ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Credo quindi sono: rileggere Dio esiste? 9 anni dopo
di Tommaso Manzon
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dio esiste? - 3. Due soglie storiche - 4. Küng su Feuerbach - 5. La fine della storia? - 6. Conclusione.
1. Introduzione
Quando mi è stato proposto di contribuire di nuovo a queste pagine (virtuali) con un articolo che in qualche modo, e per quanto modestamente, potesse marcare il passaggio a miglior vita del teologo e filosofo cattolico Hans Küng, le sensazioni che questa commissione suscitarono in me si possono riassumere così: da un lato sorpresa e gratitudine, perché non mi aspettavo assolutamente di essere contattato – e quindi qui voglio cogliere anche l’opportunità per ringraziare Giustizia Insieme per la cortesia e l’interesse dimostratimi – dall’altro lato ho invece subito cominciato a chiedermi quale potesse essere il “taglio” adatto per questo pezzo. A questo proposito, quasi come una captatio benevolentiae, chiarisco subito che non sono né un esperto, né quindi tantomeno un’autorità sul pensiero di Küng e che pertanto non ho nessuna intenzione di esprimermi come tale.
Piuttosto, per citare C. S. Lewis dall’introduzione del suo Reflections on the Psalms, “scrivo come dilettante a un altro dilettante, discutendo delle difficoltà che ho incontrato o delle illuminazioni che ho ricevuto”[1]. Il mio desiderio è quindi quello di scrivervi a partire da un rapporto personale e non specialistico con un autore e i suoi testi, così come lo scrittore britannico fece, in maniera senz’altro più degna, con le composizioni del Salterio. Il mio contributo quindi non vuole essere né un in memoriam, di cui peraltro abbiamo avuto un’abbondanza nelle ultime settimane[2] né in qualche modo un tentativo di ricapitolazione o di inquadramento generale dell’opera del grande pensatore tedesco – compito per il quale non mi sento equipaggiato. Quello che vorrei fare è invece concentrarmi su di un’opera in particolare nella vasta produzione künghiana e con la quale per una serie di motivi intrattengo un legame affettivo particolare – non ultimo per il fatto che la copia in mio possesso del testo in questione mi fu regalata da mio Padre in occasione del natale del 2013, a poco più di un anno di distanza dalla mia conversione e a circa 9 mesi dal mio battesimo. Attraversando in modo sparso e irregolare questo testo – appunto, in base alle luci e alle difficoltà che vi ho trovato – vorrei aprire una finestra su un nesso molto importante della riflessione künghiana e che, ne sono convinto, si colloca al centro del tempo che stiamo vivendo.
2. Dio esiste?
Il libro a cui voglio fare riferimento s’intitola nella traduzione italiana Dio esiste? e già da questo si può facilmente comprendere quale sia il suo tema. In linea con lo stile di Küng, questo testo è scritto in un modo piano, ai limiti del divulgativo, il che lo rende una lettura agevole e coinvolgente nonostante le dimensioni particolarmente voluminose (943 pagine di testo nell’edizione italiana! – anche la tendenza a produrre libri-fiume è un tratto caratteristico del teologo svizzero). Lo scopo dell’opera è proprio quello di dare e di giustificare una risposta – affermativa, ovviamente – alla domanda che fa da titolo al volume. La ricchezza specifica del testo però, mi pare che non riposi solo nella sua conclusione e nelle motivazioni messe in campo dall’autore. Bensì essa si rinviene anche nel viaggio che Küng fa compiere al suo lettore, per poterlo portare, passo dopo passo, ad avere un’approfondita comprensione della problematica che si cela dietro la domanda di copertina, e in che modo sia possibile e vada compresa la risposta fornitagli al termine dell’argomentazione.
In altri termini potremmo dire che a un approccio di tipo problematico – per cui si ha una domanda e si cerca di argomentare a favore di una particolare risposta a questa domanda, tentando allo stesso tempo di mostrare al nostro interlocutore/lettore perché le risposte concorrenti non dovrebbero ricevere la nostra approvazione – Küng associa ed intreccia un modo di procedere genealogico. A questo proposito bisogna specificare che genealogico è simile a storico ma significa una cosa differente, e questa differenza è cruciale per capire il modo in cui Küng legga e affronti il suo materiale. Questo potrebbe sorprendere chi conosca il libro in questione o che abbia anche solamente dato una scorta al suo indice. Di primo acchito infatti, Dio esiste? sembra presentarsi proprio come un’indagine storica del come e del perché il problema dell’esistenza di Dio sia emerso nella coscienza dell’umanità europea, e di come si sia affermata una condizione culturale che di fronte a questo problema si pone con una risposta negativa se non più semplicemente con una scrollata di spalle. Ed è senz’altro vero che in Dio esiste? venga in qualche modo raccontata una storia, che comincia con Cartesio e giunge fino ai giorni nostri e che include frequenti excursus nella filosofia, teologia, politica e storia sociale della cultura europea degli ultimi 4 secoli. Eppure non si può descrivere quest’opera come lo sforzo di uno storico: troppa la velocità, troppe le digressioni, ma soprattutto troppe le semplificazioni di figure e momenti storici (e in qualche caso il volume mostra i suoi anni offrendo delle interpretazioni superate); non vi è quindi la dovizia di particolari che faccia assurgere la storia di Dio esiste? al rango di scientificità specifico di una storia nel senso accademico e disciplinare del termine.
Ciò non di meno cogliamo il punto, la “cosa” di cui Küng ci vuole parlare – andando così a cogliere anche le sue intenzioni che non sono comunque quelle di scrivere un libro di storia – se intendiamo questo racconto delle origini di una cultura e di un problema come una genealogia, intesa nel senso nietzscheano del termine[3]. Questo significa leggere Dio esiste? come uno studio – mi si perdoni la semplificazione di una questione molto dibattuta come quella della natura della pratica genealogica di Nietzsche – delle condizioni ed eventi che hanno causato le impressioni, che hanno attivato le forze, che hanno prodotto la nascita e la diffusione delle idee, forme di vita, istituzioni, gruppi sociali che hanno portato alla formazione della condizione odierna in cui ci troviamo. Pertanto questo giustifica lo stile e l’andamento della scrittura küngiana, che intreccia momenti descrittivi a momenti dialettici e prescrittivi, che si muove costantemente tra il piano diacronico dell’esposizione storica e quello sincronico della discussione problematica, e che fondamentalmente tende a voler definire il campo di emersione e lo strutturarsi di un problema; non si tratta quindi di voler esporre con dovizia di dettagli una cronaca della storia europea, né di esprimere giudizi personali sui suoi protagonisti, bensì si tratta di “illustrare la problematica moderna del rapporto ragione e fede”[4].
3. Due soglie storiche
In quest’ottica l’orizzonte sistematico-genealogico di Dio esiste? informa anche la scelta e l’ordine nella trattazione del materiale storico. Non è quindi arbitrario che il nostro cominci la propria discussione a partire dal ‘600 e dalle figure di Cartesio e di Pascal. Nello specifico Küng legge questi due pensatori come i “responsabili” principali per quanto riguarda la definizione della nostra attuale comprensione dei concetti di fede e di ragione, nonché dei loro possibili modi d’interrelazionarsi, in quanto piani che non s’identificano, che non si separano mai del tutto, ma che non riescono nemmeno a trovare una pace nella loro comunicazione reciproca – sicché, per semplificare al massimo, con Cartesio prevale la ragione che regola la fede e con Pascal è il contrario. Nella loro costante attualità i due pensatori francesi diventano quindi due interlocutori che non si può non invitare al tavolo della discussione al fine di comprendere la nostra situazione attuale. Insomma è a partire dal loro – non ad esclusione del passato ma come “soglia” che taglia la coscienza europea – che il lettore, alla luce dello scenario contemporaneo, non potrà evitare di chiedersi che cosa “in questa storia [fosse] ‘necessario’ e che cosa no” e se “questo processo storico verso l’ateismo pratico [sia] irreversibile, [se si sia] svolto una volta per tutte” o se invece ci sia “ancora un futuro per la fede in Dio”[5].
Un secondo effetto sulla disposizione del materiale causato dall’orizzonte problematico di Küng è evidente, a parere di chi scrive, nel fatto che l’analisi contenuta in Dio esiste? trovi il suo perno nella discussione della figura di Hegel. Per Küng il filosofo tedesco è stato capace sia di fare i conti in maniera onesta con l’ateismo in quanto opzione etica ed intellettuale, sia di offrirvi una risposta credibile. In questo senso la strada percorsa da Hegel sarebbe stata quella di prendere sul serio le obiezioni della non-fede facendone tesoro e includendole nel proprio discorso, per poi trascenderle; ossia, come scrive Küng, Hegel fu in grado di comprendere “l’ateismo moderno in maniera post-ateistica”[6], sicché quest’ultimo diventerebbe una critica ingenua fatta ad un’esposizione altrettanto ingenua della fede, entrambe le quali verrebbero raccolte e superate in una presentazione più matura del messaggio cristiano all’interno del pensiero hegeliano. In questo le unilateralità ereditate dal momento “Cartesio-Pascal” verrebbero inquadrate all’interno di una visione più ampia ma comunque amica e funzionale alla fede. Più in generale la prospettiva hegeliana è il punto di partenza da cui secondo il teologo svizzero dovrebbe prendere il via ogni discussione su Dio e il nostro rapporto con lui, perlomeno con riferimento alla tradizione cristiana – il che è peraltro in linea con il fatto che l’opera speculativamente più “incisiva” di Küng sia per l’appunto uno studio del pensiero teologico di Hegel con un interesse specifico per la sua cristologia[7].
Più nello specifico, secondo Küng il genio di Hegel è stato quello di ribadire l’essenziale della fede cristiana superando il debito contratto dalla teologia – e quindi inevitabilmente dalla expositio fidei – con il pensiero greco e con una certa immagine scientifica dell’universo pre-moderna. Data la crescente in-credibilità della seconda e l’eccessiva enfasi sulla staticità ed estraneità di Dio della prima, questo debito contratto dalla tradizione cristiana con mondi intellettuali a lei estranei aveva finito per produrre la problematica divaricazione tra fede e ragione emersa nei pensatori francesi del ‘600. Hegel sarebbe stato in grado di superare questo stallo riuscendo a pensare Dio nella sua trascendenza e nel contempo – e questo è lo specifico della sua proposta intellettuale e spirituale – di pensarlo nel suo più profondo coinvolgimento con e nella storia. Pertanto non vi è né può esserci divaricazione tra infinito e finito perché questi sono organicamente insieme in un’unione differenziata. Ancora più nel dettaglio la coscienza infinita di Dio e quella finita dell’uomo sono originariamente in comunione e questo impedisce che si possa dare una contrapposizione netta tra ragione e fede, o perlomeno che una delle due prevarichi sull’altra. Questo avviene in quanto sia il nostro rapporto con il finito che quello con l’infinito, ossia ragione & fede, pur essendo differenti e in una relazione non sempre chiara l’uno con l’altro, si sviluppano all’interno di una più vasta connessione con la divinità. In altre parole mi sembra di poter dire che Küng affermi come Hegel, a fronte delle sfide della modernità, sia stato capace di formulare in maniera convincente la classica affermazione cristiana circa il fatto che Dio sia dall’eternità il Vivente e il Creatore e che quindi egli non sia essere statico, ma essere dinamico che agisce e che non è originariamente esterno alla creazione bensì intimamente coinvolto con essa senza però esservi identico[8]. Quindi un Dio sì trascendente ma non distante e privo di passioni come nella tradizione greca e in particolare platonica, ma il Dio di Abramo, coinvolto e appassionato nella storia, slegato da una qualunque visione scientifica dell’universo e sperimentato come trascendente nel mentre la nostra vita e la nostra azione s’intrecciano con la sua.
Non è questo il luogo in cui poter discutere in modo approfondito una tesi articolata come quella di Küng su Hegel. Questo è senz’altro un dono prezioso che Dio esiste? si porta in dote ma che già a una prima lettura risulta tanto seria e pregna di conseguenze – e pertanto degna di essere presa in serissima considerazione – quanto discutibile, sia in base alla ricostruzione storica che essa sottende, sia dal punto di vista dei suoi effetti concreti. È proprio su un elemento di questo aspetto, ovverosia degli effetti delle tesi di Hegel, che voglio basare il resto di questo pezzo, perché qui si cela un altro “dono prezioso” del testo di Küng – forse l’aspetto che più mi colpì del testo che stiamo discutendo la prima volta che lo lessi, per il modo in cui riuscì a incontrare le domande e i dubbi che all’epoca mi si ponevano. Questo secondo “dono” consiste nella discussione che Küng fa della figura di Feuerbach.
4. Küng su Feuerbach
A chi abbia qualche nozione di base della storia della filosofia europea, sarà già venuto in mente che, come già sotteso nel paragrafo precedente, c’è un aspetto estremamente controverso nella lettura fatta da Küng di Hegel il quale ci porta direttamente alla “questione Feuerbach”. Perché se è indubbiamente vero che Hegel abbia nutrito la teologia cristiana e specialmente quella di scuola evangelica, dotandola di strumenti in grado di crescere e prosperare anche in un clima culturale e intellettuale che mutava e diventava sempre più difficile da navigare per la fede, è anche vero che dal seno del pensatore tedesco sono fuoriusciti alcuni tra gli atei più formidabili di tutti i tempi. Anzi si potrebbe aggiungere che quando l’Ateismo con l’A maiuscola è stato un movimento di massa – e con questo intendiamo quindi l’ateismo come posizione intellettuale rigorosamente meditata e portata per le strade come un grido di battaglia sociale, culturale ed etica, e in questo differenziandolo dall’ateismo odierno che più spesso è semplicemente il nome dell’indifferenza – ebbene esso lo è stato precisamente dietro la spinta di movimenti secolaristi, che in un certo qual modo si ponevano come l’onda lunga della rivoluzione del pensiero operata dalla filosofia hegeliana – e prima di tutto pensiamo al marxismo di stampo leninista e maoista.
Con il senno di poi si potrebbe quasi dire che la vicenda ora cristallizzata nei manuali di storia fosse inevitabile, o perlomeno una delle tante conseguenze, inevitabili, della meditazione hegeliana sulla storicità di Dio. Se infatti questa doveva dare un senso nuovo, vivo e concreto alla coscienza della trascendenza divina, risulta se non ovvio quantomeno intuibile il fatto che un’enfasi sulla presenza di Dio nella storia potesse portare alla sua confusione con la storia stessa, ossia che l’infinito trascendente collassasse nel finito immanente. Non è quindi un caso che, ritornando sull’intreccio tra finito e infinito descritto in precedenza, Küng scriva che
“basta mutare il punto di vista perché tutto appaia rovesciato: perché non sia più la coscienza finita a venire ‘superata’ nella coscienza infinita e lo spirito umano nello Spirito assoluto, ma viceversa la coscienza infinita in quella finita e lo Spirito assoluto nello spirito umano![9]”
Pertanto si può capire come al Dio nella storia di Hegel sia potuta seguire l’umanità come Dio di Strauss e il Dio come umanità di Feuerbach, per poi arrivare alla pura e semplice assenza di Dio e alla convinzione di Marx, Engels & soci che l’umanità potesse fare come Dio, creandosi il proprio paradiso in terra.
È proprio sul secondo membro di questa triade che vorrei soffermarmi perché Küng, che è ovviamente ben conscio di questa storia e che dedica sia a Feuerbach che a Marx delle pagine illuminanti, vede più nel primo che nel secondo l’insorgere di un ulteriore punto di non ritorno dopo quelli segnati da Hegel, Cartesio e Pascal – laddove Marx è invece visto soprattutto come colui che avrebbe portato certe intuizioni fuori dallo studio dell’intellettuale e al livello della politica di massa.
La posizione di Feuerbach in materia di religione è ben nota nelle sue linee fondamentali: l’uomo parlando di Dio e facendo quindi della teologia ha in realtà sempre e soltanto parlato di sé stesso, proiettando “in grande” i propri bisogni, le proprie aspettative e le proprie speranze. La teologia sarebbe quindi in realtà un’antropologia fatta sotto mentite spoglie. Ebbene secondo Feuerbach non vi è nulla di male in questo, di per sé, nella misura in cui i buoni sentimenti e le buone intenzioni alla base della parte migliore della religione vanno assolutamente approvati, diffusi e messi in pratica. Dovremmo però liberarci dell’illusione sottostante il linguaggio teologico e delle sue immagini per tradurle in quello che sono veramente – sicché l’amore per Dio diventerebbe l’amore per l’umanità, la speranza in un futuro escatologico si trasformerebbe in quella di un rinnovamento delle nostre condizioni materiali, etc., etc. [10].
La fortuna immediata di Feuerbach e specialmente della sua Essenza del cristianesimo – lavoro dove svolge per la prima volta in maniera sistematica le sue tesi a-teologiche – fu immensa, per poi venire presto superata da quella delle stelle nascenti della critica post-hegeliana. Il ruolo storico svolto dal suo pensiero – che comunque è ben più ricco e va ben al di là di quanto gli ha garantito uno spazietto nei manuali di storia della filosofia tra Hegel e Marx – è stato quello di fornire un’impostazione filosofica di fondo che giustificasse l’ateismo di alcuni dei più grandi critici della religione (specialmente cristiana) che si sono succeduti in seguito. Secondo la diagnosi di Küng questa fortuna è dovuta al fatto che la tesi di Feuerbach sembra – quantomeno di primo acchito – estremamente plausibile e convincente[11]: Dio è quello che in inglese si direbbe “pie in the sky” – una torta nel cielo – cioè una cosa molto bella, anche troppo per essere vera, e che la cosa più sobria e ragionevole sarebbe quella di ammettere che essa in realtà non esista e che non sia altro che un frutto della nostra immaginazione. Ma la tesi di Feuerbach tiene anche di fronte ad un esame più ravvicinato?
5. La fine della storia?
Fatti alla mano, si potrebbe rispondere di no. No perché da un lato Feuerbach non ha nutrito solamente la critica marxista ma anche il pensiero e la spiritualità cristiana, a partire d’altronde dallo stesso Küng, e ha spinto la teologia europea a riconoscere e sottolineare ancora una volta il primato della rivelazione di Dio. In altri termini, riconoscendo il concreto pericolo di una religiosità che sia semplicemente alienazione e proiezione dei propri desideri “in grande”, il pensiero teologico ha riscoperto la forza profetica della rivelazione biblica, sicché come viene ben cristallizzato dalle famose parole di Karl Barth – peraltro autore carissimo a Küng e al pensiero del quale egli dedicò il suo primo libro[12] -- nel XX secolo la teologia cristiana ha potuto nuovamente e più chiaramente affermare che “l’Evangelo di Dio” è “la interamente nuova, la indicibilmente buona e lieta verità di Dio. Ma appunto: di Dio! Non un messaggio religioso, dunque, non istruzioni o notizie sulla divinità o sulla deificazione dell’uomo, ma l’ambasciata di un Dio, che è totalmente altro, del quale l’uomo, come uomo, non saprà e non avrà mai nulla, e dal quale appunto per questo gli viene la salvezza”[13]. Ecco quindi una prima risposta a Feuerbach: grazie per averci indicato il pericolo di scambiare Dio per la nostra auto-deificazione, però quello di cui parliamo è qualcos’altro e possiamo farlo in una maniera coerente e convincente.
Una seconda risposta potrebbe essere quella di far semplicemente notare il perdurare più o meno indisturbato della religiosità umana, anche in luoghi che in precedenza avevano subito o subiscono ancora un regime di secolarismo, materialismo e ateismo forzato. In effetti gli studi in proposito sembrano indicare che la popolazione umana a livello mondiale stia diventando e diventerà sempre più religiosa, complice anche il calo demografico dei gruppi più secolarizzati. Allo stesso tempo anche l’Europa scristianizzata non sembra vedere una crescita esponenziale della non-fede, sebbene casomai della dis-affiliazione dalle comunità di fede – cosa ovviamente ben diversa. Citando due rilevazioni recenti – una globale e l’altra centrata sul Regno Unito, una delle aree più secolarizzate del continente europeo – la prima (2015) indica che l’84% della popolazione globale si identifica in una religione e come questa percentuale sia cresciuta negli ultimi anni[14], mentre la seconda (2018) indica che il 52% dei britannici non s’identifica con nessuna religione mentre solo il 38% si identifica come cristiana. Eppure solo la metà di quei “non-affiliati” si dichiara atea e la quantità di atei diminuisce mano a mano che il campione si fa più giovane: insomma, i britannici delle generazioni più recenti magari non frequentano molto le moschee o le chiese, però non considerano nemmeno l’ateismo una risposta valida alla domanda sulla fede[15].
È chiaro che di per sé accumulare numeri non può negare in alcun modo una tesi come quella di Feuerbach: casomai si potrebbe obbiettare che essi mostrano la pervasività del problema da lui identificato – cioè che in vario modo l’umanità continua a dipingersi il proprio infinito in base ai propri desideri, lo chiami Dio o meno. Non possiamo però nemmeno trascurare il dato in questione: una fetta così grande della popolazione umana continua ad identificarsi come religiosa anche due secoli dopo l’emersione dell’ateismo come un’opzione di massa e la sua propagazione a livello mondiale lungo i canali della cultura europea, e quindi dopo che il movimento di opinione che inizia con i vari Strauss e Feuerbach e Marx ha potuto influenzare menti e cuori ai quattro angoli del globo; né allo stato delle misurazioni attuali sembra che questo dato cambierà nell’immediato futuro. Ripeto, questa di per sé non è una prova né a favore né contro l’esistenza di Dio – e comunque qui ho riprodotto i dati in modo parziale e frettoloso – ma comunque anche a un livello così superficiale di discussione la cosa dovrebbe darci da pensare.
A questo potremmo pure aggiungere che al di là della questione di Dio in sé, anche l’essere umano più secolarizzato e ateo difficilmente può dire di aver smesso di credere. Se non crede in Dio crederà nello Spirito, o nel Dharma, o nella Nazione, nel Partito, nel Progresso, nel Libero Mercato – oppure perché no, in Chiara Ferragni. Insomma siamo sempre bravi a individuare nuovi oggetti di adorazione e di ammirazione verso i quali riversare la nostra devozione – più o meno intensa che essa sia – e questo ci consente di ritornare a Küng e alla critica da lui svolta a Feuerbach. Scrive infatti lo svizzero che per quanto le tesi di Feuerbach possano sembrare intuitive e ovvie, il fatto che la coscienza umana sia orientata verso l’infinito e che a partire da questo orientamento essa proietti una realtà infinita dotata di determinate caratteristiche, non è di per sé una prova contro l’esistenza di questa realtà – eppure questo è proprio quello che Feuerbach sembra proporre a piè sospinto[16]. Detto più semplicemente: il fatto che io desideri intensamente che Dio venga in soccorso della mia miseria non ci consente d’implicare automaticamente e logicamente che questo Dio sia solo un prodotto della mia immaginazione, magari generato sulla base delle mie ferite e dei miei dolori. In fondo la teologia cristiana ha sempre sostenuto che un tale desiderio esiste nell’uomo proprio grazie a un rapporto con Dio che, per quanto si sia velato, non si è mai dissolto del tutto e non ha mai smesso di essere almeno parzialmente, sebbene inconsciamente, visibile. Si potrebbe quindi interpretare facilmente questa tendenza a credere e a proiettare illusioni religiose come il bisogno profondo dell’umanità di conoscere quel Dio totalmente altro di cui parla Barth – e quindi come la risposta a un rapporto realmente esistente – e la cui rivelazione – sempre a rischio di essere distorta dalle mistificazioni umane – è proprio ciò che dissolve queste illusioni, dando così riposo alla nostra coscienza.
6. Conclusione
Ma questo è sufficiente per dire che possiamo smettere di leggere Feuerbach e mettere le sue tesi nel cassetto della memoria storica? Evidentemente no. Perché anche se volessimo restringere la storia dei suoi effetti concreti a quella parte di umanità – europea principalmente – che si è secolarizzata e che ha messo più profondamente in discussione la propria spiritualità storica, non potremmo comunque rinunciare a dire con Küng che dopo Feuerbach si attraversa una soglia. Perché se anche le sue tesi si possono contestare quanto alla loro solidità logica, rimane il fatto che sono suonate e tutt’ora suonano veramente convincenti. Anche un credente, come lo è chi scrive, deve fare i conti seriamente con Feuerbach e riconoscere la serietà delle sue obiezioni. Bisogna quindi prendere le sue parole come un esercizio di purificazione delle proprie convinzioni e semmai giungere alla conclusione che sì, si può credere in Dio anche nel 2021 nonostante Feuerbach, ma anche e proprio grazie a Feuerbach, che ci aiuta a liberarci da certe illusioni che sempre insidiano la coscienza cristiana. Quindi nelle parole di Küng Feuerbach è sia un “punto di non ritorno” che una “sfida permanente”[17].
Arrivati a questo punto è giunto il momento di concludere questo breve tragitto che abbiamo compiuto insieme al teologo svizzero di recente dipartito. La genealogia che Küng traccia per portarci a discutere i problemi della fede nel nostro tempo continua nel resto di Dio esiste?, e s’intreccia in maniera estremamente pregnante con un altro -ismo, a cui l’ateismo dei pensatori post-hegeliani fornisce la premessa. Questo è il nichilismo – parola tanto importante quanto di solito usata a sproposito – che il nostro qualifica come una conseguenza dell’ateismo e come un atteggiamento di fondo che ancora una volta interroga la fede. Su questo non mi dilungo, se non segnalando che nella narrazione di Küng il nichilismo indica il “fondo del barile”: da lì, o si raschia o si risale. A chi si fosse incuriosito consiglio di prendersi in mano Dio esiste? e di leggerselo da copertina a copertina – pesa come il proverbiale mattone e si potrebbe facilmente trasformare in uno strumento d’offesa, ma non vi deve spaventare: scorre via facilmente e appassiona anche quando non si è d’accordo con l’autore.
[1] C.S. Lewis, Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986), p. 2.
[2] Mi permetto d’indicarne due, che trovo estremamente rappresentative l’una di una lettura critica e l’altra di una lettura favorevole dell’opera del nostro; doppiamente interessanti perché prodotte entrambe da teologi nostrani, benché di orientamento molto diverso per non dire opposto, ma in questo rappresentativi di come l’opera e il pensiero di Küng possano essere interpretati in modo radicalmente diverso: Vito Mancuso, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/ [reperito il 04/05/2021]; Leonardo de Chirico, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/ [reperito il 04/05/2021].
[3] Ovviamente questo si tratta di un libero riferimento alla Genealogia della Morale; Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
[4] Hans Küng, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012), p. 113.
[5] Küng, Dio esiste?, p. 130.
[6] Küng, Dio esiste?, p. 191.
[7] Hans Küng, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
[8] Alla luce di questa convinzione il nostro deduce da Hegel una serie di tesi, le quali vengono presentate al lettore come “punti di non ritorno” per ogni tentativo cristiano di pensare e parlare di Dio in un’epoca post-illuminista. Cfr. Küng, Dio esiste?, pp. 252-5.
[9] Küng, Dio esiste?, pp. 269-70.
[10] Küng, Dio esiste?, pp. 272-4.
[11] Küng, Dio esiste?, p. 276.
[12] Küng, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
[13] Karl, Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009), p. 5.
[14] Harriet Sherwood, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
[15] The Guardian View, “The Guardian view on ‘post-Christian’ Britain: a spiritual enigma”, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/mar/28/the-guardian-view-on-post-christian-britain-a-spiritual-enigma [15/05/2021].
[16] Küng, Dio esiste?, p. 278.
[17] Küng, Dio esiste?, p. 285.
Bibliografia:
Barth, Karl, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009).
De Chirico, Leonardo, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/.
Küng, Hans, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012).
Küng, Hans, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
Küng, Hans, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
Lewis, C. S., Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986).
Mancuso, Vito, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/.
Nietzsche, Friedrich, Genealogia della Morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
Sherwood, Harriet, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
Affidamento in house e motivazione del mancato ricorso al mercato (nota a Cons. Stato, Sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102)
di Alessandro Squazzoni
Sommario: 1. Il caso e la soluzione data in primo grado da Tar Liguria, Sez. I, 8 ottobre 2020, n. 684. – 2. La sentenza di riforma: Cons. Stato, Sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102. – 3. Le indicazioni incerte del quadro giurisprudenziale. – 4. Un cenno alle “imminenti” Linee guida Anac. – 5. Conclusioni.
1. Il caso e la soluzione data in primo grado da Tar Liguria, Sez. I, 8 ottobre 2020, n. 684
Il contenzioso deciso in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato che qui si segnala, nasce dal ricorso promosso da un operatore economico contro gli atti con cui l’I.R.C.C.S. Ospedale Policlinico San Martino di Genova affidava il servizio di gestione dell'accesso, sosta e viabilità interna al sito ospedaliero ad una società partecipata dal Comune di Genova ed in minima parte dell’Ospedale medesimo. La società ricorrente aveva gestito analogo servizio fino a poco tempo prima, e aveva partecipato ad una gara bandita dall’I.R.C.C.S., pur contestandola radicalmente in precedente giudizio. Ad un certo punto l’Ospedale acquisisce una partecipazione assai esigua nella società del Comune genovese che si occupa di analoghi servizi, revoca quindi la gara e decide di procedere con affidamento in house alla società “pubblica”. Ed ecco che l’operatore privato taccia siffatta condotta di violazione dell’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 per non avere l’Ospedale adeguatamente indagato e motivato le ragioni del mancato ricorso al mercato[1].
Il Tar ligure, scendendo a decidere il caso con sentenza n. 684/2020, muove dalla premessa che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 100/2020, non avrebbe avallato una interpretazione della norma che richieda un confronto concorrenziale preliminare tra i due modelli di gestione del servizio, richiedendo semplicemente che l’amministrazione abbia ben presente la possibilità del ricorso al mercato e che dia una motivazione ragionevole e plausibile delle ragioni che, nel caso concreto, l’hanno indotta a scegliere il modello in house. Ad avviso del Tar, per affidare in house appare pertanto sufficiente che l’amministrazione “indichi le ragioni, che potranno essere successivamente vagliate dal giudice amministrativo, della preferenza del modello scelto rispetto al ricorso al mercato, nonché dei benefici conseguibili dalla collettività attraverso tale modello”. La motivazione in ordine ad un aspetto potrebbe per giunta risolversi anche nella motivazione dell’altro “tutte le volte che i benefici per la collettività siano di per sé tali da giustificare il mancato ricorso al mercato. La motivazione ben può essere unitaria ogni qual volta le ragioni addotte da un lato giustifichino il mancato ricorso al mercato e dall’altro integrino i richiesti benefici per la collettività”.
Il Collegio giudicante rileva che nella fattispecie l’Ospedale risulta completamente incluso nello sviluppo urbano della città tanto da costituire un aspetto critico per la sosta e la mobilità cittadina. La decisione amministrativa aveva motivato l’adozione del modello in house sulla base della “necessità di procedere alla gestione unitaria della sosta e della mobilità tra il Comune e l’ospedale che solo la suddetta società era in grado di assicurare ed agevolare in quanto società in house anche del Comune”, evidenziando altresì “la maggiore semplicità gestionale e l’immediatezza del processo decisionale relativo al servizio interno all’Ospedale rispetto al più complesso equilibrio che si configura con un affidatario di appalto; la maggiore semplicità ed immediatezza circa iniziative da condividere con il Comune (…) in ordine a revisioni della viabilità dell’area interna ed esterna dell’Ospedale; i controlli diretti e stringenti sulla gestione del servizio anche in termini di obblighi di continua rendicontazione; (…)”.
Il Tar, appagandosi di tale apparato motivazionale, condivide in definitiva l’idea che “la integrazione tra la disciplina della sosta interna all’ospedale e quella cittadina limitrofa costituisca, data l’importanza che la struttura dell’Ospedale (…) ha nel contesto genovese di cui si è dato conto, un elemento tale da giustificare il mancato ricorso al mercato”.
In questo precedente si avalla dunque con chiarezza la tesi che vi possano essere situazioni in cui le verifiche istruttorie e le conseguenti esternazioni motivazionali pretese dall’art. 192, comma 2, Codice possano ben prescindere da un confronto preliminare delle condizioni di mercato.
2. La sentenza di riforma Cons. Stato, Sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102
La ricorrente, sconfitta in primo grado, appella la pronuncia articolando – per quel che qui conta – due motivi di gravame. In primo luogo si lamenta del fatto che la sentenza del Tar non avrebbe tenuto conto della natura necessariamente duplice delle condizioni da accertare per ritenere legittimo l’affidamento in house. Non basterebbe acclarare la sussistenza di benefici per la collettività derivanti dal modello dell’autoproduzione. Occorrerebbe, prima ancora, fornire la dimostrazione del cd. “fallimento del mercato”, ovvero della incapacità del mercato di offrire il servizio alle medesime condizioni – qualitative, economiche, di accessibilità, etc. – garantite dal gestore oggetto del “controllo analogo”. In secondo luogo, nel caso specifico sarebbe comunque censurabile la motivazione fornita anche solo sul piano della sussistenza di vantaggi per la collettività derivanti dall’opzione dell’affidamento in house.
Ebbene il Consiglio di Stato, con la sentenza della Sezione III n. 2102 del 2021, rigetta il primo profilo di doglianza, ma accoglie il secondo.
La motivazione del Giudice d’appello, in accordo con altri precedenti della medesima Sezione, premette che in effetti al carattere secondario e residuale dell’affidamento in house si accompagna la necessità di accertare quella duplice condizione, ivi compreso dunque un sostanziale ‘fallimento del mercato’. Tuttavia, ciò non significherebbe che la motivazione non possa essere unitaria. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, tanto le verifiche che attendono al fallimento del mercato, quanto quelle che pertengono ai benefici per la collettività del modulo in house, in sostanza si sperimenterebbero su un comune oggetto di riferimento, rappresentato dagli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche[2].
Un onere motivazionale, complesso ma unitario, che si riverbererebbe anche sul piano istruttorio, non canalizzabile in uno schema rigido e predeterminato. Sotto questo importante profilo, il Consiglio di Stato rimarca come rientri nella sfera di discrezionalità dell’Amministrazione stabilire quali siano le modalità più appropriate per cogliere i dati necessari al fine di compiere quella valutazione di preferenza per il canale concorrenziale emergente dalla norma. La qualità e congruità di questa attività istruttoria andrà poi valutata caso per caso “non potendo escludersi la possibilità (recte, legittimità) di un modus procedendi che non si traduca nell’effettuazione di specifiche indagini di mercato e/o di tipo comparativo, laddove sussistano plausibili, dimostrabili e motivate ragioni, insite nell’affidamento del servizio all’organismo in house, per ritenere che l’affidamento mediante gara non garantisca (non, quantomeno, nella stessa misura di quello diretto) il raggiungimento degli obiettivi prefissati”.
Tuttavia, una volta compiuta questa importante premessa, il Consiglio di Stato – dimostrando che il concetto di appello quale novum iudicium è ben ancora attuale – compie una disamina della motivazione dell’atto amministrativo impugnato in primo grado condotta con un metodo che si potrebbe definire capillare e per contrappunto. La motivazione amministrativa, così ispezionata, nel caso concreto non avrebbe soddisfatto lo standard preteso, non emergendo quelle ragioni “oggettive” necessarie per controbilanciare la preferenza accordata dall’ordinamento per l’esternalizzazione. Senza qui entrare nei dettagli, il giudice di secondo grado ha avuto buon gioco nell’evidenziare che la necessità di coordinare la gestione della sosta all’interno dell’Ospedale con la regolamentazione dei flussi di traffico circostanti non poteva essere motivo attendibile, posto che la società in house non esercitava affatto compiti inerenti la mobilità cittadina. Analogamente, la prospettiva di poter contare su un interlocutore più prossimo al Comune per coordinare eventuali future azioni progettuali da condividere, scontava il fatto che tale esigenza trova un canale ordinario nel dovere della PA di condursi secondo il principio del buon andamento, sicché i modi per concorrere all’elaborazione di soluzioni in merito alle criticità del traffico condivise non mancano.
C’è però un punto di questa sentenza che merita ulteriore attenzione. Afferma infatti la Terza Sezione che i tipici poteri di direzione e controllo sulla società in house, meglio in grado di riscontrare le esigenze della PA in corso di rapporto, in quanto connaturati al modulo organizzativo internalizzato, “non possono essere validati come specificamente idonei a giustificare, secondo lo stringente paradigma posto dall’art. 192, comma 2, d. lvo. n. 50/2016, il ricorso alla soluzione organizzativa “residuale” de qua: ciò in quanto ritenere che il richiamo ai vantaggi insiti nel modello internalizzato di produzione di un determinato servizio sia sufficiente a giustificare il ricorso a tale modalità derogatoria della generale regola della gara equivarrebbe a devitalizzare la portata della norma, e la funzione pro-concorrenziale ad essa sottesa, consentendo l’applicazione generalizzata dell’istituto in contrasto con il suo evidenziato carattere di eccezionalità”.
3. Le indicazioni incerte del quadro giurisprudenziale.
La motivazione del Consiglio di Stato sopra segnalata, è degna di nota perché interviene in un contesto troppo spesso monopolizzato dalle note e coeve questioni di sospetta anticomunitarietà ed incostituzionalità dell’art. 192, comma 2, del Codice[3]. Viceversa, nel dibattito sul tema, i problemi inerenti le concrete modalità di adesione ai precetti dettati dalla disposizione del Codice sono rimasti un po' in disparte[4]. In particolare, la norma non chiarisce quale sia la concreta attività istruttoria che l’Amministrazione deve compiere ai fini della verifica di congruità dell’offerta del soggetto in house, anche nella prospettiva della connessa motivazione delle mancate ragioni di ricorso al mercato. La sentenza aggiunge quindi un ulteriore tassello in una direzione che già emergeva nella giurisprudenza amministrativa, propensa a ritenere che tale attività non implichi sempre e necessariamente un concreto ed apposito sondaggio degli operatori privati, le cui condizioni sarebbero poi da comparare con quelle offerte dalla società in mano pubblica[5].
Sotto questo profilo sono molto istruttive le pronunce della Quinta Sezione che nel 2020 hanno poi deciso talune vertenze che erano state sospese in attesa della decisione della Corte di giustizia. Vicende che inizialmente erano state delibate quindi nel senso di una qualche apparente carenza rispetto alla soglia di verifica istruttoria pretesa dall’art. 192, comma 2, Codice. Tornate in sede nazionale, con una certa sorpresa, il Consiglio di Stato ha concluso affermando che in realtà l’analisi compiuta dalla PA era sufficiente[6]. E in quelle vicende la PA aveva effettuato un raffronto con le condizioni economiche cui il medesimo servizio era prestato in Comuni con caratteristiche demografiche e territoriali analoghe che avevano fatto ricorso a procedure di evidenza pubblica. D’altro canto, in quelle motivazioni, la Quinta Sezione, nel ripercorrere lo stato della giurisprudenza del Consiglio di Stato, aveva notato che anche quando è stato richiesto all’amministrazione aggiudicatrice di dimostrare che ricorra una situazione di fallimento del mercato, si è ritenuto che l’onere fosse assolto mediante “un’indagine di mercato rivolta a comparare la proposta della società in house con un benchmark di riferimento, risultante dalle condizioni praticate da altre società in house operanti nel territorio limitrofo”[7]. In questo atteggiamento, in effetti, non può non cogliersi la complicità fornita dalla stessa motivazione della Corte costituzionale, che in buona sostanza ha letto il precetto dell’art. 192 del Codice in linea di continuità con le previsioni già recate dall’art. 34, comma 20, d. l. n. 179 del 2012[8]. In una chiave, quindi, di rafforzamento dell’onere motivazionale, più che non nella direzione di un preciso percorso istruttorio-procedimentale che imponga sempre e senza eccezioni di procurare, di volta in volta, le precise condizioni a cui il mercato fornirebbe quel servizio[9].
Almeno in un punto, però, la segnalata motivazione della Terza Sezione sembra invece discostarsi dalla precedente prassi. La giurisprudenza ha infatti spesso finito con l’avallare l’enfasi con cui la PA esalta gli intrinseci pregi organizzativi del modulo in house pretendendo di inferirne che la preferenza per quel modulo, a discapito del mercato concorrenziale, si giustifica quasi da sé con i poteri di direzione del rapporto concessorio che consentirebbero un più veloce e sicuro adattamento alle necessità sopravvenute[10]. Come evidenziato nel § precedente la motivazione in esame sembra invece dissentire. Sarebbe interessante verificare se analogo dubbio possa essere mosso rispetto ad un’altra “costante” delle motivazioni rese dalle PPAA in materia, che molto spesso fanno leva sul fatto che la società in mano pubblica, potendo prestare il servizio per più Enti pubblici attraverso lo schema del controllo congiunto, sarebbe preferibile semplicemente perché consente un espletamento del servizio in dimensione sinergica e di più vasta area, non altrimenti ottenibile con la gara bandita dalla singola Amministrazione.
4. Un cenno alle “imminenti” Linee guida Anac
Indicazioni in apparenza non in tutto adesive allo stato della giurisprudenza, provengono dalle linee Guida dell’ANAC in materia di affidamenti in house che, esaurita la consultazione on line al 31 marzo, dovrebbero essere di prossima adozione[11]. Da parte dell’Autorità si nota una certa propensione a favore di un maggior irrigidimento degli aspetti procedimentali ed istruttori relativi al momento della verifica delle condizioni di mercato e della verifica di congruità dell’offerta del soggetto in house.
Peraltro, secondo l’Autorità, lo spettro applicativo della disposizione codicistica includerebbe non solo servizi che già sono presenti sul mercato, ma pure le attività che “potrebbero esserlo a seguito di opportuni adeguamenti da parte dei soggetti erogatori”. Ciò – come precisa la Relazione - implica che l’amministrazione, nel valutare la disponibilità del servizio sul mercato “dovrà indagare anche in ordine alla disponibilità di offerta da parte di eventuali esecutori al momento non in grado di offrire il servizio”. In buona sostanza occorrerebbe accertare, se del caso anche attraverso consultazioni preliminari di mercato, che “i servizi da affidare siano presenti sul mercato oppure che potrebbero essere presenti a seguito di azioni organizzative da parte dei soggetti erogatori”[12].
I parametri e criteri onde effettuare la valutazione di congruità economica dell’offerta della società in house sono poi dettagliati nell’art. 5 del documento.
Tale valutazione suppone “l’acquisizione di informazioni sul contesto concreto e attuale al momento dell’affidamento e, in particolare, sui servizi offerti nel medesimo ambito territoriale, sia da soggetti privati che da altri organismi in house, e sui prezzi medi praticati per le medesime prestazioni o per prestazioni analoghe, intendendosi per tali le prestazioni di servizi simili e comparabili rispetto a quelle oggetto dell’affidamento”.
Si precisa così che “la stazione appaltante può prendere in considerazione i prezzi di riferimento elaborati dall’ANAC, i prezzi delle convenzioni Consip, gli elenchi di prezzi definiti mediante l’utilizzo di prezzari ufficiali, i prezzi medi risultanti da gare bandite per l’affidamento di servizi identici o analoghi oppure il costo del servizio determinato tenendo conto di tutti i costi necessari alla produzione (costi del personale, delle materie prime, degli ammortamenti, costi generali imputabili per quota)”. Nondimeno, “Le informazioni utili in relazione ai prezzi di mercato o ai costi del servizio possono essere acquisite anche attraverso indagini di mercato oppure, nel caso in cui il servizio possa essere offerto soltanto previo adeguamento della struttura organizzativa del prestatore alle esigenze della stazione appaltante, attraverso la richiesta di specifici preventivi”. Di tutto ciò si dovrebbe dare riscontro nell’esternazione della motivazione[13].
Il successivo art. 6 si occupa della valutazione dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, che più esattamente vanno declinati quali benefici conseguibili mediante l’affidamento diretto alla società in house, operando un raffronto comparativo rispetto agli obiettivi perseguibili mediante il ricorso al mercato.
E qui è da notare che la stessa Autorità riconosce il ruolo che, sul versane dell’efficacia, possono giocare “I pregnanti poteri di intervento e di controllo riconosciuti all’amministrazione controllante nei confronti della società in house, [che] consentono interventi volti ad adeguare, anche in itinere, le condizioni di esercizio alle specifiche esigenze dell’amministrazione, al fine di consentire il raggiungimento degli obiettivi prefissati”. Analogamente, anche secondo l’Autorità “L’economicità della gestione è perseguita anche attraverso la previsione di forme di gestione del servizio che consentano il raggiungimento di economie di scala, anche mediante la previsione di una gestione unitaria su vasta area che consenta l’utilizzo condiviso di risorse, giungendo ad un ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
5. Conclusioni.
La compatibilità tra la sensibilità dell’ANAC verso la concreta ed effettiva indagine sulle condizioni di mercato e l’approccio della giurisprudenza può essere facilmente trovata. Come si apprende dalla Relazione illustrativa al documento, l’ANAC giustifica il suo intervento constatando che gli atti di affidamento in house delle PPAA “si dilungano molto sul contesto giuridico e sulla sussistenza dei requisiti dell’articolo 5 del codice dei contratti pubblici e sono, invece, molto sintetiche nella parte dedicata alla motivazione del mancato ricorso al mercato, dove vengono frequentemente utilizzate formule di stile che denotano l’assenza di una valutazione concreta”.
Muovendo da tale premessa ed in siffatto contesto, l’Autorità ha ravvisato quindi, “la necessità di fornire indicazioni utili a rendere tali motivazioni maggiormente aderenti alle indicazioni normative”.
Pertanto, si potrebbe dire che l’ANAC si occupa dello standard di attività istruttoria preteso in via ordinaria dalla norma. Ciò non collide affatto con l’insegnamento della giurisprudenza, abilitato anche dalla motivazione qui esaminata, ove non si esclude in modo assoluto che la preferenza per il modulo in house possa essere accordata prescindendo dall’effettuazione di specifiche indagini di mercato e/o di tipo comparativo. Si tratta infatti molto semplicemente di ammettere che vi siano situazioni particolari (ed eccezionali) in cui il percorso istruttorio si adegua alle peculiarità del caso.
Piuttosto, la vicenda processuale qui segnalata abilita ad una conclusione intuitiva.
La propensione delle Amministrazioni a giocarsi tutto sul piano della motivazione, a discapito di un’autentica attività di accertamento istruttorio comparativo tra mercato ed in house, si espone irrimediabilmente al rischio.
Il sindacato del giudice amministrativo sulla sufficienza, adeguatezza e congruità della motivazione è, per sua natura, ben poco prevedibile.
In fondo, leggendo prima di conoscere l’esito in appello la sentenza del Tar Liguria che ha deciso il caso in primo grado non la si sarebbe trovata tanto implausibile.
E però implausibile certo non è quella – di segno contrario – del Consiglio di Stato.
[1] Converrà infatti ricordare che a mente dell’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti “Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
[2] Con spiegazione felice il Consiglio di Stato nell’occasione chiarisce che i “ “benefici per la collettività” attesi dall’organizzazione in house dello stesso e le “ragioni del mancato ricorso al mercato” [sarebbero n.d.r.] le due facce di una medesima realtà, di cui colgono, rispettivamente, gli elementi “positivi” (inclinanti la valutazione dell’Amministrazione verso l’opzione gestionale di tipo inter-organico) e quelli “negativi” (sub specie di indisponibilità di quei “benefici” attraverso il ricorso al mercato)”.
[3] Sospetti fugati, rispettivamente, da Corte UE, IX Sezione, ord. 6 febbraio 2020, cause riunite da C-89/19 a C-91/19 e da Corte cost. 27 maggio 2020 n. 100. Sulla seconda cfr., in questa rivista, la segnalazione di M. Trimarchi, L’affidamento in house dei servizi pubblici locali. Sulla pronuncia della Corte UE, cfr. C. DEODATO, Gli ambiti dell'intervento pubblico nell'organizzazione e nella gestione dei servizi d'interesse economico generale, in giustamm.it, n. 10/2020. Per una valutazione su entrambe le pronunce, tra i molti, cfr. S. Valaguzza, Nuovi scenari per l’impresa pubblica nella sharing economy, in federalismi.it, 7 ottobre 2020.
[4] Per commenti dottrinali alla disposizione, cfr G. Veltri, Il nuovo codice dei contratti pubblici – L’in house nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 2016, 436 ss.; E. Tozzo, Gli affidamenti diretti alle società cosiddette in house alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici e del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, in Riv. trim. app., 2017, 1079 ss.
[5] Tra le prime pronunce che affermano che l’onere imposto dall’art. 192, comma 2, Codice non può confondersi con il dovere di dar corso ad una sorta di gara virtuale, cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 22 marzo 2017, n. 694.
[6] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6459; Id., 26 ottobre 2020, n. 6460; Id., 15 dicembre 2020, n. 8028.
[7] Cfr, Cons. Stato, Sez. V, n. 6459/2020 cit. al punto 4.5.4 della motivazione riferendosi a quanto affermato da Cons. Stato, Sez. III, 3 marzo 2020, n. 1564.
[8] Norma che recita: “Per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parita' tra gli operatori, l'economicita' della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettivita' di riferimento, l'affidamento del servizio e' effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che da' conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”.
[9] Del resto la stessa dottrina è propensa ad evidenziale una linea di continuità tra la disciplina di cui all’art. 192, comma 2, Codice e i precedenti orientamenti giurisprudenziali. Cfr. M. Lasalvia, Commentario al nuovo codice dei contratti pubblici, EPC editore, 2017, 756 ove si afferma che “la norma pare cristallizzare un canone di congruità della giustificazione già invalso nella giurisprudenza ed in base alla quale la decisione di un ente pubblico di avvalersi dell’in house, pur se ampiamente discrezionale, deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano”, sicché con la disposizione in esame “la volontà del legislatore sembra quella di introdurre un onere di motivazione rafforzato, che consente un penetrante controllo della scelta effettuata dall’amministrazione, anzitutto sul piano dell’efficienza amministrativa e del razionale impego delle risorse pubbliche. In questo senso la ratio legis sembra essere analoga a quella che, in base all’art. 5 del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (D.lgs. 19/8/2016 n. 175) onera le amministrazioni pubbliche di motivare analiticamente l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica, o di acquisto di partecipazioni, anche indirette, in società già costituite, con riferimento alla necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali e che sottopone poi l’atto deliberativo in questione al vaglio della Corte dei conti e dell’Antitrust”.
[10] Per questo approccio, si leggano le motivazioni di Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 2019, n. 5444; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 13 luglio 2017, n. 796; TRGA Trento, 21 dicembre 2020, n. 208.
[11] Cfr. il documento di consultazione relativo alla Linee Guida Anac recanti «Indicazioni in materia di affidamenti in house di contratti aventi ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza ai sensi dell’articolo 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50 e s.m.i.» reso pubblico in data 12 febbraio 2021.
[12] Più nel dettaglio, secondo l’ANAC, il primo accertamento da effettuare consiste nella verifica della presenza sul mercato dei servizi da effettuare: “La stazione appaltante accerta che i servizi da affidare siano presenti sul mercato oppure che potrebbero essere presenti a seguito di azioni organizzative da parte dei soggetti erogatori. L’accertamento è effettuato con modalità congrue e proporzionate rispetto al valore dell’affidamento. Per affidamenti particolarmente rilevanti in termini di valore economico o di durata, la stazione appaltante può affidarsi a consultazioni preliminari di mercato oppure ricorrere all’ausilio di una struttura di supporto al RUP oppure di esperti interni o esterni”. Il documento si cura di precisare che “Le consultazioni preliminari di mercato sono svolte nel rispetto delle indicazioni fornite con le Linee guida n. 14”. Il ricorso ad esperti esterni alla stazione appaltante onde adiuvare il RUP nell’attività “è effettuato nel rispetto delle regole di pubblicità e trasparenza, mediante il ricorso ad elenchi, laddove precostituiti, oppure con procedure di evidenza pubblica”.
[13] Ai fini di un controllo sulla correttezza dell’operazione effettuata, “la stazione appaltante esplicita nella motivazione i dati di dettaglio utilizzati e fornisce tutte le informazioni utili a rendere agevolmente comparabili le varie alternative presenti sul mercato. In particolare, con riferimento al costo del servizio offerto dalla società in house indica le voci di costo prese a riferimento per il calcolo dei costi indiretti, cioè delle spese funzionali alla realizzazione delle attività operative, ma non direttamente imputabili alle stesse”.
Giustizia e Comunicazione
Editoriale
“Yzur” è la storia di una scimmia e di un uomo che vuole insegnarle la parola.
La scimmia ha sì un suo linguaggio ma l’uomo, dopo lunghi studi, giunge alla conclusione che “non esiste alcuna ragione scientifica per cui la scimmia non sarebbe in grado di parlare.” L’uomo inizia così un elaborato esperimento comunicativo con la scimmia, scadente nei modi e nei risultati, fino a che questa, ammalatasi, viene a mancare dopo una lunga agonia.
Per Borges, che colloca il racconto di Leopoldo Lugones all’origine della letteratura fantastica argentina, gran parte del fascino della storia è nel finale. Il lettore non sa se credere al narratore - all’umanizzazione, pur fatale, della scimmia - o pensare che l’unica conclusione dell’esperienza sia la follia dell’uomo e la fine, triste, della scimmia.
La giustizia ha una sua originaria e passiva forma comunicativa - la pubblicità degli atti e dei procedimenti, le sentenze - e non sembra esistere alcuna ragione apparente, almeno al giorno d’oggi, per cui non sarebbe in grado di comunicare altrimenti, in modo attivo, e per mezzo di altre forme di comunicazione.
La “Guide on communication with the media and the public for courts and prosecution authorities” adottata dalla Commissione per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa (CEPEJ) nel 2018, dichiara che, a differenza degli altri poteri e per ragioni istituzionali e culturali, la magistratura è meno incline alla comunicazione, o meglio, è poco incline a comunicare la propria attività per mezzo delle forme di comunicazione esistenti. La stessa Guida evidenzia che, continuando ad assecondare tale tendenza, la giustizia rischia di rimanere oscura e incomprensibile agli occhi dell’opinione pubblica e dei media, sia per quanto riguarda il funzionamento generale delle istituzioni giudiziarie e la gestione dei casi, sia per quanto riguarda i limiti che la legge impone ai pronunciamenti.
L’uomo del racconto di Lugones dichiara, all’inizio della narrazione, di aver pensato all’esperimento dopo aver letto che “i nativi di Giava attribuiscono l’assenza di linguaggio articolato nelle scimmie non a un difetto, ma a una deliberata astensione”. L’uomo, nel seguito, di fronte alla progressiva intellettualizzazione della scimmia e al suo “ribelle mutismo” racconta: “di colpo realizzai: non parlava perché non voleva parlare”. La giustizia, avverte la Guida, “non può, come in passato, confinarsi a lungo in una torre d'avorio, emettere giudizi senza tener conto di come questi saranno ricevuti e compresi” pur essendo obbligata a mantenere “un equilibrio tra la dignità delle istituzioni giudiziarie e dei loro rappresentanti, il che richiede da un lato una certa discrezione e, dall'altro, la necessità di una comunicazione con mezzi adeguati e moderni”.
La comunicazione nella giustizia è ancora limitata, per scelta, nella sua tradizionale forma di comunicazione o si avvale, o può avvalersi, anche di altre forme? Queste ultime e le loro caratteristiche come si bilanciano con i diritti fondamentali e con i principi, soprattutto costituzionali, che presiedono l’attività giurisdizionale? In quale modo la giustizia è raccontata dai media e come tale racconto influisce sulla giustizia stessa?
Giustizia Insieme vuole offrire ai lettori una riflessione su questi temi, con l’auspicio che gli articoli e le interviste che seguiranno, con cadenza settimanale, siano di stimolo per una discussione sulle possibilità e i rischi che si annidano nel binomio “giustizia e comunicazione”.
Usurpando le categorie di Mauthner, ci chiederemo quanto della narrazione della giustizia sia costituita dalle mere impressioni sensoriali, dall’esperienza immediata, dal dato che semplicemente consegna le proprietà delle cose senza aggiungere cosa esse siano al di là delle loro proprietà.
Ci interrogheremo se discorrere di giustizia implichi in alcuni casi l’invenzione di forze, cause, e cose, o se, invece, disveli il carattere apparente e irreale degli eventi stigmatizzando quanto l’unica immagine fornita tradizionalmente sia pura parvenza. E ci domanderemo se e quando le parole trasformino le cose nel mondo del divenire secondo una finalità ed uno scopo.
Giustizia Insieme orienterà così lo sguardo verso la giustizia che comunica sé stessa, analizzando le forme di comunicazione adottate dai protagonisti dell’attività giudiziaria e, al contempo, aprirà uno spazio per dialogare con i protagonisti della comunicazione della giustizia.
Buona lettura del primo intervento in programma, curato dal Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio su “Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale”.
Crisi della coppia e revoca della volontà di accesso alla procreazione medicalmente assistita(nota a Trib. S.M. Capua Vetere, 11 ottobre 2020)
di Antonio Scarpa
Sommario: 1. I fatti di causa e le ordinanze in commento - 2. Art. 700 c.p.c. e ordine di trasferimento nell’utero degli embrioni - 3. Il merito della questione: la revoca del consenso alla procreazione medicalmente assistita.
1. I fatti di causa e le ordinanze in commento
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, adito con ricorso ex art. 700 c.p.c., ha ordinato alla struttura sanitaria convenuta con provvedimento dell’11 ottobre 2020 di procedere all’inserimento in utero degli embrioni crioconservati in custodia sulla persona della ricorrente. Nel 2018 una coppia di coniugi aveva espresso la propria volontà di accedere ad una tecnica di procreazione medicalmente assistita. Operata la fecondazione degli ovuli, si era proceduto alla crioconservazione degli embrioni, giacché il trasferimento nell’utero degli stessi non risultò immediatamente possibile per grave causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna. Nel 2019 il marito aveva tuttavia proposto domanda di separazione e così la moglie aveva diffidato la struttura a procedere comunque all’impianto degli embrioni. L’istanza cautelare esponeva come l’avvio della separazione coniugale non potesse comunque deporre quale revoca della volontà dell’uomo di accedere alla procreazione medicalmente assistita, ammettendosi tale revoca, alla stregua dell’ultima parte del terzo comma dell’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, soltanto fino al momento della fecondazione dell’ovulo.
Il marito aveva opposto nelle proprie difese l’assenza dei requisiti soggettivi per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ex art. 5 della medesima legge n. 40 del 2004, a seguito del venir meno della coppia per la crisi denunciata in sede di separazione, e comunque esprimeva l’intervenuta revoca del consenso.
L’ordinanza resa dal giudice designato supera dapprima le resistenze in punto di sussistenza delle condizioni di ammissibilità dell’invocato provvedimento d’urgenza volto ad ottenere l’impianto degli ovuli crioconservati, individuando nell’art. 700 c.p.c. un mezzo di tutela giurisdizionale pienamente satisfattiva. Per il giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, l’irrevocabilità del consenso alla procreazione assistita doveva poi trarsi dal citato art. 6, terzo comma, della legge n. 40/2004, stante l’avvenuta fecondazione dell’ovulo, dalla quale discendono normativamente un’autonoma e irreversibile determinazione alla genitorialità nonché l’insorgenza della rilevanza costituzionale dell’embrione. L’ordinanza dell’11 ottobre 2020 evidenzia altresì come il requisito della coppia ex art. 5, legge n. 40/2004, sia stabilito al fine di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ferma l’irrevocabilità del consenso espresso una volta che sia avvenuta la fecondazione dell’ovulo, ben potendo scindersi, una volta giunti a questo punto di non ritorno, il nesso tra assunzione della genitorialità e prosecuzione della famiglia. Negata quindi in fatto la ravvisabilità di riserve mentali della donna nella volontà espressa di procedere alla procreazione medicalmente assistita, il giudice designato si “libera” anche di Corte eur. dir. uomo, G.C., 10 aprile 2007, ric. 6339/05, Evans c. Regno Unito, ritenendo il precedente dettato con riguardo alla legislazione britannica, la quale si connota per una valutazione dell’embrione assai diversa da quella dell’ordinamento italiano.
L’ordinanza pronunciata il 27 gennaio 2021 dal collegio del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. ripercorre le medesime argomentazioni: è ammissibile l’utilizzo dei provvedimenti d’urgenza sebbene finalizzato alla condanna ad un facere infungibile con effetti materiali; la legge n. 40 del 2004 tutela il diritto dell’embrione ed in tal senso opera la revocabilità del consenso prestato alla procreazione medicalmente assistita; la separazione della coppia dei soggetti, che abbia manifestato la propria volontà di accedere alle tecniche di procreazione assistita, non elide i presupposti soggettivi di ammissione e non assume rilievo per i diritti acquisiti dal figlio; in particolare, il venir meno del progetto di vita comune dei genitori già consenzienti non può prevalere sull’aspettativa di vita dell’embrione, che si consacra al momento della fecondazione; nessun reale contrasto c’è tra il primo ed il terzo comma dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004, giacché l’obbligo di informazione gravante sul medico in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita non suppone una necessità di integrare o rinnovare il consenso già prestato, se non “in caso di rilevate problematiche o anomalie del processo”; nella specie, avendo i coniugi espresso per iscritto il loro consenso, divenuto irrevocabile con la fecondazione dell’ovulo, doveva intendersi instaurato il rapporto contrattuale ed il medico della struttura doveva perciò procedere alla procreazione medicalmente assistita.
2. Art. 700 c.p.c. e ordine di trasferimento nell’utero degli embrioni
Le difese, che entrambe le ordinanze cautelari disattendono, circa l’inammissibilità del provvedimento d’urgenza richiesto, giacché privo di strumentalità e diretto a conseguire un facere infungibile ed effetti definitivi, suonano nostalgiche quanto la via del ritorno all’Uno suggerita da Plotino.
La strumentalità rispetto alla sentenza di merito e la provvisorietà (e quindi la non decisorietà) degli effetti dei provvedimenti cautelari emergevano, per la verità, ancora abbastanza nitidamente nella struttura originaria del procedimento ex art. 669-bis e seguenti c.p.c. congegnato dalla legge n. 353 del 1990. Secondo l’archetipo in voga nel precedente millennio, i provvedimenti cautelari non dovevano dar luogo alla concretizzazione della tutela normativa, rappresentando soltanto un mezzo per garantirne l’attuazione. Un provvedimento del giudice sarebbe cautelare (anche) perché non permanente, ed anzi munito, come nel modello del legislatore degli anni Novanta, di un’efficacia condizionata all’instaurazione ed agli esiti della causa di merito.
Questi schematismi sulla fisionomica provvisorietà dei provvedimenti d’urgenza, già costantemente traditi dalla pratica giurisprudenziale nell’applicazione data all’art. 700 c.p.c., sono poi venuti meno per legge con la Riforma del 2005, in particolare alla luce dei commi aggiunti in calce all’art. 669- octies c.p.c., prevedendosi che le disposizioni sull’inizio o sull’estinzione del giudizio di merito, comportanti l’inefficacia della misura cautelare, non si applicano ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., né agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto. Il codice di rito ha recepito così, per darle una speciale disciplina, la categoria dottrinale dei provvedimenti anticipatori; esistono, e sono diversamente regolate, misure cautelari il cui contenuto risulta integralmente anticipatorio degli effetti satisfattivi del diritto azionato. I provvedimenti anticipatori immunizzano l’istante dal pericolo di tardività, e non solo di infruttuosità, della sentenza di merito a cognizione piena: essi, perciò, non si limitano a mantenere immutato uno stato di fatto, ma assicurano già una modifica della situazione esistente, in modo da scongiurare l’intempestività della tutela ordinaria[1]. Se scopo del giudice designato per il procedimento d’urgenza è quello di erogare una tutela che fornisca al ricorrente l’utilità sostanziale che egli auspica, in maniera che neppure più dopo questi richieda l’erogazione della cognizione ordinaria, il provvedimento inevitabilmente si concentra quasi del tutto sulla ricerca del ricerca del fumus, trascurando il periculum, perché è divenuta ormai marginale la qualificazione temporale del bisogno di tutela[2]. L’ordinanza che accoglie la domanda ex art. 700 c.p.c. vuole fornire al ricorrente il bene della vita cui ambisce, così che egli non possa avere più interesse a vedere duplicato in una sentenza l’accertamento del suo diritto. Non vi è ragione di parlare tuttora nemmeno di una “strumentalità attenuata” dei provvedimenti d’urgenza, giacché il giudizio di merito, a fronte di una tutela giurisdizionale pienamente satisfattiva ed in grado di anticipare l’assetto sostanziale della sentenza (con “autorità” a tempo indeterminato, ancorché sempre estranea alla forza del passaggio in giudicato) diviene ragionevolmente non più prevedibile.
La vigente regolamentazione che il codice di procedura civile dedica ai provvedimenti d’urgenza non può dirsi, dunque, affatto preoccupata dall’idea che l’art. 700 c.p.c. funzioni come elargizione integrale (e non come assicurazione provvisoria) degli effetti dell’ormai futura ed eventuale sentenza, assecondandone l’evoluzione (o involuzione) da «decisione strumentale al merito» in «decisione di merito anticipata». L’ordinanza interinale viene ammessa così anche quando finisce per precostituire un assetto di interessi definitivo ed irreversibile, come tale non più modificabile né revocabile dal giudice della sentenza che intenda negare l’esistenza della situazione soggettiva cautelata.
Non trova eco nella legge processuale l’allarme per la progressiva atrofizzazione della verifica giudiziale sul periculum in mora, ravvisato dai giudici pressoché automaticamente nella sussistenza del fumus allorché il pregiudizio sia minacciato ad un diritto a contenuto e funzione non (esclusivamente) patrimoniale, proprio come avvenuto nella specie, avendosi riguardo all’adempimento di un contratto relativo all’esecuzione di una tecnica di procreazione medicalmente assistita.
Appare, infine, altra battaglia di retroguardia l’obiezione della inammissibilità dell’ordine ex art. 700 c.p.c. volto all’adempimento di obblighi di non fare o di fare infungibili, ed in quanto tali incoercibili. Oltre a svolgere una finalità preventiva ed avere una funzione inibitoria, la misura cautelare atipica a tutela dell’obbligo insuscettibile di esecuzione forzata ha il suo presidio incentivante nell’art. 614-bis c.p.c., configurandosi l’ordinanza urgente quale “provvedimento di condanna all’adempimento” ai sensi di tale norma.
3. Il merito della questione: la revoca del consenso alla procreazione medicalmente assistita
Le soluzioni adottate nelle ordinanze cautelari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere sono da condividere anche quanto al merito della questione.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 2016[3], pur dichiarando privo di rilevanza nel giudizio a quo il dubbio di legittimità costituzionale del divieto di revoca del consenso all’impianto dopo la fecondazione dell’ovulo, di cui all’art. 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge n. 40 del 2004, ricordava come la giurisprudenza costituzionale (in particolare, sentenze n. 229 del 2015, n. 96 del 2015 e n. 151 del 2009) sia arrivata stabilmente ai seguenti approdi:
- la dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita (ancorché in uno stadio di sviluppo non predefinito dal legislatore e tuttora non univocamente individuato dalla scienza), costituisce, comunque, un valore di rilievo costituzionale «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.»;
- la tutela dell’embrione non è suscettibile di affievolimento (ove e) per il solo fatto che si tratti di embrioni affetti da malformazione genetica, e nella stessa è stata individuata la ratio della norma penale (art. 14, commi 1 e 6, della legge n. 40 del 2004) incriminatrice della condotta di soppressione anche di embrioni ammalati non impiantabili;
- come ogni altro valore costituzionale, anche la tutela dell’embrione è stata ritenuta soggetta a bilanciamento, specie al fine della «tutela delle esigenze della procreazione» ed a quella della salute della donna.
L’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004 disciplina le modalità del consenso informato all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, prevedendo un termine minimo di sette giorni tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica e disponendo che la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti della coppia fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Lo stesso art. 6 contempla un dovere del medico di informare dettagliatamente la donna e l’uomo, “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”, sui metodi, sui problemi bioetici, sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, sulle relative conseguenze giuridiche e sugli eventuali costi economici dell’intera procedura. Non di meno, se il medico responsabile della struttura può decidere di non procedere alla procreazione assistita “esclusivamente per motivi di ordine medico-sanitario”, la revoca del consenso della coppia viene dalla lettera della norma inevitabilmente subordinata sotto un profilo cronologico al momento della fecondazione dell’ovulo.
Tuttavia, in dottrina si segnala come, vieppiù a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 151 del 2009 e n. 96 del 2015, l’irrevocabilità del consenso prestato a tutela dell’embrione si debba ritenere recessiva rispetto alla tutela del diritto alla salute della donna e dei diritti procreativi. In particolare, l’interesse alla tutela dell’embrione, che è alla base del termine ultimo fissato per la revoca della volontà di procedere al trattamento, non potrebbe obbligare irretrattabilmente al trasferimento nell’utero degli embrioni ove lo stesso mettesse il pericolo la salute della donna, o comunque ledesse l’autodeterminazione della stessa nella scelta di sottoporsi al trattamento sanitario[4].
La irrevocabilità della volontà inizialmente espressa all’accesso alle tecniche di procreazione assistita non può invece essere minata, dopo che l’ovulo sia stato fecondato, dall’insorgenza di una situazione di conflitto nella coppia, o dal sopravvenire di una condizione di disaffezione o di distacco di uno solo dei soggetti, non trattandosi di ragioni che possono giustificare un affievolimento della tutela dell’embrione.
In un recente precedente della Corte di Cassazione, il limite alla revocabilità del preventivo consenso alla procreazione assistita, nella specie eterologa, segnato comunque dalla fecondazione dell’ovulo, è stato richiamato per desumere l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità, peraltro vietata esplicitamente dall’art 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004[5].
La valenza costitutiva dello status di figlio, che la legge n. 40/2004 affida al consenso alla procreazione medicalmente assistita, è alla base anche della soluzione giurisprudenziale data alla questione della filiazione conseguita ad una fecondazione omologa "post mortem" avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato dell’uomo deceduto prima ancora della formazione dell’embrione[6].
A commento delle ordinanze pronunciate dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si è scritto che il consenso alla procreazione medicalmente assistita è cosa diversa, per struttura, funzione di tutela ed effetti, dal consenso al trattamento sanitario di cui alla legge 22 dicembre 22 dicembre 2017, n. 219; che la Corte Costituzionale non ha mai affermato l’esistenza di un “diritto alla vita dell’embrione”; che i provvedimenti cautelari in rassegna avrebbero eluso la disciplina posta a tutela dell’autodeterminazione dei soggetti della coppia; che il potere di governo dell’embrione deve essere attribuito congiuntamente alla donna ed all’uomo, quale centro di imputazione complesso degli interessi, in ragione della fusione delle cellule e dell’avvio di un progetto parentale condiviso; che il Tribunale avrebbe eluso l’approdo raggiunto nella sentenza della Corte EDU nel caso Evans c. Regno Unito, ove si affermava che la paternità non può essere imposta [7].
Partendo dall’ultima suggestione, è vero che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che, nella materia della procreazione medicalmente assistita, gli Stati conservano –quanto ai temi sui quali non si registri unanimità di vedute – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).
Le critiche mosse alle ordinanze in commento non sembrano, inoltre, calate sulla fattispecie di causa. In tale fattispecie alla irrevocabilità del consenso sancita dall’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004, si contrapponeva l’assunta esigenza di assicurare all’uomo un diritto di ripensamento della volontà espressa di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in momento successivo alla fecondazione dell’ovulo, quale conseguenza derivata dalla crisi della coppia, delineando, in sostanza, un collegamento funzionale per interdipendenza tra progetto familiare e progetto procreativo, sicché essi simul stabunt, simul cadent[8].
Viceversa, l’irrevocabilità del consenso di cui all’art. 6, comma 3, cit. opera come garanzia della certezza dello status filiationis del nascituro e dell’assunzione della responsabilità genitoriale della coppia, garanzia correlata alla consapevole espressione della volontà di procreare cui l’ordinamento conferisce valenza identificativa della genitorialità legale[9]. Se l’irrevocabilità della volontà della donna trova sempre il limite, dapprima evidenziato, della coerenza con l’art. 32 Cost., la compiuta scelta procreativa dell’uomo di acquisire una veste genitoriale "legale", una volta che l’embrione abbia giuridicamente assunto la dignità di “entità che ha in sé il principio della vita”, riconducibile all’art. 2 Cost., soggiace ragionevolmente alla regola di irreversibilità degli effetti degli atti determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti, rendendo il suo ripensamento non meritevole di preminente tutela.
[1] P. Calamandrei, Introduzione allo studio dei provvedimenti cautelari, Padova 1936, 21 ss.; C. Mandrioli, Per una nozione strutturale dei provvedimenti anticipatori o interinali, Riv. dir. proc. 1964, 551 ss.
[2] E. Dalmotto, Il rito cautelare "competitivo”, in Riv. trim, dir. e proc. civ. 2007, 1, 267 ss.
[3] In questa Rivista, 2017, num. 2, 310 ss., con nota di I. Rivera, La Corte costituzionale torna sulla sperimentazione degli embrioni.
[4] Indicativamente, si vedano A. Cossiri, La l. n. 40/2004 ancora di fronte alla Corte: l’inammissibilità delle questioni sui divieti di revoca del consenso e di ricerca sugli embrioni, in Giur. cost. 2016, 763 ss., nota a Corte Cost. 13 aprile 2016, n. 84; V. Tigano, De dignitate non disputandum est? La decisione della Consulta sui divieti di sperimentazione sugli embrioni e di revoca del consenso alla PMA, in www.penalecontemporaneo.it.; già in precedenza, L. ROSSI CARLEO, Le informazioni per il consenso alla procreazione assistita, in Familia, 2004, 706 ss.; L. BOZZI, Il consenso al trattamento di fecondazione assistita tra autodeterminazione procreativa e responsabilità genitoriale, in Europa e dir. priv., 2008, p. 241 ss.
[5] Cass. 18 dicembre 2017, n. 30294, in Famiglia e diritto 2019, 21 ss., con nota di A. Figone, Revoca del consenso alla fecondazione eterologa, la quale ritiene diversa la posizione dell’uomo rispetto alla posizione della donna ai fini della revoca del consenso alla procreazione assistita dopo la fecondazione, non potendosi alla prima imporre un trattamento sanitario coatto, e peraltro trovandosi il padre del concepito nella stessa diversità di posizione in cui lo colloca la legge n. 194 del 1978, diversità reputata non irragionevole da Corte cost. 31 marzo 1988, n. 38.
[6] Cass. 15 maggio 2019, n. 13000, in Corr. giur. 2020, 748 ss. con nota di D. M. Locatello, L’attribuzione dello status filiationis al nato da fecondazione omologa eseguita post mortem.
[7] S. P. Perrino, L’utilizzo degli embrioni crioconservati dopo la separazione coniugale, in giustiziacivile.com, 6 aprile 2021.
[8] Si veda su tale profilo M. Acierno, Tecniche di riproduzione assistita e revoca del consenso: una questione ancora insoluta, in Rivista AIAF 2015, 2, 31 ss.
[9] Fra le tante voci dottrinali in tal senso, M. D’AURIA, Informazione e consensi nella procreazione assistita, in Familia, 2005, I, 1005 ss.
Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII
di Bruno Capponi
È notizia dell’ultim’ora l’avvenuta predisposizione da parte dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, presentato al Senato il 9 gennaio 2020 e recante Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Si tratta di un articolato contenente previsioni di delega legislativa e non norme dirette (se non nell’art. 15 ter, che tratta promiscuamente i procedimenti in materia di diritti delle persone e della famiglia e taluni aspetti dell’esecuzione forzata), corredato da un’ampia relazione illustrativa.
Giustizia Insieme intende aprire un dibattito ampio su questo testo.
Le considerazioni che seguono debbono intendersi “a prima lettura” di limitati aspetti di un testo complesso (in sé e nella sua integrazione con le precedenti previsioni del d.d.l.), che è destinato a modificare in più punti la tutela giurisdizionale civile. Si può anzi prevedere che le norme delegate costituiranno il più consistente intervento sul codice di procedura, dal tempo della sua promulgazione.
Una considerazione preliminare s’impone. Il Governo presenta il maxi-emendamento come una soluzione “tecnica” che, nei termini presentati dalla stampa generalista, è candidata a ridurre quasi della metà gli attuali tempi di durata dei processi civili. Non entriamo nel merito di tale valutazione, anche perché non sappiamo (non viene detto) sulla base di quali parametri oggettivi essa sia stata formulata. Osserviamo soltanto che a base dell’intervento vengono divisate valutazioni di tipo economico (PIL, ripresa, competitività, Europa), e quando gli economisti si sono occupati di giustizia (un esempio recente è il documento Come ridurre i tempi della giustizia civile diffuso dall’osservatorio sui conti pubblici italiani: https://www.mondoadr.it/wp-content/uploads/cpi-Come-ridurre-i-tempi-della-giustizia-civile.pdf) hanno sempre proposto ricette maltusiane del tipo: (a) disincentivare, «sia per i clienti sia per gli avvocati», il ricorso in giudizio; (b) condannare l’attore soccombente, in appello o in cassazione, a pagare un importo pari al quadruplo del contributo unificato (a favore dello Stato). In caso di ricorso in cassazione contro la c.d. “doppia conforme” e in caso di ulteriore soccombenza, le spese andrebbero liquidate alla parte vincitrice in misura pari almeno al triplo di quelle riconosciute dalla Corte di appello; (c) limitare la possibilità di ricorso in cassazione ai casi attualmente affidati alle sezioni unite; (d) degiurisdizionalizzare i contenziosi civili; (e) sommarizzare, mediante l’impiego generalizzato del procedimento sommario di cognizione, la giustizia civile in tutti i suoi gradi; (f) «i giudici le cui cause vengono annullate dalla cassazione o totalmente riformate in appello in una percentuale superiore al 40 per cento della media nazionale, si dovrebbero veder negato il giudizio di idoneità quadriennale».
Queste ricette “da economista” sembrano non tener conto del tipo di impegno che lo Stato, in base alla nostra Carta fondamentale, assume nei confronti dei cittadini nel delicato settore dell’amministrazione della giustizia. Esse sembrano dare per scontato che il ricorso ai tribunali non sia determinato da esigenze sociali effettive, costituendo piuttosto il soddisfacimento di bisogni di tipo occasionale e voluttuario, determinati anche da equivoci culturali. Esse guardano all’Avvocatura come a un fattore di intoppo e malfunzionamento del sistema, che darebbe prova migliore di sé ove si riuscisse a comprimere il numero degli iscritti ai consigli dell’ordine, dandosi per scontato che la presenza stessa degli avvocati è un fattore di creazione e moltiplicazione di contenzioso. Non ci si rende conto che “disincentivare” il “ricorso in giudizio” significa violare l’art. 24, l’art. 25, l’art. 102 Cost. e ignorare, al tempo stesso, la funzione ordinamentale e istituzionale dell’Avvocatura (posta, dall’osservatorio sui conti pubblici, sullo stesso piano dei “clienti”). E, nel contempo, ove vi fossero abusivi ricorsi e sfruttamenti della “risorsa Giustizia”, altre dovrebbero essere le misure idonee a scoraggiarli; il respingimento indiscriminato è inaccettabile, anche perché finisce per colpire i più deboli.
Insomma, l’atteggiamento che si va diffondendo è lo stesso di chi, credendo che i pronto soccorso siano pieni di malati immaginari e perditempo, proponga di risolvere i problemi della sanità chiudendo gli ospedali; anzi, irrogando sanzioni a chi insista a presentarsi in astanteria con la testa rotta, essendo fondato il sospetto che se la sia rotta apposta.
È in questo preciso clima che si inquadrano gli interventi “tecnici” del maxi-emendamento.
1. Il tema forse più urgente, e che il Ministro tratta però su un altro tavolo (Commissione Castelli), è quello del ruolo e dell’utilizzo della magistratura onoraria. L’art. 12-bis, rubricato Ufficio per il processo, premette che tale struttura organizzativa «è attualmente disciplinata dall’articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, dal D.M. 1° ottobre 2015 e dal decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116». Quest’ultimo testo (c.d. “riforma Orlando”) è stato al centro di molte polemiche, per l’utilizzo cui in esso è destinata la magistratura onoraria, di pace e di tribunale (GOT). Il tema è delicato: la sentenza UX 658/18 della Corte di Giustizia ha stabilito che i giudici di pace, da un lato, hanno la qualifica di “giudice europeo” e, dall’altro lato, di “lavoratori” (noi diremmo “lavoratori dipendenti”, pur con contratto a termine), con quanto ne dovrebbe conseguire in tema di tutele previdenziali e assistenziali nonché di retribuzione adeguata. La Corte ha escluso che le modalità di accesso alle funzioni giurisdizionali dei magistrati togati (concorso pubblico) possano costituire motivo legittimo per differenziare il trattamento economico tra le due categorie (che peraltro confluiscono – aspetto che non sempre viene ricordato – nella generale qualifica di “magistrati ordinari”). Tra l’altro, le funzioni giurisdizionali onorarie sono “temporanee” soltanto sulla carta, perché ci sono giudici di pace e GOT che esercitano ininterrottamente le loro funzioni da molti anni, gestendo un proprio autonomo “ruolo” esattamente come fa un magistrato togato, che è dunque sempre più il “giudice della porta accanto”.
Le questioni implicate dalla necessità (che sembra condivisa da tutti, ma il tempo sta scorrendo inutilmente) di ritornare sulla “riforma Orlando” sono numerose.
I GOP (nuovo acronimo che ricomprende tutti gli onorari), allo stato attuale, dovrebbero essere tutti inseriti nell’Ufficio per il Processo (art. 30 comma 1, d.lgs. n. 116/2017), per svolgere le attività indicate dall’art.10: al magistrato onorario vengono conferite “deleghe” (comma 11) in base a precise “direttive” (commi 13,14 e 15) alle quali il magistrato dovrà attenersi, salvo revoca. Gli è preclusa la possibilità di definire tutti i procedimenti a lui assegnati, dovendo limitarsi a emettere quei soli provvedimenti che risolvano “questioni semplici e ripetitive” (comma 12).
Indubbiamente, il modello organizzativo del nuovo ufficio, già presente nella legge di delega 28 aprile 2016, n. 57, è inedito. Prima di essa, i GOT erano inquadrati quali ausiliari all’interno di un ufficio, nel quale tuttavia non si confondevano (pur potendo essere assegnatari di un autonomo ruolo istruttorio e decisorio). Nel futuro, i giudici onorari dovrebbero al tempo stesso essere incardinati nell’ufficio per il processo; compito delicatissimo del presidente sarà quello di garantire un giusto equilibrio tra l’attività che l’onorario svolgerà nella sua veste di giudice (“questioni semplici e ripetitive”), e ciò che potrà essere chiamato a fare quale “assistente” del giudice professionale. Il rischio, evidentissimo, è che le scoperture di organico – che non costituiscono certo l’eccezione nei nostri tribunali – spingano gli uffici di dirigenza a privilegiare la funzione “servente” dei magistrati onorari, i quali per di più – a differenza dei giudici di pace – non hanno nessuna esperienza quali titolari di un ufficio autonomo.
È vero che il presidente del tribunale disporrà così di una corposa “massa di manovra”, indubbiamente assai utile per meglio equilibrare gli assetti organizzativi (verosimilmente a vantaggio dei togati); ma è vero anche, per converso, che il nuovo modello finisce per aggravare i suoi compiti dirigenziali, così come, d’altra parte, le limitazioni all’attività dei GOT – i quali sinora non ne hanno di fatto conosciute – finiranno per aggravare il lavoro dei magistrati togati.
Insomma, le resistenze corporative ai giusti (quantomeno per il passato) riconoscimenti della magistratura onoraria rischiano di essere pagate dagli utenti di un servizio giustizia sempre più deficitario ed evanescente, se è vero che il principale problema che il legislatore ha inteso risolvere è (soltanto) quello di escludere l’equiparazione, coi dovuti distinguo, tra magistratura professionale e onoraria.
C’è, in ogni caso, una prospettiva costituzionale che non può essere trascurata. L’art. 106, comma 2, Cost., ammette la nomina di magistrati onorari «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli». Ciò presuppone che il legislatore costituzionale abbia dato per scontato che il giudice onorario (utilizzato, di norma, come giudice di primo grado: il monito viene anche dalla recente Corte cost. n. 41/2021) non potesse occuparsi di quel contenzioso particolarmente delicato e qualificato, tradizionalmente di competenza del tribunale. Il costituente aveva dinanzi agli occhi una situazione profondamente diversa da quella attuale: sin dalla fine dell’ottocento, e per i primi decenni del ’900, il giudice conciliatore si era trovato a conoscere di una parte percentualmente molto elevata del complessivo contenzioso in materia civile (con punte che arrivavano ad oltre l’80%), mentre i giudici professionali (pretore e tribunale) si occupavano del residuo contenzioso, che evidentemente era tutt’altro che bagatellare sebbene risultasse legato ad un’economia di tipo agricolo più che di tipo commerciale o addirittura industriale.
Il pensiero del costituente va dunque attualizzato e reinterpretato, perché la situazione di fatto e istituzionale è, negli anni, profondamente mutata. Occorre dunque chiedersi quale valore possa conservare oggi il riferimento alle competenze dei giudici “singoli”.
A nostro avviso, attualizzare tale riferimento significa leggerlo in rapporto alla c.d. giustizia minore. Non è interpretazione di tipo conservatore: va anzi preso atto che nel principio costituzionale vi è un germe di evoluzione, non essendosi inteso identificare anche per il futuro la giustizia onoraria in ciò che essa era all’epoca (altrimenti la Costituzione si sarebbe espressa in modo diverso, inibendo al giudice onorario di “invadere” la quota di giurisdizione riservata ai giudici professionali) ma soltanto individuare un limite verso l’alto: quello coincidente con la competenza del giudice di primo grado di rango più elevato, il tribunale. Sebbene non sia semplice (ora come allora) definire con ragionevole approssimazione cosa debba intendersi per “giustizia minore” (è un qualcosa destinato anche a cambiare nel tempo), va preso atto che il costituente ha preferito fare oggettivo riferimento a quella che era, all’epoca, la competenza del più importante ufficio giudiziario di primo grado.
Al tempo stesso, va preso atto che il giudice onorario, una volta nominato, entra a pieno titolo nel ruolo di “magistrato ordinario”, con la conseguenza di poter godere di tutte le garanzie proprie dell’esercizio della giurisdizione.
Ci sembra dunque che l’ufficio del processo, che oggi prevede la partecipazione dei GOP, vada totalmente ripensato, che vada in conseguenza differita l’entrata in vigore del d.lgs. n. 116/2017 e che ciò debba avvenire prima dell’entrata in vigore delle nuove norme delegate.
2. Altro tema delicato è quello dell’incremento degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie (art. 2). Anche questa materia è soggetta a un importante profilo costituzionale, allorché tali strumenti siano organizzati non soltanto per diffondere la cultura della mediazione (come la relazione afferma in più punti), ma soprattutto quale condizione di procedibilità in materie determinate.
La Corte Costituzionale ha sempre ribadito che l’assoggettamento dell’azione giudiziaria all’onere del previo esperimento di rimedi amministrativi o, comunque, non giurisdizionali «è legittimo soltanto se giustificato da esigenze di ordine generale o da superiori finalità di giustizia, fermo restando che, pur nel concorso di tali circostanze, il legislatore deve contenere l’onere nella misura meno gravosa possibile» (Corte cost. 24 febbraio 1995 n. 56); il legislatore, in altri termini, non deve «rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa» (Corte cost. 27 luglio 1994 n. 360; Corte cost. 23 novembre 1993 n. 406).
Su questa stessa linea si assesta la Corte di Giustizia UE, la quale a più riprese ha confermato l’orientamento della nostra Consulta (cfr., per tutte, Corte Giust. CE 18 marzo 2010 n. 317).
Dal comma 1 dell’art. 24 Cost. si ricava così che la tutela giurisdizionale dei diritti dev’essere liberamente azionabile, e può sopportare, in settori determinati, limitazioni temporanee soltanto se funzionali ad un interesse di rilievo pubblicistico. Debbono ricorrere taluni requisiti: a) natura delle parti (pubblica amministrazione o impresa di pubblico interesse) giacché il previo esperimento della procedura amministrativa può giustificarsi sul riflesso e della “spontanea” conformazione a legalità, e dell’economicità della fase preventiva che consente di evitare procedure più lunghe e dispendiose (Corte cost. 6 luglio 1970 n. 116, Corte cost. 16 luglio 1970 n. 150, Corte cost. 27 febbraio 1974 n. 46, Corte cost. 17 luglio 1974 n. 234); b) carattere degli accertamenti demandati (Corte cost. 18 gennaio 1991 n. 15, a proposito degli enti previdenziali che dispongono di apposita organizzazione e personale specializzato, ciò che rende utile il previo esame della controversia in sede amministrativa); c) esigenza di porre un freno all’eccesso di tutela giurisdizionale «in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale» (Corte cost. 1° giugno 1964 n. 47, Corte cost. 6 luglio 1970 n. 116, Corte cost. 4 marzo 1992 n. 82); d) opportunità di limitare il previo esperimento di fasi amministrative a settori particolari (Corte cost. 16 giugno 1964 n. 47, Corte cost. 8 luglio 1969 n. 125).
L’insistenza del nostro legislatore sugli strumenti alternativi, e ciò vale anche per il maxi-emendamento, ha un alto tasso di ambiguità: da un lato si afferma di voler diffondere una cultura che non sia soltanto quella della spada (ma va considerato che il giudice conciliatore, a dispetto del suo nome, la conciliazione non l’ha mai particolarmente curata, soprattutto quella in sede non contenziosa; va cioè considerato che ogni popolo ha la cultura che ha, e i relativi cambiamenti non avvengono per factum principis ma richiedono molto tempo e la modifica di molte condizioni di base); dall’altro lato, non si fa mistero che la diffusione di quella cultura viene sollecitata soprattutto al fine di liberare i ruoli del giudice, operazione che non ha punti di contatto con la diffusione di cultura e mentalità nuove. Si assiste alla ripetizione dell’operazione tentata nel 1991 con l’istituzione del giudice di pace: la versione nobile dell’operazione è stata la creazione di un “giudice della vicinanza e della tolleranza”; quella meno nobile è stata l’individuazione di un magistrato “minore” in grado di liberare i ruoli dei togati dalle questioni di minore importanza. Gli strumenti alternativi sono alimentati da un sistema che funziona; ma se debbono essere la toppa di un sistema che ha smesso di funzionare, è lecito pensare che anche il loro funzionamento non sarà garantito.
Andrebbe certamente considerato che nel nostro attuale sistema il soggetto che ha maggiori responsabilità nell’ingolfamento dei contenziosi (anche in Cassazione, tramite la sezione tributaria) è la pubblica amministrazione: proprio quel soggetto che, paralizzato dalla responsabilità contabile dei suoi vari agenti, risulta essere il meno propenso a soluzioni alternative dei suoi innumerevoli contenziosi. D’altra parte, la presenza di strumenti alternativi di più facile ed economico accesso può facilmente produrre il fenomeno dell’emersione di contenzioso inespresso: un bene per la collettività, un problema per chi – lo vedremo subito – ha quale primario obiettivo quello di reprimere il contenzioso già emerso.
3. Sul processo di cognizione di primo grado, il maxi-emendamento gioca la carta del principio di eventualità indiscriminato: gli atti introduttivi debbono contenere, a pena di decadenza, anche le allegazioni istruttorie. È una scelta che avvicina il rito ordinario a quello del lavoro, destinato a cause semplici e ripetitive (come sono tutte quelle in cui il rito lavoro s’è diffuso dopo il 1973), e che rischia però di alterare la parità delle parti, specie ove venga ridotto il termine di costituzione per il convenuto. Non vogliamo entrare nel merito specifico delle scelte divisate dalla relazione (aggiungere, negli artt. 163 e 167 c.p.c., che la descrizione dei fatti e degli elementi di diritto debba aver luogo «in modo chiaro e specifico» non ci sembra la soluzione miracolosa al fine «di rendere più agevole e comprensibile» la posizione delle parti); osserviamo soltanto che si continua (lo si fa dal 1990) a intervenire sulle attività di parte, che vengono compresse e sanzionate sempre più, e nulla si dice delle attività che competono al giudice. Si fa finta di non accorgersi che il problema dell’udienza è quello di cui si discute da sempre, e di cui molto si è discusso proprio in relazione al rito lavoro: il giudice deve arrivarvi preparato e deve arrivarvi con l’idea di decidere, non di rinviare. In questo, i giudici civili avrebbero molto da imparare dai giudici amministrativi, i quali ogni volta che si siedono in pubblica udienza decidono qualcosa, e non concedono rinvii e termini per trattazioni scritte perché il contraddittorio si realizza in udienza oralmente, magari con differimenti ad horas (il pomeriggio per la mattina). Qui servirebbe per davvero un cambio di abitudini e mentalità, non soltanto nel comune sentire riguardo agli strumenti alternativi!
Altra idea, non nuova, che domina le nuove proposte è quella del respingimento. Sebbene la relazione non ne faccia parola, la proposta è di abrogare l’art. 164, comma 4, c.p.c. per i vizi dell’editio actionis: si prevede in alternativa che il giudice, invece di rilevare la nullità e provvedere sulla rinnovazione, pronunci «ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta, quando quest’ultima è manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel n. 3 dell’articolo 163 ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al n. 4 dello stesso articolo» (la nullità è posta sullo stesso piano della manifesta infondatezza); e tale ordinanza non sarebbe reclamabile, mentre lo sarebbe l’ordinanza di accoglimento, che non acquisterà efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c. e non avrà autorità in altri processi (in caso di accoglimento del reclamo il procedimento prosegue davanti ad un magistrato diverso appartenente al medesimo ufficio). Il diverso regime assegnato al provvedimento secundum eventum – che ricorda la scelta operata dall’art. 669 terdecies c.p.c., cassata dalla Corte costituzionale – lascia ben intendere che la portata della nuova regola è nel senso di facilitare i respingimenti, cioè i rigetti delle domande con provvedimenti sommari esattamente nel medesimo contesto che attualmente prevede la possibilità di rinnovazione con sanatoria ex nunc.
Quale interesse realizza un rigetto con ordinanza provvisoria? Nel caso dell’accoglimento l’interesse è quella della formazione anticipata del titolo esecutivo. Ma il rigetto, in sé, quale interesse potrà mai realizzare?
Bizzarro ci sembra il passaggio della relazione, in cui si parla della «introduzione, sia per le cause di competenza del giudice monocratico sia per le cause di competenza del collegio, di un modello uniforme di decisione nel quale il giudice, al completamento dell’istruttoria, fissi l’udienza di rimessione della causa in decisione (che per le cause nelle quali il giudice decida in composizione collegiale continuerà a celebrarsi davanti al giudice relatore)» e ciò non solo per il requisito di pubblicità dell’udienza, ma soprattutto perché l’udienza (che una volta era detta) di discussione non può che svolgersi dinanzi al giudice che dovrà decidere la causa.
Altra cifra riconoscibile del divisato intervento è quella della sommarizzazione. Sempre più si richiedono al giudice valutazioni sommarie prognostiche (lo vedremo infra); il sommario di cognizione cambia nome e collocazione topografica (trasloca dal Libro IV al Libro II e si chiamerà “procedimento semplificato di cognizione”: potenza delle parole!), ma ciò non toglie la scarsa fortuna che il modello ha avuto, forse proprio a causa della sua scarsa diluizione. Di certo, attualmente si compare dinanzi al giudice molto prima col sistema della citazione a udienza fissa, che non col sistema del ricorso.
4. La scelta del respingimento del contenzioso come ordinario dispositivo deflattivo si acutizza (era prevedibile) nelle proposte per il giudizio di appello: anzitutto si vuole che «l’impugnazione incidentale tardiva perde efficacia anche quando l’impugnazione principale è dichiarata improcedibile», e non soltanto inammissibile (noti i contrasti di giurisprudenza sul punto, mai sanati nonostante la nuova stagione “nomofilattica”); poi si prospetta «una razionalizzazione delle norme in tema di improcedibilità e di manifesta infondatezza dell’appello demandando al legislatore delegato l’individuazione della forma con cui l’appello è dichiarato improcedibile e il relativo regime di controllo e che, al di fuori dai casi in cui deve essere pronunciata l’improcedibilità dell’appello ai sensi dell’articolo 348 c.p.c., l’impugnazione, quando ne ricorrono i presupposti, sia dichiarata manifestamente infondata con decisione da assumersi in forma semplificata a seguito di trattazione orale con sentenza che potrà essere succintamente motivata anche con rinvio a precedenti conformi». Il messaggio non potrebbe essere più chiaro.
Si vorrebbero restringere – dopo averli …separati in casa! – i presupposti per la concessione dell’inibitoria in appello, allineandoli, quanto al periculum, con quelli dell’art. 373 c.p.c.: il legislatore delegato dovrebbe prevedere «a quali condizioni può disporsi la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata sia disposta; indicando i parametri sui quali deve basarsi la valutazione, precisando che si deve formulare un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell’impugnazione o, alternativamente, quando sussiste il rischio di un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza, con l’ulteriore precisazione che tale rischio può consistere nella possibilità di insolvenza, quando la sentenza contiene la condanna al pagamento di una somma di denaro». Ne deduciamo, appunto, che fumus e periculum si sono separati, ma posto che sembra piuttosto difficile bollare un atto di appello come “manifestamente infondato” (lo dimostra l’applicazione dell’art. 348 bis c.p.c.), il risultato è che l’inibitoria dell’art. 283 si confonderà con quella dell’art. 373 c.p.c.
La ricorrenza del riferimento al carattere “manifesto” dell’infondatezza della domanda o del gravame sembra una pericolosa costante: evidentemente le concezioni degli economisti iniziano a diffondersi, mentre chi è solito frequentare gli uffici giudiziari sa quanto sia difficile bollare con simili valutazioni in limine le attività di parte, così come ha potuto constatare il fallimento dell’art. 348 bis col suo requisito della non ragionevole probabilità di accoglimento dell’impugnazione. Ma, tant’è, l’idea che la giustizia possa e anzi debba essere amministrata in forme sommarizzate anche nei gradi di gravame è dura a morire, e ad affermare il contrario si rischia di essere bollati come nemici della Patria.
Si conferma l’idea che l’istanza di inibitoria può essere premessa per una sanzione da devolversi alla cassa delle ammende: «si prevede che l’istanza di sospensione possa essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello, anche con ricorso separato rispetto all’atto introduttivo, purché siano esposti, a pena di inammissibilità, gli specifici elementi sopravvenuti dopo la proposizione dell’impugnazione o dopo il rigetto. Si demanda al legislatore delegato l’adozione di disposizioni che scoraggino il rischio di moltiplicazione delle istanze di sospensione, prevedendo che se l’istanza è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, con possibilità di revocare tale ordinanza con la sentenza che definisce il giudizio». Non si consente, invece, il reclamo avverso il provvedimento di inibitoria: soluzione che, dopo le recenti decisioni “nomofilattiche” della Cassazione sull’art. 615, comma 1, c.p.c., più non trova, a mio avviso, alcuna seria giustificazione.
Anche a proposito dell’inibitoria la direttiva, candidamente affermata, è quella di non far comparire le parti dinanzi al giudice che decide: «per quanto concerne la trattazione si prevede che tale fase si svolga davanti al consigliere istruttore, al quale sono attribuiti i poteri di dichiarare la contumacia dell’appellato, di procedere alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza, di procedere al tentativo di conciliazione, di ammettere i mezzi di prova, di procedere all’assunzione dei mezzi istruttori e di fissare udienza di discussione della causa anche ai sensi dell’articolo 281-sexies del codice di procedura civile». Non mancano poi «disposizioni volte a semplificare e accelerare la fase decisoria introducendo la possibilità che, all’esito dell’udienza in camera di consiglio fissata per la decisione sull’istanza prevista dall’articolo 283 c.p.c., il collegio possa provvedere ai sensi dell’articolo 281-sexies c.p.c., assegnando ove richiesto un termine per note conclusive scritte antecedente all’udienza di discussione»: il tutto, se ben comprendiamo, senza aver mai visto in faccia le parti (o i loro difensori) e senza che queste ultime abbiano avuto il piacere di conoscere in pubblica udienza chi le giudicherà.
Del resto, tale direttiva è costantemente riaffermata: «con riferimento alla fase decisoria si prevede l’eliminazione delle udienze di comparizione non necessarie stabilendo che, esaurita l’attività prevista negli articoli 350 e 351 c.p.c., il consigliere istruttore provveda direttamente all’assegnazione di termini per consentire il deposito dell’atto contenente la precisazione delle conclusioni, e ulteriori termini per il deposito delle comparse conclusionali e termini non superiori a 15 giorni per il deposito delle memorie di replica e a fissare successiva udienza avanti a sé nella quale la causa è rimessa in decisione, con riserva di riferire al collegio e con deposito della sentenza nei successivi sessanta giorni». Se ne deduce che il collegio si formerà in camera di consiglio e che la parte lo conoscerà soltanto all’atto della pubblicazione della decisione: in tal modo vengono risolti alla radice i frequenti problemi che nascono in caso di diversità tra il collegio che si è formato all’udienza di discussione e il collegio che viene indicato nell’intestazione della sentenza. All’Europa, che dagli economisti è dominata, si potrà pure raccontare che queste misure realizzeranno una compressione dei tempi di definizione dell’appello, ma che ne penseranno i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo?
5. Anche riguardo alla Cassazione la prospettiva è «di semplificazione e di accelerazione di tale giudizio, al fine di conseguire l’obiettivo di ridurre i tempi di durata del processo, razionalizzando il procedimento e adeguando le modalità di risposta della Corte alle diverse tipologie di contenzioso e agli esiti prefigurati».
L’unificazione del rito camerale va salutata con favore, anche se è temibile l’introduzione di un procedimento camerale accelerato per i ricorsi inammissibili, improcedibili o, ancora, manifestamente infondati.
Il destino della Cassazione è quello di essere sempre più ingolfata, e ciononostante di acquisire sempre nuovi compiti: ora è il turno del “rinvio pregiudiziale in cassazione”. Potrà essere un ottimo modo di esercizio della funzione nomofilattica, ma potrebbe anche rivelarsi un aggravio per la Corte e, al tempo stesso, un fattore di grave rallentamento dei contenziosi di merito. Peraltro, sullo sfondo resta l’eterna questione: che dovere hanno, i giudici di merito, di applicare i principi di diritto formulati, anche d’ufficio, dalla Cassazione? Più il giudizio di legittimità si “verticizza”, più cresce la forza centrifuga che concepisce quello giurisdizionale come un potere diffuso, dove la nomofilachia può viaggiare anche dal basso verso l’alto.
6. A conclusione di queste primissime, disorganiche e parziali note, in attesa del dibattito che speriamo ampio ci permettiamo di esprimere qualche provvisoria conclusione.
Per “rilanciare” la giustizia civile col giusto passo – senza inseguire le pallide chimere della “degiurisdizionalizzazione”, che pure occupano uno spazio consistente nell’iniziativa che stiamo commentando – occorre anzitutto fornire ai magistrati strumenti adeguati, dopo aver adeguato il numero dei magistrati in relazione all’impatto attuale degli affari contenziosi. Senza, non ci sarà un’inversione di rotta nell’amministrazione della giustizia civile. È la macchina, l’organizzazione di base a dover ripartire. Occorre aumentare il numero dei giudici civili, diminuire il carico di ruolo di ciascun giudice. È questa la prima e vera misura urgente che non può più essere rinviata. Il problema che ci ha portati sull’orlo del baratro non è legato alla redazione o all’interpretazione di questa o quella norma processuale, ma esclusivamente alla mole del contenzioso riversato sul singolo giudice. Ogni giudice civile è stato ed è letteralmente schiacciato dal peso del contenzioso che dovrebbe gestire dinamicamente, e che invece lo paralizza. Ogni giudice è ormai portato a vedere il suo “ruolo” come una macchina infernale che, vivendo di vita propria, non si riesce a dominare (viene alla mente il Chaplin di “tempi moderni”). Per intervenire sul problema occorre dunque investire ingenti risorse economiche, e i tempi appaiono propizi.
Ben venga l’ufficio di cui all’art. 12-bis, preferibilmente con la partecipazione di brillanti giovani laureati, i quali possono ora aspirare all’uditorato compiuti i trent’anni e dopo essersi sottomessi a formazioni post-universitarie che forse non tutti possono permettersi; ma a ciò deve corrispondere una maggiore responsabilizzazione: attualmente, lasciato in completa solitudine, il giudice civile pensa di dover rispondere soltanto per sé stesso e soltanto per gli adempimenti che a lui sono personalmente rimessi (e che potrebbero essergli contestati in sede disciplinare). Il giudice civile, come tutte le vittime, ha un atteggiamento difensivo, non propositivo. Ciò determina il suo isolamento rispetto alla struttura che lo ospita, senza mai fare di lui la componente decisiva per la sua efficienza. È normale che il giudice civile non abbia una segreteria, che le parti non sappiano a chi indirizzarsi se debbano contattarlo fuori dall’udienza? Noi vogliamo pensare che il giudice debba assumere, convenientemente supportato, un ruolo di gestione dinamica dei contenziosi, ma attualmente la cancelleria “non riferisce messaggi”, “non sa se e quando il giudice verrà”. Sembra quasi che il giudice sia un semplice ospite della struttura, non sempre gradito.
Per troppo tempo il giudice civile ha ragionato come un facitore di provvedimenti: tanti fascicoli incamero, tanti provvedimenti pubblico e del resto nulla può interessarmi.
Ma se il giudice civile è il primo a non chiedersi quale sia lo scopo ultimo della sua attività; quando potrà essere disponibile alle parti il suo provvedimento; in che termini di tempo dovrà provvedere perché il suo intervento sia davvero utile per incidere nella realtà controversa; quale concreta utilità chi è ricorso alla giustizia potrà ricavare da quell’intervento; quale concreta possibilità di attuazione potrà avere il provvedimento adottato nella sede della cognizione, è giocoforza che la sua attività non potrà essere da altri considerata in termini di efficienza. Al contrario, l’ufficio del giudice deve prendersi carico di tutto ciò che avviene nel processo, dall’iscrizione della causa a ruolo fino alla pubblicazione della sentenza e la sua attuazione. Il giudice non può disinteressarsi del pratico funzionamento della struttura nella quale egli è inserito, soltanto perché non è chiamato a rispondere disciplinarmente di determinati adempimenti “che non gli competono”. Egli deve invece ragionare nell’ottica della parte a cui favore è reso il servizio, e in quest’ottica hanno la stessa importanza vuoi lo studio teorico del problema di diritto dalla cui risoluzione dipende la decisione della causa, vuoi l’adempimento pratico connesso, ad es., alla pubblicazione e comunicazione della sentenza alle parti. L’insieme di queste attività dev’essere seguito dall’ufficio del giudice, senza potersi distinguere le questioni “teoriche” (di cui sinora s’è occupato il giudice in splendida solitudine) da quelle “pratiche” (di cui sinora s’è occupata la cancelleria senza pensare di doverne mai rispondere al giudice).
Accanto a misure che incidano sulle strutture, e che sono le più urgenti, occorrono anche (ma non sono certo i più urgenti) interventi sul codice di procedura; ma, a differenza di quanto s’è fatto finora, questi interventi non debbono introdurre nuove complicazioni appesantendo il lessico di norme divenute, di rimaneggiamento in rimaneggiamento, dei veri labirinti di parole, di termini, di espressioni a volte contraddittorie. Si considerino gli artt. 183, 492 e 499 c.p.c.: anche un non tecnico è in condizioni di giudicarne la pessima fattura, l’uso scorretto della lingua italiana, la dannosa duplicazione di concetti che sono il prodromo di gravi questioni interpretative e applicative. Si tratta di norme-sceneggiatura, che vorrebbero descrivere nel dettaglio le attività processuali e che spesso si traducono in una comica previsione pantomimica di eventi che non possono ripetersi sempre uguali per l’intero contenzioso civile.
Le norme processuali debbono essere riportate a chiarezza ma anche a essenzialità; previsioni di dettaglio debbono essere evitate, perché gli operatori – che sono tutti dei professionisti – quali destinatari elettivi di queste norme debbono essere in condizioni di applicarle con ragionevolezza, duttilità, modo, adattandole alle particolarità dei singoli casi.
Va preso atto dell’irragionevolezza di quanto sinora realizzato dal legislatore che ha finito, coi suoi continui e insipienti interventi sul codice di procedura, per aggravare lo stato di crisi della giustizia civile. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: legge processuale complicata, malintesa e inapplicata, giudici civili abbandonati a loro stessi, utilizzazione incontrollata di magistrature onorarie in forte predicato di incostituzionalità (esemplare la recente vicenda degli aggregati in Corte d’appello), fughe dalla giustizia ordinaria verso sedi in cui molto difficilmente i diritti dei cittadini potranno essere adeguatamente tutelati secondo gli standard costituzionali, valorizzazione esagerata della sentenza di primo grado (da chiunque pronunciata) e svalorizzazione ingiustificata di tutte le impugnazioni. Scoraggiamento, respingimento, sanzioni. Il tutto a costi sempre più alti.
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