ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo sulle formalità del rito di Cassazione
di Franco De Stefano[1]
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ravvisato una violazione del diritto di accesso al giudice in un’applicazione eccessivamente formalistica di una norma sul contenuto del ricorso per cassazione, ma in un caso in cui non se ne è prospettata la funzionalizzazione, tanto meno proporzionale, ad un fine legittimo di buona amministrazione della Giustizia o di certezza del diritto: pertanto, i requisiti di forma restano essenziali, ma vanno introdotti ed applicati con queste cautele.
Sommario: 1. Il caso deciso - 2. Il principio - 3. Una prima conclusione - 4. Uno spunto operativo.
1. Il caso deciso
Con sentenza del 30 marzo 2021, la terza sezione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha riscontrato una violazione dell’art. 6 della Convenzione da parte della Federazione Russa, sotto il profilo della lesione del diritto di accesso al giudice in occasione della definizione negativa in punto di rito di un ricorso per cassazione per carenza di un requisito formale, riguardo al quale è stata riscontrata la carenza di un fine legittimo, nonostante la buona fede del ricorrente nel somministrare tutte le informazioni per comprendere la natura del suo ricorso (Corte EDU, affare Oorzhak c/Russia, ricorso n. 4830/18).
L’impugnativa del licenziamento di un lavoratore è stata respinta in primo grado e, quasi allo spirare del termine, egli ha proposto ricorso per cassazione alla Corte suprema della Repubblica di Tuva (una delle ventidue repubbliche della Federazione Russa[2]), ma intestandolo senza specificare in quale composizione (o formazione o sezione) egli intendesse adire quel giudice supremo.
Una prima decisione preliminare – resa a giudice unico – ha rilevato la violazione dei paragrafi 1 e da 4 a 7 dell’art. 378 del codice di procedura civile, poiché sarebbe stato necessario specificare che il ricorso era indirizzato alla composizione di quella Corte che si identificava nel “presidium”, poiché la Corte suprema di ogni entità federata ha plurime competenze: essendo talvolta giudice di prima istanza, di appello e di cassazione e, per di più, di revocazione, mentre sui ricorsi per cassazione è competente soltanto il “presidium”.
Il ricorrente ha posto rimedio alla carenza con un nuovo ricorso, ma quando oramai il termine per proporlo era scaduto; e, respinta pure la sua istanza di rimessione in termini per non avere egli addotto alcuna circostanza rilevante a questo fine, il ricorso è stato dichiarato inammissibile in via definitiva, con decisione confermata sia dalla Corte suprema della Repubblica di Tuva che da quella della Federazione russa.
Il ricorrente si è rivolto allora alla Corte di Strasburgo, prospettando che il rifiuto di esaminare il suo ricorso ha violato il suo diritto di accesso ad un tribunale, poiché la ragione che ha indotto la Corte di cassazione a respingere in rito il suo ricorso, senza cioè esaminarlo nel merito, fosse viziato da un eccessivo formalismo. All’esito della difesa del Governo, che si è limitato ad affermare che la misura controversa - vale a dire il rigetto del ricorso senza esame - era stata adottata in stretta conformità con la legge, il ricorrente ha replicato che non era stato indicato alcuno scopo legittimo che la giustificasse, sostenendo pure di aver agito in buona fede, rispettando sia lo spirito che la lettera del codice di procedura civile, il cui art. 378 gli imponeva solo di indicare il nome del tribunale e non la composizione competente.
In particolare, egli ha aggiunto che tutti i dettagli essenziali per l’esame del ricorso (la decisione impugnata, i nomi e gli indirizzi delle parti, ecc.) vi erano menzionati, in uno a tutte le informazioni necessarie per determinare il tipo di procedura in questione, vale a dire il giudizio di cassazione; ancora, ha sostenuto che anche solamente il buon senso rendeva agevole determinare il tipo di procedura applicabile al suo ricorso (la cui stessa intestazione indicava che si trattava di un ricorso in cassazione) e che quindi la Corte suprema della Repubblica di Tuva avrebbe potuto facilmente attribuirlo alla giusta composizione, cioè il presidium, il solo competente per esaminarlo.
Ha sostenuto che non solo l’obbligo di indicare la parola presidium non era previsto dal diritto interno, ma non era nemmeno giustificato da alcuna considerazione pratica o giuridica; ha aggiunto che i giudici nazionali hanno applicato la legge in un modo eccessivamente formalistico, tale da privarlo dell’accesso ad un grado di cassazione.
La Corte di Strasburgo ha dato ragione al ricorrente.
Essa ha dapprima ricordato a questo riguardo che la regolamentazione relativa alle formalità da rispettare per formare un ricorso mira ad assicurare la buona amministrazione della giustizia e il rispetto, in particolare, del principio della certezza del diritto, al riguardo avendo gli interessati una legittima aspettativa a che le regole siano rispettate[3]; ma ha subito soggiunto di avere a più riprese sottolineato come l’applicazione da parte delle giurisdizioni interne di formalità da rispettare per formare un ricorso possa violare il diritto di accesso ad un tribunale, quando l’applicazione troppo formalista delle regole applicabile fatta da una giurisdizione impedisca, di fatto, l’esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato[4].
In applicazione dei criteri alla specie, la Corte di Strasburgo, pur precisando di non potere sostituire la sua propria interpretazione del diritto interno (letto in modi evidentemente inconciliabili dal ricorrente e dal Governo) a quella delle giurisdizioni nazionali, ha rilevato che il Governo, pure a volere ammettere la stretta aderenza della decisione interna al codice di rito, non ha indicato quale sarebbe lo scopo legittimo perseguito dalla norma così applicata: non ha precisato, per esempio, se si trattava di assicurare la buona amministrazione della Giustizia, di alleggerire l’ingorgo della giurisdizione di Cassazione con la semplificazione dell’attribuzione dei ricorsi, o ancora di abbreviare la durata dell’esame dei fascicoli. E tanto, impedendo di verificare la proporzionalità della misura e così la sua adeguatezza, ha implicato, per di più dinanzi alla buona fede del ricorrente e così condivisa la sua tesi della sussistenza di tutte le informazioni necessarie nel ricorso da lui formato, quindi la violazione del diritto di accesso ad un tribunale, quand’anche nel grado di legittimità.
Ed ha infine riconosciuto la violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione, accordando al ricorrente una riparazione di € 1.000 per danni morali e di pari misura per spese, oltre interessi a far tempo dalla definitività della sentenza.
2. Il principio
La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza di Strasburgo sulla legittimità della previsione generale di formalità di accesso alla giurisdizione, soprattutto in grado di impugnazione, di cui un caposaldo può individuarsi nella celebre pronuncia Trevisanato[5], che anche la nostra Corte ha a più riprese applicato e comunque richiamato[6], mostrando di averne sicura consapevolezza.
Il principio generale che ne viene enucleato è che l’imposizione di condizioni, forme e termini processuali, nel rispetto del principio di proporzionalità, risponde ad obiettive esigenze di buona amministrazione della giustizia, soprattutto se si tratta di regole prevedibili e di sanzioni prevenibili con l’ordinaria diligenza, anche in eligendo[7], sicché l’inammissibilità dell’impugnazione, che consegue all’inosservanza di tali formalità anche quando integrano un termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica[8].
Le formalità di accesso sono quindi legittime, ma solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, coordinando tra loro diritto di accesso al giudice, sicurezza giuridica e buona amministrazione della giustizia; e tale compatibilità delle limitazioni previste dall’ordinamento interno con il diritto di accesso a un tribunale riconosciuto dall’art. 6 § 1 della Convenzione è ancora più accentuata per quelle di accesso al giudizio di legittimità, dipendendo dalle particolarità di questo, tenendo conto del processo complessivamente condotto nell’ordinamento giuridico interno e del ruolo che svolge in quest’ultimo la Corte di cassazione, le regole d’accesso alla quale possono essere più rigorose che per un appello[9].
Il principio esige comunque che la formalità sia sorretta da uno scopo legittimo e che esista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito[10]; ancora, è indispensabile che la formalità sia prevista dalla legge e possa essere prevista ex ante, sicché, ove invece sia di derivazione giurisprudenziale, non sia frutto di una interpretazione “troppo formalistica”, risulti comunque da un orientamento consolidato, sia chiara ed univoca[11].
Ed ogni regola processuale, come pure ogni interpretazione delle regole processuali, per non violare il diritto fondamentale al giusto processo deve allora bilanciare, con un temperamento ragionevole, l’insopprimibile esigenza funzionale di porre regole di accesso alle impugnazioni con quella a un equo processo, da celebrare in tempi ragionevoli, come prescritto pure dall’art. 47 della Carta di Nizza e quindi in armonia con la norma sovranazionale di rango eurounitario, oltre che con l’art. 111 della nostra Carta fondamentale.
3. Una prima conclusione
La stessa Corte europea scolpisce il principio e, già solo con un’esemplificazione però assai significativa, le cause giustificatrici delle formalità: tra gli scopi legittimi idonei a rendere conformi al diritto di accesso le formalità procedurali bene sarebbe stata annoverabile l’esigenza, purché dichiarata e chiara e conoscibile ex ante, di assicurare la buona amministrazione della Giustizia, oppure quella di alleggerire l’ingorgo della giurisdizione di Cassazione[12] con la semplificazione dell’attribuzione dei ricorsi, o ancora quella di abbreviare la durata dell’esame dei fascicoli.
L’unica formalità non in linea con il diritto di accesso al giudice (ed al giudice di legittimità) sarebbe quindi quella che non trova alcuna razionale giustificazione in almeno uno di questi scopi, o anche in altri, purché in linea con le acquisizioni in tema di tutela dei diritti fondamentali: ed in quest’ambito i margini di apprezzamento delle autorità nazionali possono essere davvero assai ampi.
È interessante notare come la sola censura in concreto mossa nel caso concreto alle autorità nazionali sia stata quella di non avere fornito alcuna giustificazione della misura, al di là della sua mera conformità ad un’astratta previsione di legge; ed è interessante pure notare che perfino il semplice scopo di alleviare il carico della Corte suprema sarebbe stato, almeno in linea di principio, idoneo a giustificare la formalità, sebbene sia ragionevole pensare che comunque la Corte europea si sarebbe riservata di valutare la proporzionalità del mezzo impiegato (la draconiana sanzione della inammissibilità, per usare termini cari ai processualcivilisti italiani) rispetto al fine perseguito. E, certo, nella specie l’errore consistente nell’omessa specificazione di quale articolazione interna al pur sempre unitario ufficio giudiziario correttamente adito (la Corte suprema di quella Repubblica) è stato comunque ricondotto al novero delle interpretazioni possibili di una norma sulla mera enunciazione dell’autorità giudiziaria di indirizzo: interpretazione che, al limite, avrebbe potuto perfino essere pure giustificata, con una di quelle ragioni, se il Governo si fosse determinato a farlo.
Fine legittimo può quindi essere quello di alleggerire il carico o quello di accelerare la durata dei processi, oltre quello, più generale ed al contempo generico, di una “buona amministrazione della giustizia”: una vasta gamma di potenzialità, quindi, temperata solo dalla chiarezza della previsione e dalla proporzionalità col fine dichiarato o comunque evincibile; ed una proporzionalità che deve poi fare i conti in concreto con il fatto che l’atto della parte sia comunque con tutta evidenza in buona fede qualificabile come funzionale al suo scopo: sicché questo deve essere il parametro di riferimento.
Nell’ambito dell’ampio margine di discrezionalità riconosciuto dalla Corte europea anche nel caso in esame, molte sono e rimangono le possibili soluzioni alternative, tutte in astratto compatibili con il diritto di accesso al giudice e soprattutto a quello di legittimità.
Le Sezioni Unite già hanno sancito che la valutazione in termini di inammissibilità del ricorso per violazione di requisiti di contenuto o di forma, lungi dall’esprimere un formalismo fine a sé stesso, esprime un richiamo al rispetto - oltre che di una precisa disposizione di legge - di uno standard di redazione degli atti che valorizza la stessa qualificata prestazione professionale svolta dall’avvocato, che si traduce nel sottoporre nel modo più chiaro possibile la vicenda processuale e le ragioni del proprio cliente al giudice, nonché le questioni sottoposte all’attenzione della Corte nel ricorso in cassazione in particolare[13]. Del resto, in termini di inammissibilità la nostra Corte di cassazione si è espressa in caso di violazione dei canoni di chiarezza e sinteticità espositiva, la quale vulnera irrimediabilmente lo stesso diritto di difesa della controparte (in termini nettissimi, Cass. 20/10/2016 n. 21297, seguita – tra le altre – da Cass. ord. 21/03/2019, n. 8009).
Ma non è questa la sede per una compiuta disamina delle tendenze dell’interpretazione delle norme processuali in tema di giudizio di legittimità, dovendo quella riservarsi agli studi istituzionali o a differente sede accademica: né per riflettere sui rischi e sui guasti di interpretazioni troppo rigide o troppo elastiche delle norme processuali, anche per gli effetti negativi sulla certezza e affidabilità del diritto e sulle aspirazioni nomofilattiche della nostra Corte suprema di cassazione.
4. Uno spunto operativo
Qui preme soltanto evidenziare la necessità di una consapevolezza rinnovata della delicatezza dei limiti di e dei requisiti di forma nel giudizio di legittimità: indispensabili, purché funzionali alle esigenze speciali di un giudizio civile connotato però dal più intenso grado di ufficiosità conosciuto, per la coesistenza e l’immanenza del c.d. ius constitutionis accanto a quello delle parti. E, una volta che siano stati individuati tali limiti e requisiti di forma, occorrerà che tanto avvenga, se non con una norma di legge, anche solo con un’elaborazione giurisprudenziale, purché chiara, semplice, di immediata percezione e comprensione, solo in quanto tale obiettivamente conoscibile e tale che il suo rispetto da parte degli operatori specializzati del settore possa dirsi effettivamente esigibile. E con un’interpretazione il più possibile costante, perché in materia processuale non c’è bene maggiore dell’affidabilità delle soluzioni e della stabilità degli approdi ermeneutici (Cass. Sez. U., ord. 06/11/2014, n. 23675), idonei ad orientare la condotta quotidiana degli interpreti - e quindi degli utenti del sistema della Giustizia - al corretto impiego delle risorse del processo.
Occorre prendere coscienza, anche alla luce delle riforme legislative in campo processuale succedutesi a ritmo spesso incalzante negli ultimi tempi e pure con riguardo al giudizio di legittimità, della delicatezza del razionale contemperamento o bilanciamento tra i fondamentali diritti che vengono in gioco e che postulano esigenze non conciliabili.
La Corte di cassazione è assediata da un contenzioso sempre meno tollerabile e sempre meno in linea con la sua funzione istituzionale di nomofilachia; la risposta di Giustizia di legittimità è sempre più affannosa e delicata, dinanzi ad una domanda montante ed incontrollata, a cui si intende porre rimedio con un malinteso senso di rincorsa fordista di una produttività illimitata, tecnicamente e praticamente irraggiungibile per le caratteristiche stesse del sistema.
In questo contesto, è allora comprensibile la tentazione di fare ricorso sempre più ampio ed indiscriminato ad interpretazioni rigide e formalistiche: ma questo potrebbe essere un tragico errore, come certamente un errore è stata l’infelice stagione del quesito di diritto e la non felice delle riforme successive del rito di legittimità, che perseguono obiettivi talvolta contraddittori ed oscillano tra l’aspirazione ad un incremento esponenziale della produttività e la pretesa di autorevolezza del mare magnum del fiume in piena delle sue pronunce.
Le elaborazioni e gli approdi in materia di forme processuali – e soprattutto di forme del giudizio di legittimità, per l’accesso al quale significativamente è richiesta una particolare qualificazione sia dei giudici che dei professionisti difensori delle parti – dovrebbero quindi essere tutte orientate alla combinazione di questi principi, tra loro in evidente tensione dialettica: la necessità di un sensibile rigore, che può diventare via via più accentuato a mano a mano che si avanza nella progressione del processo civile e dei suoi gradi per la irrinunciabile esigenza di razionalizzazione delle risorse, contrapposta all’insopprimibile aspirazione all’esame della propria domanda - o, nei gradi di impugnazione, del proprio gravame - nel suo merito.
L’esigenza di una particolare serietà nella proposizione e nella trattazione dell’impugnazione di legittimità può quindi esigere prezzi, anche notevoli, alla parte che vi si accinge: purché ognuna di quelle sia proporzionale ad un fine legittimo e non comporti, se applicata con rigore formalistico, la sostanziale negazione del diritto all’esame nel merito dell’impugnazione; al contempo, purché poi la loro applicazione sia il più possibile uniforme, dovendosi la controparte attendere che il giudice di ultima istanza sia il primo a rispettare la legge e la sua interpretazione di questa.
Mai come in questo momento storico la legittimazione del giudice e del giudice di legittimità prima di ogni altro poggia sull’effettivo perseguimento dello scopo dell’istituzione all’interno del sistema giudiziario di una moderna società democratica, a tutela dei diritti e soprattutto di quelli fondamentali dell’individuo. Una Corte suprema che è in grado di assolvere al meglio la sua funzione è un bene prezioso; e, soprattutto, è un bene non soltanto di tutti gli operatori o di coloro che con essa hanno a che fare, ma di tutti i cittadini, a presidio dei loro diritti e soprattutto di quelli fondamentali e di quegli altri definiti come inviolabili dalla nostra Costituzione.
È però una risorsa limitata ed è indispensabile amministrarla con accortezza e senso di responsabilità condiviso da tutti gli attori del processo civile; la forma resti allora a doverosa salvaguardia del corretto impiego di questa preziosa risorsa e dell’indispensabile rispetto delle regole di un gioco complesso e delicato in condizioni di parità ed eguaglianza sostanziale per tutti, ma non sia il pretesto o l’occasione per dispensarla in modo capriccioso o, peggio ancora, casuale; affinché il diritto resti funzionale al suo scopo di confinare il caso o l’arbitrio per quanto possibile ai margini della vita sociale e regolare ordinatamente i rapporti tra i consociati secondo i loro diritti fondamentali.
[1] Presidente di sezione della Corte di cassazione.
[2] Nella Siberia centromeridionale ed ai confini nordoccidentali della Mongolia, con capitale Kyzyl.
[3] Nel testo della sentenza si richiama il precedente Corte EDU Miragall Escolano e altri c/ Spagna, nn. 38366/97 e altri 9, § 33, CEDU 2000-I.
[4] Nel testo della sentenza si richiamano i precedenti della stessa Corte: Běleš e aa. c/ Rep. Ceca, n. 47273/99, § 69, CEDU 2002-IX, Zvolský e Zvolská c/ Rep. Ceca, n. 46129/99, § 55, CEDU 2002 IX, Nikolaos Kopsidis c/ Grecia, n. 2920/08, § 22, 18 marzo 2010, Miessen c/ Belgio, n. 31517/12, § 66, 18 ottobre 2016, Zubac, cit., § 98, e Gil Sanjuan c/ Spagna, n. 48297/15, § 31, 26 maggio 2020.
[5] Corte EDU 15 settembre 2016, Trevisanato c/ Italia, in causa n. 32610/07, soprattutto §§ 42-44.
[6] Fin da Cass. ord. 07/12/2016, n. 25074, via via anche a Sezioni Unite, fra le ultime delle quali, v. Cass. sez. U. 30/01/2020, n. 2089, oppure Cass. Sez. U. 25/03/2019, n. 8312.
[7] In tali espressi termini, v. Cass. 08/05/2019, n. 12134.
[8] In tali sensi, Cass. ord. 10/02/2021, n. 3340; in termini analoghi, Cass. ord. 24/03/2021, n. 8223.
[9] Così, con ulteriori richiami alla giurisprudenza di Strasburgo, già Cass. Sez. U. 13/12/2016, n. 25513.
[10] In tali sensi Cass. Sez. U. 07/11/2017, n. 26338.
[11] Cass. 30/09/2019, n. 24224; Cass. 28/06/2018, n. 17036.
[12] Se non singolare, può essere significativo che il lemma impiegato, nella sola lingua francese adoperata dalla decisione, “désengorger”, sia normalmente tradotto con “sturare” o “stappare”.
[13] Tra le più recenti: Cass. Sez. U. 28/11/2018, n. 30754; seguita da molte successive.
Il 13 aprile 2021 si è tenuto Convegno dal titolo “Tutela della salute: problema regionale, statale o internazionale? La Corte costituzionale e la sentenza n. 37 del 2021“.
L’evento è stato presieduto dalla Prof.ssa Maria Alessandra Sandulli (Direttore del CeSDirSan) e coordinato dal Prof. Beniamino Caravita di Toritto (membro del Comitato di Direzione del CeSDirSan).
Sono inoltre intervenuti il Prof. Marcello Cecchetti, la Prof.ssa Marcella Gola (membro del Comitato di Direzione del CeSDirSan) e il Prof. Massimo Rubechi.
Qui sotto la registrazione dell’evento, disponibile sul canale youtube del CesDirSan.
In ricordo di Elena Pulcini. Per una filosofia impegnata di fronte alle sfide del presente
di Baldassare Pastore
La scomparsa di Elena Pulcini rappresenta una grave perdita per la cultura filosofica, non solo italiana. Professore ordinario di Filosofia sociale nell’Università di Firenze, in pensione dallo scorso primo novembre, Elena Pulcini ha affrontato, nel corso del suo itinerario di ricerca contrassegnato da una vasta produzione, alcune questioni basilari per la comprensione del mondo odierno e dei suoi cambiamenti, coniugando rigore scientifico e impegno civile.
Le analisi e le riflessioni sul soggetto femminile, sull’individualismo moderno, sulle forme del legame sociale, sulla cura, sulla vulnerabilità, sulla responsabilità, sulla crisi ecologica e le sfide globali hanno caratterizzato un percorso di studio profondamente coerente, nel quale la filosofia ha offerto un approccio critico al reale, contaminandosi con altri saperi, quali la psicoanalisi, l’antropologia, la sociologia, la letteratura, e, nel contempo, un deposito di concetti e immagini con cui orientarsi per articolare nuove prospettive. Da questo punto di vista, si può ben dire che gli esiti della ricerca di Pulcini, pur non avendo mai tematizzato espressamente questioni riguardanti l’esperienza giuridica, possono fornire un utile bagaglio, a disposizione dei giuristi, per pensare il loro compito in direzione del superamento dell’autoreferezialità e dell’apertura ad altri discorsi e saperi in un’ottica non riduzionistica.
Elena Pulcini ha visto nella Filosofia sociale l’ambito privilegiato per proporre una diagnosi del presente, cogliendone alcuni eventi significativi, e per snidare le aporie, le contraddizioni, gli aspetti degenerativi che lo segnano. L’attenzione alle patologie della società contemporanea, intese come sviluppi sbagliati o disturbati che compromettono la promessa, propria della modernità, dell’autorealizzazione degli individui, è stata una componente centrale dei suoi interessi, così come lo è stata la rivalutazione delle passioni, in quanto strutture significanti che presuppongono credenze e giudizi, e orientano le scelte, le convinzioni, i valori.
Le passioni non sono forze cieche e irrazionali, ma elementi universali, pur soggette, di volta in volta, a trasformazioni in base ai contesti storici e sociali nelle quali operano. Riflettere sulle passioni permette di gettare luce su ciò che gli esseri umani sono e su ciò che vorrebbero essere, sulle loro aspettative, sul modo in cui vivono e intendono vivere. Questo implica una consapevolezza critica volta a imparare a distinguere, per poterle contrastare, le passioni negative, egoistiche e distruttive (come l’odio, l’invidia, il risentimento) da quelle positive, empatiche, quali leve potenziali di una mobilitazione idonea a superare le due opposte polarità dell’individualismo illimitato e del comunitarismo endogamico, vere e proprie patologie della contemporaneità.
Lo sguardo di Pulcini, così, si dirige verso le radici emotive dell’etica, verso le motivazioni affettive che ispirano le domande di giustizia e che trovano origine proprio in determinate passioni. Emerge, qui, la considerazione per la funzione delle emozioni, con la dimensione cognitiva e comunicativa che esse presentano, e per i modi di coltivare la loro qualità etica, facendone un requisito essenziale della sfera morale e sociale (cfr. Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2020). D’altra parte, guardando al diritto come linguaggio dell’interazione, non rappresenta un carattere proprio della giustizia il confrontarsi con le passioni umane?
In Elena Pulcini il bisogno di giustizia, originato dall’esperienza dell’ingiustizia e dal desiderio di combatterla, per far fronte alle diseguaglianze, allo sfruttamento, alla violenza, alla mancanza di riconoscimento, si lega all’urgenza della cura come antidoto all’atomismo, all’indifferenza, all’erosione della relazionalità intersoggettiva (cfr. L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2001), all’incuria verso il mondo vivente e verso il drammatico stato dell’ambiente naturale, proponendone una reciproca integrazione. La complementarità tra giustizia e cura può trovare un terreno comune nella politica, intesa come «orizzontale azione di concerto», coinvolgimento nella sfera pubblica, sensibilità al bene collettivo, cooperazione (al di là di ogni irenica benevolenza) tra individui consapevoli della propria incompiutezza, debolezza, fragilità, e della dipendenza dagli altri. La nozione di vulnerabilità, in questo campo, diviene un fattore critico-decostruttivo, che conduce a revocare in dubbio la rappresentazione del soggetto astratto e autosufficiente, ma anche dinamico, che chiede agli assetti sociali e agli ordinamenti di rilegittimarsi continuamente, interrogandosi sui propri fondamenti ed esiti normativi.
Tra le passioni la paura occupa un posto centrale, a partire dalla sua ambivalenza. Per un verso, infatti, presenta, riprendendo Hobbes, un carattere «produttivo», capace di promuovere la conservazione della vita e l’ordine sociale e politico, garante della sicurezza; per l’altro, è all’origine di una serie di effetti negativi, che l’età contemporanea amplifica, creando una situazione diffusa di insicurezza e di ansia, accresciuta dalla percezione di impotenza generata dalla coscienza della difficile gestione delle sfide di carattere globale riguardanti le catastrofi ecologiche, la crisi finanziaria, le nuove povertà, le migrazioni (che ampliano l’idea di altro nella figura dell’altro distante nello spazio, straniero, sconosciuto), i conflitti etnico-religiosi, le generazioni future (che ampliano l’idea dell’altro nella figura dell’altro distante nel tempo), la deriva incontrollabile dei poteri economici e tecnologici. Si tratta di sfide che, se non governate, tendono a trasformare gli individui in passivi e impotenti spettatori di eventi.
La risposta alla paura legata alle minacce e ai rischi dell’età globale, che mostrano la nostra ineludibile condizione di vulnerabilità (un dato originario, esistenziale, che, comunque, ha bisogno di essere percepito e riconosciuto al fine di entrare nella dinamica dell’interazione) e l’interconnessione di ciascuno con il destino e la vita di tutti gli esseri umani, è vista nella cura, come pratica sociale implicante l’assunzione della responsabilità per gli altri (cfr. La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009). La responsabilità, connessa alla preoccupazione e alla sollecitudine per le sorti dell’umanità e del pianeta, manifesta la sua operatività sul piano della costruzione del legame sociale e nel ripensare l’idea di comunità come dimensione interna e costitutiva dell’individuo, ispirata, con la inevitabile contaminazione tra diversi, al rispetto delle singolarità e al recupero del riconoscimento solidale.
La proposta della filosofa va nella direzione di re-instaurare una «metamorfosi virtuosa della paura», che ne contrasti la rimozione, individuando la sua funzione propulsiva. La paura, pertanto, diventa la fonte emotiva della responsabilità che prelude ad una risposta etica. Entra in gioco, a questo riguardo, la facoltà di immaginazione, orientata a produrre un risveglio propositivo della paura, in quanto ci consente di dar conto del male presente e futuro e di prefigurare scenari, riattivando la fiducia nella possibilità del cambiamento, della trasformazione dell’esistente.
Invero, non può non essere evidenziato che molte delle questioni sulle quali si è concentrata la riflessione di Pulcini toccano il diritto. Tra queste rientrano l’interesse per la convivenza tra persone estranee le une alle altre e per le modalità dell’essere-in-comune, nonché l’attenzione alla giustizia: valore che il diritto persegue o promette di perseguire, che è coessenziale al suo uso e alla sua comprensione, e che coinvolge il pensiero giuridico verso un impegno valutativo e progettuale. L’impegno per la giustizia, anche nella formazione, nell’interpretazione, nell’applicazione imparziale ed equa delle regole giuridiche, si pone come momento cruciale per la realizzazione di quello che – riprendendo la frase di chiusura dell’ultimo libro di Elena Pulcini – «possiamo ancora chiamare, evocando uno slogan forse un po’ nostalgico ma quanto mai attuale, un mondo migliore».
Il giudice amministrativo come giudice dell’emergenza*
di Maria Alessandra Sandulli
1. La pandemia ha messo a dura prova, oltre alle nostre capacità di resistenza fisica, psicologica ed economica, le diverse espressioni del nostro sistema organizzativo e giuridico. L’attenzione è stata focalizzata soprattutto sul sistema sanitario e sui rapporti tra livelli istituzionali (Governo/Parlamento, Stato/Regioni e altri enti locali) e, di conseguenza, tra le fonti che, in modo alluvionale e talvolta contraddittorio, hanno cercato di far fronte alla diffusione e all’evoluzione del virus, rincorrendo un difficile e delicato bilanciamento tra le tutele dei diritti fondamentali (alla salute, alla vita, ma anche alla dignità e all’esercizio delle diverse libertà primarie).
Ma la pandemia ha messo a dura prova anche il nostro sistema giustizia, che è, a sua volta, essenziale per il funzionamento della società e per la tutela dei diritti umani e dei valori della democrazia. Fortunatamente, gli strumenti tecnologici e l’avvio, negli ultimi anni, del processo telematico, sono stati di grande aiuto.
Le risposte alle misure anti-contagio sono state però evidentemente diverse nei vari processi: basti soltanto pensare alla particolarissima importanza della prossemica nella valutazione delle testimonianze e delle deposizioni degli imputati.
Questo ciclo di incontri si profila dunque di massimo interesse.
Significativamente, il ciclo si apre con il processo amministrativo, offrendo così anche l’occasione per fornire elementi utili a riflettere sul ruolo del giudice amministrativo, ciclicamente messo in discussione da parte di studiosi e forze politiche che, in una prospettiva che ho già ripetutamente criticato, propugnano un superamento del tradizionale sistema dualista disegnato dalle leggi di fine ‘800 e confermato dalla nostra Costituzione, per concentrare la tutela giurisdizionale nelle mani del giudice ordinario. Se possiamo ritenere ormai pacificamente acquisita, anche nei Paesi che non ne avevano tradizione, la “necessità” di un “diritto amministrativo” e di regole processuali specialistiche per la tutela contro la relativa violazione, non vi è, come noto, altrettanta omogeneità di vedute sulla opportunità di un modello dualista di giustizia amministrativa, ovvero sull’affidamento, in tutto o in parte, del sindacato giurisdizionale sugli atti e sui comportamenti delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad esse equiparati) a un plesso giurisdizionale “dedicato”, distinto dalla magistratura ordinaria , soprattutto laddove, in forza dell’estensione dell’ambito della giurisdizione esclusiva, ciò implichi una scissione della funzione di nomofilachia sui diritti, anche fondamentali .
La risposta che il nostro sistema di giustizia amministrativa ha dato alla pandemia offre, a mio avviso, una riprova che, ferma l’opportunità di superare alcune criticità, il giudice amministrativo costituisca una “risorsa” fondamentale per assicurare l’effettività della tutela nei confronti del potere amministrativo e la “giustizia nell’amministrazione”. Il problema, se mai, è opposto. Per assolvere al suo ruolo, il giudice amministrativo deve mantenere la sua peculiarità, che è e deve restare quella di impedire che gli atti amministrativi ingiustamente lesivi di posizioni giuridicamente tutelate producano effetti – evidentemente pregiudizievoli anche per l’interesse generale alla “buona amministrazione” – e non deve cedere alle spinte verso una progressiva assimilazione al giudice ordinario (che è invece giudice della controversia), che, inevitabilmente pone il problema della ragionevolezza e della proporzionalità di una sostanziale duplicazione della stessa funzione. Per questa ragione, va nettamente stigmatizzata ogni tendenza a sostituire la tutela caducatoria con quella risarcitoria e a ridimensionare la tutela cautelare[1].
Il tema è di massima attualità perché l’emergenza è gestita attraverso provvedimenti amministrativi (decreti, ordinanze, circolari, linee guida, e le più svariate forme di raccomandazioni, indirizzi, istruzioni, intese, moduli di autodichiarazione, ecc.), perché l’impatto economico della pandemia ha imposto e impone misure di sostegno e di rilancio dell’economia, che, a loro volta, richiedono autorizzazioni e controlli amministrativi, perché l’esigenza di disporre in tempi estremamente brevi di ulteriori strutture, presidi sanitari, strumenti di prevenzione, risorse umane e tecnologiche, mezzi di trasporto e molto altro deve essere soddisfatta mediante atti amministrativi.
La pandemia ha rilanciato “la centralità del pubblico” e, quanto più si espande l’autorità, tanto più è delicato e importante il sindacato sull’esercizio del potere[2]: compito ancora più arduo in un sistema amministrativo estremamente complesso, nel quale si intrecciano e si sovrappongono e contrappongono svariati livelli e tipologie di competenze, portatrici di diversi e molteplici interessi, in un quadro normativo multilivello e notoriamente farraginoso, dove la confusione e l’incertezza sono aggravate dalla crisi della politica e dai problemi di legittimazione delle istituzioni rappresentative, alle quali, in ossequio al principio costituzionale della sovranità popolare, è affidato l’esercizio del potere normativo primario, fermo però il limite - tutt’altro che irrilevante – che, sempre per effetto della Costituzione, la sovranità nazionale incontra nel primato dell’Unione europea e il rispetto degli obblighi eventualmente assunti a livello internazionale o pattizio.
La necessità di valorizzare al massimo i finanziamenti disposti dall’Unione europea per fronteggiare l’eccezionale emergenza pandemica Covid-19 e i suoi drammatici effetti e di non perdere una eccezionale e irripetibile occasione di ri-partenza, trasformando il cd “debito buono” (perché consente investimenti idonei a determinare un’inversione di rotta verso una nuova crescita economica) in un irrecuperabile “debito puro” (che, per il suo straordinario ammontare, porterebbe inevitabilmente al tracollo del nostro Paese) impone, oggi più che mai, una “buona amministrazione” e, conseguentemente, un efficace sistema di controlli e di tutela giurisdizionale sull’operato dei soggetti – pubblici e privati – che devono in concreto assicurarla.
Il superamento della crisi sociale ed economica prodotta dalla pandemia è una “sfida epocale”, che l’Italia deve assolutamente vincere.
E, tema sul quale da ormai diversi anni cerco di richiamare l’attenzione di politici, giudici, amministratori e studiosi, l’economia non può ripartire senza legalità e sicurezza, perché gli operatori e gli investitori hanno bisogno di poter fare affidamento su regole certe, irrinunciabile viatico per acquisire quella “prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie e delle altrui condotte” che consente di correre “in ragionevole tranquillità”, direttamente o attraverso l’acquisto di beni o di quote societarie, i fisiologici (e dunque ineliminabili) “rischi d’impresa” di qualsiasi attività economica[3]. Per queste ragioni ho ripetutamente stigmatizzato la “trappola” nascosta nelle norme di “pseudosemplificazione” che celano in realtà l’ingiusto trasferimento dalle amministrazioni ai privati delle responsabilità della ricerca e della lettura delle regole applicabili alle singole fattispecie[4]. Ho quindi particolarmente apprezzato le parole con cui, nel Documento programmatico presentato il 17 febbraio scorso al Senato in occasione del voto di fiducia al nuovo Governo, il Presidente Draghi, con riferimento agli interventi per il Mezzogiorno, ha sottolineato che “Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite”.
Il che – soprattutto in un quadro normativo come detto (e come noto) estremamente incerto, significativamente descritto come “labirinto”, “alveare”, o simili, tanto da aver indotto il legislatore a ridefinire in termini riduttivi gli ambiti della responsabilità erariale e dell’abuso d’ufficio[5] – si traduce in un fortissimo carico di responsabilità per le istituzioni che, in virtù e in osservanza dei precetti costituzionali, devono, non soltanto controllare e giudicare l’effettiva correttezza dell’operato dei soggetti deputati alla cura degli interessi pubblici, ma anche, se non soprattutto, “guidarne” l’azione, per assicurarne, per quanto possibile, la “legalità” e, dunque, la “giustizia” (come disposto dall’art. 100 Cost.).
I nuovi finanziamenti possono e devono essere l’occasione per investire anche sul sistema giustizia (recte, sul “servizio giustizia”[6]), perché “l’efficienza (della macchina) è condicio sine qua non (sebbene non anche condicio per quam) dell’effettività [in altro passaggio correttamente ridefinita come “efficacia”] (della tutela)” [7].
Per altro verso il sistema giustizia non può però permettersi “passi falsi” e deve, oggi più che mai, porsi, compatto e, in tutte le sue espressioni e punti di forza, “al servizio” del Paese, con lo stesso spirito e con la stessa “abnegazione” con cui lo hanno fatto e continuano a farlo i medici e gli operatori sanitari e lo hanno fatto e continuano a farlo gli assistenti sociali, gli insegnanti e tutti coloro che operano in settori che non hanno potuto “fermarsi”. Nella stessa linea, del resto, il 2 febbraio scorso, il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rivolto un accorato, ma fermo, “appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferi[ssero] la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica” per fare “fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili”. E, come abbiamo sentito nella ricordata presentazione del Documento programmatico al Senato, lo stesso senso di responsabilità ha ispirato il Presidente Draghi e i nuovi Ministri e gli altri autorevoli componenti del nuovo staff governativo ad accettare l’incarico.
Lo spirito e, mi si consenta, l’“abnegazione” dimostrata dagli operatori sanitari e da tutti coloro che li hanno supportati devono essere invero, come è logico, richiesti a (e dimostrati da) chiunque opera per la tutela di diritti fondamentali e/o, direttamente o indirettamente, per la tutela di interessi generali, come è (rientrando a pieno titolo in entrambe le categorie) sicuramente quello a che l’organizzazione e l’esercizio dell’attività amministrativa, cui è oggi “affidata” l’attuazione (e in buona parte la stessa puntuale definizione) delle linee di contrasto della pandemia e del disegno di ricrescita economica, sociale e culturale, siano, come detto, informati al massimo rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento[8], in linea con l’art. 97 Cost.[9] e con l’art. 41 della Carta di Nizza[10]. E dunque, in primis, agli organi di controllo dell’azione amministrativa[11] e ai giudici – plesso TAR-Consiglio di Stato – cui la Costituzione affida, in via generale, la tutela nei confronti dell’autorità amministrativa.
2. Da studiosa e da utente della giustizia amministrativa, posso convintamente affermare che la risposta del nostro ordinamento processuale amministrativo dinanzi a una situazione assolutamente straordinaria e fuori da ogni umana prevedibilità è stata oltremodo positiva.
Uno dei “punti di forza” del nostro processo amministrativo è infatti proprio la tutela cautelare, che costituisce il fulcro del sistema di garanzia contro l’esercizio del potere pubblico, il banco di prova della sua effettività, perché, come messo in evidenza dall’Unione europea nella Direttiva sui ricorsi in materia di contratti pubblici, una tutela è effettiva solo se l’ordinamento consente di impedire che gli atti assunti in violazione delle regole sostanziali producano i loro effetti.
Alla tutela cautelare il nostro codice processuale amministrativo ha dedicato ampio spazio, sapientemente bilanciando l’interesse del ricorrente alla cautela immediata con quello dell’amministrazione e dei controinteressati a prospettare gli argomenti a difesa dell’atto impugnato e dell’interesse pubblico di cui esso è portatore[12]. Rispondendo alle sollecitazioni delle istituzioni europee, il nostro legislatore ha introdotto un meccanismo di tutela cautelare super immediata per dare pronta risposta alle istanze di estrema gravità e urgenza che non possono trovare adeguata soddisfazione nei tempi, pur estremamente contratti, della trattazione collegiale. Si consente così una tutela cautelare monocratica, ammessa nei casi di massima urgenza addirittura ante causam, per il tempo necessario alla celebrazione della camera di consiglio per la decisione collegiale. Questo strumento, di cui i primi decreti legge della prima fase emergenziale hanno previsto un’applicazione generalizzata nel periodo della sospensione delle udienze, ha consentito alla giustizia amministrativa di non fermarsi mai e i giudici amministrativi, facendone tendenzialmente un utilizzo molto prudente, hanno sapientemente arginato il rischio (purtroppo presente nella norma) che esso fosse strumentalizzato come valvola per un più facile accoglimento di istanze cautelari monocratiche non giustificate da una reale impossibilità di attendere il collegio.
Anche alla ripresa delle decisioni collegiali, la cautela monocratica ha comunque continuato a giocare un ruolo fondamentale per assicurare la tutela nel diritto dell’emergenza.
I conflitti tra i vari livelli istituzionali scatenati dalla congerie di provvedimenti emergenziali hanno infatti indotto in vari casi le stesse Amministrazioni a ricorrere al giudice amministrativo, domandandogli l’adozione di decreti monocratici, addirittura in presenza delle condizioni per adire la Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzioni. La ragione del fenomeno è verosimilmente da ravvisare non solo nella maggiore agilità della proposizione dell’azione, ma anche nel fatto che il giudice amministrativo riesce a concedere le misure cautelari in tempi più brevi rispetto a quelli di cui necessita, per la struttura attuale del giudizio, la Corte costituzionale. Una ricerca di una giovane studiosa[13] ha posto in luce che, nella fase acuta della pandemia, il giudice amministrativo è stato investito con una straordinaria frequenza di ricorsi con richiesta di tutela cautelare immediata dallo Stato e dalle Regioni (dieci), proprio per l’urgenza di definire il conflitto sui provvedimenti per la gestione della crisi sanitaria incidenti, non solo sul riparto di attribuzione, ma anche su diritti e libertà fondamentali dei cittadini. Nella maggior parte dei casi, il giudice ha esaminato le istanze cautelari pronunciandosi con decreto monocratico. In un solo caso, per espressa richiesta da parte dell’Avvocatura dello Stato, direttamente definendo la questione nel merito con sentenza in forma semplificata.
Il modello della tutela cautelare di estrema urgenza per risolvere i conflitti tra i poteri pubblici nella gestione della pandemia è stato peraltro recentemente utilizzato, per la prima volta, dalla Corte costituzionale in relazione a un ricorso proposto, in via principale, dallo Stato contro una legge regionale. Il riferimento è alla nota pronuncia con cui la Corte (nelle forme dell’ordinanza collegiale) ha sospeso le disposizioni con cui la Regione Val d’Aosta aveva regolato l’apertura delle attività commerciali in termini meno restrittivi di quelli previste dalla legge statale[14]. Il giudice costituzionale ha fatto appello alla competenza legislativa esclusiva in tema di profilassi internazionale e alla gravità e urgenza di far fronte al pericolo di contagio per bloccare gli effetti della legge regionale nelle more della sentenza di merito, pubblicata il 12 marzo scorso[15].
Il modello utilizzato, come per i conflitti di attribuzione, è ricalcato sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, confermandone la validità.
La buona risposta del nostro sistema processuale amministrativo alla pandemia non si è peraltro limitata alla tutela cautelare: le trattazioni collegiali sono state riaperte il 16 aprile, ma senza discussione e con un farraginoso meccanismo di scambi di mere difese scritte, che ha determinato non poche difficoltà applicative[16].
Vi è stata però anche a questo riguardo una immediata e proficua cooperazione tra giudici, accademia e classe forense. Gli stessi giudici amministrativi hanno prontamente rilevato le criticità del contraddittorio cautelare coatto[17], disponendo in vari casi il rinvio dell’udienza alla prevista riapertura estiva. Il discusso d.l. 28 del 30 aprile[18] ha poi introdotto il nuovo modello delle trattazioni orali da remoto, avviato a decorrere dal 30 maggio e, salva la breve riapertura delle udienze in presenza dal 1° agosto a fine ottobre (d.l. 37), tuttora unico modello operante tanto per le camere di consiglio quanto per le udienze di merito.
È innegabile che il susseguirsi di decreti, pareri, ordinanze, protocolli, linee indicative, direttive, non sempre univoci e non sempre attenti alle esigenze di tutte le parti ha creato incertezze e difficoltà applicative, alimentando dibattiti e critiche costruttive e, talvolta, anche serie preoccupazioni per gli scossoni che il nostro processo rischiava di ricevere sul piano dell’effettività.
Ma, alla fine, pur con i problemi tuttora creati dalla mal regolata commistione tra la discussione da remoto e la perdurante facoltà di depositare note scritte che nel modello originario dovevano sostituirla, il sistema sta funzionando. La discussione da remoto è lo strumento che consente la garanzia dell’oralità, fondamentale per le repliche alle eccezioni e controdeduzioni dell’ultima ora e per la necessaria interlocuzione diretta con il collegio. E con essa, la giustizia amministrativa, grazie all’organizzazione sul piano tecnologico e alla collaborazione di tutte le parti coinvolte (protocolli d’intesa con gli enti e le associazioni rappresentative dell’avvocatura) è riuscita a garantire un equo temperamento tra la tutela della salute (evitando il rischio di contagio) e un contraddittorio sostanzialmente completo, anche se, come più volte evidenziato, andrebbe rivisto e riordinato il sistema della “richiesta di discussione da remoto” e di deposito delle note scritte alternative alla discussione[19] e, se vi fosse esigenza o opportunità di protrarre il modello[20], si dovrebbe trovare una soluzione per garantire la pubblicità delle udienze di merito.
*Considerazione introduttive al Webinar Fondazione Occorsio – 12 aprile 2021 - La giustizia alla prova dell'emergenza
[1] Si rinvia alle considerazioni svolte, da ultimo, in M.A. SANDULLI, Cognita causa, in Giustizia insieme.it 2020 e Il giudice amministrativo come “risorsa” fondamentale per la “buona amministrazione", in corso di pubblicazione su Questione giustizia.it (fascicolo monotematico n. 1/2021 su La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo) e ivi ulteriori rinvii.
[2] Così G. MONTEDORO e E. SCODITTI, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione giustizia.it, 2020
[3] M.A. SANDULLI, Crisi economica e giustizia amministrativa, in L. ANTONINI (a cura di) La domanda inevasa: Dialogo tra economisti e giuristi sulle dottrine economiche che condizionano il sistema giuridico europeo, Bologna, 2016: riflessioni ispirate anche dall’attenta indagine di G. MONTEDORO, Il giudice e l’economia, Roma, 2015.
[4] M.A. SANDULLI, La “trappola” dell'art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustiziainsieme.it, 2020 e La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio, ivi, 2020 e in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 3 ed., 2020.
[5] Cfr. i contributi presentati al webinar “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, svoltosi il 13 luglio 2020, reperibili su Lamministrativista.it.
[6] Che la Corte costituzionale ha correttamente qualificato “servizio pubblico essenziale”: sent. 171 del 1996.
[7] M. LUCIANI, Garanzie ed efficienza nella tutela giurisdizionale, Rivista AIC, n. 4/2014.
[8] M.A. SANDULLI, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, n. 3/2018; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in giustiziainsieme.it. 2020 e Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in federalismi.it, n. 34/2020. Con specifico riferimento alla garanzia di una tutela effettiva nel processo amministrativo durante l’emergenza Covid-19, si vedano, ex multis: M.A. SANDULLI,Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, in giustiziainsieme.it, 2020; F. FRANCARIO, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa: le nuove misure straordinarie per il processo amministrativo, ivi, 2020; L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, ivi, 2020; R. DE NICTOLIS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, ivi, 2020. Si vedano inoltre i vari webinar intervenuti sul tema, per tutti: “Processo amministrativo e COVID-19”, svoltosi nell’aprile 2020 (https://youtu.be/qv33zNnY6I8); L’emergenza COVID 19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro” svoltosi a luglio 2020 (https://youtu.be/8fBPo-RfN8s); “Il processo nell’emergenza pandemica” organizzato dall’Università LUM e svoltosi a settembre 2020 (https://youtu.be/E9zYR-JrBLs).
[9] Cfr. per tutti C. PINELLI, Articolo 97, Il “buon andamento” e l’”imparzialità” dell’amministrazione, in Commentario della Costituzione, G. Branca - A. Pizzorusso, Bologna - Roma, 1994, 31 ss.; D. SORACE, La buona amministrazione in M. Ruotolo (a cura di), La Costituzione ha sessant'anni: la qualità della vita 60 anni dopo, Napoli, 2008, 119 ss.; R. FERRARA, L'interesse pubblico al buon andamento delle pubbliche amministrazioni: tra forma e sostanza, in Dir. proc. amm., 2010, 31 ss.; e i contributi di G. CORSO, L. ANTONINI e M.R. SPASIANO, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit. e di A. MASSERA e M.R. SPASIANO, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017.
[10] Cfr. per tutti F. APERIO BELLA, Tra procedimento e processo. Contributo allo studio delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, Napoli, 2017, 220 ss e ivi per ulteriori riferimenti.
[11] I limiti di questo scritto non consentono di occuparsi anche di tali profili, ma un discorso generale sulla buona amministrazione non può evidentemente prescindere dall’importanza delle funzioni di controllo affidate alla Corte dei conti e opportunamente valorizzate dalla Corte costituzionale. Su di esse, si veda del resto l’intervento del Premier Draghi all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti (21 febbraio 2021).
[12] Rinvio a M.A. SANDULLI, La fase cautelare, in Dir. proc. amm. 2010.
[13] S. TRANQUILLI, Ai più importanti bivi non c’è segnaletica. I conflitti Stato-Regioni tra giudice amministrativo e Corte costituzionale, in corso di pubblicazione in Rivista AIC, 2021.
[14] Su cui cfr. inter alia i commenti di E. LAMARQUE, Sospensione cautelare di legge regionale da parte della Corte costituzionale, in Giustizia insieme.it, 2021; R. DICKMANN, Il potere della Corte costituzionale di sospendere in via cautelare l’efficacia delle leggi, in Federalismi.it, 2021; E. ROSSI, Il primo caso di sospensione di una legge (regionale): rilievi procedurali su un istituto al suo esordio, in Osserv. AIC, 2021.
[15] Su cui si rinvia agli interventi svolti nel webinar organizzato dal Centro Interdisciplinare di Studi sul Diritto Sanitario il 12 aprile scorso, reperibili sul sito del Centro (Cesdirsan.it).
[16] Cfr. M.A. SANDULLI, Covid-19 fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, in Giustizia insieme, 2020.
[17] Cfr. gli interventi al webinar del 24 aprile 2020 su “Processo amministrativo e Covid-19”, liberamente ascoltabile su youtube, e le ordinanze Sez. VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539, su cui anche C. VOLPE, Pandemia, processo amministrativo e responsabilità elettive, in giustizia-amministrativa.it, 2020.
[18] G. VELTRI, Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”, in giustizia-amministrativa.it, 2020.
[19] V. SORDI, La disciplina giurisprudenziale del processo amministrativo nell’emergenza Covid, in Giustizia insieme.it, 2021.
[20] M. LIPARI, Fase 2'. I giudizi camerali nel processo amministrativo, oltre la legislazione dell’emergenza, in Federalismi.it, 2020.
Gli istituti del processo telematico nella gerarchia delle fonti anche sovranazionali*
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. Introduzione. I processi telematici – 2. Le fonti di produzione del diritto processuale telematico – 3. (Segue) Le fonti sovranazionali – 4. L’evoluzione normativa del processo civile telematico in Italia – 5. (Segue) Il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 – 6. (Segue) Il diritto processuale telematico speciale della pandemia – 7. Le attuali fonti di cognizione del processo civile telematico – 8. (Segue) Le norme nel codice di procedura civile e nella legge fallimentare – 9. (Segue) Le disposizioni su comunicazioni e notificazioni – 10. (Segue) Le regole sui depositi telematici – 11. A modo di conclusioni.
1. Introduzione. I processi telematici
Quando si parla oggi di “diritto dell’informatica” o di “processo telematico”, il pensiero dell’operatore pratico va in prima battuta, direi naturalmente, al c.d. “processo civile telematico” (PCT), cioè quello che può definirsi il frutto di un grande progetto organizzativo, promosso dal ministero della Giustizia a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, per migliorare la qualità dei servizi giudiziari nell’area del processo civile.
Si tratta di una nuova architettura tecnologica informatica, volta a consentire ai c.d. “operatori interni” (giudici e cancellieri) ed “esterni” (avvocati, consulenti tecnici, altri ausiliari del giudice, curatori, commissari giudiziali, etc.) di porre in essere esclusivamente in via telematica una serie di atti e operazioni nell’ambito del processo civile, quali il deposito di atti, la trasmissione di comunicazioni e notifiche, la consultazione dello stato dei procedimenti risultante dai registri di cancelleria, nonché dell’intero contenuto dei fascicoli informatici, il pagamento del contributo unificato e degli altri oneri fiscali.
Esiste, poi, anche un c.d. “processo penale telematico” (PPT), ma il suo sviluppo negli uffici giudiziari italiani, ha dovuto scontare un lunghissimo ritardo rispetto al settore civile; solo di recente e anche in dipendenza della nota normativa emergenziale dettata dalla pandemia che ancora ci affligge, sono stati avviati concretamente i progetti per la sua implementazione.
Negli ultimi anni, inoltre, sulla scia del “successo” del PCT, anche le altre giurisdizioni speciali hanno avviato, in alcuni casi con una rapidità significativa rispetto ai tempi impiegati per il processo civile, percorsi tesi all’informatizzazione – anche obbligatoria – dei rispettivi procedimenti.
Sulla scia di una tradizione storica che ha sempre riservato a ciascun plesso giurisdizionale un suo rito speciale, abbiamo così all’attualità il “processo amministrativo telematico” (PAT)[1], che si celebra ormai obbligatoriamente innanzi ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato[2], il “processo tributario telematico” (PTT)[3], in uso anch’esso ormai obbligatoriamente presso le commissioni tributarie provinciali e regionali[4], nonché il “processo contabile telematico”, che muove i suoi passi innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti[5], l’unico peraltro, fra i detti riti speciali, a prevedere una clausola generale di rinvio al processo civile telematico[6].
Nel prosieguo di questo scritto ci dedicheremo all’esame delle fonti del diritto processuale telematico, entro i confini del PCT, poiché esulano dal nostro tema i procedimenti giurisdizionali che non sono riservati alla trattazione del giudice ordinario.
2. Le fonti di produzione del diritto processuale telematico
Secondo la tradizione manualistica, si denominano “fonti del diritto” sia i procedimenti attraverso cui le norme giuridiche vengono ad esistenza, e si parla in questo caso di “fonti di produzione”, sia i documenti nei quali sono contenute le medesime norme, e allora si discorre di “fonti di cognizione”.
È chiaro, dunque, che se si volesse seguire la bipartizione classica appena enunciata nel descrivere le fonti del nostro “diritto processuale telematico”, partendo dalle fonti di produzione, sarebbe necessario fare riferimento anzitutto alla nostra legge fondamentale, che all’art. 111, comma primo, nel testo novellato dall’art. 1 della legge cost. 23 novembre 1999 n. 2, recita testualmente che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Orbene, la prima questione che si pone all’interprete è se la “riserva di legge processuale” posta dalla Costituzione sia “assoluta”, imponendo cioè una rigida predeterminazione legislativa delle modalità di svolgimento del giudizio, il che comporterebbe l’esclusione dalla materia che ne forma oggetto di ogni normazione regolamentare, ad eccezione soltanto dei regolamenti di stretta “esecuzione” della legge; ovvero se si tratti di una riserva “relativa”, dove gli interventi provenienti da fonte non legislativa sono consentiti, purché la legge abbia disciplinato la materia in modo sufficiente e comunque idoneo a circoscrivere la discrezionalità di chi è autorizzato ad introdurre una formazione secondaria.
Se si aderisce all’orientamento dottrinario largamente maggioritario[7], che attribuisce alla riserva di legge processuale una natura “relativa”, può addivenirsi allora alla conclusione che l’art. 111, comma primo, Cost., pone unicamente il vincolo che il processo (civile, penale, tributario, amministrativo o contabile), debba essere disciplinato da una legge o da un atto avente forza di legge (come il decreto legge ovvero il decreto legislativo), restando tuttavia consentita la possibilità di dettare ulteriori regole di attuazione del rito, anche attraverso fonti regolamentari di natura secondaria[8].
Ora, va detto subito che, a livello di normazione primaria, in Italia esiste una disciplina generale applicabile a tutte le pubbliche amministrazioni – e quindi in linea teorica anche all’amministrazione della giustizia – che si occupa compiutamente di dettare le regole sui documenti digitali e sulla loro trasmissione in via telematica, id est quello che può definirsi il “nucleo essenziale” di qualunque processo telematico: si tratta del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’Amministrazione Digitale (d’ora innanzi il CAD), che prevede appunto norme di principio, tra le altre, sull’identità e domicilio digitale (art. 3-bis), sui pagamenti telematici (art. 4), sui documenti digitali e sulle firme elettroniche (art. 20 e segg.), sulla conservazione dei fascicoli informatici (art. 40 e segg.), sulla posta elettronica certificata (art. 48), sull’accesso ai dati in possesso dell’amministrazione (art. 50 e segg.).
Il CAD, peraltro, nel suo corpo rinvia senz’altro ad altre disposizioni di natura regolamentare: si pensi all’art. 48 CAD che ancora oggi – sia pure, come si dirà tra breve, ad tempus –, in tema di posta elettronica certificata (PEC) richiama il d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, che è appunto un regolamento governativo delegato, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.
E si pensi poi all’art. 71 CAD che individua le c.d. “regole tecniche” – cioè una disciplina operativa di dettaglio avente natura squisitamente informatica – necessarie per l’attuazione delle disposizioni di principio contenute nel medesimo codice.
Dette regole tecniche, di rango sicuramente subvalente rispetto alla legge, in origine dovevano essere adottate con uno o più decreti del Presidente del consiglio dei ministri o del ministro delegato per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, di concerto con i ministri competenti, sentita la conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, ed il Garante per la protezione dei dati personali nelle materie di competenza, previa acquisizione obbligatoria del parere tecnico di DigitPA.
Dopo l’ultima novella dell’art. 71 CAD, introdotta dal d.lgs. 13 dicembre 2017, n. 217-Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179, concernente modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, oggi è previsto che le regole tecniche per l’attuazione del CAD siano dettate sotto forma di “Linee guida”, adottate non più in forma regolamentare (come detto, con decreto del Presidente del consiglio o di un ministro delegato), ma direttamente dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), divenendo efficaci non più dopo la pubblicazione in G.U. (dove è solo previsto che si dia notizia della loro adozione), bensì nell’apposita area del sito internet istituzionale dell’AgID.
Attualmente, dopo la pubblicazione sul sito dell’AgID, avvenuta in data 12 settembre 2020, delle “Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici”, ai sensi dell’art 1.4 delle medesime linee guida, esse troveranno applicazione a decorrere dal duecento settantesimo giorno successivo alla loro entrata in vigore; dunque dal 9 giugno 2021 devono ritenersi abrogati il d.p.c.m. 3 dicembre 2013, contenente “Regole tecniche in materia di sistema di conservazione”, il d.p.c.m. 13 novembre 2014, contenente “Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici” e il d.p.c.m. 3 dicembre 2013, contenente “Regole tecniche per il protocollo informatico[9].
Ora, sebbene appia giustificata una certa cautela nell’incasellare le “Linee guida” nell’ambito di una tra le fonti del diritto, va registrato che già la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di definire le “Linee guida” emanate dall’AgID come «un atto di regolazione di natura tecnica (con) una valenza erga omnes e un carattere di vincolatività», con la conseguenza che le medesime devono ritenersi pienamente giustiziabili dinanzi al giudice amministrativo[10].
3. (Segue) Le fonti sovranazionali
La disciplina di rango primario e subprimario, dettata in Italia dal CAD e dalle c.d. “Linee guida”, risente poi necessariamente delle disposizioni contenute nelle fonti di livello eurounitario, dettate con il preciso obbiettivo di uniformare determinate materie comuni al mercato interno.
Al riguardo, assumono di certo sicura rilevanza le direttive tese ad incentivare nei singoli stati, l’adozione di norme processuali telematiche comuni in determinati settori del contenzioso civile.
È il caso della direttiva UE n. 1023/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, nonché le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, adottata all’esito dei negoziati e dei triloghi sulla originaria Proposta COM (2016) 723 final del 22 novembre 2016 (la c.d. “direttiva insolvency”), pubblicata sulla G.U. dell’UE il 26 giugno 2019, che all’art. 28 dispone che gli Stati membri assicurino a tutte le parti coinvolte nelle procedure concorsuali, la facoltà di «eseguire attraverso mezzi di comunicazione elettronica» il deposito delle domande di insinuazione al passivo, dei piani di ristrutturazione o di quelli di rimborso e per eseguire le notifiche di rito ai creditori [art. 28, lett. a), b) e c)], nonché le contestazioni e le impugnazioni da parte dei creditori [(art. 28, lett. d)][11].
Ma il pensiero corre anche alle norme direttamente applicabili negli stati membri, come quelle contenute in un regolamento UE che, ai sensi dell’art. 288 del TFUE, «è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri».
Così il regolamento UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014, n. 910 (reg. e-IDAS)[12], in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno, pubblicato nella G.U. dell’UE del 28 agosto 2014 ed entrato in vigore il 1 luglio 2016, stabilisce le condizioni per il riconoscimento reciproco in ambito di identificazione elettronica, nonché le regole comuni per le firme elettroniche, l’autenticazione su web ed i relativi servizi fiduciari per le transazioni elettroniche.
Proprio per assicurare la necessaria uniformità tra la disciplina del CAD e quella contenuta nel reg. e-IDAS, è stato adottato il richiamato d.lgs. n. 217 del 2017, che ha novellato diverse disposizioni del Codice e, in particolare, le norme contenute nella sezione I del capo II, dedicata appunto al “documento informatico”.
E sempre tra le norme contenute nel reg. e-IDAS, va ricordata quella (art. 44) che disciplina i “servizi elettronici di recapito certificato qualificati”, destinati a sostituire integralmente la posta elettronica certificata ai sensi del d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, cui peraltro ancora oggi rinvia l’art. 48 CAD, in attesa dell’adozione di un decreto del Presidente del consiglio dei ministri, che sancirà l’abrogazione di quest’ultima disposizione[13].
4. L’evoluzione normativa del processo civile telematico in Italia
Come si è accennato in precedenza, la storia del processo telematico non può dirsi certo il frutto di un percorso lineare, avviato dal legislatore con il preciso obbiettivo di informatizzare i processi civili italiani.
Il primo passo di quella che oggi può definirsi, senza tema di smentita, la più importante riforma strutturale intervenuta sul processo civile negli ultimi trent’anni, si fa tradizionalmente risalire alla ormai lontanissima legge 2 dicembre 1991, n. 399-Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l'amministrazione penitenziaria, che modificando l’art. 28 disp. att. c.p.c., affidò al ministro della Giustizia il compito di disciplinare i registri di cancelleria con la previsione, per la prima volta, della possibilità che il registro civile fosse “tenuto in forma automatizzata” (art. 4, della legge n. 399 del 1991).
Tuttavia, solo dopo quasi dieci anni si giunse all’adozione del d.m. 27 marzo 2000, n. 264-Regolamento recante norme per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari, adottato in esecuzione della cennata disposizione, il quale all’art. 3 stabilì – innovando radicalmente la disciplina del processo civile –, che tutti i registri di cancelleria degli uffici giudiziari dovessero essere tenuti in modo informatizzato, secondo le regole procedurali fissate dal medesimo ministero della Giustizia, soggiungendo che la tenuta dei registri su supporto cartaceo restava consentita, previa autorizzazione ministeriale, soltanto in caso di richiesta motivata del capo dell’ufficio interessato e sentito il Responsabile dei sistemi informativi automatizzati (SIA).
Il d.m. 27 aprile 2009-Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell’amministrazione della Giustizia, sostitutivo del precedente d.m. 24 maggio 2001, contiene ancora oggi la disciplina vigente in materia di registri informatici.
Il primo testo normativo ad introdurre una disciplina compiuta e dettagliata sulla formazione e trasmissione dei documenti informatici nel processo civile (ma non in quello penale), fu il d.p.r. 13 febbraio 2001, n. 123-Regolamento recante disciplina sull'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.
Si trattò di un regolamento governativo c.d. indipendente, adottato cioè ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera c), della legge n. 400 del 1988, in una materia – quella del rito telematico – in cui mancava appunto una disciplina dettata da una legge o da un atto avente forza di legge; con il detto regolamento venne disciplinato l’uso degli strumenti informatici non solo nel processo civile, ma anche nei processi amministrativi e in quelli innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti (art. 18 del d.p.r. n. 123 del 2001).
L’art. 3, comma 3, del d.p.r. n. 123 del 2001, poi, stabilì che con decreto del ministro della Giustizia, sentita l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, fossero stabilite le “regole tecnico-operative” per il funzionamento e la gestione del sistema informatico civile, nonché per l’accesso ai relativi registri dei difensori delle parti e degli ufficiali giudiziari; venne così adottato prima il d.m. 14 ottobre 2004-Regole tecnico-operative per l'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, successivamente sostituito dal d.m. 17 luglio 2008-Regole tecnico-operative per l'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile.
In attesa del concreto avvio del PCT sulla base della disciplina dettata dal d.p.r. n. 123 del 2001, il legislatore si dedicò ad una serie di interventi sporadici sul codice di rito e sulle leggi speciali, sostanzialmente tesi a favorire esclusivamente lo sviluppo delle comunicazioni telematiche di cancelleria: così, prima l’art. 17 d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, limitatamente alle cause soggette al c.d. rito societario, e poi l’art. 2, comma 1, lett. b) n. 2), della legge 28 dicembre 2005, n. 263-Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, con portata generalizzata a tutti i processi, novellando direttamente l’art. 136, comma terzo, c.p.c. e l’art. 170 comma quarto, c.p.c., introdussero la possibilità di eseguire le comunicazioni a mezzo telefax o a mezzo di posta elettronica “nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi”.
Analoga previsione venne inserita nella legge fallimentare riformata, attraverso il d.lgs. 9 gennaio 2006, n 5-Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80.
Ancora, l’art. 5, comma 1, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40-Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80, novellando integralmente l’art. 366 c.p.c. in tema di processo in Cassazione, introdusse un nuovo quarto comma della detta disposizione, a tenore del quale “Le comunicazioni della cancelleria e le notificazioni tra i difensori possono essere fatte al numero di fax o all’indirizzo di posta elettronica indicato in ricorso dal difensore che così dichiara di volerle ricevere.”
In questo quadro normativo, assai frammentato e ben poco coerente, venne a collocarsi, con una portata altamente innovativa, l’art. 51 del d.l. 25 giugno 2008 n. 112-Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in forza del quale venne esteso nei singoli uffici giudiziari – previa adozione di un decreto del ministro della Giustizia, sentiti l’Avvocatura Generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense e i consigli dell’ordine degli avvocati interessati – l’uso della posta elettronica certificata per tutte le comunicazioni e notificazioni di cancelleria.
Con la legge 18 giugno 2009, n. 69-Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, invece, il legislatore torna a modificare il codice di rito, stabilendo all’art. 83, comma terzo, che la procura alle liti può essere rilasciata anche telematicamente con firma digitale, prevedendo altresì la facoltà dell’ufficiale giudiziario di notificare anche atti c.d. nativi digitali (art. 137 c.p.c.).
5. (Segue) Il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44
Nel corso dell’anno 2009 il Governo decise di cambiare radicalmente l’approccio al tema del processo telematico, adottando una nuova disciplina – ed estendendone per la prima volta la portata anche a quello penale –, in attuazione dei principi adottati dal CAD e in sostituzione della pregressa normativa dettata dal d.p.r. n. 123 del 2001, peraltro mai concretamente applicata nel processo civile, se non in via sperimentale (e limitatamente al solo procedimento monitorio) in alcuni uffici giudiziari.
Così l’art. 4, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193-Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario, convertito, con modificazioni, nella legge 22 febbraio 2010, n. 24, impose per legge una sostanziale “delegificazione” del diritto processuale telematico, affidando ad un decreto del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, il compito di individuare le «regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione», con l’unico criterio direttivo che siffatte regole fossero adottate «in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni». Restava fermo, poi, che le “regole tecniche” vigenti all’entrata in vigore del d.l. n. 193 del 2009, continuassero ad applicarsi soltanto fino alla data di entrata in vigore del detto decreto del ministro della Giustizia.
Ancora, il comma 2 dell’art. 4 del d.l. 193 del 2009, innovando decisamente la pregressa disciplina, che era incentrata sulla c.d. “casella di posta elettronica certificata del processo telematico” (CPECPT), sancì che nel processo civile e penale tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica, si dovessero effettuare mediante posta elettronica certificata (PEC), ai sensi del CAD, nonché del d.p.r. n. 68 del 2005 e delle regole tecniche stabilite con il previsto decreto del ministro della Giustizia.
Sulla scorta della delega del legislatore, è stato così adottato il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44-Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24[14].
Si tratta, per espressa previsione del d.l. n. 193 del 2009, di un regolamento ministeriale ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, che nella sostanza, sulla scia del precedente costituito dal d.p.r. n. 123 del 2001[15], detta la disciplina concreta del processo telematico, sia civile che penale, attraverso la predisposizione di una serie di norme di dettaglio sulla tenuta dei registri informatici di cancelleria, sui depositi telematici degli atti, nonché sulle comunicazioni e notificazioni, comprese quelle tra avvocati.
L’art. 34 del d.m. n. 44 del 2011, poi, affida il compito di individuare le “specifiche tecniche” – cioè le norme di dettaglio di carattere squisitamente tecnico – ad un provvedimento adottato dal Responsabile della Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) del ministero della Giustizia.
Il primo decreto del Direttore generale DGSIA venne adottato il 18 luglio 2011 (pubblicato nella G.U. del 29 luglio 2011); seguito da un nuovo provvedimento datato 16 aprile 2014 (pubblicato nella G.U. del 30 aprile 2014), modificato successivamente il 28 dicembre 2015 (pubblicato nella G.U. del 7 gennaio 2016).
Questa architettura del sistema, congegnata su una norma primaria che pone i principi (l’art. 4 del d.l. n. 193 del 2009), la quale delega ad un regolamento del ministro della Giustizia la disciplina in concreto del processo telematico, che, a sua volta, affida ad un provvedimento di un direttore generale del medesimo ministero l’adozione delle “specifiche tecniche”, operanti per le questioni di natura puramente informatica, è stata tuttavia messa a dura prova – almeno per il PCT – dal sopravvenire di talune norme, tutte di rango legislativo, intervenute dopo il d.m. n. 44 del 2011 a disciplinare taluni aspetti del processo telematico, già compiutamente trattati nel cennato regolamento ministeriale.
Più in dettaglio, dopo l’entrata in vigore del d.m. n. 44 del 2011, non sono mancati ulteriori micro interventi normativi, del tutto privi di respiro generale, tesi a modificare – reiteratamente – alcune norme del codice di rito civile (specificatamente gli artt. 125, 136, 366 c.p.c.) per favorire l’avvio delle comunicazioni di cancelleria a mezzo PEC.; si pensi al d.l. 6 luglio 2011, n. 98-Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11, il d.l. 13 agosto 2011 n. 138-Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 e, infine, alla legge 12 novembre 2011, n. 183-Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
Nel corso dell’anno 2012, la stagione riformista del processo civile telematico ha subito una rapidissima accelerazione dettata da una decretazione d’urgenza di fonte primaria, che con cadenza tendenzialmente annuale almeno fino al 2016, ha finito per riplasmare, rispetto al regolamento ministeriale del 2011, l’attuale assetto del PCT.
Anzitutto, con l’art. 16 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179-Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, novellato a brevissima distanza dalla sua conversione in legge, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228-Legge di stabilità 2013, vennero abrogati i commi da 1 a 4 dell’art. 51 del d.l. n. 112 del 2008 e si pongono le basi per l’obbligatorietà dell’uso PEC, per tutte le comunicazioni e notificazioni di cancelleria ai difensori delle parti e ai consulenti tecnici, sia nel processo civile che in quello penale, almeno limitatamente ai tribunali e alle corti d’appello.
L’art. 17 del d.l. 179 del 2012, invece, introdusse una serie di rilevanti novità in tema di notificazioni del ricorso per la dichiarazione di fallimento, generalizzando i depositi telematici nella verifica dello stato passivo e l’uso della PEC nelle comunicazioni del curatore.
Ma la grande novità del nuovo corso sul processo telematico, avviato prima con la cennata legge n. 228 del 2012 e successivamente con il d.l. 24 giugno 2014, n. 90-Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, cui ha fatto seguito il d.l. 27 giugno 2015, n. 83-Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132 e infine con il d.l. 3 maggio 2016, n. 59-Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione, convertito con modificazioni dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, fu costituita dalla previsione – per la prima volta nell’ordinamento – dell’obbligatorietà, sia pure con una certa gradualità temporale e limitatamente agli atti c.d. endoprocessuali, del PCT in tutti i tribunali e nelle corti d’appello.
La tecnica utilizzata dal legislatore – assai discutibile – è stata quella di intervenire all’interno della sezione VI del d.l. n. 179 del 2012, intitolata “Giustizia digitale”, con l’introduzione di ben altri dieci articoli (gli artt. 16-bis, 16-ter, 16-quater, 16-quinquies, 16-sexies, 16-septies, 16-octies, 16-novies, 16-decies e 16-undecies); attraverso il susseguirsi della cennata decretazione d’urgenza si è sostanzialmente finito per introdurre, attraverso atti aventi forza di legge, sia pure in maniera alquanto caotica, una complessa disciplina sul PCT, che spazia dalle comunicazioni e notificazioni di cancelleria, all’obbligatorietà dei depositi di tutti gli atti endoprocessuali (compresi quelli del giudice per il procedimento monitorio), fino alle notifiche telematiche a cura degli avvocati, previste dal novellato art. 3-bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53-Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali.
6. (Segue) Il diritto processuale telematico speciale della pandemia
Infine, non può essere omesso un rapido cenno all’ultima stagione, caratterizzata dalla legislazione emergenziale in tema di PCT, che si è accompagnata alla pandemia che ancora affligge il nostro paese a partire dalla primavera del 2020[16].
Anzitutto, per evitare assembramenti degli avvocati nelle cancellerie degli uffici giudiziari, prima l’art. 2, comma 6, del soppresso d.l. 8 marzo 2020, n. 11 e poi anche l’art. 83, comma 11, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18-Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, hanno stabilito che dal 9 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020, negli uffici che avevano la disponibilità del «servizio di deposito telematico», anche gli atti e documenti di cui all'art. 16-bis, comma 1-bis, del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221 del 2012, vale a dire gli atti introduttivi del giudizio (atto di citazione, ricorso o comparsa di costituzione), fossero depositati esclusivamente con le modalità della trasmissione telematica. Questa disposizione è stata poi riconfermata dall’art. 221, comma 3, del d.l. 19 maggio 2020, n. 34-Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 e, in forza della proroga disposta prima con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137-Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 e poi con il d.l. 1° aprile 2021, n. 44-Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni antiSARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici, ancora in corso di conversione, il deposito telematico degli atti introduttivi è oggi obbligatorio nei tribunali e nelle corti d’appello fino al 31 luglio 2021.
Inoltre, con la legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020, venne introdotto il comma 11.1. dell’art. 83, che ha imposto dal 9 marzo 2020 e fino al 31 luglio 2020, nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, pendenti innanzi al tribunale e alla corte di appello, il deposito anche degli atti del magistrato esclusivamente con modalità telematiche.
Ancora, va ricordato che sempre in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, fu inserito anche il comma 11-bis dell’art. 83, in forza del quale innanzi alla Corte di cassazione il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati «può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. L’attivazione del servizio è preceduta da un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici».
Successivamente, il comma 5 dell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, ha reintrodotto la medesima disposizione, con efficacia temporale estesa attualmente fino al 31 luglio 2021. In questo modo, con una procedura chiaramente in deroga a quella generale ancora oggi stabilita dell’art. 16-bis, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012 (imperniata sul decreto del ministro della Giustizia), con il provvedimento adottato il 27 gennaio 2021 del Direttore generale della DGSIA, a decorrere dal 31 marzo 2021 è oggi consentito – in via esclusivamente facoltativa – il deposito telematico di tutti gli atti di parte innanzi alla Corte di cassazione.
Meritano solo un cenno, ancora, le disposizioni contenute nell’art. 221, commi 4, 6, 7, del d.l. n. 34 del 2021 e nell’art. 23, commi 8-bis e 9, del d.l. n. 137 del 2020, che – fino al 31 luglio 2021 – autorizzano la celebrazione delle udienze e delle camere di consiglio a distanza, mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale della DGSIA[17], nonché la sostituzione delle udienze civili, comprese quelle innanzi alla Corte di cassazione, attraverso lo scambio di note scritte depositate telematicamente dalle parti (la c.d. “udienza cartolare”).
Infine, vanno menzionate le novità in tema di procura speciale alle liti introdotte, sempre in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, attraverso il comma 20-ter dell’art. 83.
Secondo la norma in commento, a partire dal 29 aprile 2020 (data di entrata in vigore della legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020) e fino alla cessazione dello stato di emergenza – attualmente fissata al 30 aprile 2021 –, la sottoscrizione della procura speciale potrà essere apposta dalla parte, «anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo di strumenti di comunicazione elettronica».
7. Le attuali fonti di cognizione del processo civile telematico
Se si volesse provare a sistematizzare la complessa e stratificata disciplina del PCT, in attesa di un riordino per via normativa della materia, che appare francamente imprescindibile all’interprete, appare possibile individuare almeno tre gruppi, tendenzialmente omogenei, di disposizioni che rilevano nella ricostruzione del vigente quadro normativo del processo telematico in ambito civile: un primo fascio di tali disposizioni è costituito dagli articoli del codice di rito e della legge fallimentare, via via novellati nel corso degli anni senza un progetto complessivo, ma in maniera addirittura casuale, con l’unico tratto comune di essere stati inseriti, mediante la tecnica della novellazione, nel corpus delle leggi processuali già vigenti prima dell’avvento del PCT; un secondo gruppo di norme può essere riunito sotto il comune oggetto costituito dalla disciplina sulle comunicazioni e notificazioni di cancelleria e sulle notifiche curate dagli ufficiali giudiziari e direttamente dagli avvocati; un terzo gruppo di regole, infine, concerne la forma degli atti processuali telematici e le modalità di deposito nei registri informatici di cancelleria.
8. (Segue) Le norme nel codice di procedura civile e nella legge fallimentare
Assume sicuro rilievo nel Codice di rito civile la norma sulla procura telematica contenuta nell’art. 83, mentre in relazione alle comunicazioni telematiche vanno ricordati, in rapida successione, l’art. 133, secondo comma, sull’inidoneità della comunicazione della sentenza a fare decorrere il termine per l’impugnazione, l’art. 136, comma secondo, che prevede l’uso generalizzato della PEC per le comunicazioni di cancelleria, nonché l’art. 45 disp. att. c.p.c. e gli artt. 137 e 149-bis che disciplinano, rispettivamente, le notifiche cartacee di documenti informatici e le notifiche telematiche a cura dell’ufficiale giudiziario; infine, deve essere ricordato l’art. 366, secondo comma, sulle comunicazioni agli avvocati in Cassazione.
Va senz’altro segnalata, per il processo di cognizione, la modifica apportata all’art. 207, comma secondo, c.p.c. che ha eliminato l’obbligo di sottoscrizione del verbale da parte del testimone, al fine dichiarato di favorire la stesura in formato digitale dei verbali di causa.
Numerosi poi gli interventi sul processo esecutivo: si va dalla pubblicità degli avvisi mediante il portale delle vendite pubbliche (art. 490 e art. 161-quater disp. att. c.p.c.), alla ricerca dei beni da pignorare con modalità telematiche (art. 492-bis e artt. 155-bis, 155-ter e 155-quater, 155-quinquies e 155-sexies disp. att. c.p.c.), all’iscrizione a ruolo del processo esecutivo con modalità telematica (art. 159-ter disp. att. c.p.c) alle vendite coattive con modalità telematiche (art. 161-ter).
Anche nella legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270) si registra l’intervento su diverse disposizione del legislatore, ispirato all’applicazione dei principi del processo telematico mediante la tecnica della novellazione delle norme vigenti: si pensi alle modalità di notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento (art. 15 l.fall.), alle comunicazioni a cura del curatore, del commissario giudiziale nel concordato preventivo, del commissario liquidatore nelle liquidazioni coatte amministrative, del commissario giudiziale e del commissario straordinario nell’amministrazione straordinaria (artt. 31-bis, 171 e 207 l.fall., artt. 22 e 59 d.lgs. n. 270 del 1999), al deposito telematico dei rapporti riepilogativi del curatore (art. 33 l.fall.), all’informatizzazione integrale del procedimento di verifica dello stato passivo (art. 93 e segg. l.fall.), alle modalità di deposito delle osservazioni dei creditori in sede di rendiconto presentato dal curatore (art. 116 l.fall.), all’adunanza dei creditori nel concordato preventivo celebrata con modalità telematiche (artt. 163, comma secondo, n. 2-bis, e 175 l.fall.).
9. (Segue) Le disposizioni su comunicazioni e notificazioni
La disciplina fondamentale sulle comunicazioni e notificazioni di cancelleria è oggi contenuta nei commi, da 4 a 11, dell’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, come novellato dalla legge n. 228 del 2012 prima e successivamente dal d.l. n. 90 del 2014.
Ma assumono rilievo anche le norme – introdotte entrambe dal d.l. n. 90 del 2014 – contenute nell’art. 16-ter del d.l. n. 179 del 2012, come da ultimo novellato dall’art. 28, comma 1, lett. c), del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, ove si rinviene la specifica indicazione dei “pubblici elenchi” nei quali è consentito ricercare l’indirizzo per notificare via PEC, e nell’art. 16-sexies del medesimo d.l. n. 179, che disciplina in via generale per tutti i processi civili – con l’eccezione di quelli pendenti in Cassazione – il c.d. “domicilio digitale”, così restando superato (almeno in prima battuta) il disposto del vecchio art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37- Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore, sull’elezione del domicilio presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria adita del difensore privo di un suo domicilio nel circondario dell’ufficio giudiziario.
Naturalmente, nell’ambito della disciplina delle comunicazioni e notificazioni, un ruolo fondamentale riveste il d.p.r. n. 68 del 2005, che contiene le norme sull’uso della PEC, cui si accompagna il d.p.c.m. 2 novembre 2005, ove sono illustrate le relative “regole tecniche”; proprio al d.p.r. n. 68 del 2005 fa espresso richiamo l’art. 4, comma 2, del d.l. n. 193 del 2009 per il processo telematico e, in generale, pure l’art. 48 del CAD, norma quest’ultima – come visto in precedenza – in attesa di essere abrogata.
Vi è poi la disciplina secondaria, laddove non derogata dalle norme di legge sopravvenute, contenuta negli artt. l6 e 17 del d.m. n. 44 del 2011, come novellato dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, nonché nelle vigenti “specifiche tecniche” del Direttore Generale DGSIA (provvedimento del 16 aprile 2014, come novellato dal provvedimento del 28 dicembre 2015).
Va inoltre ricordato che per gli uffici giudiziari diversi dai tribunali e dalle corti d’appello, ancora oggi è necessaria l’adozione di un decreto ministeriale, ai sensi del comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, per procedere alle comunicazioni e notificazioni in via telematica[18].
Quanto alle notifiche tra avvocati, il legislatore ha preferito novellare direttamente la legge n. 54 del 1993, adottando la tecnica singolare di introdurre, con il d.l. n. 90 del 2014, l’art. 16-quater nel d.l. 179 del 2012, che a sua volta aveva già inserito l’art. 3-bis nella ridetta legge n. 54 del 1993.
Sempre con norma primaria, il legislatore urgente del d.l. 90 del 2014 ha poi stabilito una regola generale applicabile alle notificazioni telematiche, curate dall’ufficiale giudiziario e, soprattutto, dall’avvocato – visto che ancora non si registrano notifiche da parte del primo –, estendendo le regole temporali sulla notifica cartacea previste dall’art. 147 c.p.c., attraverso l’inserimento dell’art. 16-septies nel d.l. n. 179 del 2012, anziché intervenire direttamente sull’art. 149-bis c.p.c., che attualmente disciplina appunto le notifiche telematiche a cura dell’ufficiale giudiziario.
Fra le norme regolamentari, invece, va ricordato l’art. 18 (intitolato “Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati”) del d.m. n. 44 del 2011, come novellato prima dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209 e poi dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48, che si occupa delle notifiche curate direttamente dagli avvocati; trovano applicazione altresì le specifiche tecniche adottate dal Direttore Generale DGSIA con provvedimento del 16 aprile 2014, come successivamente modificato con provvedimento del 28 dicembre 2015.
10. (Segue) Le regole sui depositi telematici
La norma fondamentale sui depositi telematici di parte nel processo civile, è oggi racchiusa nell’art. 16-bis del d.l. 179 del 2012, come introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 e, successivamente, modificato dal d.l. 90 del 2014, dal d.l. n. 83 del 2015 e in ultimo dal d.l. n. 59 del 2016.
Quest’articolo, composto da numerosi commi, da un lato sancisce l’obbligatorietà del deposito telematico per gli atti endoprocedimentali delle parti, nei tribunali[19] e nelle corti d’appello[20], nonché l’esclusività del deposito telematico per tutti gli atti (compreso quello introduttivo), di parte e del giudice, in seno al procedimento monitorio[21] e, dall’altro dispone, con l’art. 16-bis, comma 6, che nei restanti uffici giudiziari italiani, l’obbligatorietà del deposito degli atti processuali di parte nei procedimenti civili (e anche del giudice, ma solo per i provvedimenti monitori), venga disposta con decreto del ministro della Giustizia sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense ed i consigli dell’ordine degli avvocati interessati.
Come ricordato in precedenza, peraltro, la legislazione speciale dettata in forza della pandemia da covid-19, ha imposto dal 9 marzo 2020 e – attualmente – fino al 31 luglio 2021, l’obbligo del deposito anche degli atti introduttivi di parte in modalità telematica nei tribunali e nelle corti d’appello (art. 221, comma 3, d.l. n. 34 del 2020), nonché la facoltatività del deposito (a decorrere dal 31 marzo 2021) dei medesimi innanzi alla Corte di cassazione (art. 221, comma 5, d.l. n. 34 del 2020).
Di sicuro rilievo, poi, per la sua portata sistematica che avrebbe meritato una sua collocazione nel codice di rito, l’art. 16-bis, comma 9-octies, introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, a tenore del quale “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”.
Assumono una valenza processuale che va oltre i confini del rito telematico, inoltre, il comma 9-bis dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, come introdotto dal d.l. n. 90 del 2014 e poi novellato dal d.l. n. 83 del 2015, che consente al difensore, al consulente tecnico e al curatore fallimentare di attestare la conformità all’originale informatico della copia analogica di atti digitali estratta dai registri informatici, come pure gli artt. 16-decies e 16-undecies sempre del d.l. n. 179 del 2012, entrambi introdotti dal d.l. n. 83 del 2015, che disciplinano esattamente i poteri di certificazione di conformità delle copie degli atti e dei provvedimenti detenuti in formato analogico, depositati in via informatica dai medesimi professionisti.
Tra le fonti secondarie, infine, vanno ricordate le disposizioni contenute nel Capo III del d.m. 44 del 2011 (intitolato “Trasmissione di atti e documenti informatici”) e in particolare gli artt. da 11 a 15, che descrivono una analitica disciplina del contenuto degli atti processuali telematici, come integrata dalle vigenti specifiche tecniche adottate con provvedimento del direttore generale della DGSIA del 16 aprile 2014.
11. A modo di conclusioni
Il frastagliatissimo quadro normativo sopra descritto impone all’interprete uno sforzo non trascurabile, per assicurare il necessario raccordo tra normativa primaria, secondaria e sovranazionale.
Già a livello di confronto tra norme aventi pari valore di legge, occorre chiedersi se il CAD, quale normazione di principio di rango primario – al quale si richiama espressamente l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 193 del 2009, nell’affidare ad un regolamento ministeriale le regole sul PCT –, possa trovare diretta applicazione nella disciplina del processo telematico civile.
E invero, l’orientamento favorevole, pure adombrato in passato dalla giurisprudenza di legittimità[22], deve oggi confrontarsi con le modifiche del medesimo CAD, introdotte dal d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179-Modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.
Il detto decreto legislativo, infatti, novellando l’art. 2, comma 6, CAD, ha seccamente stabilito che “Le disposizioni del presente Codice si applicano al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”; inoltre, trattando dei requisiti di validità del documento digitale, l’art. 20, comma 1-quater, CAD, come novellato dal ridetto d.lgs. n. 179 del 2016, dispone oggi che “Restano ferme le disposizioni concernenti il deposito degli atti e dei documenti in via telematica secondo la normativa, anche regolamentare, in materia di processo telematico”.
Dunque, alla luce delle stesse norme riformate del CAD, è consentito forse affermare oggi che è sempre la specialità del processo telematico, civile, penale, amministrativo contabile e tributario, a prevalere, potendo trovare applicazione le regole generali contenute nel ridetto codice, soltanto in mancanza di una espressa disciplina, anche di livello secondario, contenuta nella normativa di settore, ormai decisamente sovrabbondante e spesso di carattere “alluvionale”.
A tutto ciò si accompagna, come visto, il ruolo sempre più incisivo della legislazione sovranazionale in sede europea, che attraverso le sue direttive e i suoi regolamenti enuncia disposizioni all’evidenza idonee a condizionare direttamente – a prescindere dall’intervento di correttivi sul CAD – la disciplina del PCT.
Del resto, le Sezioni Unite della S.C. hanno già avuto modo di segnalare come in tema di firma digitale dei documenti informatici, il principio dell’equivalenza della firma c.d. “CAdES” e di quella c.d. “PAdES” trovi un suo preciso fondamento normativo negli standard previsti dal cennato reg. UE n. 910/2014 e nella relativa decisione di esecuzione n. 1506 del 2015[23].
Quanto ai rapporti tra fonti primarie e secondarie, va segnalato come talune regole sul funzionamento del PCT, già contenute nel d.m. 44 del 2011, sono state pedissequamente riprodotte nel complesso articolato che oggi si ritrova nel d.l. 179 del 2012, cioè in una fonte di rango primario, con il risultato di una loro sostanziale duplicazione[24].
Altre norme regolamentari, invece, risultano derogate da quelle di fonte legislativa sopravvenute, a plateale dimostrazione della perdurante incertezza sul rango (di legge o regolamentare) da riservare di volta in volta alla disciplina sul PCT[25].
In altri casi, addirittura, il legislatore è intervenuto per dirimere ogni dubbio sulle modalità di deposito telematico di taluni atti, nascente dalle regole contenute nelle specifiche tecniche, senza tuttavia modificare detta regolamentazione secondaria[26].
Non mancano, infine, disposizioni contenute sempre nel regolamento n. 44 del 2011, che tuttavia rinviano ancora a norme aventi forza di legge, che risultano essere state successivamente abrogate da altre disposizioni di rango primario[27].
Insomma, alla luce di quanto esposto in precedenza, non sembra possano sussistere ulteriori dubbi sulla necessità di procedere ad una “sistematizzazione” delle regole sul PCT, partendo dalle sue variegate fonti di produzione per costituire un corpus unitario, non è decisivo stabilire se con fonte di rango primario o secondario, che detti compiutamente l’intera disciplina in materia, naturalmente sempre nel rispetto dei principi generali contenuti nel CAD e nella legislazione sovranazionale.
*Relazione tenuta al corso "Nomofilachia e informatica" organizzato dalla S.S.M. il 19-20 aprile 2021
[1] L’art. 13, comma 1, delle disp. att. c.p.a., come novellato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168 - Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la Giustizia amministrativa, convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, affidava in origine ad un decreto del presidente del consiglio dei ministri il compito di redigere le “regole tecnico-operative” del processo amministrativo telematico. Successivamente, il d.l. 30 aprile 2020, n. 28-Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l'introduzione del sistema di allerta Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, novellando il comma 1 del detto art. 13, ha affidato ad un decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, il compito di redigere le “regole tecnico-operative” per il processo amministrativo telematico. Con d.p.c.s. 22 maggio 2020, n. 134 (in G.U. del 27 maggio 2020) sono state adottate le Regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti, peraltro rimasto in vigore per pochi mesi, essendo stato integralmente sostituito dal d.p.c.s. 28 dicembre 2020 (in G.U. del 11 gennaio 2021).
[2] In forza dell’art. 13, comma 1-ter, disp. att. c.p.a., come novellato dal d.l. n. 168 del 2016, il PAT è divenuto obbligatorio, davanti ai TAR e al Consiglio di Stato, a decorrere dal 1 gennaio 2017.
[3] L’art. 39, comma 8, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98-Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011 n. 111, ha previsto l’adozione di un regolamento ministeriale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che introduca disposizioni per il più generale adeguamento del processo tributario alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’amministrazione digitale. È stato così adottato dal ministro dell’Economia e delle Finanze il d.m. 23 dicembre 2013, n. 163-Regolamento recante la disciplina dell'uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell'articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Successivamente, con decreto del Direttore generale delle Finanze 4 agosto 2015 sono state approvate le “specifiche tecniche” per il PTT, concernenti principalmente le comunicazioni e notificazioni, nonché i depositi telematici degli atti di parte e degli ausiliari del giudice; ad esso ha fatto seguito il decreto del Direttore generale delle Finanze 6 novembre 2020, recante le ulteriori “specifiche tecniche” in materia di processo tributario telematico, riferite esclusivamente ai provvedimenti giurisdizionali digitali (pgd) e ai processi verbali d’udienza.
[4] L’art. 16, comma 5, del d.l. 24 ottobre 2018, n. 119-Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, ha disposto l’obbligatorietà del PTT per i giudizi «con ricorso notificato a decorrere dal 1° luglio 2019».
[5] L’art. 20-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179-Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, come introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228-Legge di stabilità 2013, ha previsto che con decreto del Presidente della Corte dei conti sono stabilite le regole tecniche ed operative per l’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle attività di controllo e nei giudizi che si svolgono innanzi alla Corte dei conti, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’amministrazione digitale. Con d.p.c.c. 21 ottobre 2015 sono state adottate le “Prime regole tecniche ed operative per l’utilizzo della posta elettronica certificata nei giudizi dinanzi alla Corte dei Conti”.
[6] L’art. 6, comma 5, del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174-Codice di Giustizia contabile, nel rinviare ad appositi decreti adottati dal presidente della Corte dei conti la disciplina del processo telematico contabile, recita: «si applicano, ove non previsto diversamente, le disposizioni di legge e le regole tecniche relative al processo civile telematico».
[7] Vignera, Principio di legalità ed esercizio della giurisdizione, in www.ilcaso.it, 2009.
[8] È un fatto che, storicamente, le norme di attuazione dei vari codici rito sono state adottate sempre con atti aventi forza di legge: si pensi per il codice di procedura civile al r.d. 18 dicembre 1941, n. 1368-Disposizioni per l'attuazione del Codice di procedura civile e disposizioni transitorie, ovvero alle disposizioni di attuazione del codice del processo amministrativo, adottate con il medesimo d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 con cui è stato approvato il codice, ovvero ancora a quelle del codice di Giustizia contabile, anch’esse approvate con il medesimo d.lgs. 26 agosto 2016, n. 164 con cui è stato adottato il codice. Il codice di procedura penale del 1988 (d.p.r. 22 settembre 1988, n. 447), invece, ha previsto disposizione di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con il d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, ma accanto ad esse vi è un “regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale” (d.m. 30 settembre 1989, n. 334) che ha invece natura regolamentare.
[9] Ad esclusione degli artt. 2, comma 1 (Oggetto e ambito di applicazione), 6 (Funzionalità), 9 (Formato della segnatura di protocollo), 18, commi 1 e 5, (Modalità di registrazione dei documenti informatici), 20 (Segnatura di protocollo dei documenti trasmessi) e 21 (Informazioni da includere nella segnatura).
[10] Cons. Stato, sez. IV, 8 marzo 2021, n. 1931; già in precedenza si veda il parere 10 ottobre 2017, n. 2122, reso da Cons. Stato, Commissione Speciale, sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179.
[11] L’art. 34 della Direttiva 1023/2019 accorda agli stati membri un termine per conformarsi alle disposizioni contenute nell’art. 28, lettere a), b) e c), entro il 17 luglio 2024 e nell’art. 28, lettera d), entro il 17 luglio 2026.
[12] L’acronimo e-IDAS sta per electronic IDentification Authentication and Signature.
[13] L’art. 65, comma 7 del d.lgs. n. 217 del 2017, stabiliva seccamente l’abrogazione dell’art. 48 CAD a decorrere dal 1° gennaio 2019. Successivamente l’art. 8, comma 5, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito con modificazioni dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12, ha modificato il d.lgs. n. 217 del 2017, stabilendo che con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti l’Agenzia per l’Italia digitale e il Garante per la protezione dei dati personali, sono adottate le misure necessarie a garantire la conformità dei servizi di posta elettronica certificata di cui agli artt. 29 e 48 del d.lgs. n. 82 del 2005, al regolamento e-IDAS; soltanto dopo l’entrata in vigore del detto d.p.c.m. – che ancora oggi non risulta emanato – l’art. 48 del CAD risulterà abrogato.
[14] Il d.m. n. 44 del 2011 è stato modificato prima dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, e poi dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48.
[15] Dopo l’entrata in vigore del regolamento n. 44 del 2011, si è avanzato il dubbio che il d.p.r. n. 123 del 2001 – che aveva introdotto per la prima volta una disciplina organica del PCT – fosse ancora vigente, atteso che l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 193 del 2009, in virtù del quale è stato adottato il detto regolamento, si limitava a prevedere che le “regole tecniche” del processo civile telematico all’epoca vigenti (quelle del d.m. 17 luglio 2008) si dovevano continuare ad applicare fino alla data di entrata in vigore dei decreti previsti dai commi 1 e 2 del medesimo articolo. In sostanza il d.m. n. 44 del 2011, emanato dal ministro della Giustizia ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, avrebbe determinato l’abrogazione delle regole tecnico-operative di cui al d.m. 17 luglio 2008 e non anche del regolamento governativo di cui al d.p.r. n. 123 del 2001. In direzione contraria, poi, non valeva invocare l’art. 37, comma 2, del d.m. n. 44 del 2011, che dichiarava espressamente la cessazione dell’efficacia per il processo civile per le disposizioni del d.p.r. n. 128 del 2001, considerato che, ai sensi del terzo comma dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988, i regolamenti ministeriali (quale è il d.m. n. 44 del 2011), non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti governativi.
[16] Per un quadro completo delle misure processuali speciali in tempo di pandemia, si vis, Fichera-Escriva, Le quattro fasi del processo civile al tempo della pandemia, su Jiudicium.it, 2021.
[17] Si vedano i vari provvedimenti adottati dal Direttore generale DGSIA, datati 10 marzo 2020 e 20 marzo 2020, 21 maggio 2020 e 2 novembre 2020.
[18] Così, ad esempio, il d.m. 19 gennaio 2016-Attivazione delle notificazioni e comunicazioni telematiche presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'articolo 16, comma 10, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, limitatamente al settore civile, ha previsto che tutte le comunicazioni e notificazioni telematiche presso la Corte Suprema di Cassazione, a decorrere dal 15 febbraio 2016, avvengano esclusivamente in via telematica.
[19] Dal 30 giugno 2014, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 1, d.l. n. 179 del 2012.
[20] Dal 30 giugno 2015, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-ter, d.l. n. 179 del 2012.
[21] Dal 30 giugno 2014, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 4, d.l. n. 179 del 2012.
[22] Cass., sez. 3, 10 novembre 2015, n. 22871, in Guida dir., 2016, I, 56; secondo la S.C. la firma digitale della sentenza è equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005, resi applicabili al processo civile dall’art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla legge n. 24 del 2010.
[23] Cass., sez. un., 27 aprile 2018, n. 10266, in Giur. it., 2018, 1614; in senso conforme, Cass., sez. 2, 29 novembre 2018, n. 30927.
[24] È il caso della norma sul momento perfezionativo del deposito telematico degli atti. L’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012 recita: «Il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero»; ma già l’art. 13, comma 2, del d.m. n. 44 del 2011 disponeva: «I documenti informatici di cui al comma 1 si intendono ricevuti dal dominio Giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia».
[25] Si tratta dell’art. 13, comma 3, del d.m. n. 44 del 2011 che ancora oggi afferma: «Quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo». Successivamente l’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, come introdotto dalla legge n. 228 del 2012, dispone invece espressamente che «Il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza».
[26] Le specifiche tecniche pongono un limite per la dimensione massima (30 mega) del messaggio di PEC (art. 13 del decreto 16 aprile 2014); per superare i dubbi di ammissibilità di ulteriori depositi telematici relativi al medesimo atto, il d.l. n. 90 del 2014, allora, ha inserito nel comma 7 dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, la seguente precisazione: «Quando il messaggio di posta elettronica certificata eccede la dimensione massima stabilita nelle specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del ministero della Giustizia, il deposito degli atti o dei documenti può essere eseguito mediante gli invii di più messaggi di posta elettronica certificata. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro la fine del giorno di scadenza».
[27] Si pensi all’art. 16, comma 4, e all’art. 17, comma 1, del d.m. n. 44 del 2011, che ancora oggi rinviano all’art. 51 del d.l. n. 112 del 2008, i cui primi quattro commi risultano invece abrogati espressamente dal d.l. n. 179 del 2012.
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