ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Conto corrente bancario: recesso ad nutum o ad libitum?
Riflessioni sul potere di controllo del giudice sull’atto di esercizio del diritto potestativo.
Nota a Ordinanza del Tribunale di Palermo sez. V civile specializzata in materia di impresa, 17.03.2021
di Marcello Mauceri
Sommario: 1. Termini della questione oggetto dell’ordinanza cautelare - 2. Aspetti di diritto processuale - 3. Quadro normativo di riferimento - 4. Abuso del diritto e violazione del canone di buona fede: sistema dei rimedi - 5. Conclusioni.
1. Termini della questione oggetto dell’ordinanza cautelare
Il tribunale di Palermo con l’ordinanza in commento decide in sede cautelare d’urgenza su un ricorso proposto da un esercizio di “Compro oro” che si è visto recapitare la comunicazione immotivata di recesso della banca dal contratto di corrente di corrispondenza a tempo indeterminato, senza apertura di credito e con saldo finale attivo. Il conto è stato acceso da oltre dieci anni senza subire nel tempo modifiche di sorta [1].
Lamenta il ricorrente che l’esercizio del diritto potestativo di recesso ad nutum sia avvenuto in modo abusivo tenuto conto dell’evoluzione della normativa comunitaria che appare fare emergere un vero e proprio obbligo a contrarre delle banche con riferimento, quanto meno, ai conti correnti di base, cui specularmente corrisponde un vero e proprio diritto al conto corrente del richiedente.
Lamenta altresì che la mancanza del conto corrente gli impedirebbe di fatto l’esercizio dell’attività economica costituente l’oggetto sociale, stante che la normativa sulla lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale, unitamente alle stringenti esigenze di tracciabilità dei pagamenti e alla diffusa dematerializzazione della moneta, non consentirebbe di operare tramite contante.
Deduce inoltre di essersi attivato presso altri istituti di credito per ottenere l’apertura di un conto senza positivi riscontri.
D’altro canto la banca invoca la libertà di esercizio del recesso trattandosi di conto corrente contratto a tempo indeterminato per come disciplinato dall’art. 1833 c.c. e ribadisce peraltro che il preavviso di sessanta giorni (ben superiore al limite di legge) dimostra la correttezza del suo agire.
2. Aspetti di diritto processuale
Il giudice della cautela in primis dà conto dell’ampio spettro di ipotesi in cui è possibile disporre in via cautelare con il duttile strumento del provvedimento d’urgenza contemplato dall’art. 700 c.p.c.; ribadendo la discrezionalità che la legge offre al decidente per neutralizzare il “pericolo imminente e irreparabile” che vulnera la posizione giuridica soggettiva da tutelare nelle more della decisione di merito, la cui attesa potrebbe definitivamente frustrare il bene della vita (e le connesse utilità) ad essa sotteso.
Sul punto può dirsi ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale nel senso dell’ammissibilità della tutela cautelare atipica in funzione della difesa di diritti non assoluti, come l'accertamento della legittimità dell'esercizio del recesso, “in quanto scopo della tutela cautelare è quello di impedire che il tempo necessario alla pronuncia di merito pregiudichi in maniera irreparabile le utilità che il titolare della situazione giuridica violata avrebbe potuto trarre da una pronuncia tempestiva a sé favorevole o, comunque, necessarie a scongiurare l'aggravamento di una situazione già pregiudicata “[2].
Detta tutela in particolare non può essere negata nemmeno di fronte ad obblighi di fare ( o non fare) infungibili come potrebbe essere il diritto alla prosecuzione del rapporto contrattuale, perché nell’ambito dei rapporti obbligatori, il carattere infungibile dell’obbligazione di cui si predica l’inadempimento, non preclude una statuizione di condanna; tenuto conto peraltro delle potenzialità coercitive introdotte con l’art. 614-bis c.p.c. (rubricato “Misure di coercizione indiretta”) che si inserisce coerentemente nel quadro dei principi di effettività della tutela giudiziale per come emergono dalla Costituzione e dalle norme di matrice comunitaria.[3]
Ed allora l’ordinanza in commento pare non discostarsi da quel filone giurisprudenziale che predica l’ammissibilità di inibitorie atipiche in funzione della tutela urgente delle più diverse situazioni giuridiche soggettive, che invocano rapidità e incisività di intervento.
3. Quadro normativo di riferimento
Le norme che vengono scrutinate per trovare la soluzione al problema di offrire tutela effettiva all’imprenditore, privato dall’oggi al domani (si direbbe brutalmente) dello strumento essenziale per continuare ad operare legalmente nel settore di riferimento - ossia un ordinario conto corrente di corrispondenza - sono in prima battuta gli artt. 1697 c.c. e 2597 c.c.
La prima norma è stata ritenuta una applicazione speciale della seconda, anche se le opinioni al riguardo non sono uniformi [4].
Di esse però viene per lo più esclusa l’applicabilità in via analogica.
La dottrina si è occupata della possibilità di rinvenire nel sistema normativo obblighi a contrarre oltre lo stesso perimetro delle norme speciali traendo spunto dal principio generale del neminem laedere recato dall’art 2043 c.c. “opportunamente interpretato”[5] .
Ne consegue che il danno ingiusto provocato dal rifiuto a contrarre a sua volta animato da intenti emulativi, ricattatori, discriminatori, sopraffattori, potrebbe trovare adeguata sanzione nel rimedio risarcitorio apprestato dalla menzionata norma. Ma ciò merita un approfondimento che verrà svolto più oltre.
Non diversamente, e procedendo per esclusione, il tribunale, pur constatando un trend normativo favorevole a riconoscere ai cittadini dell’unione europea un vero e proprio diritto al conto corrente con caratteristiche di base (anche a prescindere dalle loro condizioni reddituali, finanziarie o di solvibilità) finisce con escluderne l’applicabilità al caso di specie, per la semplice ed evidente circostanza che sia la Direttiva UE 2014/92 sia il decreto legislativo applicativo, a sua volta attuato dal D.M. 70/2018, si rivolgono esplicitamente al consumatore ossia “ la persona fisica che agisca a fini che non rientrano nella sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale” ( art.1 Dir.).
Pertanto sul punto non occorre dilungarsi ulteriormente, tenuto conto che quanto emerge dai considerando non ha alcuna valenza precettiva e il diritto in questione non trova spazio fuori dai rapporti consumeristici [6].
4. Abuso del diritto e violazione del canone di buona fede: sistema dei rimedi
A questo punto, constatata l’assenza di un diritto al conto corrente ed uno speculare obbligo della banca a contrarre, il giudice esamina e risolve (in senso positivo per il ricorrente) la questio iuris, ricorrendo alla figura dell’abuso di diritto per come costruito nel suo percorso argomentativo da un noto precedente giurisprudenziale; richiamando cioè in toto la sentenza della suprema corte pronunziata in un caso di recesso ad nutum considerato “arbitrario, cioè ad libitum” siccome abusivo.[7]
La tesi in estrema sintesi è la seguente: l’ordinamento offre sempre al giudice il potere di controllare l’esercizio del diritto soggettivo nelle sue molteplici manifestazioni per verificarne la sua conformità ai principi di buona fede, correttezza e lealtà; apprestando, in caso di suo esercizio abusivo, ossia di frattura fra potere conferito dalla norma o dal contratto e scopo per il quale è stato conferito, sia il rimedio reale dell’inefficacia dell’atto sia quello risarcitorio del danno.
Non è questa la sede per ripercorrere i profili dogmatici e l’evoluzione dottrinale della discussa figura dell’abuso del diritto e della sua interazione con la clausola generale di buona fede in senso oggettivo, su cui si sono riversati fiumi di inchiostro: ora per negarne la sua esistenza, ora per affermarne la sua inutilità pratica, ora per esaltarne le potenzialità applicative in un sistema economico sempre più complesso e dinamico [8].
Purtuttavia alcune considerazioni sul tema vengono sollecitate dalla decisione del tribunale che si analizza.
Il caso affrontato dalla suprema corte non pare sovrapponibile a quello di cui si discute: lì siamo di fronte al un caso di recesso contrattuale, ossia previsto da un’apposita pattuizione convenzionale, rispetto alla quale si discetta di controllo dell’autonomia contrattuale, di controllo giudiziale in via modificativa o integrativa dello statuto negoziale, di esecuzione negoziale secondo buona fede; qui invece è la legge la sola fonte del diritto potestativo unilateralmente esercitato (c.d. recesso legale); lì le parti sono legate da un contratto di concessione di vendita rispetto al quale l’abuso di dipendenza economica è rinvenibile nella squilibrata trama di pattuizioni intercorse fra loro; qui si è in presenza di in contratto di conto corrente bancario di base dove i reciproci diritti e obblighi hanno ampiezza e contenuti affatto differenti e il contesto di mercato si colloca su ben altro piano; li la pretesa lesione dei concessionari trova ristoro nella richiesta del risarcimento del danno; qui nella paralisi degli effetti del recesso [9].
Se il ricorso alla teorica dell’abuso disvelato dalla violazione canone generale di buona fede è argomento dotato di sua persuasività non convince l’esito finale cui perviene la decisione in esame, ossia la declaratoria di inefficacia del recesso. La sterilizzazione cioè degli effetti di un atto di esercizio di un diritto potestativo che la legge riconosce in forza della indeterminatezza del tempo per cui il contratto è stato stipulato [10].
La contraddizione appare in ciò: se da un lato si esclude l’esistenza di un obbligo legale a contrarre in capo alla banca e di conseguenza lo speculare diritto al conto corrente quanto meno di base (al contrario ipotizzabile solo per la diversa figura della persona fisica qualificata come consumatore), paralizzare gli effetti del recesso ad nutum significa null’altro che obbligarla a mantenere il rapporto contrattuale in vita e quindi obbligarla sine die a svolgere lo specifico ed infungibile facere costituito dal servizio di cassa, tipico del conto corrente bancario.[11]
Ma obbligare la parte a mantenere ed erogare il complesso servizio di cassa - in esecuzione di un contratto di durata - significa in definitiva riguardare la fattispecie in termini di obbligo legale a contrarre. Con evidente contraddizione rispetto a quanto prima affermato nel senso della esclusione di tale obbligo al di fuori delle specifiche e precise previsioni normative, di cui peraltro si predica la non applicabilità in via analogica.
Orbene ciò non vuol dire affatto che nel bilanciamento degli interessi in gioco - alla luce dei principi costituzionali di solidarietà economica e utilità sociale dell’agire economico - debba prevalere l’arbitrio o il capriccio di chi esercita il potere legalmente previsto col conseguente ingiusto e sproporzionato sacrificio di chi lo subisce [12].
Significa che solo il rimedio risarcitorio possa ritenersi sempre ravvisabile, tenuto conto fra l’altro che i canoni di buona fede, correttezza e lealtà attengono nel caso di specie alla sfera delle regole di condotta (e alle modalità concrete di esplicazione di questa)[13].
È evidente nel caso che si esamina il conflitto di interessi di cui sono portatori i soggetti del contratto: da un lato quello della banca di non sopportare eccessivi oneri di “compliance” indotti dalla particolare e “sensibile” attività economica del “ c.d. compro oro” e dunque i relativi costi per ottemperare agli obblighi nascenti dalla normativa antiriciclaggio; dall’altra quella dell’imprenditore-cliente che senza conto corrente basico con i connessi servizi di cassa ( fornitura del POS, della carta di debito, etc.) non potrebbe di fatto proseguire nella propria attività commerciale, se non contravvenendo alle stringenti norme ( anche penali ) che la presiedono.
Il problema allora si sposta di necessità sul piano squisitamente probatorio.
Posto che la banca che recede ad nutum ha certamente l’onere in prima battuta di dimostrare di avere concesso i termini di preavviso normativamente prefissati, l’altro contraente dovrà dimostrare che l’esercizio di tale potere è avvenuto con modalità abusive dopo avere creato il legittimo affidamento nella normale prosecuzione del rapporto; dovrà allegare e dimostrare in modo convincente di non avere potuto reperire valide alternative sul mercato creditizio; dovrà allegare e dimostrare di avere subito atteggiamenti ritorsivi pur in assenza di anomalie contabili o carenze di solvibilità. E così via.
Il risarcimento potrà sicuramente essere per equivalente e fondarsi sul principio che l’ingiustizia del danno presuppone la lesione di ampie e sempre nuove situazioni soggettive che l’ordinamento giuridico viene riconoscendo anche nell’intrecciarsi di norme nazionali e unionali.
5. Conclusioni
È qui allora che la iurisdictio correttamente esercitata diventa cruciale nel dirimere contrasti di tal fatta, facendo prudente uso della discrezionalità che l’ordinamento giuridico le assegna in vista della giustizia del caso concreto.
L’uso della figura dell’abuso del diritto come principio implicito e permeante la tavola dei diritti e dei doveri già prefigurato in Costituzione appare in tutta la sua dimensione dinamica come elemento correttivo in presenza di comportamenti oggettivamente anomali (o anormali) che dunque tradiscono i limiti interni della stessa posizione giuridica soggettiva, di fatto negandola.
Con ciò si vuole affermare che il divieto di abusare del diritto significa in un certo modo negare il diritto stesso: abuso che appunto “vive dello scarto fra fattispecie normativa e fatto concreto” [14].
Le considerazioni sopra svolte appaiono corroborate dal diritto comunitario e dalla dottrina che ne ha elaborato i profili di sistema, configurando l’abuso di diritto come forma di controllo e regolazione del modo di esercizio delle situazioni giuridiche soggettive [15].
È del tutto evidente che l’art. 54 (“Divieto dell’abuso del diritto”) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, avente com’è noto lo stesso valore giuridico dei trattati internazionali, può diventare il grimaldello interpretativo che toglie ogni dubbio circa il potere del giudice di scongiurare ogni utilizzo distonico, deviato o distorto del potere che pure la legge in astratto riconosce [16].
Ma l’operazione ermeneutica va condotta con grande prudenza e discernimento, al fine di non entrare a gamba tesa su quell’area di libertà di scelta economica che proprio la Costituzione intende preservare con l’art. 41, I comma. E ciò tanto più che il limite e il confine fra libera scelta decisionale in materia economica quale prerogativa dell’imprenditore che opera su un libero mercato (con assunzione dei conseguenti rischi) e sindacato giurisdizionale sull’atto di autonomia negoziale (ossia, come nel caso di specie, esercizio del diritto potestativo di recesso ad nutum quale negozio unilaterale recettizio) diventa assai labile e a rischio di dubbie (e per ciò stesso non auspicabili) riperimetrazioni.
[1] Sul provvedimento in commento v. L. MORMILE, Conto Corrente e recesso ad nutum, in www.ilcaso.it.
[2] In questo senso v. Trib. Pescara, ord. 11.12.2020 che a sua volta richiama Trib. Milano Sez. Specializzata in materia di imprese, 03.01.2013.
[3] Cfr. al riguardo Cass. Sez. 1, n. 19454 del 23/09/2011 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 18779 del 05/09/2014; Cass. Sez. 3, n. 9957 del 13/10/1997; Cass. Sez. 1, n. 15349 del 01/12/2000).
[4] Sul punto si vedano ex multis, A. DE MARTINI, voce Obbligo a contrarre, Novissimo dig. it., XI, Torino, 1965, pp. 694 ss.; C. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, Torino, 2004; L. MONTESANO, voce Obbligo a contrarre, Enc. dir., vol. XXIX Milano, 1979, pp. 509 ss.; G. GABRIELLI, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974; B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977; L. NIVARRA, L’obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989; ID., La disciplina della concorrenza. Il monopolio, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992; M. LIBERTINI, L'imprenditore e gli obblighi di contrarre, in Tratt. dir. comm. e dir. pubb. econom., diretto da F. Galgano, IV, Padova, 1981, pp. 272 ss.; M. LIBERTINI – P. M. SANFILIPPO, voce Obbligo a contrarre, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, pp. 480 ss.; P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969.
[5] In questo senso sono le illuminanti considerazioni di R. SACCO, Il contratto Imposto, Trattato di diritto privato, Vol. 10, pag. 369 ss.
[6] Il trentacinquesimo considerando della Direttiva UE 2014/92 recita: “È opportuno evitare di discriminare i consumatori che soggiornano legalmente nell’Unione a motivo della cittadinanza o del luogo di residenza o per qualsiasi altro motivo di cui all’articolo 21 della Carta dei diritti fonda mentali dell’Unione europea («Carta») in relazione alla richiesta di aprire un conto di pagamento o all’accesso al conto all’interno dell’Unione. Inoltre, è opportuno che gli Stati membri garantiscano l’accesso ai conti di paga mento con caratteristiche di base a prescindere dalle condizioni finanziarie dei consumatori, ad esempio il loro status professionale, il livello reddituale, la solvibilità o il fallimento”.
[7] Il riferimento è alla nota sentenza della cassazione n. 20106/2009, oggetto di sferzanti critiche da A. GENTILI, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, Responsabilità civile e previdenza ,2010, pag. 354 che trova “stupefacente che i giudici possano rifare i contratti che a loro non sembrano equi”; v. anche C.A. NIGRO, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), nota a Cass. 18 settembre n. 20106, Giust. Civ. 2010, n. 20106, che nota come “il tema della buona fede e quello dell’abuso siano stati sovrapposti, ove non addirittura confusi, almeno sul piano applicativo: certo è che i rapporti tra l’una e l’altro appaiono descritti in modo poco chiaro, ed in alcuni passaggi in termini che sembrano addirittura contraddittori”.
[8] R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in La parte generale del diritto civile, 2, Il diritto soggettivo, nel Trattato di diritto civile diretto dal medesimo, Torino, 2001, p. 320.
[9] Secondo la giurisprudenza “si ha dipendenza economica quando si è dedicata la propria attività imprenditoriale ad un unico produttore”: così L. DELLI PRISCOLI, nota a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, Giur. Comm. 2010, pag. 834.
[10] In dottrina si è osservato al riguardo che il divieto dei vincoli perpetui è espressivo di un principio di ordine pubblico” così FRANZONI, Degli effetti del contratto, in il Codice Civile. Commentario diretto da P. Schlesinger. Art. 1374-2381, Milano 1999, 323 ss.
[11] Pacificamente qualificato come “contratto innominato misto (consensuale, di durata) con cui il cliente investe la banca di un mandato generale ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far confluire nel conto le somme acquisite in esecuzione del mandato” C. SANDEI, in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN – TRABUCCHI, PADOVA, 2014, sub art. 1852 Codice Civile, n. 2-3.
[12] Il rimedio risarcitorio sembra prevalere nella giurisprudenza della cassazione che ancora di recente ha affermato con chiarezza che l’esercizio del recesso in violazione della regola della buona fede in executivis è di per sé idoneo a por fine al rapporto contrattuale, “mentre l’inadempimento a tale fondamentale canone comporterà unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca, che tale regola abbia violato”: Cass. civ. sez. I, 16.04.2021, n. 10125.
[13] v. Tribunale di Grosseto, 02.05.2020, n. 311: “la violazione delle di regole di condotta (discendenti dalla clausola generale di cui all’art. 1375 c.c.) non può dare luogo ad invalidità e dunque a inefficacia dell’atto che costituisce esercizio del diritto potestativo riconosciuto alla legge o dal contratto, sicché il recesso abusivo è in ogni caso valido ed efficace e dunque idoneo a determinare lo scioglimento del rapporto contrattuale (contra Cass. sent. 20106/09, rimasta sostanzialmente isolata)”.
[14] “Un diritto non può mai essere abusivo in sé, pena la contraddittorietà della locuzione e del fenomeno giuridico cui essa rimanda. Il predicato dell’abusività, invece, e da correlare al divenire del diritto stesso, o – meglio ancora – al profilo dinamico dei poteri e delle facoltà che in esso sono racchiusi, dei quali rivela e spiega la condizione patologica, riflettendosi sulla stabilità o sull’efficacia dell’atto”: C.NIGRO, op.cit, pag,21 in nota.
[15] v. S.CAFARO, L’abuso del diritto nel sistema comunitario: dal caso Van Binsbergen alla Carta dei Diritti, passando per gli ordinamenti nazionali, Il diritto dell’Unione europea, 2003,293; R. T. BONAZINGA, Abuso del diritto e rimedi esperibili, www.comparazionedirittocivile.it che sottolinea come i rimedi sanzionatori di comportamenti abusi riguardano “ il profilo di applicazione uniforme delle disposizioni comunitari al fine di salvaguardare la certezza del diritto e la prevedibilità delle soluzioni giurisprudenziali anche nell’ordinamento giuridico comunitario”.
[16] Interessante a tal riguardo quanto affermato da Cass. pen. 21.05.2010, n. 28658, nel caso in cui la fattispecie oggetto di cognizione non ricada nell’ambito di applicazione del diritto europeo: “la Carta costituisce uno strumento di interpretazione privilegiata per il diritto interno che si deve presumere coerente con quei valori che gli Stati membri e gli organi dell’Unione hanno comunemente accettato”; ed ancora, “la nomofilachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento dei diritto comune europeo” .
Diritto a Teatro - L'Antigone di Sofocle
Il progetto “Diritto a Teatro” prende vita dall’iniziativa di una compagnia teatrale composta principalmente da avvocati e operatori del diritto che nel corso dell’ultimo decennio, in occasione di prestigiosi eventi culturali, ha portato in scena diverse opere, tutte fondamentalmente caratterizzate da temi culturali e sociali afferenti le profonde questioni del diritto.
Tra queste possiamo ricordare “Dreyfus”, rappresentato anche al Teatro La Pergola di Firenze nel 2013 in occasione della Giornata della Memoria e “Gandhi avvocato” al Teatro Bolognini di Pistoia Capitale Italiana della cultura 2017 in occasione del convegno con i premi Nobel per la pace Sabrina Ebadi e Abdeiazizi Essid.
Quest’anno la compagnia ha lavorato per portare in scena l’Antigone di Sofocle in una versione che, pur restando fedele all’originale per quanto riguarda il testo, si discosta dalla tradizione dal punto di vista della messa in scena: muovendo dalla originaria scansione di tempi e stasimi, ripropone costumi, musica dal vivo ed interpretazioni sceniche che trascinano l’occhio e la mente dello spettatore attraverso i secoli.
Nella tragedia di Sofocle lo scontro tra Creonte e Antigone rappresentata l’eterna possibile contrapposizione tra la Legge e la Giustizia, ed è proprio questo conflitto che la compagnia vuole riproporre con questo progetto, interpretando al meglio il nucleo fondamentale dello stesso, la possibile contrapposizione tra legge e morale, lasciando intatte negli spettatori le ragioni dell’una e dell’altra, in un conflitto attualissimo, che accompagna l’essenza stessa dell’uomo singolo e del suo rapporto con la comunità nella quale attraversa la sua esistenza.
La modernità dell’opera si trova già nel suo eterno contenuto ma la messa in scena, con la musica dal vivo degli Odd Man Out, la voce di Elisa Castellis, il coro composto da attori confusi fra il pubblico e l’alternanza dei costumi antichi e moderni, aiuterà a renderla assolutamente particolare.
I due ruoli principali di Creonte e di Antigone saranno interpretati rispettivamente da Alfonso Veneroso e Giulia Rupi, due professionisti di primissimo piano a livello nazionale, con grande e rilevante esperienza teatrale.
L’opera sarà rappresentata il 17 e il 18 giugno al Teatro Palladium di Roma, gestito dalla Fondazione dell’Università Roma Tre Teatro Palladium, Fondazione alla quale verrà destinato l’intero incasso. Il 7 giugno si terrà un webinar sul tema.
Brevi osservazioni di carattere tecnico e culturale su “Proposte normative e note illustrative” rese pubbliche dal Ministero della Giustizia di Andrea Proto Pisani
Molto sinteticamente si osserva quanto segue.
1) Ufficio del processo.
- Estrema varietà dei criteri di selezione senza indicazione, almeno in prospettiva, di criteri unitari.
- Non si accenna neanche al rapporto di lavoro, se non che è a tempo determinato; né all’impegno settimanale, né alla retribuzione, né al trattamento di previdenza e assistenza. Si ignorano gli interventi della Commissione e della Corte Europea di Giustizia.
2) A.D.R.: carattere tutto corporativo cui ci si ispira, senza capirne il perché.
- Sul piano culturale la ratio e il valore della mediazione – comunemente insegnato dagli esperti di questa materia – è il suo fondarsi sul consenso delle parti nel volere utilizzare l’attività di un terzo per pervenire ad una soluzione condivisa.
- Il getto della recente decisione della Corte di Cassazione riguardo ai soggetti che devono partecipare al primo incontro, sa di ripicca.
- La impossibilità di delegare l’avvocato, con la forma della autentica in calce o a margine, è anche qui pura ripicca, anche perché la procura per scrittura privata, se non se ne contesta l’autenticità della sottoscrizione, è forma con cui si può disporre o transigere controversie relative a materie anche di immenso valore, salvo ovviamente la necessità dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata per la trascrizione ecc.;
- Quanto alla mediazione delegata dal Giudice: in grado d’appello è follia; ma è follia perché il lavoro di selezione consentirebbe al Giudice di risolvere la controversia con estrema semplicità;
- Viene, a pensare male, prevista perché in questo modo si individuano le uniche ipotesi di mediazione in cui la percentuale delle controversie risolte con l’accordo è elevata o elevatissima.
Concludendo, sulla base del consenso tutto è delegabile (si pensi alla delega attualmente prevista dal Giudice della separazione giudiziale) ma il prevedere la mediazione obbligatoria condizione di procedibilità costituisce un inutile appesantimento e allungamento dei tempi della giustizia civile.
3) Appello.
Si tratta della parte migliore delle proposte, sol che:
- si sopprimessero i filtri;
- si aprisse ai nova: essenziali per rimediare agli errori di uno dei 245 mila avvocati esistenti;
- si prospettasse nella relazione l’opportunità di eliminare, di sopprimere tutte le ipotesi di inappellabilità delle sentenze (o provvedimenti analoghi), di primo grado, allo scopo di assicurare l’unico vero filtro – allo stato – immaginabile al ricorso in Cassazione.
4) Cassazione: è disdicevole intervenire per legge sul giudizio di Cassazione una volta ogni cinque anni o addirittura meno.
Gli interventi veri sulla Cassazione dovrebbero probabilmente agire sull’interpretazione del secondo comma dell’art. 111, modificando l’intepretazione che incautamente la Cassazione stessa, senza prevedere le tragiche conseguenze che ne sarebbero determinate, determinò quando dal 1956 in poi sottrasse alla Corte costituzionale (entrata in funzione quell’anno) il controllo di costituzionalità delle norme che escludono il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti aventi forma diversa da quella di sentenza.
Inoltre, nulla si dice circa il controllo dei diritti del contribuente tramite il ricorso per Cassazione con il suo relativo ingolfamento.
5) Giudice di Pace (e cenni sui Giudici onorari in genere).
- In via preliminare nulla si dice sui criteri di selezione e del rapporto di lavoro (indeterminato, retribuzione, ecc.).
- Il criterio del valore è cieco, lo si ripete per l’ennesima volta.
- Scelta la materia, sarebbe molto più semplice assicurare la specializzazione del Giudice non togato.
Considerazione pratica: i danni anche elevatissimi alla persona da infortunistica stradale, in pratica sono determinati prima dal C.T.U., poi normalmente dalle “tabelle” o in mancanza da altro C.T.U. Anche questa ovvietà è ignorata dai nostri aspiranti legislatori.
Sul piano delle scelte culturali:
- un solo Giudice onorario di primo grado, competente solo per materie predeterminate e non di volta in volta previste dal Presidente di sezione o dai singoli Giudici togati. Ovviamente la disciplina dell’eventuale incompetenza dovrebbe essere semplificata al massimo perché si resterebbe pressoché sempre nell’ambito del “circondario”.
- Ovvia necessità della previsione dei criteri di selezione e di disciplina del rapporto.
6) Volontaria giurisdizione.
- Ci si dimentica di prevedere una disciplina adeguata alle ipotesi più delicate costituite dalla “gestione di interessi” che incidono su diritti: queste ipotesi costituiscono il nucleo forte su cui mi sembra l’ampia riflessione dottrinale abbia richiamato con forza l’attenzione (vedi gli studi di Civinini, Montesano, Lanfranchi e, se si vuole, la sintesi da me tentata nelle Lezioni).
7) Esecuzione forzata.
Non sono competente della materia, ma mi sembra che la vendita telematica avrebbe meritato di essere considerata, così come probabilmente sarebbe stata necessaria quantomeno la consultazione di qualche esperto in materia notarile.
8) Controversie in materia di famiglia e di minori.
è questo il settore in cui più si avvertono veri e propri svarioni culturali.
Si prevede in via generale l’istituzione di un Tribunale della Famiglia e dei Minori, Tribunale che dovrebbe operare in via monocratica, quale - direi proprio - Giudice specializzato:
A) ma non si tiene conto alcuno che una volta eliminato l’addebito viene meno del tutto ogni necessità di prevedere due processi distinti, l’uno relativo alla separazione giudiziale e l’altro al divorzio: tutt’al più, se proprio si vuole, si potrebbe prevedere che l’instaurazione dell’unico processo preveda che fra la data della notifica dell’atto introduttivo e la prima udienza intercorra un termine dilatorio – diciamo sei mesi – per consentire un ultimo ripensamento. Quanto alla necessità di interventi urgenti sui figli e sul mantenimento, sarebbe sufficiente il richiamo del c.d. procedimento cautelare uniforme previsto dagli artt. 669 bis e ss., procedimento applicabile anche in caso in cui sorga una questione sulla materia di genitorialità.
B) Non si ha consapevolezza della abnorme sovrapposizione effettuata negli anni ’30 del secolo scorso tra amministrazione e giurisdizione in materia minorile, e conseguentemente:
1 – si continua nell’errore grave (grave anche per le abnormi conseguenze in tema di rapporti tra Giudice e Servizi Sociali) di attribuire al Tribunale dei Minorenni il potere di agire d’ufficio in palese violazione del principio della domanda, principio che se non conosciuto determinerebbe sicuramente la bocciatura dello studente ad un esame di Procedura civile e anche penale.
Lo svarione è grave perché intanto si può prevedere che il TM agisca d’ufficio in quanto si ritiene ammissibile che i Servizi Sociali (o altri terzi del tutto estranei al rapporto genitoriale) anziché rivolgersi al Pubblico Ministero (ovviamente specializzato in materia di famiglia e di minori) si rivolgano direttamente al Giudice, con tutte le gravissime conseguenze di cui le tragiche vicende di Bibbiena costituiscono l’esempio più recente ma nient’affatto isolato.
2 - Ad evitare ulteriori gravi violazioni nella formazione del convincimento del Giudice, sarebbe opportuno esplicitare che anche in controversie relative alla genitorialità le prove vanno formate nel contraddittorio delle parti nel corso del processo e in particolare che le relazioni dei Servizi Sociali non possano avere alcun valore (a meno che l’operatore sociale sia a conoscenza di fatti e ne riferisca in giudizio a seguito di testimonianza dedotta e assunta secondo le regole).
3 – L’istituzione della sezione specializzata in materia di famiglia e di minori imporrebbe non solo, ovviamente, la soppressione formale del Tribunale dei minirenni (con il venir meno del relativo posto di direttivo), ma anche la attribuzione a tale sezione di tutte le controversie attualmente devolute al Tribunale dei minorenni, ivi compresi i procedimenti in materia di adozione, e la loro conseguente trattazione e decisione da parte del giudice monocratico.
Il tutto sembrerebbe a mio avviso ovvio, ma non lo è per difetto culturale, ovviamente non degli autorevoli componenti della Commissione ma degli assistenti di cui si siano avvalsi.
I termini del procedimento (sanzionatorio) presi sul serio (nota a Cons Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2021 n. 584).
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il fatto. – 2. I termini nei procedimenti sanzionatori dell’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente. – 3. La perentorietà cedevole dei termini per la conclusione della fase preistruttoria. - 4. Natura ordinatoria o natura perentoria del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio: il contrasto interno alla giurisprudenza della sesta sezione. – 5. I rimedi all’inosservanza del termine. – 6. Lo stato della giurisprudenza del giudice ordinario. - 7. Conclusioni.
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1. Il fatto. Con delibera del 13 marzo 2014, l’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente (A.R.E.R.A.) aveva avviato nei confronti della Sinergas s.r.l. un procedimento per l’accertamento di varie violazioni della normativa in materia di qualità dei servizi di distribuzione e misura del gas.
All’esito dell’istruttoria, con delibera del 18 gennaio 2018, era stata poi irrogata alla Società la sanzione amministrativa pecuniaria di 20.000 euro.
Sulla vicenda di fatto che si caratterizza per la durata del procedimento sanzionatorio di oltre millequattrocento giorni, laddove la stessa Autorità nella delibera di avvio del procedimento aveva indicato il termine massimo di 270 giorni, si innesta la sentenza del Consiglio di Stato che si segnala per l’argomentata e meditata soluzione del problema del termine per provvedere, della sua natura e delle conseguenze dell’inosservanza.
Nel ricorso in primo grado e poi in appello la Società aveva invero sollevato molteplici censure contestando sotto più profili la legittimità del provvedimento sanzionatorio.
Sugli aspetti di merito della vicenda è però superfluo soffermarsi perché tutta la sentenza ruota intorno al motivo della inosservanza del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio che nella economia della decisione assume dunque carattere assorbente.
2. I termini nei procedimenti sanzionatori dell’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente. La sentenza ricostruisce puntualmente la disciplina del procedimento sanzionatorio di competenza dell’A.R.E.R.A. quale risulta dall’art. 45, comma 6, del d.lgs. 1 giugno 2011, n. 93 e dal Regolamento adottato dall’Autorità con delibera 14 giugno 2012, n. 243 poi modificato, in epoca successiva ai fatti di causa, con delibera 1° giugno 2017, n. 388/2017/E/com.
Nel quadro dei principi tracciato dall’art. 45, comma 6 (piena conoscenza degli atti istruttori, contraddittorio in forma scritta e orale, verbalizzazione e separazione tra funzioni istruttorie e decisorie) la normativa secondaria articola il procedimento in una fase preistruttoria e in una fase istruttoria. La prima è rivolta all’acquisizione di ogni elemento utile ai fini di un eventuale avvio di procedimento sanzionatorio. Se elementi utili emergono, la fase preistruttoria si conclude con la notifica della contestazione.
I possibili esiti della fase istruttoria, in contraddittorio, sono invece quelli della archiviazione o della adozione della sanzione.
Per quanto riguarda i termini, l’art. 45, comma 6 del d.lgs. 93 del 2011 prescrive che la prima fase del procedimento debba concludersi con la notifica degli estremi della violazione, “entro centottanta giorni”.
Il termine per la conclusione della seconda fase del procedimento non è invece stabilito né dalla norma primaria né dal Regolamento adottato dall’Autorità con deliberazione 14 giugno 2012, n. 243 nella versione in vigore all’epoca dello svolgimento dei fatti[1]. In assenza di esplicita previsione di portata generale, il termine da prendere a riferimento è pertanto quello che la stessa Autorità è tenuta comunque a stabilire, in ottemperanza al disposto dell’art. 8, comma 2, lett. c bis) della l. 241 del 1990, tenendo conto della complessità del procedimento e a comunicare alle parti nella contestazione degli addebiti.
3. La perentorietà cedevole dei termini per la conclusione della fase preistruttoria. La sentenza che qui si annota esamina approfonditamente natura ed effetti della mancata osservanza del secondo termine, quello per l’adozione del provvedimento sanzionatorio, che nel caso di specie era stato violato.
Tuttavia la sentenza prende anche posizione su varie questioni che riguardano il termine per la comunicazione delle contestazioni. In primo luogo quella della sua decorrenza. La precisazione non è del tutto banale. L’art. 45, comma 6, d.lgs. 93 del 2011 è lacunoso sul punto, limitandosi ad affermare che “la notifica degli estremi della violazione deve avvenire entro centottanta giorni”. Correttamente la sentenza individua nello “accertamento dei presupposti per l’avvio del procedimento” il dies a quo per il computo dei centottanta giorni. Si affretta poi a chiarire che “la sussistenza degli elementi necessari per ritenere configurabile una condotta illecita è rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, non potendosi prevedere una casistica che a fronte dell’eterogeneità e complessità delle diverse ipotesi sclerotizzi detta scelta. Sicché, fatto salvo un sindacato di eccesso di potere sulla sua scelta, è l’Autorità a fissare il momento in cui ritiene compiuto il detto accertamento preliminare”. La sentenza aderisce dunque, sia pure nell’ambito di un mero obiter dictum, ad un orientamento che è condiviso anche dalla giurisprudenza civile spesso chiamata a pronunciarsi sulla questione con riferimento ai procedimenti sanzionatori di Consob e Banca d’Italia. Il giudice ordinario di merito e di legittimità [2] assume che l’accertamento, da cui decorre il termine per la notifica della contestazione degli addebiti, non debba essere riferito alla percezione dei fatti nella loro materialità, ma debba riguardare piuttosto la violazione delle norme per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni amministrative. Partendo poi dalla considerazione che quest’ultima attività, di verifica dei presupposti, può richiedere un’istruttoria e valutazioni anche complesse, la giurisprudenza fa poi coincidere la data dalla quale deve farsi decorrere il termine per la notifica della contestazione con il momento nel quale, ragionevolmente, la constatazione del fatto avrebbe potuto tradursi in accertamento, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito.
Il termine per notifica degli addebiti è dunque perentorio, ma si tratta di una perentorietà cedevole perché poggia sulle sabbie mobili di una valutazione riguardo al compiuto accertamento della violazione di una norma e dunque all’individuazione del dies a quo che, pur se soggetta a sindacato[3], è rimessa in prima battuta alla stessa amministrazione procedente[4],
4. Natura ordinatoria o natura perentoria del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio: il contrasto interno alla giurisprudenza della sesta sezione. Se sul problema della natura del termine di conclusione della fase preistruttoria la sentenza si limita dunque a richiamare precedenti che possiamo definire consolidati della giurisprudenza amministrativa e ordinaria, argomentata e meditata è la posizione che la sesta sezione adotta riguardo al problema della qualificazione del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio affidato alla competenza di A.R.E.R.A.
Sulla questione, la sentenza segnala un contrasto interno proprio alla sezione sesta laddove le altre sezioni del Consiglio di Stato sono univocamente orientate nel senso della natura perentoria del termine per adottare il provvedimento di chiusura del procedimento sanzionatorio. Proprio in relazione a detta circostanza e considerato anche che il contenzioso relativo alla Autorità di Regolazione per l’Energia le è per intero affidato, la Sezione ritiene di poter sciogliere essa stessa il contrasto anziché rimettere la questione alla Plenaria.
La Sezione rileva dunque un’oscillazione della propria giurisprudenza.
La linea di discrimine tra l’uno e l’altro orientamento è marcata dal ruolo assegnato al principio di legalità.
Secondo una prima impostazione, il carattere perentorio del termine procedimentale deve trovare fondamento espresso nel dettato normativo per la ragione che lo spirare del termine implica decadenza ed incide direttamente sulle situazioni soggettive degli interessati. In mancanza di una previsione normativa espressa, dunque, il termine finale del procedimento sanzionatorio, ancorché individuato da regolamenti o delibere generali dell’Autorità, avrebbe valore solo ordinatorio con la conseguenza che la mancata osservanza non incide in alcun modo sulla legittimità dell’atto[5]. Il potere sanzionatorio, inteso come potere di esigere la sanzione, incontrerebbe dunque il solo limite della prescrizione quinquennale sancito dall’art . 28 della l. 689 del 1981.
In non rare occasioni la sesta sezione ha invece aderito all’altro orientamento per il quale la tesi della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori da una norma, se è valida in line generale, non è però applicabile ai provvedimenti sanzionatori. Rispetto a questa categoria di procedimenti, i termini assumerebbero sempre un valore perentorio, a prescindere da un’espressa qualificazione normativa siccome imposto dal principio di effettività del diritto di difesa dell’incolpato e dal principio di certezza dei rapporti giuridici[6].
La sentenza in esame scioglie dunque il contrasto a favore della seconda delle tesi sopra sintetizzate. Gli argomenti addotti a sostegno sono molteplici e coinvolgono temi assolutamente centrali quali quello del ruolo dell’interprete e del significato del principio di legalità.
Il ruolo dell’interprete, che non è quello di mero esegeta, consente di prescindere da una qualificazione normativa espressa. In materia di sanzioni, la natura perentoria o meno del termine dai principi può essere argomentata dai principi di effettività del diritto di difesa, di certezza dei rapporti giuridici[7], di piena realizzazione dell’effetto dissuasivo della sanzione che esige anch’esso un lasso temporale il più possibile ristretto tra la contestazione della violazione e l’adozione del provvedimento sanzionatorio. Tutti detti principi cooperano nel senso della perentorietà del termine.
Accanto a quelli sopra richiamati, pure il principio di legalità, nella sua accezione sostanziale, autorizza a rintracciare il fondamento del carattere perentorio del termine di conclusione del procedimento in atti di normazione secondaria di carattere generale o anche in atti puntuali quali la delibera di avvio del procedimento laddove, come nel caso del procedimento sanzionatorio, nel senso della perentorietà congiurano i principi generali sopra richiamati.
5. I rimedi all’inosservanza del termine. Affermata la natura perentoria del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, anche in mancanza di una previsione normativa espressa, la sentenza affronta un ulteriore e delicato problema che è quello delle conseguenze della sua violazione.
Sul versante dei rimedi e delle tutele la sentenza prende in considerazione varie alternative. La prima è quella dell’azione avverso il silenzio. Correttamente si avverte che l’azione non sarebbe utilizzabile nella sua forma classica per ottenere la condanna dell’amministrazione a provvedere. Ed è chiaro che la condanna a chiudere il procedimento sanzionatorio con un provvedimento espresso di qualsiasi contenuto non risponde in alcun modo all’interesse dell’amministrato che è evidentemente quello di non subire la sanzione. E’ invece rispondente all’interesse del ricorrente lo strumento della azione atipica di accertamento dell’inutile decorso del termine per provvedere con una sentenza che ponga quindi fine alla situazione di incertezza e agli effetti pregiudizievoli che sono legati alla mera pendenza del procedimento (quali le eventuali misure cautelari adottate dalla amministrazione procedente o il danno reputazionale). L’apertura è di notevole interesse anche nella prospettiva, invero non affrontata dalla sentenza, dell’utilizzo del rito speciale avverso il silenzio per ottenere l’accertamento della mera decorrenza del termine e dunque dell’esaurimento del potere.
La seconda ipotesi che la sentenza prende in considerazione per poi respingerla, o meglio per sminuirne il rilievo, è quella della tutela risarcitoria. La circostanza che qui si contesta la violazione di una regola di comportamento da parte dell’amministrazione procedente non avvalora la tesi della adeguatezza della tutela risarcitoria quale forma esclusiva di ristoro del soggetto che ha subito la lungaggine del procedimento. Si avverte che la stessa contrapposizione tra regole di validità e regole di comportamento ha poco senso nel diritto amministrativo dove la violazione delle regole comportamentali che scandiscono l’agire della pubblica amministrazione comporta pacificamente l’illegittimità dell’atto per violazione di legge e/o eccesso di potere e quindi il suo annullamento.
La tutela di risarcimento del danno subito per effetto del mancato rispetto del termine finale è dunque percorribile, ma non in via esclusiva. Solo il rimedio dell’azione costitutiva di annullamento è infatti tale ad assicurare piena ed effettiva tutela al soggetto leso dal provvedimento sanzionatorio tardivo.
La violazione della regola che stabilisce il termine entro il quale deve essere adottato il provvedimento sanzionatorio comporta dunque l’invalidità del provvedimento e, in particolare la sua annullabilità.
In conclusione, i passaggi dell’iter argomentativo della sentenza meritevoli di attenzione sono due: l’affermazione della natura perentoria del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, anche in mancanza di una qualificazione normativa espressa; l’idea dell’idoneità dell’azione di annullamento, e non di altri rimedi, ad assicurare all’amministrato la piena tutela della lesione subita per effetto del provvedimento sanzionatorio adottato in violazione della regola che impone alla amministrazione di concludere il procedimento entro un termine certo.
6. Lo stato della giurisprudenza del giudice ordinario. La pronuncia in esame opera dunque il definitivo assestamento della giurisprudenza amministrativa sui due aspetti sopra evidenziati, natura del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio ed effetti della sua inosservanza, e ne offre una sintesi efficace.
Un utile esercizio può a questo punto essere quello di sovrapporre le conclusioni cui la sentenza perviene con gli orientamenti che sulle medesime questioni ha maturato la giurisprudenza del giudice ordinario. Ne risultano, come passiamo subito ad argomentare, differenze notevoli che sarebbe opportuno ricomporre. La materia dei provvedimenti sanzionatori, e in particolare quella del potere sanzionatorio delle autorità amministrative indipendenti, è spartita tra i due plessi giurisdizionali [8] e pertanto ogni divergenza nella soluzione di problemi che si presentano in termini identici, salvo l’imputazione del provvedimento sanzionatorio ad autorità diverse, risulta poco comprensibile.
Sul versante del giudice civile, civile il leading case risale alla pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, 30 settembre 2009, n. 20929[9] alla quale la giurisprudenza successiva si è conformata.
La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, o meno, del provvedimento sanzionatorio emesso dalla Consob oltre il termine finale di 180 giorni dalla notificazione della lettera di contestazione degli addebiti, rovescia i termini della questione.
Il problema non è quello della natura perentoria o meramente ordinatoria del termine.
La qualificazione del termine è in qualche modo irrilevante ai fini della questione della legittimità o meno del provvedimento sanzionatorio tardivo.
Secondo l’interpretazione seguita dalla Cassazione, l’inosservanza del termine finale è comunque vizio che attiene al procedimento. Di conseguenza lo stato viziato dell’atto adottato oltre il termine previsto per la conclusione del procedimento ricade nell’ambito di applicabilità dell’art. 21-octies, della legge generale sul procedimento ammnistrativo che – come è noto - sancisce l’irrilevanza dei vizi del procedimento e della forma degli atti in tutti i casi in cui, a causa della natura vincolata del provvedimento, il contenuto di questo non potrebbe comunque essere diverso[10].
La tesi che assume la natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, e perciò l’irrilevanza di eventuali vizi procedimentali [11], si salda poi con quella, anche questa condivisa da una giurisprudenza oramai consolidata del giudice ordinario[12], per la quale la violazione delle regole del giusto procedimento e dei precetti di cui agli artt. 24 e 111 della Costituzione e all’art. 6 della CEDU non comporta illegittimità ed annullabilità del provvedimento sanzionatorio. La ragione della predicata irrilevanza del vizio procedimentale risiede, in questo caso, nel carattere pieno e sostitutivo del sindacato giurisdizionale sul provvedimento che applica la sanzione. La verifica circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione svolta in sede amministrativa è ripetibile dal giudice nel rispetto di tutte le garanzie del giusto processo con la conseguenza che la mancata osservanza di queste nel procedimento può trovare adeguata compensazione nel processo.
L’una e l’altra premessa conducono alla conclusione dell’irrilevanza della violazione della regola del termine per l’esercizio del potere sanzionatorio. Il vizio non comporta annullabilità poiché si tratta di fattispecie vincolate e soggette a sindacato giurisdizionale pieno.
7. Conclusioni. La distanza tra la posizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario non è segnata dunque dalla qualificazione del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, se di decadenza o meno. Infatti, come abbiamo visto, la giurisprudenza civile considera irrilevante la questione. La divergenza non è neppure segnata dalla qualificazione del vizio. Per entrambi i giudici si tratta di violazione di una violazione di legge e segnatamente di una norma sul procedimento.
Il dissenso investe invece le conseguenze della violazione: non viziante per il giudice ordinario, tale invece da dar luogo ad annullabilità del provvedimento finale per il giudice amministrativo.
Le posizioni ora riferite colorano di nuovo interesse la contrapposizione tra la tesi per la quale la scadenza del termine per la conclusione del procedimento, e dunque per l’esercizio del potere, comporta l’inidoneità dell’atto a produrre il suo effetto costitutivo tipico e quella che vi collega la sola possibilità di chiedere l’annullamento dell’atto tardivamente adottato.
La questione non è stata adeguatamente approfondita neppure dalla dottrina che più si è spesa a favore della tesi della perentorietà del termine per la conclusione del procedimento [13]. Mentre la giurisprudenza amministrativa, timorosa di cedere spazi alla giurisdizione ordinaria, ha sempre mostrato una notevole riluttanza ad accogliere la soluzione della nullità del provvedimento adottato oltre il termine per l’esercizio del potere.
Si tratta di posizioni che meritano di essere riviste se si vuole portare alla sue logiche conseguenze e si vuol dare effettività alla scelta di “prendere sul serio” i termini del procedimento, scelta che è implicita nella qualificazione degli stessi in termini di perentorietà.
I tempi sembrano del resto maturi. Da un lato, il precipitato in termini di giurisdizione ordinaria che il vizio di nullità comporta, secondo i criteri tradizionali di riparto, è in buona misura sterilizzato dall’estensione della giurisdizione esclusiva. In questa ricade anche la fattispecie esaminata dalla sentenza che qui si commenta che riguarda l’Autorità di regolazione dell’energia.
Dall’altro finché si ragiona in termini di annullabilità, occorre fare i conti con le argomentate conclusioni cui perviene la giurisprudenza ordinaria in merito al carattere non invalidante del vizio.
In conclusione, l’opzione a favore della perentorietà del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio è del tutto condivisibile nell’ottica dell’effettività delle regole del giusto procedimento. Si tratta però di una scelta che deve essere condotta fino alla sua logica conseguenza: se il decorso del termine di chiusura del procedimento “consuma il potere sanzionatorio”[14] il provvedimento non è annullabile, ma nullo.
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[1] Una disciplina generale è poi stata introdotta con la delibera dell’Autorità L’art. 4bis sancisce ora un termine di conclusione del procedimento che è pari a 220 giorni decorrenti dalla comunicazione di avvio del procedimento. Il termine può essere sospeso in caso di richiesta di informazioni di cui all’articolo 10, di accesso, di ispezione, di perizia o di consulenza di cui all’articolo 11, nonché di richiesta di informazioni, fino alla data di ricevimento delle informazioni, delle relazioni peritali o consulenziali o della conclusione dell’accesso o dell’ispezione. Il termine è inoltre prorogato di 30 (trenta) giorni nel caso di richiesta di audizione finale avanti al Collegio ed è prorogabile in presenza di sopravvenute esigenze istruttorie, nonché in caso di estensione soggettiva od oggettiva del procedimento.
[2] Sulla scorta di Cass. 9 settembre 2007, n. 5395 che, pronunciandosi sul procedimento sanzionatorio in materia di intermediazione finanziaria afferma che il termine di 180 giorni per la contestazione degli addebiti ha natura perentoria e la sua inosservanza determina l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione. Tuttavia il dies a quo per il computo del termine non coincide con la data della constatazione materiale dell’illecito e si colloca invece nel momento in cui, nel caso concreto, sia stato possibile pervenire all’accertamento della avvenuta violazione delle norme in materia di intermediazione, compiute la valutazioni tecniche complesse ed espletata l’istruttoria a tal fine necessaria.
[3] La tendenziale elasticità dei termini procedimentali che l’orientamento giurisprudenziale citato alla precedente nota assicura alla amministrazione è parzialmente mitigata dalla giurisprudenza di merito, nella quale sono ripetute affermazioni di questo tenore: il lasso temporale tra l’accertamento materiale dell’illecito e la contestazione “non può essere eccessivamente dilatato, sulla base di una discrezionalità dell’autorità non suscettibile di controllo”(App. Milano, sez. I, 4 aprile 2013); “non può essere dilatato ingiustificatamente, rinvenendo però la sua giustificazione, legittimità e ragionevolezza da eventuali necessità istruttorie promananti dalla complessità dell’indagine” (App. Milano, 25 giugno 2013); e, ancora, “la dilatazione dei termini per la contestazione non può essere giustificata dal ricorso ad attività di indagine non essenziali ovvero dal ritardo immotivato nell’audizione dell’incolpato” (App. Milano, 23 agosto 2013)
[4] “Sicché, “fatto salvo un sindacato di eccesso di potere sulla sua scelta, è l’Autorità a fissare il momento in cui ritiene compiuto il detto accertamento preliminare”, cfr. in motivazione 6.1
[5] In questi termini i precedenti puntualmente richiamati dalla sentenza e, in particolare, Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 2020, n. 6891; Id., 13 febbraio 2018, n. 911; Id., 19 febbraio 2018, n. 1053;Id., 8 luglio 2015, n. 3401 relative a procedimenti sanzionatori condotti dall’Autorità per l’energia elettrica ed il gas; Id., Sez. VI, 29 maggio 2018, n. 3197; Id., 4 luglio 2018, n. 4110; Id., 22 settembre 2015, n. 5253, al procedimento sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato; Id, , 2 febbraio 2015, n. 468 sul procedimento sanzionatorio dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici.
[6] Così Cons. St., sezione VI, 29 gennaio 2013, n. 542; Id. sez. VI, 6 agosto 2013, n.4113; Tar Lazio, sez. II, 5 maggio 2014, n. 4626; Cons. St., Sez. VI, 21 febbraio 2019, n. 2042; Id. sez. V, 3 ottobre 2018, n. 5695; Id. 3 maggio 2019, n. 2874; Id. , sez.VI, 17 novembre 2020, n. 7153. Anche la dottrina si è prevalentemente espressa nel senso della perentorietà del termine, specie con riguardo all’esercizio del potere della Consob. Vedi W. Troise Mangoni, Il potere sanzionatorio della Consob. Profili procedimentali e strumentalità rispetto alla funzione regolatoria, Milano, 2012, p. 173 ss.;M. Fratini, sub art. 195, ne Il Testo Unico della Finanza, Commentario a cura di M. Fratini, G. Gasparri, Tomo 3, Milano, 2012, p. 2678 ss.; M. Fratini, G. Gasparri, A. Giallongo, Le sanzioni della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob), in Le sanzioni delle Autorità amministrative indipendenti, a cura di M. Fratini, Padova, 2011, p. 458 ss
[7] La sentenza richiama pure il noto orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo per la quale le sanzioni amministrative sono assimilabili alle sanzioni penali con la conseguenza che i procedimenti che le applicano sono soggetti ad una più stretta accezione dei principi del giusto procedimento, ivi compresi quelli di effettività del diritto di difesa e di certezza. In tal senso vedi: Corte EDU, Grande Camera, 17 gennaio 1970, caso Delcourt c. Belgio; Corte EDU 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics srl contro Italia;; Corte EDU, 04 marzo 2014, caso Grande Stevens e altri c. Italia. In dottrina, V. ZAGREBELSKY, Le sanzioni Consob, l'equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. It., 2014, 5La giurisprudenza europea giustifica l’assimilazione tra sanzioni amministrative e penali laddove le prime presentano carattere afflittivo in considerazione dell’importo previsto, quando l’apparato sanzionatorio risponde ad interessi generali normalmente tutelati dal diritto penale (quali quelli della tutela degli investitori, dell’efficacia, trasparenza e sviluppo dei mercati) e quando la sanzione persegue uno scopo preventivo e repressivo e non di mera riparazione del danno.
[8] La giurisprudenza ordinaria si è trovata spesso ad esaminare il problema nell’ambito della giurisdizione che è attribuita al giudice ordinario in materia di sanzioni amministrative e segnatamente delle sanzioni comminate da Banca d’Italia e Consob rimesse anch’esse alla giurisdizione ordinaria da Corte Cost. 20-27 giugno 2012, n. 162 e Corte Cost. 15 aprile 2014, n. 94.
[9] La pronuncia del 2009 della Cassazione è richiamata dalla sentenza in esame la quale esclude il contrasto sottolineando le peculiarità della fattispecie decisa dalla Cassazione. Il contrasto invece sussiste ed è esattamente rilevato da Cons. St., sezione VI, 29 gennaio 2013, n. 542, che nell’affermare il carattere perentorio del termine accordato alla Banca d’Italia per concludere il procedimento sanzionatorio, muove proprio da un’aperta critica a Cass. 20929/2009.
[10] Il giudice amministrativo, e pure la sentenza in esame, esclude invero la natura vincolata dei provvedimenti sanzionatori i quali sarebbero dotati di un tasso di discrezionalità coessenziale alla loro natura, sia in ordine all’accertamento dei fatti che alla loro qualificazione giuridica (per i quali sussiste una accentuata discrezionalità tecnica), sia in ordine alla quantificazione della sanzione e di conseguenza esclude che possa operare la previsione contenuta nel comma 2 primo periodo del citato art. 21- octies relativa all’irrilevanza del vizio. L’assimilazione delle sanzioni amministrative a quelle penali in ragione del loro carattere afflittivo, che è un chiaro portato della giurisprudenza della Corte EDU, ne comporta però la soggezione ai principi di tassatività e determinatezza della norma punitiva. Dunque i provvedimenti sanzionatori sono provvedimenti in cui il fatto costitutivo del potere può essere oggetto di una attività di accertamento anche complessa, ma non di valutazione discrezionale. Sulla assimilazione delle sanzioni amministrative alle sanzioni penali e la conseguente sottoposizione alle garanzie di cui agli artt. 6 e 7 della CEDU: Corte EDU, Grande Camera, 17 gennaio 1970, caso Delcourt c. Belgio; Corte EDU 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics srl contro Italia; Corte EDU, 04 marzo 2014, caso Grande Stevens e altri c. Italia; vedi anche Corte Cost. 21 marzo 2019, n. 63. In dottrina V. ZAGREBELSKY, Le sanzioni Consob, l'equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. It., 2014, 5. Sulla soggezione delle sanzioni amministrative ai principi di tassatività e determinatezza, m.a. sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie, Jovene, 1983, 74ss..
[11] Nello stesso senso, Cass., sez. II, 21 febbraio 2013, n. 4429 e Cass., sez. II, 14 giugno 2013, n. 15019.
[12] Cass. civ. sez. II 21 maggio 2020, n. 9371; Id. 21 maggio 2020, n. 9385 ove è enunciata la massima per la quale: “In tema di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 della CEDU, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa - nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria - ovvero mediante l'assoggettamento del provvedimento sanzionatorio - adottato in assenza di tali garanzie - ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della Convenzione, il quale non ha l'effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacché la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale”.
[13] Così m. clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 176, per il quale “una volta chiarito che l’atto emanato fuori termine, nullo o annullabile che sia, determina l’impossibilità per l’amministrazione di operare la sanatoria o di esercitare nuovamente il potere sulla base degli stessi elementi posti alla base del provvedimento tardivamente emanato, diventa un problema semplicemente terminologico e non di sostanza usare una espressione anziché l’altra” (ovvero nullità o annullabilità). Anche se lo stesso A. afferma di preferire tra le due soluzioni prospettate quella che qualifica il provvedimento emanato fuori termine come nullo per carenza sopravvenuta di potere perché il termine rappresenta un limite esterno del potere avendo “la funzione di delimitare nel tempo la situazione di incertezza e di sospensione dell’assetto dei rapporti che si determinano nel periodo intercorrente tra l’avvio del procedimento e la sua conclusione con l’emanazione del provvedimento”.
[14] Così Tar Lazio, sez. II, 5 maggio 2014, n. 4626, relativa ai procedimenti sanzionatori dell’Isvap.
“Lampeggi” sulle motivazioni di Bruno Capponi
1. È stimolante leggere nel programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021 (punto 11) e nelle Riflessioni del pres. Rordorf, in questa Rivista dal 3 giugno 2021, tante calibrate osservazioni sull’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali. Ne vanno sottolineati i presupposti: l’obbligo va sempre assolto, e deve essere personalmente assolto dall’estensore del provvedimento. Si tratta di presupposti non proprio scontati, perché messi talora in discussione da chi programma la motivazione a richiesta[1], così come da chi assume normale che la motivazione possa tradursi in un posterius, addirittura rimesso a un giusperito terzo[2]. In tempi di strisciante americanizzazione del linguaggio, dei comportamenti e dei concetti, è consolante verificare che non siamo (ancora) disposti ad accettare verdetti. Che esponenti della più alta Magistratura condividano questa idea, pur in un momento di grave crisi di efficienza, dimostra quanto sia tuttora vivo nella nostra cultura il principio (e il messaggio) del comma 6 dell’art. 111 Cost.
2. Siamo soliti parlare di motivazione con riferimento ai provvedimenti, ma non dobbiamo perdere di vista che anche gli atti di parte vanno motivati. Basta leggere il controverso testo dell’art. 342, comma 1, c.p.c. (sortito dalla novellazione a sorpresa dell’estate 2012) per rendersene conto. Non a caso, il tema della chiarezza e sinteticità riguarda allo stesso modo atti e provvedimenti, sebbene vada poi declinato diversamente nei diversi contesti. Ho sempre pensato[3], d’altra parte, che le motivazioni di merito siano e debbano essere diverse da quelle di legittimità, e dai provvedimenti organizzativi del pres. Lupo in poi[4] una distinzione va fatta anche all’interno delle motivazioni di legittimità. Dunque, è essenziale prendere atto che quando si parla di motivazione non ci si riferisce a un fenomeno unico e monolitico, bensì a un elemento suscettibile di essere declinato in un ricco numero di variabili in contesti tra loro assai diversi.
3. Quando si parla di Cassazione, va stabilito se la motivazione rilevi quando la Corte conosce e/o quando decide. I principi di diritto affermati nell’interesse della legge (art. 363, nelle sue varie applicazioni) o, come si vorrebbe ora[5], a seguito di “rinvio pregiudiziale” del giudice di merito che invoca un intervento nomofilattico prefigurano una Corte che non esercita (o non esercita soltanto) funzioni di giudice, bensì una funzione di orientamento o addirittura para-legislativa che, secondo taluni, le deriverebbe direttamente dall’art. 65 ord. giud.
Si tratta di questione delicatissima, che non può risolversi in poche battute (come impongono questi “lampeggi”). Però, è chiaro, decisione e motivazione assumono significati diversissimi a seconda che il principio di diritto venga affermato decidendo un ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.) ovvero in relazione a una pluralità di casi (e magari ricorsi) futuri, nel contesto che ben conosciamo: in cui il principio vincola soltanto il giudice che ha disposto il rinvio pregiudiziale[6] così come, del resto, quello affermato decidendo un ricorso vincola il solo giudice di rinvio.
È vero che, come ricorda Rordorf, è rinvenibile nell’ultima produzione normativa una tendenza ad accrescere il vincolo della nomofilachia, ma ciò vale nei rapporti tra sezioni unite e sezioni semplici (quando queste ultime se lo ricordano…), non anche nel rapporto, mai scontato a fronte dell’art. 101, comma 2, Cost., tra giudice di legittimità e giudici di merito. Se non si risolve questo enorme nodo critico (che non si affronta proprio per le grandi difficoltà che implica), temo che la più pura funzione nomofilattica della Cassazione, da molti voluta specie all’interno della Corte, non potrà mai seriamente decollare.
Il primario che, all’apice della carriera, decida di non andare più in sala operatoria potrà diventare una grande Maestro della medicina, un faro per le generazioni future; ma nella consapevolezza di aver cambiato mestiere.
4. È bello ascoltare dalla voce di un grande magistrato, quale Renato Rordorf, il riferimento alla funzione “interiore” della motivazione (§ 3, in fine). La categoria riflette un elemento che anch’esso non va dato per scontato: la motivazione è parte integrante della decisione, non un qualcosa che venga “appiccicato” dall’esterno a cose già fatte (funzione meramente giustificativa) e al solo scopo di sorreggere un verdetto. I magistrati del lavoro sanno bene quanto sia insidioso il sistema che porta a separare la stesura del dispositivo da quella della motivazione. Io credo che la motivazione non possa che essere sempre “interiore”, e la categoria andrebbe inserita nei testi istituzionali.
5. La Corte di cassazione dovrebbe evitare sentenze troppo articolate – anche Rordorf parla, con negativo apprezzamento, delle “sentenze-trattato” – se non altro perché, nel nostro sistema, la massimazione non è compito esclusivo dell’Organo che pubblica la decisione: sono davvero infinite le sedi – dalle riviste tradizionali a quelle telematiche, che spuntano nuove di giorno in giorno – in cui si vuole tradurre in “principio” le affermazioni della Corte che sorreggono o conducono a una decisione. C’è poi l’opera diffusiva e a volte strumentale e fuorviante dei difensori, i quali spesso tendono a citare nei loro atti, col virgolettato, brani di motivazioni che risultano inconferenti ai fini del decidere e che, come ancora ricorda Rordorf, sovente non costituiscono neppure il frutto di una discussione e decisione collegiali. Più una decisione è lunga, articolata e inutilmente dettagliata, maggiore è il rischio di una sua sostanziale incomprensione.
La quale è spesso del tutto strumentale, siamo d’accordo: ma il nostro particolare contesto finisce per favorire il fenomeno, che dovrebbe invece reprimere. Il narcisismo (termine utilizzato ancora da Rordorf) di molti consiglieri fa il resto; in un bel libro di memorie[7] di un altro grande magistrato, Gabriella Luccioli, ho letto una frase che mi è rimasta impressa e che suona: nelle tante sentenze che ho scritto, non ho mai dimenticato che a parlare era la Corte di Cassazione. Questa frase andrebbe scolpita nell’Aula Magna, al posto di quella che attualmente compare – Nimium altercando veritas amittitur – e che forse suona un po’ irridente nei confronti degli Avvocati, i quali del resto sono ormai raramente ammessi alla discussione pubblica. O forse occorrerebbe conservare la frase di Publilio Siro per gli Avvocati, e incidere nel marmo quella della Luccioli ad uso e consumo dei Magistrati.
6. Parlando di motivazione della sentenza, non può trascurarsi che ogni sentenza è il terminale di un dato procedimento, e ne mutua tutte le caratteristiche, e così in primo luogo quelle negative. Già in altra occasione[8] ho scritto che un giudice dovrebbe poter dire: se, nelle prime venti pagine del tuo atto, ancora non mi hai fatto chiaramente capire cosa vuoi, il resto non lo leggo. Dedico il mio tempo, che è risorsa preziosa, a chi sa meglio spiegarsi, o che ha bisogno di più parole per spiegarsi al meglio. Ma non soltanto i giudici sono vittime dell’abolizione del bollo sul formato protocollo e del sistema del contributo unificato. Le prime vittime sono anzi gli stessi avvocati, che sin dai gradi di merito vengono invogliati, partendo dalle memorie del comma 6 dell’art. 183 c.p.c., a contribuire alla deforestazione del pianeta: sfido chiunque, sulla base dell’esperienza, a dimostrare che, dopo gli atti introduttivi, servono sempre tre memorie prima di aver accesso all’udienza istruttoria. Le attuali proposte governative sono nel senso di far scattare le preclusioni anche istruttorie sin dal primo atto: ma allora, a cosa mai potranno servire tre memorie di stanche ripetizioni e grasse rifritture?
È purtroppo sin dall’inizio del giudizio che l’avvocato viene indotto a riscrivere il già scritto e, fatalmente, a rileggere il già letto. Carnefice e vittima, come in ogni farsa che si rispetti. L’avvocato è la prima vittima in ordine di tempo: perché legge, di norma, prima del giudice, del quale diviene poi in pari misura carnefice. L’opera di affastellamento indiscriminato e irrazionale, che è alla base della produzione dei nostri atti giudiziari, s’aggrava inevitabilmente col passaggio dei gradi, perché la preoccupazione che prevale è quella di dar conto di tutto, e di non cadere in errori di omissione.
Morale: se non si cambia la struttura del giudizio sin dal primo grado, se non si regola la base della piramide, ben difficilmente si potranno richiedere alla Cassazione motivazioni chiare, sintetiche e illuminanti.
Per riprendere le classificazioni di Rordorf, siamo d’accordo sull’esistenza di un narcisismo “positivo” contrapposto a uno “nocivo”. Ma c’è anche il narcisismo “malato”, che viene cioè dal contagio del processo, dal processo come malattia[9], perché non si può pretendere che il risultato finale abbia caratteristiche e qualità che il processo stesso, in sé, è ben lungi dall’avere.
7. Per questo ritengo che la pars costruens dell’intervento di Rordorf sia quella (§ 5) in cui l’A. sottolinea che il progresso nella materia potrà venire soltanto dalla collaborazione tra le personae (sempre più dramatis) che compaiono nel processo: argomento che introduce la motivazione come tipo “dialettico” (altra categoria “nuova” sulla quale riflettere). Tra gli atti di parte e la sentenza c’è «una stretta correlazione», e dietro gli atti ci sono sempre le persone. Che non debbono smettere di dialogare, anche in tempi così difficili.
[1] V. lo studio della Tota, Motivazione “a richiesta” nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2014, 613 ss.
[2] Di questa curiosa proposta (mancata) abbiamo ragionato in A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile» (collegato alla legge di stabilità 2014), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 361 ss.; nella stampa quotidiana v. Sentenze in appalto agli avvocati, in Il Sole-24Ore dell’11 marzo 2014, pag. 23.
[3] Mi permetto di rinviare a La motivazione della sentenza civile dopo la Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642, in Quest. Giust. on line dal 24.3.2015.
[4] Provvedimento sulla motivazione semplificata n. 27 del 22 marzo 2011, in Foro it., 2011, V, 183.
[5] Il riferimento è agli emendamenti governativi al d.d.l. 1662/S, già pubblicati e discussi in questa Rivista.
[6] Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso relative alla legge delega di riforma del processo civile quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, di prossima pubblicazione in questa Rivista.
[7] Diario di una giudice. I miei cinquant'anni in magistratura, Udine, 2016.
[8] Brevità, concentrazione, non-ripetizione, in www.judicium.it-Intimités.
[9] V., sul punto, le sapide pagine di Giussani, Sul morbo della causa muta, in Riv. Dir. proc., 2021, fasc. 2.
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