presenza di sufficienti indizi e della rilevanza dell’acquisizione ai fini della prosecuzione delle indagini.
Le differenze riscontrabili con la disciplina delle intercettazioni, che pure si mutua nelle coordinate essenziali (attinenti alla sufficienza e non alla gravità indiziaria; alla categoria dei delitti per i quali si ammettono le operazioni; alla rilevanza, anziché l’assoluta indispensabilità investigativa dei dati stessi; ai termini per la convalida nei casi d’urgenza) possono ritenersi del tutto condivisibili, in ragione della minore invasività del mezzo rispetto a quello intercettivo.
In particolare, ai fini della definizione della gravità dei reati per i quali si ammette l’acquisizione dei tabulati, pare ragionevole la previsione della comminatoria edittale massima di tre anni (considerata ad esempio ai fini della emissione del mandato d’arresto europeo dalla decisione quadro 2202/548/GAI), combinata con i parametri, da apprezzare in concreto, della sufficienza indiziaria e della rilevanza investigativa del dato da acquisire e con la previsione ad hoc dei reati di minaccia e molestie telefoniche..
Anche la disciplina della procedura d’urgenza salvaguarda, pur nella peculiarità che ne caratterizza l’oggetto, l’esigenza della giurisdizionalizzazione piena della procedura acquisitiva e della sua limitazione ai soli reati connotati da sufficiente gravità.
Il decreto-legge replica inoltre la previsione (prima presente al comma 3 dell’art. 132) dell’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 2-undecies, comma 3, periodi da terzo a quinto del Codice, nei casi di esercizio dei diritti di cui agli articoli da 12 a 22 del Regolamento; esercizio in questi particolari casi demandato al Garante per la protezione dei dati personali in vece dell’interessato in presenza di esigenze (anche) pubblicistiche prevalenti.
3. Aspetti ulteriori
Gli aspetti ulteriori meritevoli di riflessione, anche ai fini dell’esame parlamentare del d.d.l. di conversione, riguardano, in primo luogo, l’adeguamento della disciplina della durata della conservazione dei tabulati alle indicazioni fornite dalla Corte di giustizia e, in particolare, al principio di proporzionalità enunciato in via generale dall’art. 52, p.1, CDFUE per le limitazioni dei diritti fondamentali.
Va, infatti, considerato che la direttiva CE 2006/24 (la quale prevedeva un termine massimo di conservazione di ventiquattro mesi) è stata invalidata dalla Corte per violazione, in particolare, del canone di proporzionalità (riferibile dunque anche alla durata della conservazione), secondo cui “le deroghe e le restrizioni alla tutela dei dati personali” devono intervenire “entro i limiti dello stretto necessario (sentenze del 16 dicembre 2008, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, C‑73/07, EU:C:2008:727, punto 56; del 9 novembre 2010, Volker und Markus Schecke e Eifert, C‑92/09 e C‑93/09, EU:C:2010:662, punto 77; Digital Rights, punto 52, nonché del 6 ottobre 2015, Schrems, C‑362/14, EU:C:2015:650, punto 92)”.
Il termine di conservazione dei tabulati di settantadue mesi, previsto dalla disciplina vigente, andrebbe dunque ripensato alla luce di tale criterio, richiamato anche dalla più recente sentenza CGUE Privacy International del 6 ottobre 2020, C‑623/17.
Si potrebbe, inoltre, valutare l’opportunità di una giurisdizionalizzazione piena del procedimento acquisitivo dei tabulati anche a fini di prevenzione (art. 226 disp.att. c.p.p.;. 4 d.l. 144/2005, convertito con mod. dalla l. 155/2005 e s.m.i.) per il quale, forse, la competenza del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma o dei procuratori distrettuali potrebbe non ritenersi del tutto in linea con la pronuncia della CGUE. E questo, anche considerando che con la citata sentenza CGUE Privacy International è stato chiarito che la disciplina privacy si applica anche alla data retention effettuata a fini di sicurezza nazionale.
Ma, soprattutto, sarebbe opportuno introdurre una disciplina transitoria che individui le modalità più corrette per condizionare l’utilizzabilità processuale dei tabulati, benché già acquisiti prima della data di entrata in vigore della novella, alla ricorrenza dei presupposti delineati dal decreto-legge, con il vaglio del giudice in sede di convalida.
Se è, infatti, necessario – come riconoscono anche buona parte delle sentenze sinora pronunciatesi – che i principi sanciti dalla Corte (e, dunque, l’attuazione propostane con il decreto-legge) trovino applicazione anche ai procedimenti in corso, spetterebbe al legislatore stabilire, senza rimetterne la soluzione ad oscillanti scelte pretorie, i riflessi della nuova disciplina sul momento valutativo della prova già acquisita secondo la previgente normativa, viziata da incompatibilità pur sopravvenuta con la giurisprudenza europea.
*dirigente del Garante per la protezione dei dati personali.
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non impegnano l’Autorità
Il “dopo Cilfit”. Una sentenza morbida della Corte di Giustizia sul rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza-Corte giust. 6 ottobre 2021,C‑561/19-.
Con sentenza pubblicata il 6 ottobre 2021 la Grande Sezione della Corte di Giustizia ha affrontato l’attesa questione della persistenza dei criteri fissati dalla sentenza Cilfit per il rinvio pregiudiziale del giudice nazionale di ultima istanza, prendendo lo spunto da un rinvio pregiudiziale sollevato dal Consiglio di Stato italiano.
Giova ricordare che la ratio principale dell’obbligo di rinvio pregiudiziale disciplinato dall’art.267, 3^ par.TFUE, è quella di impedire il formarsi o il consolidarsi di una giurisprudenza nazionale che rechi errori di interpretazione o un’erronea applicazione del diritto UE- Corte giust. 15 settembre 2005, causa C495/03, Intermodal Transports, punto 29; Corte giust.24 maggio 1977, causa C-107/76, Hoffman-La Roche, p.5-.
Tale obbligo è commisurato alla posizione strategica di cui godono le corti supreme negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, nel rispetto del loro tradizionale ruolo di unificazione del diritto, dette corti sono tenute ad assicurare il rispetto, da parte degli altri giudici nazionali, della corretta ed effettiva applicazione del diritto eurounitario. Inoltre, esse si occupano degli ultimi ricorsi destinati a garantire la tutela dei diritti che il diritto UE conferisce ai singoli- Concl. Avv. Gen Yves Bot presentate il 24 aprile 2007 nella Causa C2/06-.
In questa prospettiva la risalente sentenza della Corte di Giustizia 6 ottobre 1982, Cilfit - ebbe a chiarire che i giudici nazionali le cui decisioni non possono costituire oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno «sono tenuti, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essi, ad adempiere il loro obbligo di rinvio, salvo che abbiano constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi».
È dunque questo il contesto nel quale matura la decisione del 6 ottobre 2021, affidata alla Grande Sezione per l'importanza del tema trattato.
Tale sentenza, preceduta dalle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, alla quali la Rivista ha dedicato un approfondimento – cfr.G. Martinico-L. Pierdominici, Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management di Giuseppe Martinico e Leonardo Pierdominici – ha affermato i seguenti principi:
L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi.
La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.
Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.
Riservando a successivi interventi l’analisi approfondita della pronunzia si coglie, a prima lettura, una prospettiva di apparente continuità della Corte di giustizia rispetto ai sedimentati criteri fissati per stabilire quando il giudice nazionale di ultima istanza ha l’obbligo di rimettere la decisione interpretativa alla Corte di Lussemburgo.
Rimangono, infatti, inalterati i criteri che il giudice nazionale di ultima istanza deve considerare per astenersi dal sollevare il rinvio pregiudiziale – a) quando la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale o nell’ambito del medesimo procedimento nazionale; b) qualora una giurisprudenza consolidata della Corte risolva il punto di diritto di cui trattasi, quale che sia la natura dei procedimenti che hanno dato luogo a tale giurisprudenza, anche in mancanza di una stretta identità delle questioni controverse; c) qualora l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi -.
La Corte di giustizia, tuttavia, compie un evidente passo in avanti, nel tentativo di circoscrivere meglio il compito del giudice nazionale, al fine di evitare che un ricorso massiccio alla Corte di Lusseburgo possa in definitiva pregiudicare la funzione ed il ruolo della Corte di Giustizia. E lo fa sviluppando in modo articolato alcune riflessioni sul “ruolo” del giudice nazionale nel sistema di protezione offerto dalla giurisdizione nazionale UE.
In questa prospettiva la Corte UE non manca di sottolineare che per verificare se l’interpretazione del diritto UE s’imponga senza lasciare adito a ragionevoli dubbi il giudice nazionale di ultima istanza “…prima di concludere nel senso dell’esistenza di una situazione di tal genere deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe altresì ai giudici di ultima istanza degli altri Stati membri e alla Corte”.
Irrompe, così, sulla scena una dimensione transanazionale della giurisdizione nazionale quando essa si occupa del diritto UE, la quale dovrà indossare un cappello che va ben oltre il suo ruolo di giudice interno per assumere davvero le vesti del giudice UE. Compito improbo, potrebbe sembrare, che tuttavia la Corte di giustizia prova a circoscrivere.
Dunque, il giudice dovrà valutare le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, le particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e il rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione, senza nemmeno tralasciare le difficoltà che possono derivare dall’esistenza di divergenze linguistiche fra le disposizioni del diritto dell’Unione.
Ma la Grande Sezione si premura anche di chiarire che se un giudice nazionale di ultima istanza non può certamente essere tenuto a effettuare un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione, lo stesso dovrà comunque tener conto delle divergenze tra le versioni di cui è a conoscenza, segnatamente quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate, senza nemmeno tralasciare di verificare se entrano in gioco nozioni autonome - regolate dal diritto UE- come anche i criteri ermeneutici proprio del diritto UE.
Solo all’esito di tali verifiche il giudice potrà ritenere l’assenza di elementi atti a far sorgere un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta del diritto dell’Unione e così astenersi dal sottoporre alla Corte di Giustizia una questione di interpretazione del diritto UE e risolverla sotto la propria responsabilità.
La Corte di giustizia non manca poi di aggiungere che la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di esse - alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce - appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione.
Particolare valore assumeranno, ancora, eventuali contrasti giurisprudenziali interni al giudice di ultima istanza nazionali o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale.
In definitiva, chiarisce la Corte, se l’obiettivo della procedura pregiudiziale è quello di perseguire l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione una particolare attenzione alle caratteristiche proprio del diritto UE e delle sue ricadute in altri Paesi diversi da quello in cui sorge il dubbio sul rinvio non potrà essere trascurata.
All’individuazione dei canoni da verificare per disporre o meno il rinvio pregiudiziale la Corte UE aggiunge, in chiusura, forse quello maggiormente caratterizzante, rivolto a richiedere ai giudici di ultima istanza un’ulteriore responsabilizzazione in ordine al loro ruolo di raccordo con la Corte di giustizia. Ciò si realizza richiedendo al giudice nazionale un particolare onere motivazionale sulle ragioni che lo hanno indotto a non sollevare il rinvio pregiudiziale.
Rileva infatti la Corte che “allorché un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno ritenga, per il fatto di trovarsi in presenza di una delle tre situazioni menzionate al punto 33 della presente sentenza, di essere esonerato dall’obbligo di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, la motivazione della sua decisione deve far emergere o che la questione di diritto dell’Unione sollevata non è rilevante ai fini della soluzione della controversia, o che l’interpretazione della disposizione considerata del diritto dell’Unione è fondata sulla giurisprudenza della Corte, o, in mancanza di tale giurisprudenza, che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice nazionale di ultima istanza con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.”
In chiusura, la Corte di giustizia non manca poi di fornire risposta ai dubbi espressi dal Consiglio di Stato in ordine alla possibilità/obbligo del giudice nazionale di disporre il rinvio sulla base di motivi esposti dalle parti in violazione delle regole procedurali interne, senza che il giudice di Lussemburgo abbia sul punto fornito elementi di particolare novità rispetto alla propria sedimentata giurisprudenza. Ciò che dimostra ancora di più come il rinvio pregiudiziale deciso dalla Grande Sezione abbia costituito davvero l’occasione per modificare, senza particolari scossoni e movimenti tellurici, il sistema sedimentato attorni ai criteri Cilfit, alla ricerca di un delicato punto di equilibrio fra contrapposte esigenze dei giudici di diritti UE - nazionali e della Corte di Giustizia - coinvolti a vario titolo nel dialogo fra le Corti.
Il processo amministrativo dopo l’estate del 2021 di Francesco Volpe
Sommario: 1. Lo scopo dell’intervento. – 2. Le nuove Regole Tecniche sul processo telematico e l’istituzionalizzazione delle udienze da remoto. – 3. Il procedimento seguito per l’emanazione delle nuove Regole Tecniche, tra terzietà del giudice e partecipazione dei soggetti interessati. – 4. Inattitudine del rito da remoto a soddisfare allo scopo di smaltire l’arretrato. – 5. Il nuovo ruolo paragiurisdizionale del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. – 6. La complicazione dei riti. - 7. Conclusioni.
1. Lo scopo dell’intervento.
La consistentissima produzione normativa che ha caratterizzato l’estate del 2021 ha toccato anche il processo amministrativo, con provvedimenti apparentemente minori e disorganici, ma che - se considerati nel loro insieme – possono produrre qualche ripercussione sull’impianto generale oltre a ispirare riflessioni più ampie sulla attuale efficacia complessiva del rito.
Cercherò di passarli in rassegna ugualmente senza pretese di organicità, salvo aggiungere qualche considerazione generale a mo’ di chiusura.
2. Le nuove Regole Tecniche sul processo telematico e l’istituzionalizzazione delle udienze da remoto.
Innanzi tutto, va segnalato che, con proprio decreto del 28 luglio 2021, il Presidente del Consiglio di Stato è tornato – per la terza volta da quando ne ha assunto la competenza – a esercitare la funzione di disciplina del processo telematico, sostituendo tutta la disciplina precedentemente in vigore.
Le differenze tra le vecchie e le nuove Regole Tecniche non sembrano sostanziali, se non per il fatto che viene data una disciplina organica delle c.d. udienze da remoto.
Ci si potrebbe stupire della cosa, posto che con il 31 luglio è cessato il regime che prevedeva tali forme di udienze, che erano state istituite in occasione dell’emergenza legata all’epidemia da Covid.
In realtà, non è così.
In ragione dell’art. 17, comma 6, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, le udienze da remoto sono state recepite in via ordinaria, nel processo amministrativo, per quanto riguarda lo speciale rito, che lo stesso art. 17 introduce, relativo alle udienze destinate allo smaltimento dell’arretrato.
Si tratta di un processo alle cui udienze i magistrati partecipano su base volontaria, con la conseguenza che è difficile prevedere cosa possa avvenire nel caso in cui non si reperiscano adesioni in tal senso.
Ugualmente è poco chiaro, nel silenzio della legge, se la partecipazione a tali udienze sarà fatta oggetto di una particolare remunerazione e, soprattutto, se sia consentito, ai magistrati che vi prendono parte, di istruire e relazionare su controversie in eccedenza ai c.d. carichi di lavoro che, come è noto, determinano il numero massimo di questioni che il singolo magistrato può contemporaneamente seguire.
In effetti, l’art. 17 altro non dice se non che “la partecipazione dei magistrati alle udienze straordinarie di cui al comma 5 costituisce criterio preferenziale, da parte del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, nell’assegnazione degli incarichi conferiti d’ufficio”.
3. Il procedimento seguito per l’emanazione delle nuove Regole Tecniche, tra terzietà del giudice e partecipazione dei soggetti interessati.
Anche senza considerarne i contenuti, vi sono altri aspetti della nuova disciplina del processo telematico che meritano di essere messi in evidenza.
In effetti, il decreto in parola è stato assunto dal Presidente del Consiglio di Stato dopo aver sentito il Consiglio di Presidenza della Giustizia ammnistrativa, ma senza che siano state interpellate le “associazioni specialistiche maggiormente rappresentative”, come invece era stato previsto dall’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, con il quale era stato disposto il trasferimento della competenza regolatrice in materia dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Presidente del Consiglio di Stato stesso.
L’omesso passaggio procedimentale, da un punto di vista formale, è del tutto corretto.
Infatti, il successivo art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 ha previsto che la nuova disciplina delle regole tecniche sul p.a.t. potesse, fino al 31 luglio 2021, prescindere dai pareri previsti dal citato art. 4. In tal senso, dunque, si è proceduto, con l’emanazione delle nuove Regole Tecniche avvenuta qualche giorno prima della scadenza di detto termine.
Sul punto, tuttavia, mi sembra di cogliere una sostanziale incoerenza di fondo. Tanto il d.l. n. 28/2020 quanto il d.l. n. 137/2020 appartengono alla normativa emergenziale, collegata alla vicenda epidemica. È dunque difficile comprendere perché un parere che, nell’aprile 2020 (d.l. n. 28), non era considerato pregiudizievole tenendo conto delle necessità di quel momento sia diventato tale a ottobre dello stesso anno (d.l. n. 137/2020) e in circostanze storiche pressoché invariate.
Tanto più che, quando il trasferimento delle competenze venne attuato, vi fu chi criticò la misura (e riconosco di essere stato tra quelli). Si era sostenuto, infatti, che il giudice deve essere terzo sia rispetto alle parti sia rispetto alla normativa, sostanziale e processuale, che è chiamato ad applicare, a pena di sbilanciare la posizione delle parti nel processo.
I dubbi che allora emersero vennero tuttavia tacitati proprio in ragione della maggiore incisività che avrebbero avuto le associazioni professionali di categoria, per il mezzo dell’indicato parere. I rischi collegati alla minore terzietà del giudice venivano, in un certo senso, compensati da una maggiore partecipazione del ceto forense nel processo decisionale, che avrebbe dovuto in un certo senso evitare l’introduzione di una disciplina troppo sbilanciata.
Constatare che, sia pure in una fase transitoria (ma che poi ha concretamene condotto a una disciplina - quella dettata dal decreto del 28 luglio 2021 - destinata a rimanere permanentemente), tale partecipazione sia stata superata porta a concludere che anche quella sorta di compensazione sia venuta meno e che, con il passaggio di funzioni di cui ho fatto cenno, siano rimasti solo gli aspetti potenzialmente pregiudizievoli.
4. Inattitudine del rito da remoto a soddisfare allo scopo di smaltire l’arretrato.
Proprio con riguardo alle udienze da remoto, il processo amministrativo è l’unico rito che, dal 31 luglio 2021, le ha abbandonate (nella qual cosa io ravviso un elemento del tutto positivo).
Questo, però, per quanto sopra detto, non vale per le future udienze di smaltimento, le quali, invece, si dovranno svolgere necessariamente da remoto. Se, dunque, sono state perse le udienze da remoto emergenziali, per altro aspetto, il processo amministrativo è finora l’unico rito che ha introdotto le medesime udienze da remoto in via ordinaria.
È mia opinione, tuttavia, che tale novità – in disparte ogni dubbio sulle udienze da remoto in sé e sulle conseguenze che le stesse possono potenzialmente causa sulla effettiva collegialità delle decisioni – possa servire ben poco a ridurre l’arretrato.
Da un lato, infatti, non è la forma dell’udienza quel che rallenta i processi.
Per altro verso, non è chiaro, appunto, se la previsione di dette udienze da remoto e di smaltimento consentirà di superare i tetti ai carichi di lavoro dei magistrati, che, se invece permanessero, costituirebbero il vero collo di bottiglia, preclusivo di ogni possibilità di eliminare l’arretrato accumulato.
Sullo sfondo, peraltro, vi è anche il tema dell’Ufficio del processo, per il quale si stanno impegnando tante risorse, volte al reclutamento di molti assistenti di curia. A questi dovrebbe essere preclusa una diretta partecipazione alle decisioni giudiziarie e anche alla semplice stesura dei testi di sentenza, sia pure in conformità a quanto stabilito nelle collegiali camere di consiglio.
È da augurarsi che detto Ufficio conservi tale sua ristretta funzione. Perché, se è vero che una più ampia partecipazione degli assistenti di curia all’attività giurisdizionale potrebbe, effettivamente, contribuire a smaltire l’arretrato (tanto più se ciò avvenisse insieme allo svolgimento di ampie udienze di smaltimento, preliminari a sentenze la cui stesura fosse così risolta), per altro verso esporrebbe a rischi non preventivabili sia in termini di qualità delle pronunce assunte sia, soprattutto, perché l’esercizio della funzione giurisdizionale è collegata a garanzie di un certo rilievo che così verrebbero omesse.
5. Il nuovo ruolo paragiurisdizionale del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
Merita, ancora, di essere messo in rilievo (perché anch’esso collegato con le udienze di smaltimento), quanto è previsto dall’art. 17, d.l. 9 giugno 2021, secondo il quale “ferme restando le udienze straordinarie annualmente individuate dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa ai sensi dell’articolo 16, comma 1, delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo, di cui all’allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, al fine della trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 11, comma 1, del presente decreto, sono programmate dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa ulteriori udienze straordinarie, in un numero necessario e sufficiente al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, per la Giustizia amministrativa, dal PNRR. A tal fine, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa aggiorna il numero di affari da assegnare al presidente del collegio e ai magistrati componenti dei collegi”.
La disposizione si segnala per la partecipazione diretta del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa alla programmazione delle udienze dei giudici amministrativi e addirittura alla determinazione del numero di affari da assegnare ai singoli magistrati.
Premesso che il richiamo all’art. 16 delle disposizioni di attuazione del codice di rito appare, quanto meno, improprio (l’art. 16 non prevede, infatti, nessuna preesistente competenza del Consiglio di Presidenza in tal senso), la disposizione pare inopportuna perché, per ragioni di indipendenza dei giudicanti, l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa – anche perché esso è in gran parte elettivo ed è composto da laici designati dalle Camere – non dovrebbe poter partecipare, neppure indirettamente, allo svolgimento delle funzioni giurisdizionali e alle competenze che, altrimenti, sarebbero proprie dei Presidenti dei singoli collegi.
Come per gli assistenti di curia, vale anche qui ripetere che è necessario tenere distinti i ruoli e le funzioni, perché su tale distinzione riposano ben precise garanzie.
6. La complicazione dei riti.
L’introduzione di uno speciale rito da remoto, destinato allo smaltimento dell’arretrato porta in ogni caso a formulare alcune riflessioni di carattere più generale e a constatare che si è ulteriormente diversificato e complicato il modo con cui il processo ammnistrativo può giungere a sentenza.
Rispetto al tradizionale schema, oggi si può giungere a sentenza in molti altri modi, con termini e specificità diversi da caso a caso.
Vediamo qui di trattarli in rassegna.
a) Vi è innanzi tutto il sistema ordinario.
È quello tradizionale, a cui fa riferimento l’art. 71 c.p.a.
Il Presidente della Sezione, decorso il termine dilatorio di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione del ricorso per la costituzione delle parti intimate, fissa l’udienza pubblica, dandone comunicazione alle parti costituite almeno sessanta giorni prima. Seguono termini, calcolati a ritroso dall’udienza, di quaranta giorni liberi per la produzione di documenti, di trenta per le memorie e di venti per le repliche.
b) Vi è poi il sistema ordinario accelerato.
È disciplinato anch’esso dall’art. 71 e differisce dal primo perché il termine di comunicazione dell’udienza di trattazione può essere ridotto fino a quarantacinque giorni, per il caso in cui, su accordo delle parti, l’udienza di merito sia stata fissata a seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.
Tutti gli altri termini rimangono invariati.
c) Sussiste quindi la definizione in sede di trattazione della domanda cautelare.
L’istituto – infelice erede del rito veneziano - è previsto dall’art. 60 c.p.a. e implica che siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso; che sussista la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e che siano sentite sul punto le parti costituite.
La decisione è assunta in forma semplificata e in Camera di consiglio (ma la forma dell’udienza pubblica non costituisce ragione di nullità della sentenza: art. 87, comma 4, c.p.a.).
Il giudice, nel procedere in tal senso, non è vincolato alle domande delle parti, alle quali è consentito di opporsi con conseguenze vincolanti per il collegio solo quando esse dichiarino che intendono proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione. In tal caso, il collegio fissa la data per il prosieguo della trattazione in altra Camera di consiglio, fissata all’esito di tali incombenti (come pure all’esito dell’eventuale integrazione del contraddittorio).
d) Ancora, va ricordata la definizione a seguito di istanza di prelievo.
L’istituto è disciplinato dall’art. 71 – bis c.p.a., introdotto dall’art. 1, comma 781, lett. b), l. 28 dicembre 2015, n. 208.
Esso presuppone, appunto, la presentazione di detta istanza, in conseguenza della quale il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e sentite sul punto le parti costituite, fissa udienza di Camera di consiglio per decidere la controversia.
Trattandosi, appunto, di rito in Camera di consiglio, si applica l’art. 87 c.p.a. Perciò i termini per il deposito delle memorie e dei documenti sono dimezzati.
e) Oggi esiste anche la definizione a seguito di udienza di smaltimento.
Costituisce appunto una delle novità introdotte dall’art. 17, d.l. n. 80/2021 e di cui ho già fatto cenno.
Il rito non si può applicare alle controversie disciplinate dagli artt. da 112 a 117 c.p.a. e, pertanto, non può riguardare le liti per l’ottemperanza, quelle per l’accesso e quelle contro il silenzio inadempimento.
Le udienze si svolgono da remoto e in camera di consiglio.
Nonostante il rito consiliare, a queste liti non si applica l’art. 87, comma 3, c.p.a., salvo che per l’ultimo periodo di tale disposizione.
Pertanto, se le parti possono chiedere di essere sentite in udienza (art. 87, comma 3, ultimo periodo, cit.), non vale invece la dimidiazione dei termini per i depositi.
Ovviamente, trattandosi di liti giacenti in arretrato e, quindi, pendenti da tempo, non trova applicazione neppure l’art. 87, comma 3, c.p.a., nella parte in cui esso stabilisce che il giudice è tenuto a fissare la lite nella prima Camera di consiglio utile, decorsi trenta giorni dal termine di costituzione di tutte le parti.
f) Ancora, vi è il rito per la definizione dei ricorsi suscettibili di immediata definizione.
Anche questa è una novità introdotta dall’art. 17, d.l. n. 80/2021, che ha inserito un art. 72 – bis nel codice di rito, secondo il quale, “il presidente, quando i ricorsi siano suscettibili di immediata definizione, anche a seguito della segnalazione dell’ufficio per il processo, fissa la trattazione alla prima camera di consiglio successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione e, altresì, al decimo giorno dal deposito del ricorso. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio. Salvi eccezionali motivi, non è possibile chiedere il rinvio della trattazione della causa. Se è concesso il rinvio, la trattazione del ricorso è fissata alla prima camera di consiglio utile successiva. Se è possibile definire la causa in rito, in mancanza di eccezioni delle parti, il collegio sottopone la relativa questione alle parti presenti. Nei casi di particolare complessità della questione sollevata, il collegio, con ordinanza, assegna un termine non superiore a venti giorni per il deposito di memorie. La causa è decisa alla scadenza del termine, senza che sia necessario convocare un’ulteriore camera di consiglio. Se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica. In ogni caso la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata”.
Si tratta, come sembra evidente, di un rito destinato a colpire quelle controversie afflitte da ragioni riconducibili all’art. 35 c.p.a., come tali insuscettibili di portare a qualunque decisione di merito, dal momento che, ove si pongano questioni di detto ultimo tipo, il rito si converte nel rito ordinario.
g) Tra i vari modi con cui la lite può giungere a sentenza, si segnala anche quello che procedere dalla esecuzione dell’accoglimento della domanda cautelare.
L’istituto trova fondamento nell’art. 55, comma 10, c.p.a, secondo il quale “il tribunale amministrativo regionale, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, fissa con ordinanza collegiale la data della discussione del ricorso nel merito. Nello stesso senso può provvedere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riformare l'ordinanza cautelare di primo grado; in tal caso, la pronuncia di appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la sollecita fissazione dell'udienza di merito”.
Quello così pronunciato è un vero e proprio provvedimento di accoglimento della domanda cautelare, il cui contenuto consiste, paradossalmente, proprio nella fissazione dell’udienza di merito. All’udienza così fissata si applicano i termini previsti dall’art. 71 c.p.a.
h) Vi sono, infine, i riti non codificati.
Non è infrequente, infatti, che, presso i diversi organi giurisdizionali, si applichino schemi che non trovano un formale recepimento esplicito nel codice.
Tra questi si segnalano quelli che procedono dalle udienze di verifica dell’interesse a proseguire nel processo (talora informalmente definite anch’esse “udienze di smaltimento”). Queste sono una specie di udienze filtro o di smistamento, alle quali le parti sono invitate a dichiarare se permane l’interesse processuale. Per il caso in cui la dichiarazione sia negativa, la lite viene immediatamente definita in rito; altrimenti viene fissata nuova e ulteriore udienza.
Sono noti anche riti non codificati che procedono da decreti di verifica dell’interesse, assunti dal Presidente della Sezione o da un magistrato delegato, in applicazione (esplicita o implicita, ma in ogni caso piuttosto estensiva) dell’art. 68, comma 2, in materia di istruttoria. Essi, in ragione delle risposte che al decreto vengono date, portano talora a decreti di estinzione del giudizio o alla fissazione di udienze di smaltimento o ancora alla fissazione di normali udienze pubbliche di trattazione.
Da ultimo, è noto l’istituto del rinvio al merito, che trae spunto da un’udienza di trattazione della domanda cautelare, ma che non sembra potersi identificare né con un provvedimento pronunciato ex art. 55, comma 10, c.p.a., né con una sorta di rinuncia alla sospensiva in cambio dell’udienza di merito (ipotesi a cui, per quanto si è già detto, fa riferimento l’art. 71 c.p.a. per il caso in cui il Presidente anticipi fino a quarantacinque giorni la comunicazione della fissazione dell’Udienza).
A tutti questi diversi riti, che riguardano le controversie ordinarie, si aggiungono poi gli istituti relativi ai riti speciali e quindi:
a) alle controversie sul silenzio (31 e 117 c.p.a.),
b) a quelle sull’ottemperanza (112-114 c.p.a),
c) a quelle sull’accesso (116 c.p.a.),
d) a quelle con termini dimezzati (119 c.p.a.),
e) a quelle sui contratti pubblici (120 e s. c.p.a.) e,
f) a quelle sul contenzioso elettorale (126 e s. c.p.a.), a loro volta distinte secondo che,
f1) riguardino le operazioni elettorali o
f2) gli atti preparatori delle elezioni.
Infine, in ragione della domanda specificamente fatta valere e quindi secondo che si tratti di una domanda relativa:
a) all’ annullamento,
b) alla nullità,
c) al silenzio inadempimento
d) alla condanna al risarcimento del danno, d1), in via autonoma o,
d2), contestuale all’azione di annullamento o all’azione sul silenzio,
e) all’appello nelle controversie ex artt. 119 e 120 c.p.a.,
f) alle cause di primo grado nelle controversie ex art. 120 c.p.a.
e) alle controversie sull’ottemperanza,
f) alle controversie per l’accesso ai documenti amministrativi,
g) alle controversie sulle operazioni elettorali,
h) alle controversie sugli atti preparatori alle elezioni,
variano anche i termini di notificazione del ricorso introduttivo della lite o del grado di giudizio.
Come si comprende, anche in ragione degli interventi legislativi recenti, che hanno aggravato una situazione già pesantemente compromessa, il processo amministrativo oggi è un vero e proprio dedalo, ben diverso dal sistema con il quale era stato originariamente ideato.
Quello attuale, invece, è un sistema intriso di decadenze che possono risultare pregiudizievoli per le parti.
Esso, inoltre, può condurre a sentenze nate vecchie, perché formatesi su pericolose preclusioni (si consideri anche l’art. 104, comma 2, c.p.a.) che impediscono di fotografare la fattispecie sostanziale qual è sussistente al momento della pronuncia della sentenza, con la costituzione di vincoli conformativi essi stessi inattuali.
Né sembra del tutto persuasivo sostenere che questa varietà di riti sia compensata dalla necessità di portare a compimento, entro un ragionevole tempo, i processi, perché, infine, tutto ciò dipende da quando il giudice fissa l’udienza di trattazione della causa, tanto più che, entro certi limiti, spetta a questi decidere il rito più opportuno.
L’esperienza, tuttavia, sembra suggerire che proprio in questi non infrequenti ritardi vada ravvisata la principale causa dell’intempestività del processo amministrativo, vieppiù acuita dal fatto che talune controversie (quelle in materie di appalti) - viaggiando su binari che, per volontà di legge, sono assai più veloci - finiscono per rallentare lo svolgimento di tutte le restanti.
7. Conclusioni
La nuova disciplina delle Regole Tecniche sul processo telematico, peraltro, ha contribuito a mettere in luce anche ulteriori riforme di questi mesi, alle quali, forse, è il caso di prestare una certa attenzione. - Che conclusioni trarre dal panorama che emerge e su cui si innestano le riforme dell’estate del 2021?
In primo luogo, a me pare che si debba osservare che, attraverso misure apparentemente di dettaglio, la stagione covidica stia consegnando interventi sul processo amministrativo che potrebbero sortire conseguenze piuttosto preoccupanti quanto all’indipendenza e alla terzietà del giudice. Questo vale sostenere soprattutto con riguardo al modo con cui viene attuata la disciplina del processo telematico e al modo con cui il Consiglio di Presidenza è chiamato a partecipare alla programmazione delle udienze e delle attività dei magistrati.
Né deve rassicurare l’onestà intellettuale di è concretamente chiamato a dare esecuzione a queste nuove norme, perché le istituzioni non possono reggersi sulla contingente probità degli individui e perché, infine, vale anche a questo proposito quello fu detto della moglie di Cesare.
In secondo luogo – con riferimento al variegato panorama di riti che stanno cumulandosi – viene a rafforzarsi ulteriormente la convinzione che è sempre più necessario affrontare una radicale e generale riforma del processo, volta a semplificarne lo svolgimento e a introdurre strumenti di sua accelerazione effettivi e non puramente formalistici.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
