ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La prova in giudizio della notifica di atti tributari a destinatario temporaneamente irreperibile. Nota a Cass. Sez. Un. n. 10012 del 2021 di Silvia Marinoni
Sommario: 1. Il caso deciso – 2. Il contrasto giurisprudenziale – 3. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite – 4. Alcune considerazioni conclusive.
1. Il caso deciso
Le Sezioni Unite, con sentenza del 15 aprile 2021, n. 10012, sono intervenute in tema di prova giudiziale della regolare notifica eseguita a mezzo posta nei casi di c.d. irreperibilità relativa dando rilievo, mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata, alla ratio sottesa alla notificazione, quale procedura volta a portare a conoscenza del destinatario gli atti a questi indirizzati.
La vicenda trae origine dall'emissione da parte di Equitalia Sud S.p.a. di una cartella di pagamento a carico di una contribuente, che la impugnava lamentando la mancata notifica degli avvisi di accertamento prodromici; la ricorrente contestava il perfezionamento della procedura notificatoria sul presupposto dell'omessa produzione in giudizio da parte dell'Agenzia delle Entrate degli avvisi di ricevimento delle raccomandate di avvenuto deposito del plico (C.A.D.).
In primo grado il ricorso non venne accolto dalla C.T.P. di Caserta, la cui pronuncia, a seguito di gravame della contribuente, veniva confermata dalla C.T.R. della Campania sulla base dell'accertata regolarità delle notifiche degli avvisi di accertamento e del mancato assolvimento dell'onere di impugnazione congiunta degli stessi con la cartella esattoriale.
La contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, il cui esame poneva il problema di comprendere in quale modo dovesse essere giudizialmente provata la ritualità delle notificazioni compiute a mezzo posta allorché, per la temporanea assenza del destinatario e delle persone abilitate alla ricezione, ovvero per rifiuto di queste, i plichi fossero stati depositati presso l'ufficio postale e fossero decorsi dieci giorni senza il loro ritiro, nonostante apposita comunicazione. Sulla questione, la Quinta Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria n. 21714 del 2020[1], evidenziava la sussistenza di un contrasto in seno alla Corte, rimettendo al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione del ricorso alle S.U., la questione di massima di particolare importanza concernente la prova del perfezionamento della notificazione di un atto impositivo mediante l'impiego diretto del servizio postale (art. 14, l. n. 890/1982) nel caso di temporanea assenza del destinatario e dei soggetti abilitati alla ricezione.
2. Il contrasto giurisprudenziale
La risposta al quesito formulato dalla sezione rimettente si intreccia col tentativo della dottrina e della giurisprudenza di individuare il giusto equilibrio tra diritto di agire del notificante e diritto di difendersi del destinatario.
Una parte della giurisprudenza[2] ha sostenuto che, ai fini della ritualità della notifica diretta, è richiesta la prova della sola spedizione della raccomandata e non anche dell'avvenuta ricezione di questa. Viene in rilievo l'espressa e puntuale previsione dell'art. 8, l. n. 890 del 1982, nella parte in cui dispone che la notificazione si ha “comunque” per eseguita decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata. La scelta del legislatore, per come interpretata dalla giurisprudenza, è quella di collegare, in via assoluta e generale, il perfezionamento dell'iter notificatorio all'evento 'spedizione' della C.A.D., in particolare dopo dieci giorni dall'invio della raccomandata. Verificatisi tali requisiti, dunque, si realizzerebbe la conoscenza legale dell'atto da parte del destinatario, con ogni conseguenza in ordine agli effetti che da questa teorica conoscenza derivano[3].
Questa tesi si fonda, inoltre, sulla distinzione tra conoscenza e conoscibilità: la notificazione, quale procedimento complesso e strutturato, mira a consentire la sola conoscibilità, per soddisfare la quale sono state imposte al notificante specifiche formalità, fermo restando il dovere di cooperazione del destinatario dell'atto per integrare la sua conoscenza effettiva[4].
Il punto di incontro tra le posizioni contrapposte dei soggetti e i rispettivi diritti è dato dall'obbligo, in caso di mancato recapito al destinatario, di spedire una seconda raccomandata informativa dell'invio della prima racomandata, che costituisce, al tempo stesso, adempimento necessario per il notificante (che deve adoperarsi affinchè il destinatario sia portato a conoscenza dell'esistenza dell'atto) e sufficiente per il notificato (posto in condizione di sapere che vi è un atto a lui indirizzato). Questo bilanciamento, invero, sembrerebbe sortire un duplice effetto: per un verso, incoraggia il notificante ad attivarsi correttamente consapevole del fatto che il rispetto delle formalità legali comporta il perfezionarsi della notifica anche in mancanza del ritiro del piego depositato; per altro verso, riconoscendo al destinatario un termine ragionevole per ritirare il piego, garantisce il diritto di costui “ad essere posto in condizione di conoscere, con l'ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell'atto e l'oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti”[5].
Secondo una contrapposto orientamento[6], ai fini della ritualità della notifica a mezzo posta in caso di irreperibilità relativa del destinatario, non è sufficiente provare la spedizione della raccomandata informativa di comunicazione di avvenuto deposito, essendo necessaria la prova dell'avvenuta ricezione di quest'ultima. Tale ricostruzione valorizza il diritto di difesa (art. 24 Cost.) che può essere realmente assicurato solo allorchè le garanzie di conoscibilità dell'atto siano improntate a logiche di effettività. In questa prospettiva, il Collegio rimettente ha enfatizzato il ruolo determinante della C.A.D. rilevando che quando il legislatore ha considerato sufficiente una raccomandata semplice per informare circa l'avvenuta notificazione ha espressamente disposto in tal senso[7], mentre l'art. 8, co.4, l. n. 890/1982 prescrive l'invio di raccomandata “con avviso di ricevimento”.
L'ordinanza interlocutoria ha così posto l'interrogativo sulla necessità o meno di esibire in giudizio l'avviso di ricevimento relativo alla raccomandata contenente la C.A.D. come prova del suo invio, al fine di verificare se effettivamente la comunicazione di avvenuto deposito sia giunta nella sfera di conoscibilità del destinatario. Dalle annotazioni ivi riportate, infatti, potrebbe risultare la mancata consegna dovuta al trasferimento o al decesso del soggetto cui l'atto è indirizzato, o ad altre cause ostative alla sua conoscibilità, che parimenti assumono rilevanza in quanto dimostrano che l'effetto legale collegato al procedimento notificatorio non si è potuto produrre[8].
La diversità di prospettiva che caratterizza la tesi favorevole alla prova della ricezione della C.A.D., oltre a rafforzare la posizione del soggetto cui l'atto è rivolto, determina un mutamento notevole dal punto di vista processuale, che va oltre l'onere probatorio gravante sul notificante, producendo effetti anche sotto il versante temporale, con conseguente allungamento dei termini. Chiarisce, infatti, l'ordinanza di rimessione, che il perfezionamento della notifica per il destinatario con il decorso di dieci giorni dalla spedizione della raccomandata della C.A.D. degrada ad “effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi con l'allegazione dell'avviso di ricevimento, le cui risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo scopo cui era destinata”. V'è, quindi, un effetto normativo sospensivamente condizionato alla verifica del giudice sull'avviso di ricevimento della seconda raccomandata.
3. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10012 del 2021, hanno avallato l'orientamento più garantista per il destinatario dell'atto, ritenendo che nei casi di sua temporanea assenza nella notifica a mezzo posta devono essere rispettate le formalità prescritte dall'art. 8 l. n. 890 del 1982, ivi incluso l'invio della raccomandata informativa dell'avvenuto deposito degli atti notificandi, di cui deve essere data prova unicamente producendo in giudizio l'avviso di ricevimento della (seconda) raccomandata. La C.A.D. riveste un ruolo essenziale perchè mira a garantire “la conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza effettiva, dell'atto notificando stesso”.
L'iter argomentativo si basa su una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni sulla notifica e si sviluppa lungo due direttrici: la valorizzazione del diritto di difesa nelle varie procedure notificatorie e la pregnante considerazione degli interventi della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, le Sezioni Unite evidenziano il maggior rigore previsto per la notifica a mezzo posta, in ipotesi di temporanea assenza del destinatario, col deposito presso l'ufficio postale dell'atto notificando rispetto a quello di cui agli artt. 139 c.p.c. e 7, l. n. 890/1982 disciplinanti la consegna a persona diversa dal destinatario, la cui qualità o relazione col primo fonda un maggior affidamento e dunque giustifica una forma di comunicazione dell'avvenuta consegna semplificata, ossia tramite raccomandata “semplice”. Nella notifica a mezzo posta, invece, manca la consegna alle persone abilitate e quindi non sussiste la predetta ragionevole aspettativa che l'atto notificando venga effettivamente conosciuto dal destinatario, sicchè, a fronte del mero deposito presso l'ufficio postale, il legislatore - per assicurare la conoscibilità del destinatario - ha previsto un duplice adempimento ulteriore: l'affissione dell'avviso di deposito nel luogo di notifica e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Con riguardo al secondo aspetto, ossia al tentativo di interpretare le disposizioni conformemente alle pronunce della Corte costituzionale, le Sezioni Unite estendono la comparazione tra le procedure di cui agli artt. 8 l. n. 890/1982 e 140 c.p.c., accomunate dal medesimo presupposto fattuale della irreperibilità relativa, utilizzando tale ultima disposizione quale tertium comparationis. La sentenza in nota - richiamando la giurisprudenza in tema di notifica da parte dell'ufficiale giudiziario che richiede, ai fini della prova del perfezionamento, la produzione in giudizio dell'avviso di ricevimento della raccomandata informativa[9] - individua una comunanza di ratio tra le due modalità, consistente nel dare al destinatario una ragionevole possibilità di conoscenza della pendenza della notifica di un atto impositivo. Tale assimilazione si fonda sul legame inscindibile che la giurisprudenza individua tra le formalità proprie del procedimento di notifica e il rispetto dei principi costituzionali di azione e difesa (art. 24 Cost.) e di parità delle parti del processo (art. 111, c. 2, Cost.).
L'estensione della logica garantista fatta propria dalla Corte costituzionale alla disciplina contenuta nella legge n. 890 del 1982 finisce con l'individuare un nuovo punto di equilibrio tra le esigenze del destinatario e quelle del notificante, il cui onere processuale viene qualificato come “non vessatorio o problematico”[10]. L'avviso di ricevimento della C.A.D. costituisce, nella prospettiva accolta da Cass. n. 10012 del 2021, l'indefettibile prova di un presupposto implicito dell'effetto di perfezionamento della procedura notificatoria ai sensi dell'art. 8, commi secondo e quarto, l. n. 890/1982 e il cui esame affidato al giudice consente di verificare se la notificazione ha concretamente assolto il suo compito. La valutazione positiva comporta il consolidamento dell'effetto provvisorio dell'avviso de quo, che diviene definitivo, conformemente alla qualificazione della fattispecie come procedimento a formazione progressiva.
4. Alcune considerazioni conclusive
La sentenza in commento, nel ritenere che per provare il perfezionamento della notifica a mezzo posta, nel caso di irreperibilità relativa del destinatario, sia necessaria l'esibizione in giudizio dell'avviso di ricevimento della raccomandata informativa, giunge a subordinare la regolarità del procedimento notificatorio alla concreta verifica, affidata al giudice, che la C.A.D. sia pervenuta al destinatario e che, quindi, costui abbia potuto avere conoscenza effettiva di quanto notificatogli.
V'è da chiedersi se le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite possano rappresentare un definitivo superamento del contrasto giurisprudenziale che ha giustificato il loro intervento o se, come si immagina, saranno necessari ulteriori chiarimenti.
La Cassazione ha optato per un'interpretazione della disciplina sulla notifica adeguatrice ai principi costituzionali, fornendo una ricostruzione sistematica della normativa attraverso una chiave di lettura che parte della dottrina già da tempo sollecitava, così da evitare un non agevole intervento della Corte costituzionale. In particolare, poichè le disposizioni sulla notifica, pur se contenute in testi di legge diversi, si ispirano alla medesima ratio e devono assolvere la stessa funzione, la ricostruzione accolta contribuisce a rendere più uniforme la disciplina della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio nei casi di irreperibilità relativa. Ciò attraverso l'estensione alla notificazione postale della regola elaborata dalla giurisprudenza per la notificazione eseguita tramite ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.
L'impianto risultante dalla pronuncia annotata sembra, così, rafforzare il principio di effettività della tutela, di cui il diritto di difesa rappresenta un prius logico imprescindibile. Infatti, l'avvicinamento tra conoscenza legale ed effettiva è volto ad assicurare che il destinatario sia posto nelle condizioni di far valer le proprie ragioni, in un confronto paritario con l'Amministrazione, attraverso l'instaurazione di un contraddittorio. Ciò in armonia con i principi costituzionali (artt. 24 e 111 Cost) oltre che sovranazionali (artt. 41, 47 e 48 Carta dei diritti fondamentali dell'UE)[11].
L'impostazione accolta dalle Sezioni Unite pare coerente anche con l'art. 6 dello Statuto del contribuente, rubricato “Conoscenza degli atti e semplificazione”, il cui comma primo fa carico all'Ufficio finanziario di assicurare “l'effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati” e, nel precisare che “gli atti sono in ogni caso comunicati con modalità idonee a garantire che il loro contenuto non sia conosciuto da soggetti diversi dal loro destinatario”, sembra richiedere che il soggetto al quale sono indirizzati non sia solo posto in condizioni di conoscere, ma abbia piena contezza del loro contenuto. Ciò salvo ritenere che dalla parte finale del comma, a mente del quale “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”, discenda un rapporto di specialità tra queste e l'art. 6 L. n. 212/2000, con prevalenza delle regole sulla notifica.
La soluzione garantista prescelta lascia tuttavia non del tutto chiariti alcuni aspetti: primo fra tutti quello pratico, concernente la fase successiva all'esame del giudice allorchè al corretto (e provato) adempimento del notificante non corrisponda la conoscenza del destinatario. La sentenza, infatti, non chiarisce in modo puntuale quali conseguenze derivino per i soggetti coinvolti nell'iter e per lo stesso atto notificando nei casi di valutazione giudiziale negativa, senza quindi individuare il punto di incontro tra esigenze contrapposte. Le Sezioni Unite, infatti, non si preoccupano di qualificare il vizio che affligge l'atto notificando e, di conseguenza, non si comprende quale sarà la sorte dell'accertamento. Nel caso di specie, invero, in accoglimento del ricorso introduttivo, si è ritenuta nulla la notifica, non avendo l'Agenzia provveduto a dar prova in giudizio dell'avviso di ricevimento della C.A.D.; resta in sospeso, però, cosa succeda nei casi di prova in giudizio della cartolina riportante la notizia, ad esempio, del trasferimento o del decesso.
Perplessità sono state sollevate anche in merito all'interpretazione letterale dell'art. 8, l. n. 890/1982 che sembra ancorare la produzione degli effetti al decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata contenente l'avviso della tentata notifica e del deposito del piego presso l'ufficio postale, o al ritiro ove anteriore, escludendo un consolidamento successivo degli effetti correlato alla ricezione. La soluzione accolta non consente ulteriori valutazioni in merito alla ratio della dispozione indicata, la cui differente formulazione potrebbe essere frutto di una specifica volontà in tal senso, cosicchè la parificazione, pur ispirata a valide ragioni di tutela del destinatario, si porrebbe proprio in contrasto con la norma. Dubbio, questo, già espresso da Cass. n. 6089/2020 secondo cui le notifiche di cui all'art. 140 c.p.c. si connotano per un regime che si discosta da quello di cui all'art. 8, co. 4, l. n. 890/1982, atteso che, mentre le seconde si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego, ove anteriore, viceversa, l'art. 140 c.p.c., all'esito di Corte cost. n. 3 del 2010, fa coincidere tale momento col ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare non l'effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell'atto presso la casa comunale, ponendo il destinatario in condizione di ottenere la consegna ed eventualmente predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini pendenti per la reazione giudiziale. Peraltro, una differente disciplina delle varie modalità di notificazione non darebbe adito, di per sé sola, a dubbi di legittimità costituzionale poichè non è predicabile un dovere del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali a condizione che non siano lesi i diritti di difesa.
Del resto, come già chiariva l'ordinanza interlocutoria, il meccanismo configurato dall'art. 8 l. n. 890 del 1982, rappresenta una declinazione, peculiare e specifica, della più generica nozione di “conoscenza legale” che segna, giusto l'art. 149 c.p.c., il perfezionamento della notifica postale dal lato del destinatario, nella consapevolezza che, per comprensibili esigenze di funzionalità, il sistema delle notificazioni a mezzo posta non può indefettibilmente esigere la concreta conoscenza dell'atto, ma ne considera sufficiente l'ingresso nella sfera di conoscibilità del soggetto. Questa diversa ricostruzione si fonda su un discrimen netto tra procedimento notificatorio ed eventi successivi, posto che la comunicazione, il cui contenuto concerne unicamente le attività svolte dall'agente postale, senza dare informazione alcuna sull'intrinseco dell'atto notificatorio, configura soltanto una modalità di rafforzamento dell'iter già perfezionatosi.
Ulteriori incertezze sono state formulate in merito non già alla prova della C.A.D., bensì alla necessità stessa del suo invio, che sembrerebbe escluso per la notifica postale diretta, in cui dovrebbe applicarsi il regime postale e non la legge n. 890/1982[12]. Secondo parte della giurisprudenza[13], infatti, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante cui può essere notificato, ex art. 14 l. n. 890/1982, l'avviso di accertamento senza intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, caratterizzata dalla totale assenza di formalità. Peraltro, in base a un comune dato di esperienza, l'avviso di giacenza (modello 26) di cui alla normativa postale - con cui si comunica la mancata consegna e si avvisa del deposito dell'atto presso un determinato ufficio postale ove potrà essere ritirato nei termini, con l'avvertimento che in mancanza si verificherà la compiuta giacenza e l'atto verrà restituito al mittente – viene di regola immesso nella cassetta postale e non spedito a mezzo raccomandata.
Le Sezioni Unite, limitando il loro intervento all'aspetto probatorio, hanno forse perso l'occasione per chiarire il rapporto tra gli artt. 8 e 14 della l. n. 890/1982, al fine di delinearne il reale perimetro applicativo rispetto alle disposizioni di cui al regolamento postale, accogliendo implicitamente quanto statuito nella pronuncia n. 5077 del 2019. Con tale ultima decisione, la Cassazione, dopo aver sottolineato che l'art. 14 l. n. 890/1992 si limita ad estendere agli atti che devono essere notificati al contribuente le stesse modalità previste dalla legge per la notifica a mezzo posta degli atti giudiziari, aveva espressamente escluso un contrasto tra il necessario deposito dell'avviso di ricevimento relativo alla C.A.D. e l'applicabilità del regolamento postale alla raccomandata con cui tale comunicazione viene inviata, ritenendo sussistere un rapporto di complementarietà fra le discipline, le quali, anzichè escludersi, si completano vicendevolmente.
La complessità della questione e le rilevanti ripercussioni che la sentenza in nota potrà avere sul piano sostanziale inducono a considerare non definitivamente risolto il dibattito esistente che, anzi, proprio da questa pronuncia trarrà nuova linfa. Resta da vedere se la giurisprudenza farà piana applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite o troverà margini per rimodularne la portata nei diversi casi posti alla sua attenzione.
[1] Cfr.: M. Bruzzone, Notifiche a mezzo posta e prova della C.A.D.: la parola alle Sezioni Unite, in Giur. Trib., 2021, n.2, 133 e ss.; M. Cancedda, Notifica postale all'“assente” verso il vaglio delle Sezioni Unite; P. Maciocchi, Notifica via posta, regolarità alla prova delle Sezioni Unite, in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2020, 32.
[2] Cfr. Cass., nn. 4043/2017, 6242/2017, 26945/2017, 13833/2018, 2638/2019, 33070/2019, 33257/2019.
[3] Vedi Cass. n. 26088/2015 e Cass. Sez. Un., n. 1418/2012.
[4] Cfr. Cass. n. 26501/2014; Cass., Se. Un., n. 23675/2014, ove si precisa che “l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario, pur costituendo lo scopo della notificazione, rimane estranea alla sua struttura”.
[5] Cass. Sez. Un., n. 1418/2012.
[6] Cass., nn. 5077/2019, 16601/2019, 6363/2020, 23921/2020, 25140/2020, 26078/2020.
[7] Cfr. artt. 139, c. 3, c.p.c. e 7, c. 3, L. n. 890/1982.
[8] Sulla rilevanza dell'avviso di ricevimento quale documento atto a provare l'esecuzione della notificazione, della data e della persona, si veda Cass. n. 3737/2004 e n. 15374/2018.
[9] Corte cost. nn. 3/2010 e 258/2012, nonché Cass. nn. 9782/2018, 25985/2014, 22132/2009, 627/2008.
[10] Sulla tecnica di bilanciamento fra interessi contrapposti cfr. Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015 n. 24822 che ha individuato i quattro steps da seguire nel giudizio. L'ultimo di questi prevede che se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene imponendo un onere di diligenza – o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione – alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere. In questa prospettiva si comprende l'impostazione seguita dalle Sez. Un. n. 10012/2021 che, traendo la norma dalla disposizione di legge, impone al notificante un onere ulteriore.
[11] Cfr. Corte giust. 12 novembre 1969, C-29/69 Erich Stauder c. Stadt Ulm – Sozialamt, secondo cui il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell'Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante.
[12] Cfr. Cass. n. 17598/2010.
[13] Cass. n. 14501/2016, 29642/2019.
Giustizia e comunicazione. 4)
La cronaca giudiziaria racconta il Paese
Intervista di Andrea Apollonio a Giovanni Bianconi
Prosegue il dibattito promosso da Giustizia Insieme sul tema della comunicazione della e neIla giustizia. Dopo il contributo introduttivo di Giovanni Canzio, il 26 maggio Giustizia Insieme ha intervistato Rosaria Capacchione sul modo e sui modi di fare cronaca giudiziaria; ad intervenire è stato poi, il 1 giugno, Giovanni Melillo, in ordine alla comunicazione dell'ufficio del pubblico ministero. Un tema che "chiama" l'intervista odierna: oggi è infatti la volta della penna di punta del Corriere della Sera, Giovanni Bianconi, una delle firme più autorevoli nel panorama della cronaca giudiziaria italiana. Attento osservatore dell'esercizio del diritto, con i suoi articoli e i suoi libri ha raccontato i due fenomeni criminali italiani più complessi: il terrorismo e la mafia. I suoi editoriali sono il termometro esatto della vita giudiziaria del Paese.
Lei non ha bisogno di presentazioni, e per questo partiamo da una domanda apparentemente banale: che differenza passa tra il giornalismo giudiziario e il giornalismo sportivo, politico, oppure di quello che si occupa di gossip o di affari esteri?
La differenza è che alle altre branche, quelle che ha citato, si applicano soltanto le regole del giornalismo: hai la notizia, la fai uscire, la spieghi, la interpreti.
La cronaca giudiziaria invece deve, o dovrebbe, necessariamente fare ricorso non soltanto a questa dinamica, ma anche alle regole tecniche del processo, che devono essere anch'esse spiegate ai lettori per far capire loro le ragioni di un fatto. La notizia di cui vengo in possesso non posso spiegarla correttamente se non la spiego anche tecnicamente: poi la posso illustrare nei suoi vari risvolti e persino interpretare nella mia prospettiva.
Ad esempio, prima di dare notizia di un avviso di garanzia, devo prima spiegare al lettore di cosa si tratta e come quest'atto sia funzionale alle regole del processo, altrimenti darei un'informazione non corretta, o non correttamente comprensibile per un lettore che di solito non è un esperto di diritto. Credo che la difficoltà maggiore nel mio lavoro stia in questo: non ignorare né banalizzare il dato tecnico ma essere al tempo stesso efficace nel fornire la notizia.
Inoltre, la cronaca giudiziaria è l'unico settore davvero trasversale, che sconfina in tutti gli altri; può diventare, all'occorrenza, cronaca politica, cronaca sportiva (a seconda che la notizia riguardi un politico o un personaggio sportivo), o anche mero gossip, oppure riguardare gli affari esteri: basti pensare a quanto accaduto di recente in Francia, con l'avvenuta cattura dei terroristi politici. La verità è che la giustizia entra ovunque, è quasi un rumore di fondo della società che si racconta.
Almeno dai tempi di Tangentopoli...
No, è sempre stato così. Pensi al caso Moro, alla P2, alle stragi terroristiche e di mafia. Il punto è che la cronaca giudiziaria, almeno nella seconda parte della storia repubblicana, ha spiegato i fenomeni sociali e politici. Attraverso la cronaca giudiziaria si racconta il Paese.
Potremmo dire, al massimo, che da Tangentopoli in poi il giornalismo giudiziario ha fatto più attenzione dell'effetto "extra-giudiziario" di talune indagini e di taluni processi. Ecco, la difficoltà del mio lavoro sta anche in questo: nella spiegazione, che pure bisogna dare, dell'effetto extra-giudiziario che quel dato tecnico-giuridico, ha.
È un concetto interessante, quello di cui parla: "l'effetto extra-giudiziario" del dato tecnico...
Beh, la vicenda della c.d. "loggia Ungheria" dimostra, da ultimo, che a quest'effetto pensano non solo i giornalisti ma anche gli uffici giudiziari, e in particolare le Procure della Repubblica, se è vero che ci si pone il problema se iscrivere o meno una notizia di reato a carico di noti, perché tutti sanno che una indagine del genere può avere un "effetto extra-giudiziario" (e quindi politico e sociale) dirompente. Un Procuratore della Repubblica, questo tipo di problemi, se li pone, tanto che abbiamo assistito - almeno così ci è dato sapere - a scontri all'interno dell'ufficio milanese, in ordine al se iscrivere o non iscrivere (e trasmettere gli atti altrove per competenza) quella notizia di reato: un contrasto che ha a che fare con la sensibilità del singolo magistrato connessa anche all'effetto "extra-giudiziario" di un mero atto.
Non crede che, in questo caso, la sensibilità del singolo magistrato si scontri anche col timore che il dato tecnico-giuridico venga poi strumentalizzato dai canali di informazione?
In effetti, il rischio di strumentalizzazione di una tale notizia è altissimo. Anzi, l'opera di strumentalizzazione può essere considerata pressoché certa...
Mi pare di scorgere, in quest’affermazione, una mancanza di obiettività e lucidità del giornalismo giudiziario italiano.
Ormai ci sono testate che vivono di cronaca giudiziaria "orientata": nel senso che ci sono giornali che si dedicano quasi esclusivamente alla cronaca giudiziaria e la orientano, interpretandola, dando una precisa versione dei fatti in base all’orientamento politico della testata. Ci sono giornali che esistono in quanto c'è una cronaca giudiziaria che ha rilievo politico e quindi la piegano e la interpretano sotto una luce politica.
È normale che sia così?
Secondo me è una degenerazione: è una prosecuzione della lotta politica fatta attraverso l'uso degli atti giudiziari.
Si riferisce alla magistratura?
Prima di dire che i magistrati fanno lotta politica attraverso i loro atti, cosa che bisognerebbe dimostrare, direi, perché mi pare dimostrato, che sono i politici che utilizzano gli atti dei magistrati per fare politica. Invece quando si parla di uso politico della giustizia di solito ci si riferisce ai magistrati: per carità, questo può anche succedere e forse è accaduto, ma penso che in Italia l'uso politico degli atti giudiziari venga fatto principalmente dai politici.
E ciò, peraltro, mi pare emerga anche dall'idea di istituire una "Commissione sull'uso politico della giustizia", come è stato paventato. Tecnicamente poi, la vedo un'idea di difficile esecuzione: su cosa si farebbe l'indagine parlamentare, sulle sentenze? Che cosa si fa, si convocano i magistrati e si chiede perché ha firmato quell'ordinanza o perché e sulla base di quali elementi hanno redatto quella sentenza? Ma come si può pensare una cosa del genere rispettando il principio della separazione dei poteri?
Come sa, quell'idea è figlia delle inchieste che hanno sconvolto la magistratura negli ultimi due anni...
Vedo in giro una grande strumentalizzazione di queste inchieste, che partono dall’ormai noto incontro di consiglieri del Csm con esponenti politici in un albergo romano. Una strumentalizzazione già evidente nella trasformazione di vicende personali in vicende politico-editoriali tese ad orientare in un preciso senso politico i fatti giudiziari, anche di alcuni anni fa. E se queste sono le basi ideologiche della proposta di istituire quella Commissione...
Crede che oggi la comunicazione della giustizia, ed in particolare della giustizia penale, sia corretta e adeguata al periodo storico che viviamo?
La comunicazione in generale delle attività giudiziarie da parte delle procure o altri uffici non può che essere per sua natura inadeguata, strutturalmente inadeguata direi. La comunicazione fatta dalle Procure, o dagli uffici giudiziari, inevitabilmente non può che seguire le regole del codice di procedura penale e degli intenti delle Procure o degli uffici giudiziari: quando accade ci si limita a comunicare la notizia di reato e l'eventuale adozione di provvedimenti. Ma il nostro lavoro, il lavoro dei giornalisti, è spiegare quello che c'è dietro un atto giudiziario, che non è soltanto il fatto giudiziario in sé o il suo risvolto politico, come dicevamo prima, ma anche (senza voler strumentalizzare i fatti) il racconto dei fenomeni che stanno dietro alcuni episodi. Noi attraverso i processi raccontiamo quello che accade in Italia. Questo però non lo può fare un ufficio giudiziario, la cui comunicazione è inevitabilmente stringata, e quindi di per sé inadeguata: l’interpretazione, il racconto spetta alla professionalità dei giornalisti. Io posso utilizzare anche un decreto di archiviazione per descrivere un fatto significativo o esemplificativo di un fenomeno: anche se non si è arrivati ad alcun processo, quell'atto è ugualmente importante e permette a noi giornalisti di interpretare il fenomeno sotteso.
Ravvisa eccessi nelle forme comunicative degli uffici giudiziari?
Per parlare di eccesso nella comunicazione dovrei scendere nel merito dei casi concreti, e poi un giornalista non può essere vincolato ad attenersi o distinguere tra una comunicazione del provvedimento giurisdizionale formalmente corretta ed una che non rispetti le regole "interne", le circolari, le leggi ordinamentali ecc. Cioè, se un giudice legge il dispositivo di una sentenza che ha interesse pubblico perché riguarda un ex ministro, e poi, subito dopo, si fa intervistare da me e rilascia dichiarazioni che in qualche maniera anticipano il contenuto della sentenza che andrà a redigere, io non devo porre il problema se ha fatto bene o ha fatto male, se sta rispettando alla lettera le prescrizioni di legge oppure no. Dalla prospettiva del giornalista , ma direi dell’opinione pubblica, ha fatto bene, perché mi ha spiegato una cosa che è di evidente interesse pubblico, ed io, a mia volta, la rendo fruibile all'opinione pubblica.
È in corso un dibattito sulla compatibilità del principio di innocenza fino a sentenza passata in giudicato con la comunicazione giudiziaria, in specie dopo l'applicazione di misure cautelari. Lei cosa ne pensa?
Questo vorrebbe dire che di certe vicende criminali, di interesse pubblico, non si può dare notizia fino a che non interviene una sentenza passata in giudicato. E prima non se ne deve sapere niente? Mi pare... strano. E' evidente che quella fornita per esempio a seguito di una ordinanza cautelare deve essere una informazione circoscritta a quella che è, una ordinanza di custodia cautelare che evidentemente valorizza per gran parte gli elementi raccolti dall'accusa, senza il contraddittorio e tutto il resto. Questo porta con sé la continenza da parte nostra nel doverlo scrivere e nel dovere essere precisi. E' di nuovo una questione di deontologia professionale.
Spetta a me giornalista ricordare che quella è una ricostruzione necessariamente parziale, perché manca la versione della difesa, e che c'è la presunzione di innocenza, che prima di esprimere un giudizio sulla responsabilità c’è bisogno del vaglio dibattimentale, e tutto il resto. Ma questo è un problema dei giornali e non dei magistrati.
Giovanni Falcone era un grande comunicatore della giustizia e dei fenomeni che combatteva nelle aule d'udienza. Quel tipo di comunicazione della giustizia, pacato e serio, la vede anche oggi? Sarebbe ancora efficace?
C'è da fare una premessa: i tempi di Giovanni Falcone non esistono più, sono molto cambiati. All’epoca c’erano la televisione, i libri e i giornali: e questo era tutto. Adesso esiste il web e la comunicazione social: un fenomeno molto più veloce, che sfugge ad ogni controllo, e molto più complicato da maneggiare. Fare paragoni con quel momento storico è quasi impossibile.
Detto questo, lui viveva in un periodo in cui dare informazioni sulla mafia era vitale per contribuire a sostenere l’opera di contrasto giudiziario a quel fenomeno criminale; Falcone aveva bisogno che i giornali e le tv ne parlassero. Aveva bisogno anche del sostegno della politica (o almeno della non ostilità, per quanto possibile) e dell'opinione pubblica per arrivare ad uno strumentario legislativo adeguato al contrasto del fenomeno (che poi, infatti, si ottenne, soprattutto grazie alla sua opera comunicativa): quindi il fenomeno andava raccontato e andava raccontato bene. Anche perché all’epoca era in atto una controinformazione sull'economia siciliana strozzata dalle indagini o cose simili. Lui aveva necessità di spiegare e raccontare per poter continuare a lavorare.
E oggi?
Difficile vedere qualcuno, oggi, mediaticamente efficace come lui: anche perché lui era efficace nella misura in cui esisteva un vuoto di comunicazione sulla mafia. Quando lui spiega il fenomeno del pentitismo, del tutto nuovo, che mai prima d’allora la giustizia aveva sperimentato, lascia lo spettatore abbacinato, incredulo: perché la figura del collaboratore di giustizia non era mai stata raccontata. E lui la racconta, in tv e sui giornali, perché la politica doveva farsi carico di disciplinare il fenomeno con leggi apposite: e così fu.
Quale potrebbe essere allora, oggi, una comunicazione della giustizia efficace?
Oggi siamo bombardati da informazioni, non sempre utili e non sempre pertinenti; e molte informazioni “orientate” e “sviate”, soprattutto rispetto alla giustizia, come ho detto. Oggi vedo più urgente la necessità di dare una informazione corretta e asciutta per evitare strumentalizzazioni.
Nel mare magnum di notizie non verificabili e di opinioni impazzite, nel generale eccesso di comunicazione insito in tutti gli ambiti e in tutti i settori, l’efficace comunicazione del potere giudiziario è solo quella chirurgica, che eviti al minimo il rischio di confusione e consenta a noi giornalisti di fare bene il nostro lavoro.
Che rapporto ha un giornalista giudiziario con il segreto istruttorio?
Spesso si lavora su notizie coperte ancora da segreto. All’inizio si lavora con piccole informazioni che si costruiscono passo passo. Poi a volte bisogna aspettare, quando capita di avere informazioni che non si possono riportare al momento e bisogna attendere il momento in cui vengono rese ostensibili. Non funziona che uno bussa alla porta, fa la domanda, quelli danno la risposta ed è finita: magari fosse così!
Di solito capita di sapere che c'è una indagine, poi si cerca di saperne qualcosa di più ma spesso e volentieri è impossibile, e comunque molto complicato: la difficoltà del nostro lavoro sta anche nel trattare informazioni che di per sé sono confinate in un circuito “chiuso” come quello del procedimento penale, e allora bisogna cercare di farle uscire - se ostensibili e se di interesse, solo se di interesse pubblico - senza danneggiare l'indagine o il processo, e dopo tutte le verifiche necessarie, avendo la certezza di quello che si scrive.
Quando dice “bussare alla porta”, viene spontanea una domanda, forse troppo personale…
Prego.
Facendo il giornalista di cronaca giudiziaria, talvolta ha la tentazione di voler essere dall'altra parte? Oppure qualche crisi d'identità...
(ride) Io sono contento di aver fatto il giornalista, a volte ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare il magistrato, però decidere della libertà delle persone, o anche chiedere di decidere sulla libertà delle persone, mi pare complicato... Ma mi sento ugualmente responsabile dell'informazione che diamo sulle persone, quindi... non è che il peso, la responsabilità di scrivere un articolo che coinvolge la vita di altri sia molto minore. Penso che sono due bei lavori, che talvolta si incrociano, ma che è bene tenere distinti perché sono lavori diversi ed entrambi necessari.
The limits to the freedom of economic initiative in EU: between (absence of) commercial planning and protection of historic Town centers. VII Euro Regione North Adriatic International Colloquium. Trieste, 19 marzo 2021. Report.
Bernardo A. Masso
The logic of the free economic initiative and competition, principles on which the European Union was founded and still followed by the European legislation, evokes the dire necessity of a thorough discussion on how the aforementioned principles should be balanced with the protection of cultural heritage, landscape and historic urban centers. On the issue inferred from this possible friction, the conference, formally hosted by the University of Trieste, held in form of a webinar on the 19th March 2021 - under the supervision of the members of the scientific committee: Prof. Andrea Crismani, Prof. Dario Đerđa, Prof. Marcello M. Fracanzani and Prof. Erik Kerševan - tried answering by collecting, in a certainly worthwhile debate, the different experiences of the administrative legal systems of the northern Adriatic region. In fact each of them presents the mutual need to weigh sheer economic interests and historical, cultural and artistic legacy conservation.
The relevance and the frequency of the issue in the different legal systems, all distinguished by an important historic urban heritage to be preserved, was immediately highlighted in the institutional greetings of the presidents of the administrative Courts of Ljubljana, Jasna Segan, of Rijeka, Alen Rajko, and of Trieste, Oria Settesoldi, including the former president Umberto Zuballi.
The very question at issue concerning the critical relationship between economic activities and protection of cultural heritage was stressed by the introductive speech of the President of the V section of the highest Italian administrative court, the Council of State, Giuseppe Severini.
Pres. Severini pointed out how a common European perspective gives to the closeness of the different systems a legal meaning by harmonizing their legislation and case law, especially in such cases that require a proportional balancing of public interests such as the safeguarding of economic freedom, the interest in proper urban governance through the planning of the material and functional municipal transformation and enhancement, along with the preservation of the cultural assets.
Granted that individual activities and public interest do not always collide and may even support each other, oftentimes their relationship can occur as critical, raising the decisive question of what should be the right balance between these opposing interests and which one should ultimately prevail, thus if a hierarchy can be possibly defined. In this defining balancing it should always be considered that the cultural heritage represents, as a matter of fact, the most fragile interest with an unrepeatable value for society, whereas commercial activities are subject to the inherent dynamism that demands a fast urban development.
From this perspective the issue was subject of attention since the 60’s, as it is confirmed by the Charter of Gubbio of 1960, which develops the Charter of Athens of 1933, and the Italian urban legislation of 1967 that grant special protection to the historic town centers. On one hand, it is thanks to this kind of legislation that Italy was able to display, on average, some of the best preserved historic town centers in Europe, on the other hand the country must now face the growing problem of a relevant desertification of the historic centers, which might entail a certain decay in the long run, especially in terms of “living urbanism” of the same areas, since historic areas cannot provide services to its residents in the same way as newly built neighborhoods.
Indeed the main challenge for the Italian urban system is to adjust the historical identity with the habitability of the urban centers, thus provoking a significant return of residents and supporting, at once, their commercial vocation, of which one of the main aspects is tourism. In fact giving too much space to the commercial offers for tourists would entail a fatal rebound effect on the ordinary habitability of the historic centers. It is important to stress that the administrative courts have performed a great service to avoid this risk, in cases concerning historic city centers of Rome and Florence the case law has favored the “urban decorum” over the interest in starting new private commercial activities.
In order to grant an adequate balance the legislation should take not an episodic approach but a comprehensive one, while the administrative courts should always follow the principle of proportionality taking into account the presence of a hierarchy of the aforesaid concepts, a hierarchy that stems from the unique and fragile essence of the urban historic tangible and intangible heritage.
Similar conclusions can be drawn by the report of Prof. Vera Parisio, from the University of Brescia and general secretary of AIDRU (Association Internationale de Droit de l’Urbanisme), who stressed out how the roots of a necessary, and not equal, balance can be identified in the provision of the Italian Constitution itself, namely in articles 9, which “safeguards natural landscape and the historical and artistic heritage” in the section of the fundamental principles, and 41, which grants private economic freedom in harmony with the “common good”. Provided that a hierarchy can result from the constitutional provisions, it should be considered that if a proportional and reasonable balancing of a public interest with an opposing private one can result in a quite easy outcome in favor of the public one, some care is needed in the case of balancing two public interests. The latter situation has been often matter of judgment before national administrative courts, a clear example of that is the judgment n. 3225/2020 of the Italian Council of State, which tackles the conflict between the general interest to trade and the architectural protection of historic urban heritage.
Given the special conditions of economic crisis due to the pandemic, Prof. Parisio proposes a potential new approach to this topic, which may elicit a new relationship between the duty to preserve the cultural urban heritage and the need to develop commercial activities, a relationship based on synergy rather than conflict and, on this wise, promoting economic activities through the protection of architectural heritage. This may be accomplished thorough different tools already used in the environmental law field, such as taxation and incentives.
In a European perspective Prof. Ana Pošćić, University of Rijeka, has pointed out that the collision between the protection of historic city centers and the economic freedom does not necessarily violate the EU law, which actually accommodates national interests in the protection of historical and artistic heritage by recognizing specific justifications for possible limitations on the freedom to provide services. Nevertheless this balancing may be not so easy and the administrative Croatian case law provides an example: in 2019 the city of Dubrovnik became the first Croatian city to regulate the installation of ATM cash machines in the historic city center (which constitutes a UNESCO heritage site). This regulation entailed the removal of some cash machines and a precise list of esthetic requirements for the ones to be installed. The High Administrative Court of the Republic of Croatia has ruled not to postpone the execution of the municipal regulation, highlighting that the protection of the individual economic interest cannot take precedence over the cultural common good.
In a wider context such a barrier may be considered an obstacle to the freedom to provide services, as granted by the broad definition of “service” given by art. 57 of the Treaty on European Union. However, according to the EU law, restrictions on the freedom to provide services may be justified, among others, for overriding reasons such as the protection of social and artistic heritage. This is clearly stated by the European Court of Justice in the series of cases during late 80’s and 90’s concerning Italy, France, Greece and Spain whose regulations required tourist guides from other countries to possess a specific license that proved their qualification in order to protect the image of the historical and cultural heritage other than the service recipients. The Court confirmed that those grounds could constitute overriding reasons to limit the freedom to provide services, though in those cases the regulations failed to pass the proportionality test since the measure of a license requirement exceeded what was necessary to safeguard those public interests, hence integrating an overly restrictive and disproportionate measure of the market freedom.
In fact, being subject of a relevant liberalization due to the Bolkestein directive, the freedom to provide services entails more difficulties than the other single market freedoms to harmonize the national regulations with the EU law. An accurate, and precious due to its importance in the topic under discussion, analysis of the Internal Market Directive 2006/123/EC was given by Ass. Prof. Adrijana Martinović, University of Rijeka. As a directive, this legislative act is designed to harmonize the legislations of the member states, in particular the Bokestein directive was adopted on a double legal basis, namely the freedom to provide services and the tightly intertwined freedom of establishment.
The Directive lead to a relevant transformation of the regulatory regimes of the member states: it specifically demands administrative simplification and cooperation for the service providers willing to establish into another member state, whereas for the service providers without establishment the Directive allows the host member state to keep certain requirements provided that they are justified, not discriminatory, necessary and proportionate. This resulted into an abandoning of the country of origin principle, according to which it is only the country of origin that has the obligation to exercise control over service providers having their seats in the home territory, inasmuch as another member state must not interfere in the process recognizing the legitimacy of the services.
On a closer scrutiny of the regulation for the establishment of service providers, member states may impose certain barriers to the freedom to provide service only for overriding reasons related to public interest and provided that they comply with the test of proportionality. The Directive envisages innovative tools such as a peer review of the national legislations in which each member State is able to assess possible justifications and the proportionality of their regulation on requirements for service providers.
Granted the legal definition of “requirement” given by art. 4 par. 7 (“any obligation, prohibition, condition or limit provided for in the laws, regulations or administrative provisions of the Member States or in consequence of case-law, administrative practice, the rules of professional bodies, or the collective rules of professional associations or other professional organizations, adopted in the exercise of their legal autonomy”), a list of “suspicious requirements” that needs to be evaluated as to their compatibility with the Directive is included in art. 15. According to the Court of Justice, this provision has direct effects on the legal system of the member states, since it imposes a sufficient precise and unconditional obligation on the member States.
These requirements must correspond with overriding reasons related to public interest that may in fact justify restrictions. Those are indicated in art. 4 par. 8, and they include “the conservation of the national historic and artistic heritage”. It is important to highlight that the discipline of articles 14 (which indicates prohibited requirements in any case), 15 and 9 (which regulate the possibility for a member state to make access to a service activity subject to an authorization scheme) applies also to purely internal situations concerning national service providers, since it is part of Chapter III of the Directive which establishes a regulatory regime for all service providers. For the sake of completeness, it is crucial to note that zoning and urban regulation can easily be subject to the scrutiny of the Court of Justice on the account of the Service Directive. This is proved by the Visser case, a leading case concerning municipal zoning rules and retail activities considered to be included in the discipline of the Directive.
Therefore it is possible to affirm that the protection of cultural and historical urban heritage can constitute an overriding reason to set barriers to economic activities not only according to the Treaties, but also under the Directive 2006/123/EC, even though some critical aspects may arise by the different discipline concerning transnational service providers.
From an Italian perspective Prof. Anna Simonati, University of Trento, pointed out a “double soul” of the Italian statutes in the friction between economic activities and historical protection: indeed the Italian legislation seems on one hand to prohibit any activity incompatible with the protection of the cultural value of the historic city centers, on the other hand some commercial activities deemed as traditional are subject themselves of a special preservation. The relevant liberalization carried out by the law decree n. 1/2012 includes possible, and proportional, limits on economic activities if based on a public interest, besides the legislative decree n. 114/1998 provides the possibility for the Regions to issue general guidelines for commercial activities in such wise.
Art. 52 of the Code of the Cultural and Landscape Heritage also gives the possibility to identify specific municipal areas deemed to have archaeological, historical, artistic, or landscape value, where commercial activities can be limited. It is a matter of interest to point out that after a later amendment, the legal provision also grants the possibility to take positive measures to preserve traditional activities that are entwined with the cultural identity of the area, hence proving a special attention also for the immaterial value of cultural identity. This is one of the many examples in the Italian legislation that show the aforementioned “double approach”: protection through prohibition on one hand, positive measures on the other. It is not farfetched to notice this attention to the immaterial value of the cultural heritage in the administrative case law, especially in the decisions concerning the renewal of licenses for certain economic activities rooted in a specific municipal area.
It is crucial to face some critical points of the Italian statutes, like the absence of a legal definition of “historic urban center”: in fact a significant complexity may arise by the different definitions given by soft law acts (such as the Charter of Gubbio), by the civil and administrative case law, administrative acts and Regional sources, which, moreover, have to cope with divergent issues concerning historic urban centers, such as desertification or gentrification.
The Italian overview was completed by the presentation of President Marco Lipari, Council of State, focusing on the Italian administrative case law which reveals the need for a reasonable balance between the protection of the cultural value and the economic freedom. These principles can be inferred from European sources such as the Court of Justice case law, the European Landscape Convention (or Florence Convention) and especially the Convention on the Value of Cultural Heritage for Society (or the Faro Convention), both of them Council of Europe treaties. These documents preserve cultural and historical identity as part of fundamental human rights, in particular in the context of the individual right to freely take part into the cultural life of the community. Notably the Faro Convention provides a broader understanding of cultural heritage in the relationship with the communities.
It is of the utmost utility to analyze the Italian case law citing some of the most relevant judicial examples on the topic, since, in the Italian experience, the relationship between economic activities and public interest causes a vast litigation. A relevant case is the one concerning the renewal of the concessions of some municipality buildings in the notorious Milan gallery. The decision of the Milan municipality to hold a public tender, supported by an opinion of the National Anticorruption Authority (ANAC), in order to grant the maximal economic competition was later canceled by the Administrative Regional Tribunal of Lombardy and confirmed by the Council of State with the judgment n. 5157 of the 3rd September 2018.
This decision identifies an accurate limit on the principle of economic competition deriving from the system, even in the absence of a specific written rule and recognizes the prevalence of the cultural value. The same decision also considers the limit on private economic initiative for cultural interest with a particular broad definition that includes the individual protection of outgoing operators, but also the public interest related to the destination of the assets. According to the judgment the cultural and historical value must be deemed as a utility itself, regardless any economic considerations.
The decision resumes a principle expressed by the EU Court of Justice with the decision of the 24th March 2011 C-400/08, according to which public administrations are allowed to regulate economic activities even trough authorizations, namely preventive control of the activities.
It is not easy, especially in Italy, to balance the economic vocation of historic urban areas, particularly concerning tourism, with the protection of the historic heritage. Specific legislative measures are necessary in order to weigh the different interests at stake in different economic sectors, especially to avoid the loss of historical identity in those areas that also comprise traditional activities. In fact specific and traditional activities have been defined as “cultural assets” by the administrative case law and by Regional statutes too.
Other cases confirmed the legitimacy of measures that limited economic freedom on account of a prevailing public interest stemming from the conservation of “urban decorum”. This approach may also be noted into certain legislative acts like the legislative decree n. 222 of 2016, which granting a considerable liberalization of the economic activities enlists some cases related to the historic value of some areas worthy of a special protection, without this resulting into a crystallization of the commercial activities. This kind of regulation indeed may also be found in other European metropolitan urban centers such as Paris or London.
The discussion was enhanced by the perspective from another EU member State, Slovenia, thanks to the presentation of Cons. Borut Smrdel, judge of the Administrative Court of the Republic of Slovenia. As to the answer to the question whether economic freedom may be limited on the grounds of public interests, and especially the concern to protect historic town centers, specific administrative case law in Slovenia is actually missing. Nevertheless, in an inevitable theoretical approach, it is worth mentioning the Slovenian legal regime for the land planning and the protection of cultural heritage.
The main law regulating land planning in Slovenia is the “Spatial planning act”, according to which the State is responsible for preparing the state spatial plan, whereas the municipalities keep the competence to regulate the municipal and inter-municipal plans. This legislative act stresses the importance to take into consideration the “identity of the space” due to specific geographical, cultural-historical, social, economic and other conditions of development.
Specific provisions in the Slovene legal system are also included in the “Cultural Heritage Protection Act” which covers registered heritage, national treasures, monuments, heritage sites and archaeological remains. Monuments of national importance are declared as such by government decrees, while monuments of local importance are subject to an act of proclamation that consists in a decree of the representative body of the province or the municipality and comprises the reasons justifying the proclamation and the specific protection regime. Any intervention on monuments or heritage sites must obtain a “cultural protection consent” from the body responsible for the preservation of cultural heritage, unless it is urgent, immediately necessary to avoid an unforeseeable danger or damage.
The presentation proceeded with the analysis of the specific spatial planning of Ljubljana, whose goal is to preserve, protect and restore the historic city, especially the areas of cultural monuments and other cultural heritage. It should be considered that the city’s regulation permits interventions in space and spatial arrangements if they contribute to the permanent preservation of heritage and increase its value. The provisions define “interventions” as any works, activities and actions that affect the protected values due to which a building or an area acquired the special protection status. These regulations result in some requirements in the dimension, the materials, the construction design and the appearance of the protected assets. The city of Ljubljana has also identified certain areas as “characteristic” - namely areas distinguished by rich cultural heritage as well as areas of particular urban-architectural quality recognized by planning instruments - that are worthy of a special protection, and so granting, as a matter of fact, different levels of preservation to cultural assets.
According to this legislation, it is reasonable to believe that limitations on economic activities would occur if they affected specific historic areas. Public calls for tenders concerning the lease of public areas for economic activities often comprise specific criteria in order to favor participants that prove to better preserve the tradition and the cultural identity of the area.
The presentation of Cons. Hrvoje Miladin, Judge of the Administrative Court in Zagreb and long-term exchange participant at the European Court of Justice, focused on the European overview of the issue, specifically the ECJ’s practice regarding the application of the Service Directive, hence the landmark decision of 30th January 2018 regarding the Visser case (joined cases C-360/15 and C-31/16), which deals with fundamental questions regarding the scope of the directive 2006/123 and the interpretation of the concept “services”.
The judicial question regarding the interpretation of the Service Directive was referred to the European Court by the Dutch Council of State, the highest administrative court in Netherlands. Visser is a company that owns commercial premises in the commercial area of Woonplein, outside the historic center of the municipality of Appingedam (north-east Netherland). According to the zoning plan of the municipality, Woonplein was designated as an area for the exclusive retail trade in bulky goods, such as furniture and cars. The zoning plan did not allow Visser to let its commercial property to a shoe and clothing retailer, since this retailer did not sell bulky goods.
Visser disputed that, in regulating so, the municipality plan breached the Service Directive violating the principle of freedom of establishment. The Council of State of Netherlands referred questions of interpretation of the Directive to the ECJ for a preliminary ruling. To the question whether a shoe and clothing retail may be qualified as a “service” within the meaning of the Directive, the European court replied that the activity of retail trade in goods such as shoes and clothing falls within the scope of the concept of “service” within the meaning of art. 4 of that Directive, since the rules of the zoning plan regard not the goods as such, but concern the conditions governing the access to the service activities. The decision has also answered to other important interpretative questions: the European judges stated that protection of the urban environment can be considered an overriding reason of public interest that may justify restrictions on commercial activities and, moreover, that the Directive also applies to merely domestic situations in which service providers are willing to establish in their own country. Cons. Miladin has underlined the practical meaning of such a statement, it is in fact reasonable to think that this could lead more service providers to challenge local regulations in purely internal situations. The conclusion of the ECJ were widely supported by the opinion of the Advocate General.
Cons. Miladin proceeded focusing on Croatian legislation that includes specific statutes like the “Act on the Protection and Preservation of Cultural Goods”, which similarly to the abovementioned legislation, regulates the intervention on historic assets and is intently implemented by the administrative national courts.
The conference was concluded by the presentation of Prof. Erik Kerševan, University of Ljubljana and judge of the Slovenian Supreme Court, who has stressed the complexity of the protection of heritage pursued by different levels of regulation, national and European, in the constant weighing of conflicting values and interests. The main question whether it should be the legislation or the administration to resolve these balancing issues remains open.
In this context, it is duty of the administration to identify problems - that is in other terms to identify values - hence define policies, which is of the utmost importance in case of conflicting interests. These decisions are shaped into normative acts, from European legislation to municipal regulation, that set abstract rules with a wide margin of discretion for the legislator. The following administrative acts do not deal with policies, but instead they rule certain specific cases and they are legally bound acts. To determine if a decision that grants protection to cultural and historic heritage is a legislative or an administrative act entails important consequences, for instance the jurisdiction of administrative courts.
This was the issue arisen in the Slovenian legal system and resolved by the Constitutional Court in 2012 (U-I-144/12, 18th October 2012), which affirmed the nature of administrative decision rather than a normative act of the declaration of a national monument that recognizes a special protection as heritage. As such this kind of declarations should be adjudicated by administrative courts.
It remains to be asked what the role of administrative justice is then. In this delicate area, where interests and values collide, the judges are facing an enormous task, indeed if the questions of protection of heritage are dealt with administrative acts, and not normative ones, there arises the need to rule on their validity and, in order to do so, it is necessary to go into the core not only of the legislation but into the very core of values. In this way a priority of values and interests is set, however, in the opinion of Prof. Kerševan, these kind of conflicts should be resolved by the policy makers, not by the administration nor by the judges.
It is also unanswered the question whether there should be an absolute discretion left to the administration concerning the decision to protect something as heritage stemming from the highly technicality of the decision, which falls outside the scope of the judicial review, or it should rather be considered a legal reasoning that a judge could examine in detail.
These questions, which regard vital sectors and values of the European legal systems, prove that the topic constitutes still an open issue and deserves to be studied in order to fully determine what direction the European member states are willing to pursue in order to preserve their historical identity and not hinder economic growth.
Il punto sulla disciplina dell’obbligo vaccinale nel rapporto di lavoro
Considerazioni all’indomani della conversione del decreto legge 44/2021
di Marcello Basilico
La conversione del decreto legge 44/2021 avvenuta con la legge 28 maggio 2021, n. 76, ha apportato poche modifiche alla disciplina dell’obbligo vaccinale e, tra queste, una sola di caratura essenziale. Restano aperti perciò non pochi interrogativi sollevati dal congegno normativo. Alcuni di questi interferiscono col piano applicativo, Altri sono di sistema e rendono dubbia l’utilità stessa dell’introduzione dell’obbligo di fronte alle perduranti incertezze.
Sommario: 1. La conversione del d.l. 44/2021 - 2. L’identificazione dei soggetti obbligati - 3. Gli effetti della violazione dell’obbligo vaccinale sul rapporto di lavoro - 4. La sospensione dal servizio per effetto del rifiuto - 5. L’asserita neutralità disciplinare dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale - 6. I lavoratori espressamente esentati. - 7. Gli effetti dell’art. 4 sullo spettro degli obblighi datoriali di sicurezza - 8. La posizione dei lavoratori non ricompresi nelle categorie dei soggetti obbligati.
1. La conversione del d.l. 44/2021
La conversione del d.l. 44/2021 ad opera della legge 28 maggio 2021, n. 76 [[1]] è l’occasione per fare il punto sul dibattito sorto alla vigilia e sviluppatosi durante i due mesi di vigenza dell’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del decreto legge. E’ un dibattito che evidentemente non ha avuto la stessa fortuna di quello antecedente alla norma, il quale aveva sortito la scelta d’intervenire nella materia con disposizioni cogenti di fonte primaria.
Il legislatore si è appagato della disciplina introdotta in via d’urgenza, quasi insensibile alle molteplici sollecitazioni venute nelle settimane scorse affinché se ne rivedessero alcuni passaggi.
Le novità apportate in sede parlamentare al testo governativo sono infatti poche e prevalentemente di carattere formale, alcune addirittura schiettamente grammaticali. Sono correzioni che dimostrano, una volta di più, la precipitazione con cui si era provveduto alla stesura originaria, nella convinzione che l’intervento precettivo potesse avere un ruolo determinante nella corsa contro il tempo della campagna vaccinale.
Le integrazioni di portata sostanziale venute della conversione sono due. La prima concerne l’identificazione dei destinatari dell’obbligo vaccinale, in particolare la controversa categoria degli “operatori di interesse sanitario”. Sarà bene trattarne a parte.
La seconda novità è data dalla soppressione del termine “differimento” nel quinto comma dell’art. 4, a proposito dei contenuti possibili della documentazione che l’ASL può richiedere ai soggetti che le risultino non vaccinati. Il termine è parte dell’endiadi contenuta nel secondo comma, relativo ai casi d’insussistenza dell’obbligo per accertato pericolo per la salute (casi nei quali la vaccinazione può dunque essere, appunto, “omessa o differita”).
Si è ritenuto quindi irrilevante per l’autorità sanitaria la conoscenza in tali ipotesi dell’eventuale dilazione della somministrazione, essendo di per sé decisiva – nell’economia della campagna e dei profili organizzativi che derivano dal suo stato di avanzamento – la notizia che il soggetto sia esentato dal vincolo.
Di fronte ad una correzione tanto minuta ci si può rammaricare del fatto che il legislatore non abbia prestato uguale attenzione nel colmare la lacuna, da più parti segnalata [[2]], della mancata previsione della segnalazione a ordini professionali e datori di lavoro, a opera dell’ASL, dei soggetti dispensati dall’obbligo vaccinale, in parallelismo con quanto invece prescritto dal sesto comma dell’art. 4 per i soggetti inadempienti.
Per gli uni non meno che per gli altri la mancata sottoposizione alla vaccinazione comporta l’adozione di misure specifiche: i commi decimo e undicesimo dell’art. 4 enunciano quelle dovute per, rispettivamente, i lavoratori o i professionisti che siano risultati esentati. L’omessa prescrizione della comunicazione è quindi frutto d’un difetto di coordinamento nella disciplina dei percorsi procedimentali per le due categorie, difetto risolvibile mutando la previsione del sesto comma.
È inevitabile quindi che l’ASL debba comunicare a datori di lavoro e ordini professionali anche i nominativi degli esentati. Questa soluzione non è priva di significato in un quadro reso delicato dalle questioni di tutela della riservatezza che investono non solo l’identità di chi abbia avuto o meno la somministrazione del vaccino, ma prima ancora le condizioni cliniche della persona dispensata per ciò dal relativo obbligo.
2. L’identificazione dei soggetti obbligati
Il primo comma dell’art. 4 d.l. 44/2021 obbliga a vaccinarsi “gli esercenti le professioni sanitarie” e “gli operatori di interesse sanitario”. L’identificazione delle due categorie è precisata da un criterio oggettivo-geografico, costituito dallo svolgimento delle rispettive attività “nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali”. Non sembrano esservi dubbi sul fatto che questa locuzione sia riferibile a entrambe le categorie, dunque anche agli esercenti le professioni sanitarie, poiché, in caso contrario, si registrerebbe l’imposizione dell’obbligo anche in assenza delle finalità, enunciate nella premessa del precetto legislativo, di tutela della salute pubblica e del mantenimento delle adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Gli esercenti le professioni sanitarie coincidono con gli iscritti agli albi professionali previsti dall’art. 4, primo comma, della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (si tratta di medici-chirurghi; odontoiatri; veterinari; farmacisti; biologi; fisici; chimici; esercenti le professioni infermieristiche e di ostetrica; tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione).
Più complicata è sin da subito risultata l’operazione d’individuazione degli operatori di interesse sanitario. La legge di conversione si è data carico di sanare questa incertezza interpretativa, inserendo la locuzione “di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43”.
Quest’ultima è la disposizione che affida alle Regioni l’individuazione (e la formazione) dei profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitare definite dal primo comma dello stesso art. 1 l. 43/2006. Tale norma regolamenta le professioni sanitarie infermieristiche, di ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2000, n. 251, e del decreto del Ministro della sanità 29 marzo 2001, i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione. In forza del richiamo al DM 29.3.2001, rientrano tra gli esercenti le professioni sanitarie dell’art. 1 l. 43/2006 anche: podologi; fisioterapisti; logopedisti; ortottisti - assistenti di oftalmologia; terapisti della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva; tecnici della riabilitazione psichiatrica; terapisti occupazionali; educatori professionali; tecnico audiometrista; tecnici sanitari di laboratorio biomedico; tecnici sanitari di radiologia medica; tecnici di neurofisiopatologia; tecnici ortopedici; tecnici audioprotesisti; tecnici della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare; igienisti dentali; dietisti; tecnici della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro; nonché assistenti sanitari.
La modifica così apportata in sede di conversione conferma da un lato l’intento legislativo di richiedere una lettura formale delle categorie destinatarie dell’obbligo vaccinale, nel rispetto della riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, Cost. e del carattere di stretta interpretazione delle disposizioni che deroghino al principio dell’autodeterminazione dell’individuo nella sottoposizione a trattamenti sanitari [[3]].
D’altra parte però, il rinvio normativo non sembra perspicuo. Il primo comma dell’art. 1 l. 43/2006 identifica con precisione molti “operatori di professioni sanitarie” che non potevano probabilmente dirsi ricompresi nella formulazione originaria dell’art. 4, primo comma, d.l. 44/2021. Il rinvio rivolto invece al secondo comma – dunque alla competenza regionale di individuare operatori d’interesse sanitario diversi da quelli definiti come “operatori di professioni sanitarie” – dà campo alle incertezze sull’estensione effettiva della platea dei destinatari dell’obbligo.
Per di più l’allargamento eventuale risulta rimesso alla legislazione regionale, col rischio di andare a collidere con l’esigenza di uniformità della disciplina vaccinale sul territorio nazionale, che è connaturata alla garanzia del diritto della persona di essere curata efficacemente in condizioni di eguaglianza in tutto il Paese [[4]].
Pur nella sua approssimazione, la novità legislativa ha almeno un chiaro effetto indiretto, poiché rende insostenibile la tesi che avrebbe voluto identificare gli “operatori di interesse sanitario” sulla base di un’interpretazione teleologica o comunque basata su criteri esterni alla locuzione normativa, come quello riferito al rischio ambientale [[5]]. Muovendo dalla finalità di tutela della salute pubblica proclamata dal legislatore, si era ricercata una lettura di quella locuzione che valorizzasse il luogo della prestazione e i contatti interpersonali indotti, piuttosto che la categoria professionale di appartenenza, così da comprendere tra i soggetti obbligati figure come l’addetto alla mensa o alle pulizie in una struttura ospedaliera.
Questa tesi, mirando alla massima efficacia dell’obbligo vaccinale, rischiava di espandere oltremisura la nozione di operatori di interesse sanitario. Essa non trova certamente spazio nel nuovo dettato normativo, così come integrato dal rinvio a un fonte di diritto positivo.
Rimane il problema del mancato coinvolgimento di ampie fasce di lavoratori che certamente non possono annoverarsi tra le categorie di soggetti obbligati e che pur tuttavia svolgono, talvolta non meno di questi, le loro attività nelle strutture alla cui sicurezza mira l’imposizione dell’obbligo vaccinale.
3. Gli effetti della violazione dell’obbligo vaccinale sul rapporto di lavoro
In coerenza con gli obiettivi esposti in premessa, l’art. 4 rende l’autorità sanitaria (Regione e ASL) depositaria del “requisito essenziale” per l’esercizio del diritto allo svolgimento delle prestazioni di lavoro negli ambienti elencati, requisito rappresentato dall’assolvimento dell’obbligo vaccinale.
L’atto di accertamento (art. 4, sesto comma) della sua inosservanza comporta la sospensione di quel diritto. Viene così a configurarsi una situazione di factum principis ostativa all’attività del singolo lavoratore che, per espressa disposizione di legge, non esonera il datore di lavoro dalla prova dell’impossibilità di adibire il dipendente a mansioni diverse.
Il meccanismo previsto dall’ottavo comma dell’art. 4 – attribuzione, ove possibile, di mansioni anche inferiori e sospensione dal servizio come extrema ratio – deroga quindi alle regole generali introdotte per via giurisprudenziale, che riconducono le fattispecie analoghe all’impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.) [[6]]. Anche quando l’impossibilità sia solo parziale (art. 1464 c.c.), il datore di lavoro è ammesso a provare di non avere più interesse apprezzabile all’adempimento, dunque alla prosecuzione del rapporto lavorativo, in assenza del titolo abilitativo, perché il suo venire meno configuri un giustificato motivo oggettivo di licenziamento [[7]].
Di fronte alla violazione dell’obbligo vaccinale il datore di lavoro ha invece un margine di discrezionalità analogo – nella sottolineatura dell’inciso “ove possibile” – a quello riconosciuto dalle norme che gli affidano il delicato bilanciamento tra diritto alla salute (nell’accezione individuale) e diritto dell’imprenditore ad auto organizzarsi. Si pensi ai casi regolati dagli artt. 33, quinto comma, l. 104/92 o 42 d. lgs. 81/2008.
La perdita del requisito previsto dall’art. 4 d.l. 44/2021 configura quindi, per i soggetti obbligati, un’inidoneità parziale e temporanea (stante il termine di scadenza del vincolo) alla prestazione lavorativa.
Lo spazio dell’eventuale controllo giudiziale sulla scelta datoriale, qualora il lavoratore contesti l’esistenza inesplorata d’una possibilità di sua assegnazione a diverse mansioni, è limitato alla ragionevolezza della soluzione, che è altrimenti insindacabile [[8]]. Nell’impiego pubblico la verifica sarà facilitata dall’esistenza della pianta organica, che consente una vaglio immediato sull’esistenza o meno di posizioni disponibili; nel lavoro privato lo spazio per un’utile ricollocazione andrà ricercato secondo un criterio di compatibilità con l’organizzazione che l’imprenditore si era dato precedentemente, non potendosi di certo pretenderne la modifica in ragione del rifiuto del dipendente a sottoporsi alla vaccinazione.
È evidente che, tra le soluzioni praticabili in concreto, non può esservi quella di adibire il lavoratore refrattario ad altre mansioni che implichino comunque “contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2” (art. 4, sesto comma). Nelle strutture sanitarie o parificate di non grandi dimensioni la ricollocazione può risultare dunque assai problematica, soprattutto quando i rifiuti risultino numerosi.
È prevedibile che l’esistenza del rischio espositivo nelle diverse mansioni possa costituire una fonte di possibile contestazione. Il datore di lavoro dovrà dimostrarla per provare l’impossibilità di riposizionamento del dipendente. A questo riguardo potrebbe rivelarsi decisivo l’opportuno aggiornamento del documento aziendale di valutazione dei rischi [[9]].
4. La sospensione dal servizio per effetto del rifiuto
Nel meccanismo legislativo dell’art. 4 d. l. 44/2021 l’impossibilità di assegnazione del lavoratore a posizioni alternative, in conseguenza della sua inosservanza all’obbligo vaccinale, comporta la sospensione dal servizio, senza diritto a retribuzione o compenso di sorta (art. 4, ottavo comma).
La durata di questo provvedimento è predeterminata: “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”. Poiché suo presupposto è comunque l’impossibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, questi potrebbe rivendicare a buon diritto la cessazione anticipata della sospensione qualora nell’azienda si realizzino le condizioni per tale assegnazione.
La qualificazione della vaccinazione come requisito essenziale per la prestazione fa dubitare del fatto che essa possa costituire anche un requisito per l’assunzione e che dunque il datore di lavoro pubblico o privato sia legittimato a negare la partecipazione ad una selezione di chi ne sia sprovvisto. Il tema s’intreccia col diritto dell’aspirante alla riservatezza sul proprio stato.
È noto che, secondo il Garante della protezione dei dati personali, “non è comunque consentito al datore di lavoro raccogliere, direttamente dagli interessati, tramite il medico compente, altri professionisti sanitari o strutture sanitarie, informazioni in merito a tutti gli aspetti relativi alla vaccinazione, ivi compresa l’intenzione o meno della lavoratrice e del lavoratore di aderire alla campagna, alla avvenuta somministrazione (o meno) del vaccino e ad altri dati relativi alle condizioni di salute del lavoratore” [[10]].
La presenza di questa raccomandazione unitamente alla considerazione del carattere temporaneo della disciplina in esame, porterebbero ad escludere che l’osservanza dell’obbligo vaccinale possa configurare un requisito essenziale per l’assunzione. L’opinione non è unanime, poiché è controversa la premessa stessa sull’inesistenza del diritto del datore di lavoro di chiedere al medico competente l’accertamento sull’idoneità del lavoratore alla prestazione [[11]].
Un argomento ulteriormente spendibile per la tesi contraria alla richiesta della vaccinazione ai fini dell’assunzione viene dalla comune opinione che esclude la rilevanza disciplinare del rifiuto di sottoporvisi. L’individuazione della sospensione temporanea del rapporto come soluzione estrema ne sarebbe la dimostrazione [[12]]. E’ un convincimento che merita tuttavia un approfondimento.
5. L’asserita neutralità disciplinare dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale
Prima che l’obbligo vaccinale venisse espressamente sancito dall’art. 4 d.l. 44/2021 v’era stato chi riteneva che esso fosse desumibile per alcune categorie di lavoratori, come medici e infermieri, dal loro codice deontologico e per altre in base alla necessità di garantire la sicurezza del loro ambiente di lavoro; in entrambe le ipotesi il vincolo andrebbe ricondotto alle regole integranti gli obblighi assunti col contratto di lavoro [[13]]. In una prospettiva di massima responsabilizzazione nello scenario della pandemia, si era quindi affermato che il rifiuto del vaccino come misura di sicurezza potesse configurare non una mera inidoneità professionale, incidente sul piano oggettivo della possibilità della prestazione, ma renitenza agli obblighi di protezione posti dal contratto di lavoro, rilevante sul piano disciplinare [[14]].
A ben vedere, nel dovere di diligenza imposto al lavoratore subordinato (art. 2104 c.c.) rientrano i comportamenti accessori funzionali alla resa d’una prestazione utile [[15]]. La violazione di queste regole di condotta ha rilievo disciplinare anche quando sia idonea a produrre un pregiudizio potenziale per la strutturazione aziendale [[16]]. Rientra certamente in questa ipotesi il rifiuto del lavoratore di osservare le misure di sicurezza richieste dall’imprenditore in ragione delle particolarità dell’attività esercitata, quando tale rifiuto sia suscettibile di mettere a repentaglio non solo la responsabilità, ma anche l’assetto organizzativo datoriale.
L’art. 4 d.l. 44/2021 ha enucleato le condotte cui il datore di lavoro deve attenersi, nel caso dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale del dipendente, sul piano dell’esercizio da parte sua delle facoltà riconducibili allo jus variandi. Si tratta di effetti di quell’inosservanza posti tutti sul piano oggettivo.
Sembra difficile però sostenere che un rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla vaccinazione possa essere, soprattutto in alcune condizioni specifiche, del tutto privo di rilevanza al (diverso) livello disciplinare, tanto più una volta che il lavoratore si dimostri consapevole delle complicazioni che la propria condotta comporta per l’organizzazione datoriale.
Escludendo che tale rifiuto possa configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il legislatore ha inviato un messaggio tale da impedire di ravvisarvi la ragione per l’applicazione d’una sanzione espulsiva. Resta dubbio, però, che esso sia del tutto neutro sul piano disciplinare.
Il tema è stato sino ad oggi eluso dalla gran parte dei commentatori, dato che l’intervento legislativo ha perseguito con chiarezza l’obiettivo di raffreddare una materia politicamente e ideologicamente bollente. Ma se si muove da premesse che attengono alla natura della vaccinazione come misura di sicurezza nell’ambiente di lavoro e ai correlati doveri di osservanza in capo ai lavoratori [[17]], non si può non considerarne le conseguenze sul versante disciplinare, confidando che la riflessione resti confinata nell’ambito meramente teoretico.
6. I lavoratori espressamente esentati
Per chi, pur rientrando nelle categorie dell’art. 4, primo comma, dimostri che la vaccinazione potrebbe causare un pericolo alla suaa salute, le conseguenze della mancata somministrazione sono rappresentate dall’assegnazione di mansioni diverse (commi secondo e nono) o, nel caso del lavoratore autonomo, dall’adozione di misure di prevenzione igienico-sanitario identificate specificamente per via protocollare (commi secondo e decimo). In ogni caso egli non può subire decurtazione alcuna della retribuzione.
Questa differenza rispetto alla posizione dei lavoratori renitenti concorre a dimostrare come il rifiuto non sia neutro, sul piano degli effetti soggettivi, neppure per il legislatore. Non a caso v’è chi, nel tracciare la distinzione tra i due regimi normativi, parla per i primi di una vera e propria “colpa”, attribuendo alla sospensione prevista dal sesto comma dell’art. 4 una “natura anche sanzionatoria” [[18]].
Non rileva il fatto che la sospensione dal servizio tra le misure organizzative per i lavoratori esentati non sia espressamente prevista. Sarebbe in effetti irragionevole pretendere che il datore di lavoro sia tenuto a ricollocarli altrove in azienda anche quando le sue dimensioni o la sua organizzazione non lo consentano; d’altronde è proprio la precisazione “senza decurtazione della retribuzione” a sottintendere la possibilità che, ove non sia possibile, il lavoratore esentato venga sospeso dal servizio sino al completamento della campagna vaccinale e comunque non oltre il 31.12.2021.
È da escludere, per altro verso, che nei suoi confronti scattino gli effetti generali dell’inidoneità sopravvenuta, con facoltà per il datore di lavoro di procedere al licenziamento: in tal caso il lavoratore esentato verrebbe a subire un trattamento deteriore rispetto a quello che ha violato l’obbligo vaccinale.
Razionalità vuole, in definitiva, che l’iter per le due categorie di personale corra su binari paralleli, con la sola differenza della conservazione integrale della retribuzione di chi sia dispensato dal rispetto dell’obbligo.
7. Gli effetti dell’art. 4 sullo spettro degli obblighi datoriali di sicurezza
Prima della disciplina in esame il cosiddetto decreto liquidità emanato in piena prima fase pandemica aveva stabilito che, “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 29-bis d.l. 23/2020, conv. nella legge 40/2020).
La norma sembra circoscrivere l’adempimento dell’obbligo dell’art. 2087 c.c. all’osservanza delle prescrizioni contenute nei protocolli. Questi hanno avuto il pregio di orientare gli atteggiamenti dei datori di lavoro in un momento storico in cui la diffusione del virus avveniva con picchi e dinamiche ancora sconosciute oltre che in assenza di misure generalizzate. Oggi la situazione è mutata, sia per le superiori cognizioni scientifiche acquisite in ordine al Covid-19 sia perché disponiamo di nuovi strumenti di prevenzione, primo tra tutti il vaccino.
In base all’art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro sorge in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo [[19]].
I parametri rispetto a cui va commisurata l’adeguatezza delle misure di sicurezza sono dunque quelli della particolarità della condizione lavorativa, con riferimento ad esempio alle c.d. “misure innominate” [[20]], e delle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento [[21]]. E’ di conseguenza difficile sostenere che l’osservanza delle sole prescrizioni protocollari, tra l’altro per lo più di portata elastica, esaurisca attualmente gli obblighi imposti al datore di lavoro da una disposizione a contenuto aperto e mobile come quella dell’art. 2087.
È semmai ragionevole ritenere che l’art. 29-bis d.l. 23/2020, tuttora vigente, racchiuda un precetto minimo, il cui rispetto non esonera da responsabilità, dovendo essere integrato o, in taluni casi, addirittura disatteso, ogni volta in cui le misure dei protocolli si rivelino insufficienti o perfino contrarie alle esigenze di tutela.
Ciò detto, l’inosservanza da parte del datore di lavoro degli oneri che gli sono imposti dall’art. 4 per la vaccinazione dei propri dipendenti – ad esempio per non averli inseriti nell’elenco trasmesso alle Regioni o alle Province autonome (terzo comma) – è foriero senz’altro di responsabilità contrattuale ex art. 2087, quando abbia causato danni all’integrità psicofisica del personale. Il comportamento colposo del lavoratore assumerà rilievo ai sensi dell’art. 1227 c.c. come causa di riduzione del risarcimento dovuto, fino ad eliderlo nel caso in cui esso si concretizzi nel rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione, come misura preventiva che appare, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, più efficace.
8. La posizione dei lavoratori non ricompresi nelle categorie dei soggetti obbligati
I contenuti del dibattito corrente prima dell’entrata in vigore del d.l. 44/2021 conservano attualità con riguardo alla posizione di quanti non rientrino nelle categorie dell’art. 4, primo comma. Ora quei contenuti sono però arricchiti dalla valutazione dei possibili riflessi, indiretti e sistematici, dell’esistenza di un obbligo vaccinale, seppure a loro non riferibile.
Il fatto che la nuova normativa abbia investito l’autorità pubblica sanitaria dell’accertamento del requisito essenziale è considerazione che, se utilizzata per dimostrare l’irrilevanza della mancata vaccinazione per i lavoratori non compresi nelle categorie obbligate [[22]], prova troppo. Con l’argomento a contrario si arriverebbe infatti al punto da negare che, laddove l’obbligo manchi, le misure di sicurezza imposte dalle disposizioni più generali andrebbero disapplicate, il che è ovviamente assurdo.
Tutti i lavoratori esposti ad agenti biologici sono soggetti alla sorveglianza sanitaria del medico competente (art. 41 d. lgs. 81/2008) quando il risultato della valutazione del rischio ne rilevi la necessità; in tal caso, su parere del medico competente stesso, il datore adotta le misure protettive speciali rappresentate, tra le altre, dalla “messa a disposizione di vaccini efficaci” e dall’allontanamento temporaneo dall’azienda (art. 279, commi primo e secondo, d. lgs. 81/2008).
L’esposizione ad agenti biologici rischiosi per la salute è dunque uno dei presupposti per l’adozione delle misure individuate volta a volta dal medico competente; esse includono l’eventualità – in caso di accertata inidoneità alla mansione specifica e fermo il trattamento retributivo originario – che il lavoratore sia assegnato, ove possibile, a mansioni equivalenti o, altrimenti, a mansioni inferiori (art. 42, primo comma, d. lgs. 81/2008).
Pare di potere dire che la modulazione di tali provvedimenti sia coerente con l’assenza dell’obbligo vaccinale; chi ne è esonerato non subisce conseguenze uguali o deteriori rispetto a quelle previste dall’art. 4; la mediazione data dal parere del medico competente esclude ogni automatismo applicativo e mira a garantire l’adozione della misura più consona – in base ai criteri oggettivi della fattibilità organizzativa (art. 42) e dell’esposizione a rischio (art. 279) – al caso concreto.
Nella perdurante efficacia di queste disposizioni – cui può attribuirsi portata generale, rispetto al regime speciale introdotto dall’art. 4 d.l. 44/2021 [[23]] – v’è dunque la chiave utile a evitare che, fuori dal territorio applicativo dell’obbligo vaccinale, il rapporto di lavoro abbia esecuzione in base a dinamiche indifferenti alle esigenze di tutela della salute pubblica e interna all’ambiente di lavoro. In tal modo l’ordinamento non rimane inerte nei confronti di quella platea di operatori che agiscono nel mondo della sanità pur senza rientrare tra i soggetti obbligati in forza della disciplina uscente dalla conversione del decreto legge.
Può sembrare paradossale che un lavoratore precedentemente idoneo alla mansione diventi inidoneo per il solo fatto della fruibilità del vaccino anti Covid-19. Si tratta però d’un paradosso apparente, poiché l’adattamento dell’obbligo di sicurezza (e della conseguente misura di prevenzione del rischio) all’evoluzione della scienza e della tecnica rappresenta il proprium del contenuto aperto e mobile del precetto dell’art. 2087 c.c., sicché anche il giudizio d’idoneità varia conseguentemente col progresso degli strumenti disponibili.
Resta da chiedersi, a rifinitura di questa ricostruzione teorica, se la “messa a disposizione” della vaccinazione ai sensi dell’art. 279, secondo comma, d. lgs. 81/2008 sia fonte in capo al lavoratore di un obbligo a tutto tondo [[24]] o invece di un mero “onere” che, in difetto d’un vincolo quale quello ex art. 4 d.l. 44/2021, lo lascia comunque libero di non vaccinarsi [[25]].
La prima soluzione risulta più coerente col disposto dell’art. 20, lett. b, d. lgs. 81/2008, che impone al dipendente l’osservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro ai fini della protezione collettiva e individuale. La seconda supererebbe però gli eventuali problemi di compatibilità di un obbligo vaccinale “mediato” dal giudizio medicale con la riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione.
Nell’uno come nell’altro caso restano spazi significativi di sindacabilità della scelta datoriale soprattutto in due momenti: la valutazione del rischio e il parere del medico competente. Quest’ultimo viene a essere così fortemente responsabilizzato in un quadro scientifico che al momento può dirsi tutt’altro che assestato.
[1] La legge di conversione è pubblicata in G.U. n. 128 del 31.5.2021.
[2] F. SCARPELLI, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 3 aprile 2021; M. MOCELLA, Vaccini e diritti costituzionali: una prospettiva europea, in diritti fondamentali.it, 2021, 2, 69.
[3] Si vedano in tal senso le annotazioni di P. PASCUCCI e C. LAZZARI, Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n. 44, in DSL, 2021, 1, 153-156.
[4] Corte cost., 18 gennaio 2015, n. 5.
[5] Cfr. R. RIVERSO, Note in tema di individuazione dei soggetti obbligati ai vaccini a seguito del decreto-legge n. 44/2021, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 12 aprile 2021.
[6] Cass., sez. lav., 30 maggio 2018, n. 13662, secondo cui il ritiro del tesserino per l’accesso all’area aeroportuale giustifica il licenziamento dell’operatore di settore.
[7] Cass., sez. lav., 11 novembre 2019, n. 29104, in merito alla licenziabilità della guardia privata giurata cui sia stata revocata la licenza di porto d’arma.
[8] Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755.
[9] In tal senso già F. SCARPELLI, cit., 6.
[10] Documento d’indirizzo del Garante per la protezione dei dati personali, denominato “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”, 13 maggio 2021.
[11] Tra questi L. DE ANGELIS, Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro, in Dibattito istantaneo su vaccini anti-Covid e rapporto di lavoro, promosso da O. Mazzotta, in www.rivistalabor.it, 17 febbraio 2021; P. ICHINO, Se la privacy (male intesa) gioca a favore del virus, in Corriere della Sera – Economia, 24 gennaio 2021; si veda anche Trib. Messina, ord. 12 dicembre 2020, in www.lavorosi.it, e il suo commento da parte di L. TASCHINI, Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del giudice del lavoro di Messina, in questa rivista, 16 febbraio 2021.
[12] Cfr. ancora F. SCARPELLI, cit., 7. Di opinione opposta è C. PISANI, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 7 aprile 2021.
[13] L. ZOPPOLI, in Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di M. Basilico in questa rivista, 22 gennaio 2021.
[14] R. RIVERSO, in Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato, cit.; L. DE ANGELIS, Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro, cit.; in posizione intermedia (per la quale il rifiuto ingiustificato può configurare inadempimento contrattuale, non di gravità tale però da legittimare il licenziamento) V.A. POSO, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale? Intervista di M. Basilico in questa rivista, 30 marzo 2021.
[15] Cass., sez. lav., 26 settembre 1995, n. 10187.
[16] Cass., sez. lav., 16 settembre 2002, n. 13536.
[17] In questo senso cfr. anche R. DE LUCA TAMAJO, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale?, cit; nonché A. DE MATTEIS, Prime notazioni sul d.l. 1° aprile 2021, n. 44 sull’obbligo di vaccino del personale sanitario, in www.il giuslavorista.it, 6 aprile 2021.
[18] C. PISANI, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione, cit..
[19] Cass., sez. lav., 15 luglio 2020, n. 15112.
[20] Cass., sez. lav., 18 novembre 2019, n. 29879.
[21] Cass., sez. lav., ord. 8 ottobre 2018, n. 24742.
[22] Così F. SCARPELLI, cit., 7-8.
[23] Di rapporto di genus a species parlano espressamente P. PASCUCCI e C. LAZZARI, cit., 157 segg. .
[24] E’ di questa opinione A. DE MATTEIS, cit. .
[25] Quest’ultima è la tesi di C. PISANI, cit., 10, che menziona allo scopo Corte cost., 6 giugno 2019, n. 137.
Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione
di Raffaele Frasca
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e le sue ricadute. - 2.1. L’esposizione dei fatti. - 2.2. L’esposizione dei motivi. - 3. L’epifania formale della c.d. autosufficienza. - 4. La soppressione della Sesta Sezione Civile. - 5. Il criterio di delega di cui alla lettera e). - 6. Il c.d. procedimento accelerato di definizione dei ricorsi. - 7. Il proposto restyling dell’art. 377, dell’art. 378, dell’art. 379 e dell’art. 391-bis c.p.c. - 8. La novità del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.
1. Premessa.
L’intento con cui mi ero accinto a questo scritto era quello di commentare un testo che era apparso come possibile “emendamento governativo” alla legge delega di riforma del processo civile (d.d.l. n. 1662/S/XVIII) nella parte in cui conteneva un art. 6-bis riguardante la Corte di Cassazione.
Senonché, il 24 maggio scorso, la Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, ha presentato al Ministro della Giustizia, un testo recante “Proposte normative e note illustrative”, nel quale l’art. 6-bis ha un contenuto recante previsioni di criteri di delega ulteriori rispetto a quelli che figuravano nel testo precedente su cui avevo iniziato a svolgere le mie considerazioni (e, in un caso, a proposito del c.d. procedimento camerale accelerato, un testo che non reca una previsione che appariva invece nel testo originariamente comparso) ed inoltre vede trasferita in un diverso articolo, l’art. 6-quater, una parte del contenuto. Tale testo è comparso ed è divenuto disponibile, per quanto mi consta, la mattina del 27 maggio. Il testo reca anche la proposta di un articolato recante modifiche al codice di procedure civile quali le si sono immaginate in attuazione dei criteri di delega.
La novità del giorno 27 mi ha costretto ad una riconversione di quanto avevo in corso d’opera.
Il documento della Commissione, peraltro, per la Corte di Cassazione reca anche contenuti che concernono la costituzione di uffici per il giudice presso la Corte e la Procura Generale, un art. 6-ter che concerne modifiche all’ordinamento giudiziario quanto ai magistrati del Massimario e un art. 6-quinquies che propone un restyling dell’art. 37 che fotografi lo stato della giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla norma quanto al potere di rilevazione di parte e del giudice.
Di tali contenuti non mi occuperò se non indirettamente ed in modo limitato. Mi concentrerò sugli artt. 6-bis e 6-quater e nell’esporre le mie considerazioni procederò seguendo l’ordine dei criteri di delega e, quindi, esaminando, quando necessario, come si prevedrebbe di attuarli nell’articolato che accompagna la relazione.
Le considerazioni che verrò svolgendo risulteranno indirettamente farsi carico delle opinioni recentemente espresse qualche giorno fa dai Professori Bruno Capponi e Andrea Panzarola proprio su questa rivista.
2. Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e le sue ricadute.
Nell’art. 6-bis si indica nella lettera a) come primo principio e criterio direttivo quello della introduzione del “principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte” e se ne offrono due specificazioni con i nn. 1 e 2.
Nel n. 1 si prevede che “le parti redigano il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato>>.
L’attuazione del principio viene poi programmata proponendo l’inserimento di un art. 133-ter nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, con il seguente tenore: “ Al fine del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza di cui all’articolo 366 c.p.c., le parti redigono il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato”
Dunque, si prevede una sorta di “potere regolamentare” del Primo Presidente, con onere di consultazione preventiva dei soggetti indicati. I contenuti di tale attività riecheggeranno verosimilmente quelli del Protocollo del 17 dicembre 2015 tuttora vigente, concluso fra il Primo Presidente e il Consiglio Nazionale Forense. La previsione dell’art. 133-ter ha, peraltro, una struttura singolare, in quanto l’esercizio del potere si dice finalizzato ad assicurare “il fine del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza di cui all’art. 366 c.p.c.” ed il termine di riferimento soggettivo del “rispetto” sono le parti: dunque, la lettura della futura norma parrebbe evidenziare l’imposizione di un obbligo alle parti in ordine alla redazione del ricorso che si dice finalizzato al rispetto di qualcosa che emerge dalla norma codicistica dell’art. 366.
Per apprezzare il significato della proposta innovativa è necessario considerare che al criterio di delega di cui al citato n. 1 segue quello di cui al n. 2, secondo il quale, sempre ai fini dell’introduzione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte, si dispone che l’attuazione della delega preveda che “il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione>>.
La proposta di norma di delegazione, dunque, prevede che si debba intervenire sul requisito dell’esposizione e su quello dei motivi.
Puntualmente, l’articolato immagina allora un intervento sui numeri 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.
Ne deriva che, conforme alla funzione della norma dell’art. 366, le proposte innovazioni incideranno sui c.d. requisiti di contenuto-forma del ricorso per cassazione, che l’art. 366 appunto disciplina.
2.1. L’esposizione dei fatti.
La proposta riguardante il n. 3 di tale norma si risolve in una riscrittura del suo n. 3 con la sostituzione alla prescrizione della “esposizione sommaria” di quella della “chiara ed essenziale esposizione”, che riprende il criterio di delega. L’introduzione dei requisiti di chiarezza ed essenzialità al posto della “esposizione sommaria” a mio avviso non rappresenta una novità sostanziale, perché sia la chiarezza sia l’essenzialità sono caratteri che la giurisprudenza della Corte di Cassazione rinviene connaturali all’adempimento del requisito della sommaria esposizione. L’esigenza di chiarezza, una volta correlato il requisito dell’esposizione sommaria ai fatti di causa trova attualmente la sua necessaria epifania nella necessità, atteso il riferimento ai fatti al plurale e considerato che i fatti della causa possono essere sia processuali che sostanziali, che si evidenzino sebbene in modo sommario sia i fatti dedotti a fondamento della domanda e quelli prospettati con le difese, sia i fatti inerenti allo svolgimento processuale di primo grado, sia il tenore della decisione di primo grado, sia le ragioni dell’appello (supponendo l’appellabilità e non la ricorribilità direttamente in Cassazione) e le difese contrapposte, sia i fatti inerenti lo svolgimento processuale del giudizio di appello, sia in fine le ragioni della decisione di appello. E’ questo che si coglie nella consolidata giurisprudenza della Corte.
Semmai, è da rilevare che in essa si rinviene un orientamento che esige che una simile esposizione debba concretarsi in una parte apposita del ricorso ed altro orientamento che è disposto ad evincerla anche dall’illustrazione dei motivi, ancorché nel modello attuale dell’art. 366 c.p.c. l’esposizione sommaria sia individuata – a pena di inammissibilità – come una parte distinta dai motivi. Questa seconda opzione non è certo conforme, al di là di tale dato testuale, all’esigenza di chiarezza: un ricorso che esordisce con l’illustrazione dei motivi non soddisfa il modello della chiarezza perché induce alla loro lettura senza una previa conoscenza del fatto sostanziale e processuale e nella res sperata che di esso il o i motivi contengano la rivelazione. Rivelazione che, si badi, al di là di quanto può apparire funzionale alla stessa illustrazione del motivo, dovrebbe essere di contenuti tali da consentire di ritenere che il motivo stesso sia spendibile in sede di legittimità. L’esistenza di tali incognite nella conoscenza dell’esposizione del fatto nell’attuale vigenza del n. 3 dell’art. 366 non mi sembra che consenta di dire che un ricorso che manchi di una parte dedicata all’esposizione del fatto rispetti il requisito della chiarezza. Che poi, in mancanza dell’espressa previsione della chiarezza nel testo attuale, utilizzando il concetto normativo della idoneità al raggiungimento dello scopo - previsto per la disciplina delle nullità, ma, a mio avviso applicabile alle cause di inammissibilità purché non si debba cercare aliunde rispetto all’atto - si possa avallare l’orientamento più liberale reputando che la previsione di requisiti distinti nell’art. 366 non vi sia d’ostacolo, è idea forse condivisibile (specie in presenza di un ricorso con un solo motivo o con pochi motivi).
Ma, mi domanda, lo sarebbe nell’eventuale vigenza del testo di cui all’articolato?
Mi parrebbe di no, giacché l’espresso riferimento della chiarezza dell’esposizione dei fatti nel n. 3 dell’art. 366 c.p.c. potrebbe rafforzare la tesi che il ricorso debba avere una parte “dedicata” all’esposizione del fatto e che, in mancanza, non si debba fare ricorso alla lettura dei motivi o, comunque, considerarla sufficiente a fornirla. E’ palese che un ricorso mancante formalmente di una parte dedicata all’esposizione del fatto non possa definirsi “chiaro” e la ricerca nei motivi del fatto sostanziale e processuale, se avvenisse, avverrebbe proprio per la constatazione della mancanza di chiarezza dell’attuazione del modello normativo di ricorso ed in contraddizione questa volta patente con la lettera della legge.
Mi preme, allora, rilevare che una implicazione del nuovo testo potrà essere proprio l’esclusione della possibilità di praticare l’orientamento liberale di cui ho detto.
Tanto più in presenza di una innovazione come l’art. 133-ter se l’attività regolamentare ivi prevista prevedrà, come sarà certo ed a somiglianza del mentovato Protocollo, che il ricorso rechi una parte dedicata all’esposizione dei fatti della causa.
Pur in presenza di una innovazione, come ho detto, non sostanziale, il suo carattere formale sarebbe denso comunque di conseguenze applicative.
Corre l’obbligo di rilevare che la prescrizione del requisito di chiarezza, peraltro, la si prevede congiuntamente a quella della “essenzialità”.
Ebbene, la proposta di inserimento dell’aggettivo “essenziale” non sarebbe neppure essa innocua: essa darà nuova ed ulteriore giustificazione al consolidato filone di giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite, che nella vigenza dell’attuale n. 3 dell’art. 366 censura l’esposizione di fatti per così dire “eccedentaria”, cioè – secondo consolidati precedenti che si occupano delle varie specie di eccedenza - assemblata, riproduttiva – nei vari modi resi possibili dalla tecnica redazionale - degli atti del giudizio di merito: è palese che simili forme contraddirebbero manifestamente l’essenzialità e ben dovrebbero essere sanzionate come lo sono e nella vigenza del nuovo testo immaginato, lo sarebbero in forza di un disposto esplicito.
Un’ultima notazione.
Ancorché l’art. 133-ter prima evocato alluda all’esigenza di sinteticità e non a quella di essenzialità, tale norma e, dunque, le previsioni del decreto del Primo Presidente, sia quanto alla struttura del ricorso (e, dunque, all’indicazione di una parte del ricorso dedicata all’esposizione dei fatti), sia quanto alla fissazione di limiti quantitativi (salve le eccezioni giustificate dalla particolarità della vicenda, che il decreto non dovrebbe mancare di prevedere), saranno da considerare imperative e rifluenti quindi sull’ammissibilità del ricorso quanto al requisito dell’art. 366 n. 3 ( e ciò a differenza di quelle del Protocollo del 2015, che hanno valore di “consiglio”).
2.2. L’esposizione dei motivi.
In secondo luogo, il criterio di delega prevede, nel ricordato n. 2, che sempre a pena di inammissibilità il ricorso debba contenere “la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione>> ed a questo si correla un intervento sul n. 4 dell’art. 366, nel quale si sostituisce all’articolo “i” con cui esso inizia, l’inciso “la chiara e sintetica esposizione dei”, che così risulta premessa alla parola “motivi”. Nel contempo, si sopprime l’inciso finale “secondo quanto previsto dall’articolo 366-bis”, lasciato nella norma del legislatore della l. n. n. 69 del 2009, allorquando il suo articolo 47, comma 1, lett. d) abrogò l’art. 366-bis. Mancata soppressione che, per i più fini esegeti e cultori del diritto delle fonti, avrebbe potuto anche implicare la conservazione della previsione dell’art. 366-bis anziché come norma come disposizione integratrice proprio del n. 4, nel senso di indicare la tecnica di redazione dei motivi. E ciò, per quanto attiene al vizio di cui an. 5 dell’art. 360 con riferimento alla “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa”, a seguito della novella del n. 5 operata dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni nella l. n. 134 del 2012. Invero, quando il legislatore abroga una norma ed essa è richiamata da altra norma, occorre verificare se la soppressione diretta della norma abrogata non l’abbia lasciata vigente come disposizione individuatrice del contenuto dell’altra che la richiamava, in assenza di abrogazione del richiamo.
L’introduzione del requisito della “chiarezza” sarebbe da salutare con positività perché nuovamente segnerebbe una innovazione formale diretta a corroborare quanto è già dato rinvenire nella giurisprudenza della Corte, nella quale sovente si vede evocato come requisito di ammissibilità del motivo proprio la “chiarezza”.
Su che cosa potrà significare la chiarezza rilevo che, quando si tratti di vizio in iure relativo a motivo sostanziale o processuale, occorrerà evidenziare in modo appunto “chiaro”, cioè idoneo ad esprimere i termini e le ragioni della doglianza, la sussistenza del vizio e, per la violazione di norme processuali, riguardo alle quali la Corte di Cassazione giudica del fatto processuale inerente all’applicazione della norma del procedimento, le coordinate di esso.
L’esigenza di sinteticità a questo punto servirà a rendere in via indiretta precettive le indicazioni somministrate dal provvedimento ai sensi dell’art. 133-bis: la loro inosservanza potrà anche qui far dire il motivo inammissibile, là dove senza giustificato motivo, che, evidentemente nel provvedimento presidenziale si lascerà come eccezione (sperabilmente da adeguatamente spiegarsi), siano violati i limiti quantitativi là fissati.
Non toccati dall’innovazione proposta saranno i tradizionali principi di specificità del motivo di ricorso per cassazione e di necessaria correlazione del motivo alla motivazione, siccome espressi da consolidata giurisprudenza: sia consento rinviare a Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017, che in motivazione ribadisce i principi di diritto consolidati enunciati da Cass. n. 4741 del 2005 e da Cass. n. 359 del 2005 (che esprimono una delle declinazioni formali in cui i detti principi trovano consolidata epifania nella giurisprudenza della corte).
3. L’epifania formale della c.d. autosufficienza.
Il criterio di delega di cui alla lettera c) dispone che si debba “specificare in che cosa consiste il principio di autosufficienza del ricorso, prevedendo che il ricorso debba contenere la specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, del passo dell’atto processuale, del documento e del contratto o accordo collettivo sul quale lo stesso si fonda, nonché del momento in cui essi sono stati depositati o si sono formati nel processo, e stabilendo che il rispetto di tale onere e di quanto previsto dal numero 4 dell’articolo 369 del codice di procedura civile soddisfa tale principio>>.
La previsione viene integralmente riproposta nell’articolato come nuovo testo dell’art. 366 n. 6 c.p.c., il quale la ripete a partire dalle parole “la specifica indicazione”.
La proposta fotografa certamente uno dei contenuti che la giurisprudenza della Corte assegna al c.d. principio di autosufficienza, che nella norma del n. 6 dell’art. 366 nel testo attuale ha trovato il precipitato normativo espresso dell’esegesi della tecnica di deduzione del motivo di ricorso per cassazione, la cui elaborazione era iniziata sul finire dello scorso secolo a partire da una sentenza estesa dall’indimenticabile Stefano Evangelista.
La “fotografia” è da apprezzare, ma è riuscita – sia detto senza tentennamenti -incompleta, il che dovrebbe indurre a ripensare l’articolato e prima ancora il criterio di delega. E’ certamente positiva la specificazione che per ogni motivo si deve indicare in modo specifico il “passo” degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi fondanti: essa rappresenta l’avallo, sotto il profilo del c.d. onere di riproduzione del contenuto di ciò che fonda il motivo, di quanto afferma la costante giurisprudenza della Corte, essendo stata abbandonata da tempo l’idea che invece occorra (a pena di inammissibilità) la riproduzione totale nel motivo dell’atto, del documento, etc., che in passato, anche prima della introduzione del n. 6 dell’art. 366, talvolta in modo errato era stata sostenuta.
Il testo proposto non lo dice, ma, per il tramite dell’esigenza di “specifica indicazione” resterebbe giustamente ferma la possibilità che essa venga adempiuta sia tramite riproduzione diretta del passo, sia tramite riproduzione indiretta di esso con precisazione della parte corrispondente nell’atto, nel documento e nel contratto o accordo collettivo. Il modo di realizzare la specificità dell’indicazione del passo resterà conchiuso in queste due alternative.
Parimenti trasferisce nella norma ciò che la giurisprudenza della Corte esige attualmente come contenuto dell’art. 366 n. 6 l’indicazione del momento in cui l’atto, il documento, etc. è stato depositato o si è formato nel processo, intendendo per tale quello di merito.
Entrambe le specificazioni originano dai principi affermati da Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e ribaditi da Cass., Sez. Un., n. 28547 del 2008 e, poi dalla giurisprudenza successiva anche a Sezioni Unite.
L’intento della proposta di delega e l’articolato che ne rappresenterebbe il precipitato non possono che essere approvati come utile precisazione nel testo normativo di ciò che già ora vi si scorge.
Dove, invece, sia l’indicazione del criterio di delega, sia la sua trasposizione nel testo del n. 6 non mi paiono meritevoli di approvazione è quanto al resto.
Sia l’una che l’altro fanno infatti confusione e, peraltro, incorrono in un’omissione.
Vengo a quest’ultima.
Il testo novellato non specifica che l’onere di indicazione specifica deve comprendere anche l’indicazione del se e dove l’atto processuale (che, si badi, se non è nella disposizione della parte, è producibile, in quanto fondante il motivo, anche in copia), il documento o il contratto o accordo collettivo sia stato prodotto e, dunque, sia esaminabile nel giudizio di legittimità.
Nell’attuale vigenza dell’art. 366 n. 6 sempre l’appena evocata giurisprudenza aveva sottolineato che requisito dell’onere di indicazione è anche la c.d. localizzazione nel giudizio di legittimità. Cass., Sez. Un., n. 22726 del 2011 aveva sottolineato che la parte interessata, cioè il ricorrente o il controricorrente, possono fare riferimento alla presenza dell’atto processuale, del documento o dell’atto o accordo collettivo, nel fascicolo d’ufficio o in quello della controparte (salvo in tal caso scontare, alludo al ricorrente, la mancata costituzione della controparte intimata e l’eventuale assenza nel fascicolo d’ufficio del fascicolo di detta controparte), ma ciò al fine di esentarsi dall’onere, diverso da quello dell’art. 366 n. 6, di produzione di essi, prescritto dal n. 4 dell’art. 369 c.p.c. Era ed è ferma, dunque, l’esigenza di enunciare comunque la localizzazione, tanto in caso di produzione diretta, quanto per il caso di riferimento alla presenza aliunde.
Invece, sia il criterio di delega sia la norma “dimenticano” l’onere di localizzazione nel giudizio di legittimità come requisito contenutistico del ricorso e, cosa ancora più criticabile, “fanno confusione”. Infatti, là dove il programmato secondo inciso del n. 6 dovrebbe dire che “Il rispetto della previsione del numero 6) del primo comma e del numero 4) dell’articolo 369 soddisfa il requisito dell’autosufficienza>> evidenzia: a) per un verso appunto una confusione - tanto più indebita dato che si lascia immutato l’art. 369 n. 4 c.p.c. - fra l’onere correlato all’indicazione specifica, che è requisito di contenuto-forma del ricorso, prescritto a pena di inammissibilità, e l’onere di produzione degli atti di cui al n. 6 dell’art. 366, che invece è prescritto a pena di improcedibilità; b) e, per altro verso, esenterebbe il ricorrente (o il controricorrente) dall’onere di localizzazione nel giudizio di legittimità come requisito inerente all’indicazione specifica.
Ne conseguirebbe che sarebbe onere della Corte controllare se la parte abbia prodotto l’atto, il documento o l’accordo o contratto collettivo e, soprattutto, di procedere a tale ricerca “alla cieca”, con evidente rischio di errori e perdita di tempo e ciò almeno per tutti gli atti e documenti che non siano atti processuali presenti necessariamente in originale nel fascicolo d’ufficio. Ricordo, poi, che attualmente, peraltro, pur essendo vigente il terzo comma dell’art. 369 che prescrive l’onere a carico della parte della richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, i fascicoli, pur in presenza di richiesta, vengono trasmessi, essendo vigente una disposizione dell’allora Primo Presidente Aggiunto Vincenzo Carbone, solo in taluni limitatissimi casi (la disposizione venne adottata per impedire l’afflusso dei fascicoli di merito, in ragione sia di esigenze di rischi per la stabilità del Palazzo, sia di mancanza di spazi di allocazione). Il recente parziale decollo del digitale in Cassazione non contempla, del resto, la possibilità di accesso da parte della Corte al digitale dei giudizi di merito o una sorta di possibile collegamento.
La divisata nuova norma è, dunque, doppiamente criticabile: sottrae un contenuto all’onere di indicazione specifica, confonde due diversi requisiti. Inoltre, è gravemente inopportuna ai fini della rapida gestione del processo, segnatamente della sollecita attività di spoglio, e crea rischi di errori.
Non solo. Essa, sottolineando che il rispetto del n. 4 dell’art. 369 partecipa al soddisfacimento dell’autosufficienza, scilicet dell’onere di indicazione specifica, parrebbe precludere l’applicazione dei ricordati principi, indicati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 22726 del 2011. La produzione sarebbe sempre necessaria.
E’ opportuno, dunque, a mio sommesso avviso, che il criterio di delega sia rivisto.
4. La soppressione della Sesta Sezione Civile.
Passo all’esame del criterio di delega di cui alla lettera c), secondo il quale si deve provvedere ad “unificare i riti camerali, attualmente disciplinati dagli articoli 380-bis (Procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso) e 380-bis.1 del codice di procedura civile (Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice), prevedendo: 1) la soppressione, anche nell’Ordinamento giudiziario, della sezione di cui all’articolo 376 del codice di procedura civile e la concentrazione della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici; 2) l’abrogazione del procedimento disciplinato dall’articolo 380-bis del codice di procedura civile e il mantenimento di quello disciplinato dall’articolo 380-bis.1 del codice di procedura civile>>. Il criterio, che, dopo la generica previsione dell’unificazione dei procedimenti in camera di consiglio, oggi distinti fra quello di cui all’art. 380-bis e quello di cui all’art. 380-bis.1. c.p.c., si sviluppa in concreto con la proposta della soppressione della Sesta Sezione Civile, cioè dell’apposita sezione di cui all’art. 376 c.p.c., ed il trasferimento “della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici”.
L’espressione sottende che ciò che faceva la Sesta Sezione dovrebbe farlo ogni sezione e lo dovrebbe fare con il procedimento camerale di cui all’art. 380-bis.1. e – limitatamente al regolamento di competenza (per il regolamento di giurisdizione sono competenti le Sezioni Unite) – con il procedimento camerale di cui all’art. 380-ter c.p.c.
Com’è noto la competenza della Sesta Sezione secondo il rito dell’art. 380-bis concerne le ipotesi di cui ai nn. 1 e 5 dell’art. 375 c.p.c., cioè l’inammissibilità del ricorso e la sua manifesta fondatezza od infondatezza. Ad esse la delega chiede di aggiungere quella della improcedibilità, che, peraltro, si riteneva compresa implicitamente nel n. 1 data la sua parentela con l’inammissibilità.
Singolarmente si tace sull’attività preliminare della Sesta, quella di spoglio, finalizzata ad intercettare i ricorsi meritevoli di inammissibilità o manifesta infondatezza/fondatezza. Ma è chiaro che anch’essa viene trasferita alla sezione semplice, per cui in sede di intervento sull’art. 376 c.p.c. occorrerà riferire l’assegnazione dei ricorsi alla sezione competente tabellarmente.
Che dire della proposta di soppressione?
La particolare composizione della Sesta è nota. Si tratta di una sezione che è composta da sottosezioni figlie della sezione semplice madre, ma pur sempre di una sezione unitaria, cui è preposto un presidente titolare con competenze sue proprie a livello tabellare.
Il carattere unitario della Sezione, per la verità, è stato sempre relativizzato dalla circostanza che il presidente titolare di solito ha assunto la funzione di coordinatore della sottosezione di provenienza, e anche quando non l’ha fatto si è astenuto e si astiene dal presiedere collegi presso tutte le sottosezioni. Ciò che, invece, a mio avviso, avrebbe garantito la formazione in seno alle Sottosezioni di giurisprudenze e prassi applicative coincidenti sui requisiti di ammissibilità del ricorso, alla cui valutazione la Sesta è preposta, nonché anche la formazione di orientamenti uniformi circa il grado di apprezzamento della manifesta fondatezza o infondatezza.
Poco praticata è stata la stanza di compensazione delle c.d. Sezioni Unite di Sesta, pur tabellarmente introdotte: esse si sono riunte pochissime volte.
La prassi della Sesta è stata, dunque, quella di una sezione unitaria operante come tale in modo del tutto relativo.
Nella sostanza ogni sottosezione, salvo quella occasionalmente coordinata dal presidente titolare (che in dipendenza del suo status non aveva quel vincolo), ha operato ed opera in stretto coordinamento con la sezione madre.
Il problema che, com’è noto, si è verificato, è stato che la Sesta non intercettava e non intercetta tutti i ricorsi che sarebbero di sua competenza.
In tanto, l’attività di spoglio svolta dal singolo consigliere risulta automaticamente finalizzata ad acquisire una “provvista” da utilizzare per la formulazione della proposta da decidersi in camera di consiglio ed è palese che una simile legittima finalità, una volta correlata con il limite della quota di “ingaggio” per numero di ricorsi da trattare in adunanza ai sensi dell’art. 380-bis, non poteva come non può che indurre a rimettere alla Sezione Madre anche ricorsi che sarebbero decidibili dalla Sesta. Non solo: la previsione della proposta sconsiglia di trattare in Sesta ricorsi che, pur presentando le caratteristiche del n. 1 o del n. 5 dell’art. 375 richiederebbero per il numero dei motivi una proposta molto articolata. Il fattore tempo e quello quantitativo sul numero di ricorsi da trattare lo giustificano. Inoltre, il numero di consiglieri di provenienza di ogni sezione madre, tanto nei casi di coassegnazione quanto nei casi di assegnazione in esclusiva, anch’esso ha giuocato nello stesso senso.
Ciò nonostante, i livelli produttivi della Sesta sono quelli che hanno assicurato – almeno prima del riversarsi sulla Corte di ricorsi in materia di protezione internazionale sulle decisioni in unico grado – che il monte ricorsi pendenti non crescesse di anno in anno. Esigenza che non può certo essere vista come disvalore adducendo che meglio sarebbe dedicarsi alla decisione dei soli ricorsi fondati e, quindi, intercettarli e trattarli prioritariamente.
Vien fatto allora di domandarsi se la paventata soppressione della Sesta sia cosa buona e giusta.
Non mi pare, come pure è stato detto, che la soppressione sia stata suggerita dal Primo Presidente: la lettura della Relazione Illustrativa suggeriva – si veda alle pagg. 150-151 - solo l’unificazione dei riti camerali.
Dico senza esitazioni che la soppressione non mi sembra una buona idea per una serie di ragioni.
La prima è quella stessa che, come ho detto, ha rappresentato un limite alla funzionalità della Sesta. Alludo al carattere di sostanziale separatezza fra le sottosezioni, che impediva o rendeva difficile la nomofilachia soprattutto sulle cause di inammissibilità e, in misura minore, sugli standard di apprezzamento della manifesta fondatezza/infondatezza.
Sotto il primo aspetto, il trasferimento alle sezioni semplici della competenza ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 375 confermerà la separatezza sui criteri di valutazione della inammissibilità, con il perpetuarsi di orientamenti contrastanti e non omogenei.
Inoltre, ravviso un’ulteriore difficoltà di rapido funzionamento delle sezioni nella gestione del camerale loro trasferito. Mentre l’esistenza di una cancelleria unitaria della Sesta assicurava che dalla cancelleria centrale i ricorsi affluissero ad essa e fossero gestiti, sebbene in funzione dello smistamento alla sottosezione, da un unico ufficio, nello scenario utilizzato dalla legge delega occorrerà che presso ogni sezione sia istituito un ufficio di cancelleria preposto alla ricezione dei ricorsi dalla cancelleria centrale, con conseguente necessità di una ridistribuzione del personale già in servizio alla Sesta presso le sezioni semplici. L’afflusso diretto alla cancelleria di ogni sezione ed in ipotesi ad un ufficio a ciò preposto creerà un problema di allocazione dei fascicoli, che esigerà la ricerca di nuovi spazi a disposizione di ogni sezione. Ciò, a meno di immaginare che per ogni sezione l’ufficio addetto a ricevere i ricorsi dalla cancelleria centrale resti allocato dove attualmente è allocata la cancelleria della Sesta, che è il piano terra del Palazzaccio. Ma, in tal caso, occorrerà cercare dislocazioni diverse per ogni ufficio sezionale, con tutto ciò che ne segue.
Qualora si scegliesse la seconda soluzione continuerà a presentarsi il problema del trasferimento dei fascicoli da non trattarsi in camerale per la trattazione non camerale, cioè in udienza pubblica, presso la sezione, anche qui con problemi organizzativi.
Sul versante magistratuale, occorrerà creare presso ogni sezione un ufficio composto da magistrati addetti o da tutti i magistrati addetti alla sezione che in primo luogo ed in via immediata debba individuare i ricorsi da trattarsi con il procedimento camerale. Ed anche in tal caso si porrà un problema di allocazione dei magistrati per l’attività di spoglio a ciò finalizzata in una sede presso la sezione, a mano di immaginare che la sede sia quella che oggi hanno le sottosezioni della Sesta.
Quelli indicati sono problemi che non possono essere sottovalutati.
Si potrebbe pensare che tali problemi, una volta considerato che la metà o poco più dei ricorsi ricevuti ogni anno sono ormai di spettanza della Sezione Tributaria, ad una radicale riorganizzazione, che veda tale sezione allocata a piano terra, dove ora c’è la Sesta. Ciò consentirebbe di ridistribuire alle altre sezioni semplici dell’edificio gli spazi attualmente occupati dalla Tributaria al quarto piano.
Quelli accennati possono sembrare falsi problemi solo a chi non conosce la struttura organizzativa della Corte e non mi sembrano da sottovalutare.
Non va sottaciuto che, inoltre, l’ipotesi dell’ascesa dalla cancelleria centrale dei fascicoli al quarto piano presso ogni sezione dovrà fare i conti con le esigenze di staticità del palazzo.
Solo il pieno decollo del processo digitale in Cassazione potrebbe ridimensionare le ultime problematiche che ho indicato.
Un effetto oggettivo di ridimensionamento delle stesse potrebbe verificarsi solo se la legge delegata dovesse disporre che la nuova normativa concerna i ricorsi introdotti dopo la sua entrata in vigore e la Sesta Sezione fosse lasciata operare per i ricorsi introdotti prima.
Concludo allora dicendo che forse sarebbe miglior partito conservare la Sesta Sezione rinforzandola e prevedere che anch’essa adotti il rito dell’art. 380-bis.1. eliminando la proposta ed escludendo da esso la comunicazione della fissazione al P.G. E semmai conservare quel rito anche per i ricorsi rimessi, in sede di spoglio, alla sezione madre.
5. Il criterio di delega di cui alla lettera e).
Una qualche sorpresa desta la previsione di delega di cui alla lettera e) e ciò per la prima parte, cioè là dove prevede la possibilità che il provvedimento emesso a seguito del procedimento camerale ormai concentrato sull’art. 380-bis.1 e sulla ben più limitata ipotesi di cui all’art. 380-ter c.p.c. possa essere depositato immediatamente in cancelleria. Parlo di sorpresa perché tale possibilità esiste già attualmente, nulla vietando al relatore di depositare l’ordinanza anche immediatamente dopo la chiusura della camera di consiglio, naturalmente se l’abbia redatta come progetto di decisione ed essa sia stata approvata dal Collegio. E nulla vieta al presidente, che deve sottoscrivere egli solo l’ordinanza, di sottoscriverla hic et hinde. Il problema è che attualmente bisogna attendere che la cancelleria registri il deposito della minuta da parte del relatore e la trasferisca al presidente, il che difficilmente può avvenire con immediatezza. La previsione mi pare perciò poco comprensibile ed inutile. Né le cose muterebbero con l’avvento del processo digitale, che non eliminerà la trafila descritta, trasferendola appunto sul digitale.
Invece, la seconda previsione di delega, quella che in via alternativa ed in realtà obbligatoria se non si sceglie il deposito immediato prevede che il Collegio assegni per il deposito e la pubblicazione un termine di sessanta giorni per la redazione e la pubblicazione, appare semplicemente sconcertante quanto all’uso accoppiato del termine “redazione”, che è atto interno al relatore come tale, e del termine “pubblicazione”, che concerne un’attività della cancelleria, anziché di quello “deposito della minuta”. Non è dato comprendere non solo il senso dell’assegnazione di uno stesso termine per due adempimenti diversi ed ascrivibili il primo al relatore ed il secondo alla cancelleria. La confusione del testo del criterio di delega, si badi, si apprezzerebbe anche se si ragionasse in un’ottica di (futuro) processo digitale.
Per fortuna l’articolato mette le cose a posto almeno quanto al secondo profilo appena considerato. Infatti, nell’art. 380-bis.1. (e la stessa previsione è inserita nell’art. 380-ter) si prevede la seguente aggiunta: “L’ordinanza, succintamente motivata, è depositata entro sessanta giorni dall’adunanza; il collegio può disporre tuttavia il deposito immediato >>. Come si vede è il collegio, in via di eccezione, che può disporre il deposito immediato, ma appunto solo il deposito. Semmai, la previsione normale del deposito entro sessanta giorni implicherebbe il riconoscimento a livello normativo di un termine che avrebbe rilievo disciplinare.
6. Il c.d. procedimento accelerato di definizione dei ricorsi.
Il criterio di delega di cui alla lettera e) introduce, o meglio programma, una rilevante novità, che definisce “procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale”. Il fatto che si preveda tale procedimento “per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati”, assegna a tale nuovo procedimento un àmbito interno al solo procedimento camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c. e lascia fuori il procedimento di cui all’art. 380-ter c.p.c. Le ipotesi considerate sono quelle del n. 1 e del n. 5 dell’art. 375 c.p.c. e, del resto, la lettura del criterio di delega prevede un procedimento incompatibile con quello di cui all’art. 380-ter, che suppone la previa richiesta delle conclusioni al Pubblico Ministero.
L’articolato propone l’attuazione del criterio di delega con la sostituzione dell’art. 380-bis che viene rubricato “Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati”. Nel primo comma della norma si prevede – dopo un poco comprensibile inciso eccettuativo (“se non è stata ancora fissata la data della decisione in camera di consiglio”: esso potrebbe alludere ad una fissazione che sia oggetto di ripensamento, ma l’ipotesi non è verosimile, giacché la scelta della procedura accelerata evidentemente sarà praticata all’esito dello spoglio del ricorso) - che nei casi indicati “il giudice della Corte” “formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta fondatezza o infondatezza ravvisata”.
La previsione riecheggia il modus operandi dell’attuale Sesta Sezione nelle dette ipotesi. Sorprende, come già nella proposta di delega, che la formulazione della proposta sia misteriosamente riferita al “giudice della Corte”. Verosimilmente, si è voluto alludere al relatore che attualmente viene designato secondo il meccanismo dell’art. 377 c.p.c., ma comunque sarebbe meglio che il legislatore delegato adempia alla delega in questo modo, cioè inserendo nella norma il riferimento al relatore.
Dopo di che si prevede che la proposta, da depositarsi in cancelleria, sia comunicata agli avvocati delle parti: anche qui l’attuazione della legge delega dovrebbe rimediare a due omissioni che, a mio avviso, si colgono nell’articolato.
Quella sul chi deve disporre la comunicazione e, prima ancora, quella sul chi deve disporre che si provveda alla comunicazione, così determinando l’inizio del procedimento acceleratorio.
Quanto alla prima, anche se lo stesso uso del termine comunicazione lo sottende, sarebbe meglio indicare che alla comunicazione debba provvedere la cancelleria e magari disporre che la stessa, decorso il termine dal perfezionamento della comunicazione, ne dia avviso, salvo stabilire a chi.
Quanto alla seconda omissione, che, invece, è più problematica, il rimediarvi dovrebbe opportunamente consistere in una delle due seguenti alternative: la delega dovrebbe adempiervi o prevedendo che la comunicazione sia disposta direttamente dal relatore che ha formulato la proposta o che sia ordinata dal presidente della sezione. Questa seconda alternativa mi parrebbe più ragionevole, perché implicherebbe che la pregnanza della proposta sia vagliata anche dal presidente, il che garantirebbe criteri di valutazione uniformi delle condizioni di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza.
Mi rendo conto, tuttavia, che questa seconda soluzione potrebbe restare “sulla carta” quanto a questa ponderazione da parte del presidente. La ragione sta nella tirannia dei numeri che la potrebbe rendere difficile. Comunque, la logica della spettanza al presidente della sezione mi sembra più corretta, tenuto conto che gli atti di impulso alla trattazione del “Giudice Corte di Cassazione” e tale risulta in via eventuale la comunicazione della proposta sono affidati al primo presidente o al presidente della sezione.
Non è previsto che la proposta sia comunicata al Pubblico Ministero, che in tal modo la ignorerà.
A seguito della comunicazione della proposta, ecco la rilevante novità, si prevede poi – nel terzo comma dell’art. 380-bis - che “che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato” e quindi - nel quarto comma – che “il giudice pronuncia decreto di estinzione e liquida le spese”, al quale – secondo il comma successivo – spetta l’efficacia di titolo esecutivo quanto alla pronuncia sulle spese. L’ultimo comma dispone, poi, che in tal caso, cioè “nel caso di definizione del giudizio [di cassazione] ai sensi del presente articolo”, il ricorrente, pur essendo soccombente, beneficia dell’esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.
La fattispecie di estinzione nuova così immaginata non viene qualificata come estinzione per rinuncia al giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 390 c.p.c. Nella sostanza, dal punto di vista del ricorrente, lo è, sebbene sub specie di rinuncia tacita (o, se si preferisce, desunta da un’omissione concludente). Tuttavia, a differenza che per la rinuncia di cui all’art. 390 c.p.c. l’effetto di tale tacita rinuncia può essere escluso dalla richiesta di fissazione della camera di consiglio da parte del resistente, che così assume, a differenza di quanto avviene nell’istituto dell’art. 390 c.p.c., un ruolo condizionante e di possibile interlocuzione. Ulteriore distacco dalla disciplina dell’art. 390 si ha per quanto attiene alle spese, dato che qui si prevede che esse debbano essere liquidate e lo si prevede ragionevolmente, giacché bisogna disincentivare la parte resistente dal chiedere la trattazione.
La dichiarazione di estinzione del giudizio di cassazione determinerà, come di consueto accade per la rinuncia di cui all’art. 390 c.p.c., il passaggio in cosa giudicata della decisione impugnata, con applicazione del principio di cui all’art. 338 c.p.c. La situazione giuridica oggetto del giudizio risulterà regolata dall’assetto risultante da detta sentenza.
L’articolato non dice, come non lo dice la delega, chi sia il “giudice” che pronuncia il decreto. L’evidente omologia con la disciplina dell’art. 391 c.p.c. suggerirebbe l’idea che si tratti del presidente, ma si potrebbe pensare che si tratti del relatore, cioè del “Giudice della Corte”. Sarà opportuno chiarirlo.
Quid iuris nel caso di erronea declaratoria di estinzione, ad esempio perché l’opposizione era stata proposta o non era stata proposta per mancanza o vizi della comunicazione della proposta? L’ipotetica attuazione della proposta di delega credo che dovrà disciplinare questa fattispecie.
Il caso di una richiesta tardiva non mi pare possa essere regolato allo stesso modo: la legge allude alla mancanza della richiesta nel termine di venti giorni e non anche alla richiesta oltre tale termine. Dovrebbe allora farsi luogo alla fissazione dell’adunanza camerale.
La nuova futuristica previsione non mi sembra, tuttavia, del tutto convincente.
A mio avviso la Commissione avrebbe dovuto proporre un’innovazione più radicale, cioè quella dell’adozione di una vera e propria ipotetica ordinanza provvisoria motivata succintamente ed enunciante la soluzione di inammissibilità, di improcedibilità, di infondatezza del ricorso, con la previsione della comunicazione alle parti costituite e l’assegnazione di un termine per la proposizione di un’opposizione motivata ad istanza della parte interessata, da decidersi dal collegio in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1, in mancanza della quale semmai dovrebbe scattare il meccanismo di dichiarazione dell’estinzione.
Una innovazione in qualche modo simile chi scrive l’aveva prospettata in occasione di un breve intervento svolto nel brevissimo spazio che fu concesso ai partecipanti dopo le relazioni nell’assemblea della Corte di Cassazione tenutasi nel giugno del 2015, allorché si discuteva delle proposte di riforma poi sfociate nel d.lg. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni nella l. n. 197 del 2016.
Spiego le ragioni del mio dissenso dalla proposta in cantiere e del sostegno della diversa proposta indicata.
A me pare che l’invio ai difensori di una proposta recante la sintetica indicazione della o delle cause di inammissibilità o della causa di improcedibilità o della causa o delle cause di manifesta infondatezza, difficilmente sortirà l’effetto di “convincere” quel difensore a non chiedere comunque la trattazione in adunanza camerale.
La ragione è ovvia: una enunciazione sintetica come quella che in concreto, in ossequio al Protocollo del 2016, viene fatta nell’attuale versione della proposta di cui all’art. 380-bis c.p.c. risulta avere un’efficacia di convincimento quantomeno dubbia. In tanto, se un difensore ha proposto il ricorso ed è veramente incorso in una causa di inammissibilità, improcedibilità o ha proposto un ricorso manifestamente infondato, è palese che si tratterà di un difensore poco avveduto, che ha fatto male il suo mestiere di cassazionista. Ed allora non è sperabile che una soltanto sintetica indicazione del perché ha sbagliato lo dissuada dal richiedere la trattazione in camera di consiglio. Quello che accadrà, di fronte alla sinteticità dell’indicazione della causa di definizione del ricorso, sarà verosimilmente che quel difensore che nel proporre il ricorso ha sbagliato non abbia la capacità di comprendere ed apprezzare l’efficacia persuasiva, pur esistente, della sintetica proposta. Il solo rischio di non sfuggire all’onere del c.d. doppio contributo mi sembrerebbe un deterrente di poco valore sempre per il difensore che versi nell’indicata condizione. Al di fuori del caso che ho ipotizzato, quello del cassazionista “maldestro”, comunque a me pare che l’efficacia persuasiva di una proposta sintetica meramente indicativa possa avere sempre un valore persuasivo del tutto relativo almeno nei casi di inammissibilità del ricorso per problemi di c.d. contenuto-forma e per quelli di manifesta infondatezza e ciò anche quando fosse accompagnata dall’indicazione di precedenti, in una logica simile a quella raccomandata dal ricordato Protocollo.
Va considerato che qui si tratta di apprezzare una proposta che in mancanza di richiesta di trattazione determina l’estinzione del giudizio di cassazione, mentre l’attuale proposta in sede di art. 380-bis è destinata ad essere discussa nell’adunanza camerale, in vista della quale può essere presentata memoria.
Vi sarebbe poi da fare i conti con il problema della relazione che il difensore dovrà fare al cliente sulla proposta ed è palese, per un verso che spiegare al cliente una “proposta” prospettando che è meglio non insistere chiedendo la trattazione sarà opera difficile per il difensore, dato che egli non potrà presentare la proposta come una decisione della Corte.
E’ per queste ragioni che credo sarebbe molto più opportuno adottare la soluzione della pronuncia da parte del relatore non già di una proposta, bensì di una vera e propria ordinanza ipotetica e condizionale motivata, sebbene succintamente, come imporrebbe l’ordinario procedimento ai sensi dell’art. 380-bis.1, dichiarativa della causa di inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza. Essa sarebbe contestabile, all’esito della comunicazione, non già con una mera richiesta di trattazione, bensì con un’opposizione motivata, che esprima in primo luogo il dissenso dall’ordinanza ipotetica e che sia da decidere dal Collegio in sede camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1.
Questa soluzione potrebbe essere accompagnata da una serie di previsioni accessorie: la prima è che l’ordinanza motivata redatta dal relatore designato dovrebbe recare il visto del presidente di sezione eventualmente preposto in sede sezionale alla gestione del procedimento accelerato. Ciò garantirebbe per un verso uniformità di valutazioni nella redazione dei provvedimenti e, per altro verso, garantirebbe una maggiore ponderazione della decisione.
La seconda previsione auspicabile, al fine di evitare opposizioni meramente dilatorie e comunque di assicurarle ponderate, dovrebbe essere il riconoscimento, in sede di trattazione camerale collegiale, qualora il ricorso venga dichiarato inammissibile o improcedibile o rigettato con la mera condivisione della motivazione enunciata dall’ordinanza opposta, del dovere del collegio di condannare ai sensi dell’art. 96, comma terzo, c.p.c.
La proposta che qui enuncio dovrebbe in particolare essere corredata dalle seguenti previsioni: a) l’ordinanza condizionale non dovrebbe recare la statuizione sulle spese; b) l’opposizione dovrebbe farsi entro un termine che, anche per lasciare spazio alla ponderazione della parte, dovrebbe essere di quaranta giorni; c) la legittimazione a proporla dovrebbe spettare solo alla parte soccombente per effetto della causa di inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso; d) nel caso di ordinanza decisoria ipotetica di più ricorsi riuniti o di ricorso principale ed incidentale, la legittimazione sarebbe riferibile a ciascuna delle parti soccombenti sui vari ricorsi e la sua proposizione porrebbe tuttavia nel nulla l’ordinanza anche per il resto, occorrendo che la decisione sui ricorsi sia unitaria; e) l’opposizione dovrebbe comunque determinare sempre una decisione del Collegio che assorba l’ordinanza ipotetica e condizionale, in pratica risolvendosi nella determinazione della sua automatica caducazione e della necessità di una decisione collegiale; f) l’opposizione dovrebbe essere motivata, cioè enunciare una critica alla motivazione contenuta nell’ordinanza condizionale e la mancanza di tale critica dovrebbe comportare una decisione collegiale che, dandone atto, decida il ricorso anche soltanto rinviando ad essa e pronunciando nello stesso senso sul ricorso con obbligatoria condanna, oltre che alle spese, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.; g) analoga soluzione dovrebbe darsi per il caso di opposizione che risulti proposta oltre il termine previsto; h) se l’opposizione venga ritenuta ammissibile, ma infondata soltanto per l’infondatezza della critica pur rivolta all’ordinanza condizionale, parimenti l’ordinanza collegiale dovrebbe recare la nuova decisione conforme del ricorso e contenere non solo la statuizione sulle spese, ma pure la condanna di cui al terzo comma dell’art. 96; i) nel caso di fondatezza dell’opposizione l’ordinanza collegiale dovrebbe procedere alla decisione del ricorso; l) nel caso in cui l’ordinanza recasse una ipotetica decisione provvisoria sul ricorso principale e su quello o su quelli incidentali, la proposizione dell’opposizione quanto alla proposta di decisione su uno dei ricorsi, automaticamente renderebbe necessaria la decisione collegiale su tutti i ricorsi, non potendosi immaginare che vi siano fonti di decisione distinte; m) nel caso di mancanza dell’opposizione nel termine si dovrebbe prevedere che l’ordinanza condizionale comunque si risolva e si dovrebbe adottare la soluzione della pronuncia del decreto di estinzione immaginata dall’articolato di cui si è riferito, con ciò che ne segue.
Sempre se si condividesse l’idea che il procedimento acceleratorio debba imperniarsi su un provvedimento motivato equivalente ad un’ordinanza decisoria, nella parziale condivisione della logica della Commissione, si potrebbe scegliere – ma mi parrebbe meno opportuno - anche la strada per cui la parte soccombente potrebbe fare anche un’opposizione immotivata o, se si vuole, chiedere la trattazione in adunanza camerale, con automatica caducazione dell’ordinanza. Ferme le conseguenze in termini di art. 96, terzo comma, c.p.c. nel caso della condivisione da parte del Collegio della motivazione dell’ordinanza e nel caso di richiesta tardiva. Nel caso di mancanza della richiesta si potrebbe prevedere sempre il decreto di cui ho detto sub m).
7. Il proposto restyling dell’art. 377, dell’art. 378, dell’art. 379 e dell’art. 391-bis c.p.c.
Nell’articolato – sulla base del criterio di delega di cui alla lettera g) – si prevedendo alcuni interventi sugli artt. 377, 378 e 379 c.p.c.
L’art. 377 c.p.c. conserva la sua rubrica e, a parte l’incongruenza già sopra segnalata della permanenza del richiamo al presidente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c., innova nel senso che anche al Pubblico Ministero debba darsi comunicazione dalla cancelleria della fissazione dell’udienza o dell’adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1: il riferimento all’adunanza va così inteso in quanto l’articolato lascia invece immutato l’art. 380-ter c.p.c.
Sempre l’art. 377 c.p.c. dispone eleva anche per udienze pubbliche a quaranta giorni il termine entro il quale deve farsi la detta comunicazione alle parti e al Pubblico Ministero.
L’art. 378 c.p.c. prevede in un primo comma che anche il P.G. possa presentare memorie in funzione dell’udienza pubblica dieci giorni prima di essa ed in un secondo comma lascia immutato il termine di cinque giorni per le parti e sancisce il principio, mutuato dalla giurisprudenza della Corte, che le memorie servono solo “per illustrare i motivi già esposti negli atti introduttivi e per replicare alle ragioni delle altre parti e alle memorie del pubblico ministero.”.
L’art. 379 c.p.c., in fine, viene rimodulato prevedendo nel primo comma che nell’udienza pubblica il relatore debba riferire “sinteticamente” e, con opportuna innovazione, che, “ove occorra, il presidente o anche il relatore indicano le questioni rilevanti per la decisione”, nonché, correlativamente, nel secondo comma, che i difensori delle parti svolgano lde difese “anche con particolare riferimento a specifici aspetti evidenziati dal presidente o dal relatore”. Si propone, poi, opportunamente l’aggiunta di un quarto comma, che dovrebbe disporre in tal senso: “Il presidente dirige la discussione fissando, se lo ritiene necessario, limiti temporali per il suo svolgimento”. In fine nell’art. 391-bis l’adunanza camerale diventa, al posto di quella di cu al sopprimendo art. 380-bis, quella ai sensi dell’art. 380-bis.1.
8. La novità del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.
Il criterio di delega di cui all’art. 6-quater prevede una sostanziale innovazione, che nell’articolato viene realizzata con l’introduzione nel Codice di procedura Civile del nuovo art. 362-bis, rubricato “Rinvio pregiudiziale”.
Il primo comma della nuova norma suonerebbe in questi termini: “Fuori dei casi in cui procede in base agli articoli 394 e 400, il giudice di merito può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le condizioni di cui al secondo comma” Si immagina, dunque, che il giudice di merito – al di fuori del caso in cui operi come giudice di rinvio e della revocazione – possa interrogare la Corte di Cassazione in ordine alla risoluzione di una questione di diritto rilevante per la definizione, anche solo in parte, della controversia. Può trattarsi sia del giudice di pace, sia del tribunale come giudice di primo grado o di appello, sia della corte di appello.
Il secondo comma indica le condizioni per l’esercizio del potere in questi termini: “Il rinvio può essere disposto dal giudice quando: 1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte; 2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza; 3) presenti particolari difficoltà interpretative; 4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
La proposta di innovazione mi sembra da valutare assolutamente con favore ed anzi la vedo come l’unica opzione possibile per preservare la funzione assegnata alla Corte di Cassazione dall’art. 67 dell’Ordinamento Giudiziario e nel contempo giustificare la conservazione della norma dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione, che è – a mio modo di vedere – l’architrave dell’assetto costituzionale della Magistratura Ordinaria e per tale ragione, se è vero che è responsabile dell’assedio inusitato di ricorsi cui è da tempo sottoposta la Corte di Cassazione, difenderei dai ricorrenti auspici di modifica costituzionale nel senso di restringere la ricorribilità.
Il meccanismo immaginato dalla proposta sarebbe particolarmente idoneo a consentire un intervento nomofilattico della Corte di Cassazione soprattutto a proposito dell’esegesi di nuove norme, riguardo ala quale oggi bisogna aspettare molti anni prima che arrivi davanti alla Corte. Semmai, il limite della proposta è che non sarebbe applicabile alla giurisdizione in materia tributaria, atteso che i giudici di merito tributari sono estranei alla giurisdizione ordinaria e considerato che la norma, quando parla del giudice di merito, essendo inserenda nel Codice di Procedura Civile è norma interna alla giurisdizione civile ordinaria. Auspicherei, tra l’altro per il fatto che il succedersi di norme nuove è vorticoso nella materia tributaria, che si immagini in sede di attuazione della delega un’estensione.
Le ipotesi nelle quali è previsto il rinvio mi sembrano ben calibrate e semmai, proprio raccordandomi a quella della norma nuova, si potrebbe prevedere a proposito di essa un espresso riferimento.
Naturalmente, il potere resta affidato alla oculatezza del giudice di merito e per le norme nuove alla circostanza che la questione interpretativa si sia manifestata almeno in una prima fase di vigenza e applicazione della nuova norma, con risultati incerti.
In ordine al procedimento di rimessione, la norma prevede che: “Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto. Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte”
Il procedimento successivo dinanzi alla Corte è regolato in questi termini: “Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma. Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza”
La norma non lo dice, ma le parti del giudizio di merito naturalmente dovrebbero potersi costituire e discutere nella pubblica udienza.
Si prevede, poi, che: “il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”
Il carattere vincolante, come dimostra il secondo inciso, se il rinvio sarà disposto dal giudice di primo grado, opererà anche per il giudice di appello e, ovviamente, anche se il giudizio tornasse di nuovo in Cassazione.
Quid iuris se, successivamente alla risposta della Corte, quest’ultima muti il suo avviso sulla questione interpretativa e il procedimento in cui era stata data disposta al quesito sia ancora non definito? E’ opportuno che la norma delegata si occupi del problema.
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