ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ancora in tema di obbligatorietà del vaccino contro il Covid-19 e della responsabilità per la sua mancata introduzione
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Perché è necessario ed urgente prevedere il carattere obbligatorio della vaccinazione contro il Covid-19 - 2. Perché lo Stato può essere chiamato a responsabilità per risarcimento dei danni conseguenti alla omessa adozione di una legge che, imponendo il carattere doveroso della vaccinazione, possa efficacemente arginare la diffusione del virus e con essa fugare il rischio di porre limiti stringenti per i diritti costituzionali, quali quelli che conseguirebbero alla qualificazione come “rossa” di una determinata porzione del territorio nazionale.
1. Perché è necessario ed urgente prevedere il carattere obbligatorio della vaccinazione contro il Covid-19
Avverto subito che la succinta riflessione che mi accingo a svolgere potrebbe, ad una prima (ma erronea) impressione, apparire viziata da un certo astrattismo o, diciamo pure, da palese ingenuità. Mi auguro, tuttavia, che così non sia; ed è con quest’animo che ora la rendo pubblica, precisando di considerarla una sorta di aggiunta, a mo’ di post scriptum, fatta ad altra riflessione svolta di recente in cui ho provato ad argomentare la tesi favorevole alla obbligatorietà del vaccino contro la pandemia ad oggi in corso ed alla necessità di stabilire siffatto carattere con la massima urgenza, non foss’altro che per il fatto che la misura qui nuovamente patrocinata produrrebbe l’effetto sicuro di abbattere in significativa misura i contagi e, per ciò stesso, di circoscrivere i danni anche permanenti alla salute ad esso conseguenti e – ciò che più importa – di evitare il sacrificio di non poche vite umane[1].
Che la questione ora nuovamente discussa possa presentare carattere teorico-astratto appare avvalorato dalla circostanza che la stessa non risulta iscritta tra quelle presenti nell’agenda del Governo, sulle quali il dibattito politico è animato non soltanto tra maggioranza ed opposizione ma anche tra i partiti componenti la prima[2]. Dal mio canto, confesso di non farmi soverchie illusioni che la misura qui caldeggiata possa farsi largo, traducendosi quindi in un testo di legge che la faccia propria, connotata da un pugno di indicazioni essenziali concernenti, per un verso, le sanzioni (a mia opinione, severe, anche di natura penale) per coloro che si sottraggono all’obbligo in parola e, per un altro verso, le categorie di persone che, per motivi acclarati di salute o di età, non possono andarvi soggette. È pur vero, poi, che, portandosi viepiù in avanti la campagna vaccinale, la misura suddetta, che a mia opinione avrebbe dovuto già da tempo essere stabilita, parrebbe perdere viepiù di significato. Un argomento, questo, però inconsistente, sol che si consideri la velocità con cui il virus si riproduce, dando vita a varianti sempre più insidiose ed invasive, nonché la circostanza per cui il vaccino costituisce la più efficace risorsa di cui disponiamo per contenere l’avanzata, altrimenti inarrestabile, della pandemia, con ciò che ne consegue in termini di vite umane spezzate a causa della malattia.
Basterebbe già solo quest’ultimo rilievo per avvalorare – a me pare – la tesi nella quale fermamente mi riconosco; basterebbe, insomma, far salva anche una sola vita umana in più di quelle che altrimenti andrebbero perse a causa della mancata adozione della misura qui caldeggiata per chiudere una buona volta la discussione sul punto, superando ogni residua esitazione che pure potrebbe legarsi, per un verso, ad una malintesa ed esasperata accezione del principio di autodeterminazione della persona umana[3] e, per un altro verso, ai rischi ai quali si va incontro per effetto della sottoposizione al vaccino. Rischi che, poi, come si sa, pur sempre sussistono in relazione non soltanto ad ogni vaccinazione[4] ma, in generale, ad ogni assunzione di farmaci, anche di quelli di uso comune (basterebbe rammentare cosa sta scritto nei “bugiardini” presenti in ogni confezione di medicinali…). Ad ogni buon conto, la mera eventualità che si abbiano effetti negativi conseguenti alla somministrazione del vaccino e suscettibili di manifestarsi anche a distanza di anni non regge di certo il confronto con i sicuri benefici per la salute e la vita di innumerevoli persone discendenti dalla somministrazione stessa; ed è perciò singolare che pur non sprovveduti autori seguitino stancamente a prospettare il primo argomento, quasi che meriti maggiore considerazione del secondo[5].
2. Perché lo Stato può essere chiamato a responsabilità per risarcimento dei danni conseguenti alla omessa adozione di una legge che, imponendo il carattere doveroso della vaccinazione, possa efficacemente arginare la diffusione del virus e con essa fugare il rischio di porre limiti stringenti per i diritti costituzionali, quali quelli che conseguirebbero alla qualificazione come “rossa” di una determinata porzione del territorio nazionale
Desidero ora dire da dove nasce la sollecitazione che mi è venuta a tornare a discorrere di un tema che per vero mi ero ripromesso di non riprendere più, dopo averne trattato a più riprese. Ebbene, l’idea mi è balzata subito in mente ascoltando lo sfogo, misto di rabbia e di amarezza, di un piccolo operatore nel campo della ristorazione che, incontrandomi pochi giorni addietro e conoscendomi quale studioso di diritto costituzionale, mi ha fatto una domanda a bruciapelo che mi ha lasciato francamente interdetto. Mi ha chiesto, infatti, se è rispettosa dei principi di eguaglianza e di giustizia sociale, riconosciuti dalla Carta, la circostanza per cui lui, la sua famiglia e la cerchia dei suoi parenti si erano tutti sottoposti al vaccino, in adempimento – parole sue – di un “obbligo morale”, secondo l’insegnamento del Presidente Mattarella, e, ciononostante, il paese nel quale vive ed opera rischia di essere qualificato come “rosso” a causa della colpevole negligenza di molti abitanti (non vaccinatisi), nonché dei comportamenti scorretti diffusamente adottati (per il mancato o l’improprio utilizzo della mascherina e la inosservanza del canone relativo al distanziamento interpersonale). Di qui, poi, la domanda cruciale, che mi ha indotto a stendere le brevi note che vado ora rappresentando: “ma se io resto sul lastrico, perché obbligato nuovamente a chiudere il mio esercizio commerciale, o, peggio, se vengo ugualmente contagiato da chi posso pretendere di essere risarcito per il danno subìto?”.
Qui è, dunque, il cuore della questione ora discussa.
Di certo, non è possibile, a mia opinione, avanzare la richiesta in parola nei riguardi della persona responsabile del contagio, salvo ovviamente il caso che essa sia nota e che, sapendo di essere affetta dal virus, non abbia rispettato le regole relative al proprio isolamento. Il più delle volte, però, non si ha la certezza circa il modo con cui il virus stesso è stato trasmesso, specie se si considera che, anche grazie all’avanzata della campagna vaccinale, non pochi sono i soggetti totalmente asintomatici. D’altronde, tranne che per alcuni ambienti, come quelli di lavoro, non c’è ad oggi alcun obbligo di sottoporsi a controlli periodici al fine di verificare se si è, o no, portatori del virus; lo stesso certificato vaccinale, seppur richiesto in casi progressivamente crescenti, non va di necessità esibito in alcuni ambienti sociali, difettando ad oggi un obbligo di vaccinazione a tappeto per l’intera popolazione, con le sole eccezioni dei soggetti che non possono soggiacervi per motivi di salute o di età (ma la soglia per quest’ultima, verosimilmente, sarà via via abbassata, prevedibilmente anche in tempi brevi).
Ebbene, a mio modo di vedere, l’istanza di risarcimento può essere avanzata nei riguardi dello Stato, proprio per aver omesso di stabilire la obbligatorietà del vaccino (con le sole eccezioni appena indicate), una volta che si assuma in partenza che, nel presente contesto, la Costituzione (non semplicemente facultizza ma di più) impone l’adozione della misura in parola[6].
So bene qual è il modo con cui la dottrina ad oggi pressoché unanime qualifica le omissioni del legislatore, non a caso distinte in assolute e relative, facendosi notare che avverso le prime non vi sarebbe rimedio che valga, non potendosi di certo obbligare manu militari i rappresentanti in Parlamento a varare una legge ed a dotarla di certi contenuti (e non altri) laddove restino totalmente inerti e manifestino una irresistibile vocazione a non risvegliarsi dal loro letargo[7]. Diverso discorso – come si sa – è da fare per le seconde, a riguardo delle quali mi limito qui solo a far notare che il limite delle classiche “rime obbligate” di crisafulliana memoria, ancora fino a poco tempo addietro giudicato invalicabile[8], è stato più volte messo disinvoltamente da canto dallo stesso massimo garante della legalità costituzionale, preoccupato di dare una qualche tutela – costi quel che costi[9] – ai diritti costituzionali negletti a causa delle gravi carenze esibite dai testi di legge. Com’è stato efficacemente rilevato da una sensibile studiosa[10], si è ormai trapassati dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti”, mentre dal suo canto un autorevole studioso e giudice costituzionale[11] ha discorso di un “progressivo commiato dal teorema delle ‘rime obbligate’”. Insomma, stabilire cosa resta tanto teoricamente quanto praticamente dell’antica discrezionalità del legislatore, pure fatta oggetto di oscillanti e non di rado discordanti applicazioni giurisprudenziali[12], è cosa – temo – impossibile, sia pure in modo largamente approssimativo.
Ora, a me pare difficile argomentare l’idea che la mancata prescrizione a tappeto dell’obbligo vaccinale rientrerebbe tra le omissioni relative, sì da poter coltivare la speranza che la disciplina in atto vigente, nella parte in cui contiene la prescrizione stessa limitatamente ad alcune categorie di persone, possa un domani essere caducata nella parte in cui non prevede il carattere erga omnes dell’obbligo in parola[13]. Malgrado la più recente giurisprudenza costituzionale (specie da Cappato in avanti) offra numerose testimonianze di una viepiù ardita (o, forse meglio, temeraria) intraprendenza della Consulta, la manipolazione qui astrattamente ipotizzata sarebbe francamente eccessiva; e non credo, d’altronde, che la stessa Corte possa rendersi disponibile a gravarsi di una responsabilità, morale e politica allo stesso tempo, di sì elevata portata, specie davanti ad una pubblica opinione in seno alla quale è assai agguerrito il fronte dei c.d. “no vax”, tanto da abbandonarsi – com’è noto – a manifestazioni, anche recentissime, inqualificabili (se non penalmente) pur di far valere a forza il proprio punto di vista. Si aggiunga che vi è poi una porzione ad oggi alquanto consistente di persone che non sanno decidersi se vaccinarsi, o no[14], come pure si hanno non poche persone che hanno perseguito a freddo il disegno di lasciare ad altri il compito di esporsi per raggiungere la c.d. immunità di gregge, ricevendone quindi in un momento successivo i conseguenti benefici[15], in applicazione della “logica” perversa mirabilmente racchiusa nel noto detto “armiamoci e partite” reso famoso da un accreditato poeta ravennate[16].
Il vero è che la responsabilità in parola devono assumersela i decisori politici, nelle sedi e con le forme allo scopo costituzionalmente stabilite.
Ora, è noto che da noi i meccanismi previsti per far valere la responsabilità in parola sul piano politico-istituzionale si sono inceppati da tempo o, diciamo pure, non hanno mai funzionato a dovere: indice eloquente, particolarmente attendibile, della felice intuizione di un’accreditata dottrina[17] che, già da tempo, ha messo in chiaro con puntuali argomenti come nella “crisi del rappresentante” si specchi fedelmente una ben più grave ed inquietante “crisi del rappresentato” per il cui superamento temo che la ricetta giusta non sia ancora stata inventata[18].
Si dà, tuttavia, un modo – a me pare – efficace per smuovere il legislatore dal suo annoso letargo; ed è quello di obbligare lo Stato a mettere mano al portafoglio per risarcire il danno causato dalla mancata adozione di testi di legge, laddove sia ormai acclarata la loro doverosa approvazione, come pure sia provato che il danno stesso consegue in modo immediato e diretto alla colpevole inerzia del legislatore. È questa una proposta affacciata da qualche anno a questa parte da una sensibile e coraggiosa dottrina[19], che in tempi non sospetti (perché non ancora gravati dalla cappa soffocante del Covid-19) ho qualificato meritevole di considerazione[20] e che ha quindi ricevuto ulteriori adesioni[21], senza che nondimeno ad oggi abbia trovato terreno fertile per crescere e farsi valere.
Ora, è pur vero che lo Stato potrebbe un domani essere citato in giudizio pur dopo aver introdotto l’obbligo vaccinale in parola, ed anzi proprio per il fatto di averlo stabilito. D’altronde, circola da tempo l’idea, seppur non sempre esplicitata, che una delle ragioni che hanno finora trattenuto lo Stato dall’imporre (con le sole eccezioni poc’anzi accennate) la vaccinazione a tappeto si leghi proprio al timore di essere chiamato a risarcire i danni conseguenti a vaccinazioni legislativamente imposte[22]. Francamente, mi parrebbe un argomento frutto di un calcolo cinico che non mi parrebbe meritevole di alcuna considerazione. A stare però all’ordine di idee nel quale questa riflessione si dispone, assai più oneroso per lo Stato è dover far fronte alle richieste di risarcimento per danni che possono venire da tutti coloro che, pur essendosi diligentemente sottoposti alla vaccinazione, dimostrando così non solo attenzione per la propria salute e quella altrui ma anche spiccato senso civico, vadano poi ugualmente incontro a seri problemi di salute o si trovino sul lastrico a causa della negligenza di coloro che non rispettano le regole anti-Covid e – ciò che più importa – della omessa imposizione della obbligatorietà del vaccino cui pure si deve – come si è venuti dicendo – la qualificazione come “rosso” del territorio in cui vivono ed operano.
Insomma, calcolo per calcolo – ad usare un linguaggio franco e duro – non so se convenga di più allo Stato correre il rischio di una class action esercitata da migliaia di operatori ed avente come sua causa efficiente la indebita omissione legislativa di cui qui si è discorso o l’altro di poter essere citato in giudizio da un numero estremamente esiguo di persone che abbiano patito un danno per essersi sottoposti al vaccino, sempre che – come si diceva – siano in grado di dimostrare la sussistenza di un rapporto di causa-effetto tra questo e quello.
Ma, il vero è che la questione qui nuovamente trattata non può essere di certo impostata e risolta in modo adeguato sul terreno economico, alla luce di un mero, meschino calcolo di spesa conseguente all’una ovvero all’altra scelta. Quando è in ballo la salute e la vita stessa delle persone, è questo il punto obbligato, primario, di riferimento, davanti al quale ogni altro ha da essere posposto, così come d’altronde si è fatto quando si è presa la scelta sofferta di chiudere tutte le attività produttive impossibilitate a svolgersi via remoto, imponendo il distanziamento interpersonale e le altre misure rese necessarie dalla diffusione inarrestabile della epidemia.
Il vero è che finora si è preferito stare alla finestra e confidare sulla spontanea sottoposizione al vaccino di una larga fascia del corpo sociale[23], senza introdurre una misura che avrebbe ulteriormente esasperato gli animi e causato una grave frattura in seno al corpo stesso. Una soluzione pilatesca, questa, che purtroppo ha avuto un suo costo sicuro, anche se non puntualmente calcolabile, in termini di vite umane perdute. E però se vogliamo coltivare una pur pallida speranza che il virus non diventi endemico e, comunque, che sia efficacemente contrastato nella sua rapida ed incontrollata diffusione, una sola è la via maestra da battere senza esitazione alcuna: quella di obbligare anche gli incerti o i riottosi a vaccinarsi, sì da mettere così al riparo se stessi e gli altri, arginando allo stesso tempo uno sfilacciamento del tessuto produttivo del Paese già messo a dura prova sin da quando la pandemia ha iniziato a manifestarsi in tutta la sua formidabile virulenza.
[1] Maggiori ragguagli sul punto nel mio Perché la Costituzione impone, nella presente congiuntura, di introdurre l’obbligo della vaccinazione a tappeto contro il Covid-19, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 15 settembre 2021. Avevo, peraltro, già trattato della questione nel mio La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2021, 22 maggio 2021, 170 ss.
[2] … specie in conseguenza dell’andamento non lineare ma a zig zag della politica della Lega, in relazione a non poche questioni di cruciale rilievo schieratasi più dalla parte di chi sta all’opposizione che di chi sorregge con lealtà il Governo.
[3] … a riguardo del quale, oltre al mio scritto sopra cit. che espressamente lo evoca già nel titolo, v., in termini generali, la mia voce Autodeterminazione (principio di), in Digesto/Disc. Pubbl., VIII Agg. (2021), 1 ss.
[4] … stranamente lasciate tutte miracolosamente esenti da polemiche e contestazioni, tranne appunto questa.
[5] V. quanto ne dicono al riguardo A. Mangia, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 9 settembre 2021, spec. 443 ss., e A.R. Vitale, Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 15 settembre 2021, spec. § 2.
[6] È questa, appunto, la tesi che mi sono sforzato di argomentare nel primo dei miei scritti sopra già richiamati.
[7] Degli sforzi, da noi come altrove, prodotti al fine di porre riparo alle omissioni in parola riferiscono, di recente, AA.VV., I giudici costituzionali e le omissioni del legislatore. Le tradizioni europee e l’esperienza latino-americana, a cura di L. Cassetti e A.S. Bruno, Giappichelli, Torino 2019.
[8] … per quanto, poi, a conti fatti soggetto ad imprevedibili e non di rado incoerenti apprezzamenti politico-discrezionali del giudice delle leggi, al quale è pur sempre rimasto in ultima istanza demandato di stabilire se esso sussista, o no, nei singoli casi.
[9] … pur, dunque, laddove dovesse aversene il sacrificio del principio della separazione dei poteri e, per ciò, lo smarrimento della tipicità dei ruoli istituzionali, la cui salvaguardia fa però, a mia opinione, tutt’uno con la garanzia dei diritti fondamentali, nei cui riguardi il principio suddetto è disposto in funzione servente.
[10] D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, spec. 101 ss.
[11] F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115.
[12] I non lineari sviluppi della giurisprudenza sul tema possono vedersi puntualmente rilevati in A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; v., inoltre, utilmente, C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss. Più di recente, v., poi, L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 114 ss.
[13] L’esperienza complessivamente maturata in occasione dei giudizi sulle leggi, d’altronde, conferma che la estensione di una previsione legislativa riguardante una data categoria di persone si ha nei riguardi di un’altra dalla prima non dissimile ma non verso l’intera collettività.
[14] … persone pure difficilmente intercettabili, non disponendo di strumenti sicuri per indagini in interiore hominis; e così è pure per la categoria di cui si parla subito appresso nel testo.
[15] Si è, nondimeno, fatto opportunamente notare che dell’immunità in parola “tutti egualmente ne beneficiano se tutti vi contribuiscono” [Q. Camerlengo - L. Rampa, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti Covid-19, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 30 giugno 2021, 210].
[16] Il riferimento – com’è chiaro – è ad O. Guerrini, che l’adoperò nella poesia Agli Eroissimi, inclusa nelle Rime di Argia Sbolenfi, opera data alla luce nel 1897 per i tipi del Premiato stabilimento successori Monti editore di Bologna, con lo pseudonimo di L. Stecchetti, rendendola quindi famosa. L’espressione appare, però, già nel 1891 del Nòvo dizionàrio universale della Lingua Italiana di P. Petrocchi (Fratelli Treves Editori di Milano) sotto il lemma “partire”.
[17] Ovvio il riferimento a M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss.
[18] Il vero è che – come si tentato di mostrare nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss. – si rende necessaria allo scopo un’autentica palingenesi culturale riguardante la struttura stessa del corpo sociale, della quale nondimeno non si vede a tutt’oggi neppure l’inizio.
[19] R. Conti, Il rilievo della CEDU nel “diritto vivente”: in particolare il segno lasciato dalla giurisprudenza “convenzionale” nella giurisprudenza dei giudici comuni, in AA.VV., Crisi dello Stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, a cura di L. D’Andrea - G. Moschella - A. Ruggeri - A. Saitta, Giappichelli, Torino 2015, 87 ss.
[20] … in Omissioni del legislatore e tutela giudiziaria dei diritti fondamentali, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 24 gennaio 2020, 207 e ivi, in nt. 25, altri riferimenti.
[21] V., part., C. Masciotta, Costituzione e CEDU nell’evoluzione giurisprudenziale della sfera familiare, Firenze University Press, Firenze 2019, spec. 156 ss.
[22] Un’articolata riflessione sulle ragioni che hanno, verosimilmente, sconsigliato dal rendere obbligatoria la vaccinazione nel caso nostro può, di recente, vedersi in R. Romboli, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 6 settembre 2021. V., inoltre, utilmente S. Curreri, Sulla costituzionalità dell’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19, in La Cost.info (www.laCostituzione.info), 28 agosto 2021, nonché i contributi al forum Sulla vaccinazione in tempo di Covid-19, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 2/2021, 257 ss.
[23] A quanto riferiscono i grandi mezzi di comunicazione di massa, da noi si sarebbe già raggiunta la soglia dell’80% dei vaccinati, ma non ancora appunto quella della immunità di gregge (che anzi, per alcuni, non sarebbe matematicamente raggiungibile).
Data retention: le questioni aperte*
di Giorgio Spangher
Con il d.l. n. 132 del 2021 il Governo ha dato attuazione alla decisione della Corte di Giustizia riguardante i tabulati telefonici in relazione a un caso riguardante l’Estonia (Corte Giustizia U.E. Grande Sezione, 2.3.2021, H.K. Prokuratuur, C 746/18) nonché all’impegno assunto in sede di approvazione del d.m. relativo ai costi delle intercettazioni telefoniche.
La materia è disciplinata dall’art. 1 attraverso due modifiche al comma 3 dell’art. 132 del dlg n. 196 del 2003, nonché attraverso l’inserimento di un comma 3 ter.
Il contenuto delle nuove previsioni, delle decisioni intervenute nella giurisprudenza prima dell’approvazione del decreto-legge, è già stato esposto nei commenti di Resta (La nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati) e di Gittardi (Sull’utilizzabilità dei dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell’ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021) già pubblicati nella rivista.
Ad memoriam: si prevede che, fermi i termini di conservazione, per i reati indicati nel d.l., la competenza all’autorizzazione all’acquisizione dei data retention spetti al giudice, su richiesta del p.m., ma anche del difensore dell’imputato, della persona offesa e delle altre parti private.
In altri termini, c’è un allargamento della platea dei richiedenti anche in relazione al fatto che l’acquisizione può essere richiesta non solo nella fase delle indagini preliminari.
Le perplessità della nuova previsione si incentrano sul fatto che manca il riferimento, che andrebbe esplicitato, che la violazione delle citate disposizioni va sanzionata con l’inutilizzabilità che risulta espressamente prevista solo dal novellato comma 3 bis. Ancorchè non possa dubitarsi che si tratti di divieto probatorio, una specificazione non appare inopportuna.
Suscita qualche ulteriore riserva l’indicazione dei reati per i quali è possibile l’acquisizione dei tabulati: invero, sembrano largamente superate le indicazioni della Corte di Giustizia che parla di forme gravi di criminalità e di prevenzione a gravi minacce alla sicurezza pubblica.
Peraltro, non è già mancato qualcuno che invece ritiene che restino estranei alla norma reati significativi puniti sotto la soglia indicata.
È già stato segnalato come la norma sconti un difetto di coordinamento con l’art. 254 bis cpp che adeguandosi alla Convenzione di Budapest disciplina le sequenze procedimentali del sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi, stabilendo che questo venga disposto dall’autorità giudiziaria (quindi anche dal p.m., ma non dai difensori).
Sempre in attuazione della decisione della Corte di Giustizia, il comma 3 bis disciplina l’intervento d’urgenza del pubblico ministero e la successiva convalida del giudice.
Non è stato riproposto l’art. 2 (che regolava la disciplina transitoria) innestando la questione sulla retroattività o meno della nuova disciplina rispetto alle acquisizioni disposte – nei procedimenti in corso – da parte del pubblico ministero, in linea con quanto previsto dalla legge (art. 132 cit.) e della giurisprudenza a sezioni unite Amuri, che aveva riformato la precedente sez. u. Gallieri.
Forse non è infondato ritenere che la mancata riproposizione, che avrebbe consentito di porre la questione in tutti i procedimenti in qualsiasi grado si fossero trovati, sia stata determinata dalla diseconomia della procedura legata al ritardo che la richiesta di trasmissione di atti – per la decisione – avrebbe determinato.
Resta naturalmente aperto il problema dell’applicabilità della nuova norma alle acquisizioni effettuate al di fuori delle sue previsioni.
Non appare infondato ritenere che trattandosi di norma a valenza processuale questa sia regolata dal principio del tempus regit actum. Pertanto le acquisizioni, pendente l’art. 132 cit, disposta dal pm senza autorizzazione del giudice, dovrebbero conservare efficacia. Tuttavia, si dovrebbe ritenere che se i fatti per i quali sono state richieste sono estranei all’ambito di operatività della nuova disciplina le risultanze debbano ritenersi inutilizzabili, non potendo il giudice acquisirle, trattandosi di un limite probatorio.
Restano, inevitabilmente, consegnati agli sviluppi processuali le iniziative sviluppate dai difensori dopo la pronuncia europea (trasmissione alla Corte di Giustizia, riproposizione delle questioni rigettate).
Non può escludersi che all’esito del processo, la difesa possa attivare iniziative presso le Corti sopranazionali, lamentando il pregiudizio dei diritti fondamentali.
Sul medesimo argomento si rinvia inoltre in questa Rivista a Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna di Federica Resta - I tabulati: un difficile equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela di diritti fondamentali di Giorgio Spangher e La sentenza CGUE del 2 marzo 2021: i giudici nazionali affrontano le criticità.
Si rinvia altresì a Acquisizione di dati di traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale: il decreto-legge 30 settembre 2021 n. 132.
Diritti delle donne, diritto di essere donna
Intervista di Ilaria Buonaguro a Maura Gancitano
Sabino Cassese, nell’introdurre il numero speciale dedicato ai settant’anni della Rivista trimestrale di diritto pubblico da lui stesso diretta da altrettanti cinquanta, si è interrogato sull’effettivo “stato dell’arte” dell’attuazione della nostra Costituzione, guardandosi indietro come è consuetudine fare in occasione di un traguardo importante. La domanda che si è posto e ci pone provocatoriamente il Giurista ha però il sapore amaro del realismo e tradisce subito la prospettiva critico-negativa adottata: non ripercorrere, quindi, gli obbiettivi raggiunti per appuntare le medaglie sul petto, ma elencare quelli falliti, riconoscere le occasioni perse e mancate, per poi poterne sviscerare ed esaminare le cause. Ricorrendo alla metafora delle “promesse costituzionali”, Cassese parla perciò di promesse “non mantenute o tradite”. E, prima fra tutte, annovera la promozione della parità di genere, la cui causa lucidamente individua in “lentezze culturali”.
Sarebbe stata sufficiente questa premessa per ricordare la cifra di perenne attualità della tematica della parità di genere – che si iscrive nel più ampio spettro dei diritti delle donne e della “questione femminile”. Ma i recentissimi episodi riportati dalle cronache – la cadenza ormai giornaliera delle notizie di femminicidi commessi nel nostro paese, tale da aver fatto parlare di una vera e propria emergenza o di una “strage delle donne”, da una parte; e il dramma umano che stanno vivendo le donne afghane e a cui assistiamo imperterriti, dall’altra – ci riportano ad uno stato emotivo di allarme e di sgomento più impellente, toccando le corde che trascendono la riflessione lucida, maturata a freddo, da cui pur si è inteso partire, del puro irrazionale dolore.
La tragica condizione delle donne afghane, in particolare, ci ricorda come il solo fatto di nascere ed essere donna in una parte “sbagliata” del mondo possa ancora segnare irreparabilmente il destino di una vita umana. E tutte le storie di donne interrotte per mano violenta ci ricordano, ancora, di come i diritti delle donne, lungi dall’aver raggiunto una meta (ideale) stabile, meritino una attenzione costante ed un fronte unito.
Dei macro-temi dei diritti delle donne, della parità di genere e di tutte le loro sfaccettature conversiamo oggi con Maura Gancitano, giovane filosofa del panorama culturale italiano, co-fondatrice assieme al marito e filosofo Andrea Colamedici della casa editrice, blog e scuola di filosofia Tlon. Un progetto culturale ambizioso e coraggioso (e indubbiamente riuscito) che Maura e Andrea hanno coltivato perseguendo uno scopo preciso: restituire alla filosofia la sua primigenia ed essenziale funzione di stimolo incessante alla riflessione, in grado di raggiungere – in un certo qual modo, democraticamente – tutti e di fungere da strumento universalmente valido nel comune vivere quotidiano. Attraverso una comunicazione diretta e di immediata comprensione e sfruttando le potenzialità della fluidità del web, Maura Gancitano e Andrea Colamedici hanno così riportato la filosofia nelle piazze, seppur non più solo fisiche, ma anche virtuali, rendendosi artefici di una filosofia che potremmo definire 2.0. o, come pure è già stata efficacemente denominata, “pop”.
Tra le riflessioni che accompagnano la ricca attività di promozione filosofico-culturale di Maura Gancitano, un posto di prim’ordine è stato sempre occupato dalle donne e dalla parità di genere.
Il libro Liberati dalla brava bambina scritto a quattro mani con Andrea Colamedici, edito da Harper Collins e pubblicato nel 2019 – che pure è richiamato nel corso dell’intervista – costituisce solo un esempio di questa sensibilità verso l’universo femminile.
Tentando di ricostruire un quadro che, seppur variamente articolato, non è certo completo, l’intervista intende affrontare le ombre, ma anche le luci del nostro tempo, tanto analizzando le storture sistemiche, i punti di arresto e i passi falsi sul cammino della parità di genere, quanto riconoscendo i progressi che sono stati compiuti – in particolare nell’ultimo anno – grazie allo sforzo unanime e corale delle istituzioni e della società civile. A partire dal riscontro di un dato, dal quale speriamo non si possa più tornare indietro: la maggiore consapevolezza del “problema” e il crescente interesse verso le sue possibili soluzioni.
1) Il lessico di genere è certamente una tematica verso la quale negli ultimi anni si è manifestata un’attenzione crescente, che al tempo stesso non ha tardato a divenire terreno di conflitti e diversità di vedute, soprattutto con specifico riguardo all’ambito delle professioni e degli incarichi politico-istituzionali (sull’argomento già in questa Rivista, l’intervista a più voci curata da Marco Dell’Utri, Lessico di genere).
Se infatti l’accostamento lessico di genere/parità di genere può essere letto come un climax ascendente in cui il raggiungimento della parità passa attraverso il riconoscimento della diversità di genere espressa attraverso la declinazione al femminile di tutti i termini che esprimono una qualifica, l’imprinting della diversità che consegue al ricorso al femminile è da taluni letto come una contraddizione in termini e di risultato.
Peraltro, nella maggior parte dei casi, si registra una certa resistenza proprio da parte delle donne, le quali – come Lei stesso ha già avuto modo di rilevare – riconoscono in “selettivi” titoli al femminile una perdita di autorevolezza, che temono si possa riflettere sulla loro immagine.
Quanto ancora – incrociando così un tema di più ampio respiro – il potere è avvertito dalle donne e dalla società esclusivamente in termini maschili? Come si può interrompere questo cortocircuito che conduce le donne a mimetizzarsi nel “maschile inclusivo”?
In questo momento coesistono molteplici sensibilità, ed è difficile quantificare con esattezza quanto il potere sia ancora avvertito come un fatto maschile a cui, spesso in modo inconsapevole, bisogna adeguarsi. Ci sono senza dubbio ancora molte donne che lo sentono e che si sentono addirittura attaccate da chi invita a usare il femminile, eppure voltandoci indietro possiamo riconoscere quanto sia cambiata la consapevolezza nella società civile, quanto la riflessione sul linguaggio abbia uno spazio in ogni ambito della vita - nell’editoria scolastica, nelle comunicazioni aziendali, nella pubblicità, nella pubblica amministrazione, solo per fare alcuni esempi - laddove fino a pochi anni fa non rappresentava neppure una questione da affrontare. Le cose, seppur lentamente, stanno cambiando.
2) Le donne e il loro corpo. Un argomento vastissimo e dalle implicazioni caleidoscopiche, che tuttavia condividono la medesima origine: parlare delle donne rimanda in maniera diretta, a tratti automatica, all’esteriorità e alla dimensione della corporeità. Un legame, questo, reso ancor più stretto dal rilievo che l’estetica assume nella società contemporanea.
A proposito di questo riflesso condizionato, troppo spesso oggi accade che il giudizio, tanto negativo quanto positivo, sulla fisicità di una donna sia utilizzato per screditare il suo pensiero, instaurando un vero e proprio rapporto di proporzionalità tra corpo e valore dell’argomentazione.
Quanto influisce ancora la componente fisica nella libertà di espressione di una donna e, di converso, nella percezione di credibilità delle proprie opinioni?
Influisce ancora molto, e in ogni ambito. Condiziona la stessa vita di noi donne, ci porta sempre a chiederci come appariremo in una situazione pubblica, come verremo giudicate, e di conseguenza assorbe tempo, energie economiche e pensieri. Non siamo libere di dedicare tutto il nostro tempo a cosa diremo e a cosa lo diremo, come accade agli uomini. In effetti in ogni situazione pubblica il corpo della donna viene giudicato, centimetro per centimetro, indipendentemente dalle sue forme, dalle sue dimensioni e dalle scelte di abbigliamento e trucco. È importante sottolineare che il problema non è essere belle o brutte, con un corpo conforme o no: è il fatto stesso di essere riconosciute donne a rappresentare un problema, e questo è un fatto culturale. Il corpo femminile è ancora visto come non civilizzato e disturbante, per questa ragione in molti settori lavorativi le donne tendono a nasconderlo sotto abiti “maschili”, in modo che non dia fastidio.
3) Nel Suo libro “Liberati della brava bambina”, uscito nel 2019 ed edito da Harper Collins, scritto assieme a Suo marito Andrea Colamedici, analizzate, da un punto di vista filosofico, otto storie di donne tratte dalle più antiche alle più moderne forme di narrazione. Fornendone una lettura diversa, seppur basata sui testi originali, compite una vera e propria opera di decostruzione di stereotipi che hanno storicamente accompagnato determinate figure femminili e che hanno contribuito ad alimentare una visione monolitica della donna, incastrata in ruoli rigidi e precostituiti che ancora oggi condizionano il libero percorso di “fioritura” – per usare la vostra terminologia – di ogni donna. Attraverso questo percorso di disvelamento, al tempo stesso, tentate di ricucire quella ferita atavica e profonda che è comune a tutte le donne.
C’è, come si usa dire con espressione anglofona, un problema di storytelling? Abbiamo cioè conosciuto determinate versioni di figure femminili, e con esse introiettato certi condizionamenti, perché ci è stata tramandata una interpretazione fondata su un univoco punto di vista maschile?
Le storie hanno un potere, veicolano valori, visioni del mondo, giudizi e pregiudizi. È sempre stato così nella storia, a qualunque latitudine, ed è così ancora adesso. I miti omerici hanno influenzato profondamente il nostro sguardo sul mondo, che è poi la ragione per cui Platone ha scelto di sostituirli con i propri, e la mitologia greca ci ha trasmesso una certa visione del rapporto uomo-donna. Abbiamo considerato Zeus e Hera la coppia monogamica fondata della cultura occidentale, e oggi possiamo riconoscere - senza gettare via quel patrimonio, ma al contrario recuperando le storie apocrife - quanto fosse problematico. Ecco perché la psicologia nell’ultimo secolo ha iniziato a indagare questi significati, occupandosi di fiabe, racconti popolari e storie che sembravano solo intrattenimento, ma che invece cementavano una certa cartografia dei rapporti umani. Anche il modo di dare la notizia di un femminicidio sui giornali ha una componente narrativa importante, che ci aiuta a capire quanto la prospettiva con cui si racconta una storia abbia a che fare con la vita e la morte.
4) L’11 febbraio la Corte Costituzionale ha sollevato dinanzi a sé questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma primo, del codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.
La Corte, nel ripercorre le tappe della propria giurisprudenza, si sofferma in particolare su quanto riconosciuto già dall’ordinanza n. 61 del 2006, ovvero che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Successiva a tale fondamentale pronuncia è la sentenza n. 286 del 2016, con la quale, ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, Cost., la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che non consentiva di trasmettere di comune accordo ai figli al momento della nascita anche il cognome materno, e riconoscendo al tempo stesso la necessità di pervenire ad un ristabilimento del principio della parità dei genitori attraverso un intervento del legislatore che disciplinasse organicamente la materia. A tale invito è seguita la consueta inerzia del decisore politico, che ha portato la Corte a tornare, seppur in termini diversi, sulla medesima questione.
In attesa che la Consulta si pronunci, ponendo nuovamente allo scoperto le deficienze e i ritardi del nostro consesso parlamentare e parimenti gettando luce sui punti ancora bui del nostro impianto legislativo, ritiene sia un segnale importante in vista del superamento, anche ideologico, del sistema patriarcale?
È un segnale importantissimo, e negli ultimi decenni ne sono arrivati molti, per fortuna. Stiamo progressivamente abbandonando, con lentezza ma con costanza, una serie di retaggi culturali che ponevano la donna in una condizione di subordinazione, o addirittura di assoggettamento, rispetto all’uomo. In questa prospettiva anche la questione del cognome è importante, perché se è vero che la famiglia e la relazione genitore-figlio dovrebbero fondarsi sull’amore, come ogni rapporto umano rappresentano una dinamica di potere. Se il potere di dare il cognome è solo di un genitore, ne segue che ci sarà uno squilibrio, se non altro nella dimensione pubblica. Quella verso cui stiamo andando in questi anni è, al contrario, una società in cui i genitori possano avere parità di potere, possano davvero cooperare senza che uno prevalga sull’altro, e questo ci porta a mettere in dubbio anche degli aspetti che di primo acchito potrebbero apparire superflui.
5) La ancora oscura vicenda della diciottenne pakistana Saman Abbas ha riportato all’attenzione dei media il fenomeno dei matrimoni combinati (e di quello, in qualche modo affine, delle cc.dd. “spose bambine”). Il Viminale ha da poco pubblicato il primo report statistico sulla costrizione e induzione a nozze in Italia, con molta probabilità sottostimato rispetto al numero reale, a circa due anni dall’introduzione del relativo delitto di cui all’art. 558bis c.p. Sebbene vada certamente ascritto merito all’iniziativa del legislatore di criminalizzare i matrimoni forzati (i quali nella maggior parte dei casi coinvolgono giovani o addirittura minorenni), va altresì considerato come nei reati culturalmente orientati - o comunque connotati da motivi di matrice ideologico-culturale nonché religiosa - l’intervento penale assuma carattere eminentemente sanzionatorio. Difatti, gli auspicati meccanismi di coazione psicologica che la parte precettizia del divieto dovrebbe attivare secondo la funzione di prevenzione generale integratrice che le è propria, sono in questi contesti largamente inefficaci.
Crede pertanto che, così come nel caso del più vasto problema della violenza sulle donne, lo Stato debba farsi carico di intervenire in un’altra direzione, che miri a potenziare la prospettiva della prevenzione rispetto a fenomeni così strutturalmente complessi e, appunto, espressivi di identità culturale?
È un tema molto complesso e difficile da riassumere. Credo prima di tutto che, nonostante la comunità musulmana in Italia conti milioni di persone, sia l’opinione pubblica sia le istituzioni ne sappiano ancora molto poco, e questo rischia di favorire l’islamofobia, specie di fronte a un caso come quello di Saman Abbas. È importante, per questa ragione, dare voce a tutte le attiviste femministe musulmane che possono fare chiarezza e permettere di orientarsi nella complessità delle questioni religiose. La religione musulmana non è in contraddizione con i principi democratici, prova ne è proprio l’espressione del femminismo musulmano, ma perché si possa fare prevenzione di certi fenomeni è urgente che lo Stato abbia prima di tutto conoscenza e consapevolezza della cultura di cui si sta parlando. Spesso non si capisce quanto, oltre all’aspetto repressivo, sia necessario un lavoro culturale. Non accade solo in casi come questi, ma anche in tutto quello che ha a che fare con la violenza di genere.
6) Affacciandoci ora sul panorama internazionale, il primo luglio la Turchia è ufficialmente uscita dalla Convenzione di Istanbul, a seguito della decisione del Consiglio di Stato turco di respingere il ricorso con cui l’opposizione aveva chiesto che la decisione del presidente Erdogan fosse annullata.
Non erano mancate reazioni, sia di aperta protesta delle donne turche, scese in piazza ad Istanbul, come ad Ankara e a Smirne; sia di denuncia delle istituzioni ed autorità europee ed extraeuropee.
E se la motivazione ufficiale di tale volontà di recesso è stata indicata nel (presunto) raggiungimento di un adeguato standard di tutela delle donne attraverso strumenti di protezione interni allo Stato turco, – il che fa amaramente sorridere, guardando ai numeri dei femminicidi e delle violenze sulle donne perpetrate in Turchia solo tra il 2020 e questa prima metà di 2021, senza considerare un certa cifra “oscura” di morti di donne dubbie –; è fin troppo evidente che si tratti di una calcolata scelta politica, da collegare all’intento di Erdogan di avvicinare a sé quella consistente parte dell’elettorato conservatore che vede nella libertà delle donne un nemico della famiglia tradizionale.
Sorvolando sulle sabbie mobili su cui si pretenderebbe di reggere la motivazione ufficiale, e scomodando il secondo imperativo categorico di Kant, sono le donne ancora una volta trattate solo come mezzo, e mai come fine, come bieco strumento di consenso politico?
La Turchia è sempre di più l’ago della bilancia di molte questioni geopolitiche, quindi quello che accade lì è da osservare con attenzione e con estrema serietà. L’uscita dalla Convenzione di Istanbul rientra in un progetto internazionale di smantellamento dei diritti riproduttivi e sessuali delle donne, che si scontra invece con quello che l’Unione Europea sta cercando di fare, ponendo la violenza di genere come eurocrimine. Io credo che il progetto di sottrazione dei diritti delle donne sia prima di tutto un fatto ideologico, più che una questione di consenso politico. Le donne fanno paura, se sono libere diventano pericolose e mettono in dubbio i ruoli di genere, quindi devono perdere dei diritti acquisiti, a cominciare da quello all’aborto. Questo è pericolosissimo, ma dagli Stati Uniti, all’Ungheria, alla Polonia e anche a certe regioni italiane, accade sempre più di frequente.
7) Il tema degli stereotipi di genere è stato in questa Rivista acutamente sviscerato da Marco Dell’Utri entro la cornice specifica del linguaggio giuridico, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico.
L’analisi – che si iscrive all’interno di un più ampio ciclo di riflessioni allo stesso dedicato – prende le mosse dal Programma di Gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione, predisposto dal Primo Presidente Pietro Curzio.
Dalla ricostruzione di significative decisioni giudiziarie – talune più lontane altre più vicine nel tempo – si evincono due aspetti: il primo è indubbiamente la tenace pervasività e diffusività del fenomeno finanche nelle trame motivazionali dei provvedimenti giudiziari (oltre che, ancora, nelle modalità di conduzione di interrogatori e contro-esami, specie nell’ambito di reati a sfondo sessuale); il secondo, che vi è, allo stesso tempo, una consapevolezza crescente e una maggiore sensibilità rispetto al problema, che si traduce nella attivazione di politiche settoriali di contrasto.
Intravede, anche nell’ambito di tale contesto, che è espressione di uno dei poteri fondamentali dello Stato e ha diretta incidenza sulla vita delle persone, un momento di significativa apertura e propulsione al cambiamento?
Credo proprio di sì. Fino anche solo a due anni fa questo tipo di decisioni sarebbero state quasi impossibili e sarebbero state ritenute superflue o addirittura incomprensibili. Oggi ci troviamo al centro del dibattito, di fronte a posizioni inconciliabili e a tantissime resistenze, ma finalmente il dibattito è aperto. È una rivoluzione, nonostante tutto.
8) Lo scorso 4 marzo il quotidiano la Repubblica ha pubblicato una lettera aperta indirizzata all’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, su iniziativa di Maria Beatrice Giovanardi - l’italiana che ha già ottenuto la modifica in chiave non sessista della definizione di “woman” dell’Oxford Dictionary - e firmata da cento personalità del mondo della politica e della cultura. Con questa lettera si reiterava, rendendola di dominio pubblico, la richiesta (già fatta pervenire direttamente alla Treccani) di procedere ad un aggiornamento delle definizioni sinonimiche del termine donna, da operare in due direzioni: la rimozione dei “vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera di riferimento”; l’inserimento di “espressioni che rappresentino, in modo completo ed aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società”.
Ne è dapprima seguita una replica pubblicata sia sul sito della Treccani che su la Repubblica, a firma della direttrice del Vocabolario Valeria Della Valle, ove si precisava come l’intento dell’Istituto fosse quello di registrare tutte le espressioni che, nel corso della storia della lingua italiana, sono state riferite alla parola “donna”, comprese, dunque, quelle che ne dipingono una visione esclusivamente dispregiativa.
Il successivo 14 maggio la Repubblica ha informato i propri lettori dell’avvenuta espunzione di tutte le espressioni denigratorie in precedenza contenute nella definizione di “donna” del vocabolario online della Treccani, alla quale seguirà a breve un più completo aggiornamento del lemma.
È concorde nel ritenere che le istituzioni della cultura, qual è indubbiamente l’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, debbano essere a pieno titolo partecipi del processo di cambiamento di un habitus mentale che, seppur non ancora del tutto smantellato, rivela una sempre maggiore inadeguatezza a rappresentare la società contemporanea?
Rispetto a questa vicenda ho letto pareri molto discordanti, e in effetti credo che rappresenti una domanda aperta, che è poi legata a due differenti approcci della linguistica: quello descrittivo e quello normativo. Un vocabolario deve descrivere un termine o prescrivere come andrebbe usato? Molte persone pioniere del linguaggio inclusivo in Italia (penso a Vera Gheno e Federico Faloppa) hanno espresso disaccordo rispetto alla cancellazione, proprio perché i vocabolari registrano tutto quello che la comunità dei parlanti usa, quindi anche le espressioni dispregiative e offensive. È piuttosto la comunità dei parlanti a dover cambiare il giudizio di valore che esprime rispetto a un termine o scegliere di non usarlo più, così da espellerlo dal vocabolario. Io sono abbastanza d’accordo, anche perché questo non solleva le istituzioni che osservano e descrivono la nostra lingua dal partecipare al processo. Purtroppo, a differenza di Treccani, ci sono molte altre istituzioni che hanno paura di questo cambiamento.
9) Ancora in ambito di istituzioni culturali. L’Università di Bari ha di recente comunicato di aver previsto, a partire dal prossimo anno accademico, una riduzione del 30% delle tasse universitarie in favore delle studentesse (con reddito ISEE inferiore a 30mila euro) che sceglieranno di iscriversi a corsi di laurea (puntualmente elencati) che registrano storicamente una percentuale molto bassa di “presenza” femminile.
L’iniziativa ha suscitato reazioni di diverso segno: la più eclatante, tra le contrarie, è certamente quella del senatore Pillon, che ha sostenuto la inopportunità di tali politiche, difettando – a suo dire – nelle donne una predisposizione naturale all’apprendimento delle materie “tecniche”, essendo viceversa più portate per “materie legate all’accudimento”.
Di poco successiva è la notizia del bando per quindici borse di studio stanziate dal Politecnico di Milano e finanziate da privati, destinate esclusivamente a diplomande che intendano iscriversi alle facoltà di ingegneria.
Al di là di qualsivoglia preconcetto, Lei che attraverso il progetto Tlon e la sua Scuola di filosofia si occupa in particolare di “fioritura personale” e che ha esperienza di formatrice nelle più affermate aziende, crede sia possibile sostenere una correlazione tra genere e inclinazione?
O è anch’essa il frutto di un’operazione subdola di “etichettamento”?
È senza dubbio un condizionamento culturale, non c’è alcuna ragione biologica per credere che ci sia una correlazione. Come esseri umani, al di là del nostro genere possiamo avere inclinazioni per certe discipline e non per altre. Del resto, le donne hanno iniziato a frequentare l’università poco più di un secolo fa, per millenni è stato detto loro che studiare non fosse “femminile” e che leggere rendesse sterili. Parlare di discriminazione di genere, infatti, non significa dire che le donne siano migliori degli uomini o che debbano voler fare tutto, ma significa valutare le proprie capacità e quelle delle altre persone senza i pregiudizi legati al genere, senza pensare che ci siano cose per donne e cose per uomini. Purtroppo in Italia ci sono ancora questi pregiudizi diffusi.
10) Altro tema controverso che ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico è quello delle quote rosa. Le critiche che le stesse donne muovono al c.d. quotismo si fondano sulla convinzione che riservare dei posti sulla base della mera appartenenza al genere femminile offuscherebbe il ricorso ai canoni del merito e della competenza quali univoci criteri del processo di selezione, disegnando una corsia privilegiata.
Di contro, chi si professa a favore delle quote rosa, vi riconosce una funzione di “cura necessaria” rispetto ad uno stato di cose malsano, costituito da un dislivello di potere incapace di riassestarsi da solo. Chi infatti detiene un privilegio non è disposto a cederlo sua sponte.
Secondo Lei è questo il modo in cui devono essere intese le quote rosa? Ritiene che possano svolgere una funzione simil-pedagogica, che le renderà addirittura superflue in un prossimo futuro?
Secondo me bisogna partire dal fatto che ci siano donne e uomini capaci e competenti in ogni campo, ma che per i cosiddetti gender bias le donne vengano sistematicamente escluse (perché ritenute poco autorevoli o perché si pensa che non siano adatte a ricoprire una certa carica perché madri, per fare due esempi). Le quote, in questo senso, non sono uno strumento premiale, ma hanno lo scopo di smantellare i bias. Se pensiamo che le quote siano un premio, siamo in sostanza dicendo che stiamo dando una posizione a una persona che non la merita, quindi che non è competente. La legge Golfo Mosca ha dimostrato, al contrario, che le donne in grado di partecipare ai CdA c’erano eccome, ma non venivano viste. Sarebbe augurabile, come sta accadendo in altri paesi, che le quote diventino superflue a un certo punto, ma in Italia la discriminazione è talmente grande che purtroppo sono ancora essenziali.
11) Le cc.dd. audizione cieche – da Lei ricordate in una recente intervista – sperimentate a partire dagli anni ’50 dalla New York Philharmonic hanno avuto l’esito di un aumento fino al del 30% delle orchestrali assunte.
Non si tratta della prima forma di “occultamento” dell’identità di genere – rectius genere femminile – che ha ottenuto riscontri di favore per le donne: si pensi, ad esempio, all’utilizzo di pseudonimi, nomi maschili o addirittura all’anonimato da parte di tante scrittrici nella storia della letteratura, resosi funzionale se non addirittura necessario in alcuni casi per essere ritenute meritevoli di pubblicazione, in altri per incrementare il numero delle vendite.
Da qui il seguente quesito: è opportuno incentivare simili prassi di oscuramento del proprio genere come metodi più imparziali di selezione, privilegiando il dato pratico favorevole alle donne, o invece valorizzare l’aspetto della conduzione, riconoscendo l’inganno di un sistema che non affronta l’ostacolo ma semplicemente lo aggira?
Le audizioni cieche dimostrano che la ragione per cui le orchestrali non venivano scelte era il genere, e rappresentano un caso di studio interessante per smontare l’idea che la discriminazione non esista. Ovviamente doversi nascondere perché emerga il proprio talento è svilente e dimostra quanto lo sguardo sui corpi e sulle identità sia pervasivo. Serve come caso limite, ma dovrebbe portare a una riflessione sui gender bias nei processi di selezione. Ogni persona dovrebbe essere libera di mostrarsi in pubblico senza dover nascondere una parte di sé per essere considerata adatta a un ruolo.
12) Il c.d. Family Act – riforma che si colloca nel quadro del PNRR – realizza per la prima volta un approccio “integrato” nelle politiche di sostegno alle famiglie, prevedendo l’adozione di misure che operano in direzioni diverse ma convergono su un medesimo fronte. Tra queste meritano di essere menzionate gli incentivi al lavoro femminile, l’estensione del congedo obbligatorio di paternità, la revisione dei congedi parentali (per una ricostruzione dei due istituti e delle relative differenze si rimanda in questa Rivista all’articolo di Francesco Bordonali, La tutela delle pari opportunità: un primo (mezzo) importante passo in avanti).
Ritiene che, anche su impulso della normativa europea (si guardi in ultimo la diretttiva UE n. 2019/1158 del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza) nonché delle sfide lanciate dall’Unione per far fronte alle “questioni sociali” acuite dalla pandemia, il Family Act testimoni una maggiore coscienza del sempre più necessario ricorso alla logica della condivisione, che deve partire dalle famiglie, per poi permeare tutti i contesti lavorativi e infine i piani più alti del potere?
Credo che la sensibilità stia cambiando, e che in questo l’Unione Europea abbia un ruolo centrale, così come lo hanno - sebbene in modo diverso - altre realtà sovra-nazionali. L’agenda 2030 dell’ONU, per esempio. è un documento fondamentale per il cambiamento di una serie di processi sociali, economici, ambientali, ma anche di stereotipi e dinamiche relazionali. L’obiettivo di sviluppo sostenibile relativo alla parità di genere (SDG 5) parla sia della salute riproduttiva, della contraccezione, delle mutilazioni genitali femminili, ma anche della divisione dei carichi domestici, della distruzione degli stereotipi e di un’altra serie di comportamenti culturali che sono ovviamente meno gravi di altri, ma che rientrano nella stessa visione dei rapporti tra i generi.
13) Grazia Deledda, scrittrice premio Nobel per la letteratura 1926, e Hannah Arendt, filosofa politica collocata tra i pensatori più influenti del Novecento. Due donne, tra le tante, che si sono distinte in diversi campi della cultura. Allo stesso tempo due donne spesso ignorate dai programmi scolastici e di conseguenza poco conosciute dagli studenti.
Inserire stabilmente nei programmi, per lo meno delle scuole superiori, figure di donne come la Deledda per la letteratura e la Arendt per la filosofia, aiuterebbe a comunicare agli studenti un messaggio duplice: fornire un esempio e un modello di ispirazione per le giovani donne e di inclusione nei campi artistici, culturali e latu sensu politici per chi è in una fase cruciale della propria formazione.
Esiste anche in questo caso un difetto di rappresentazione, da imputare ai nostri programmi scolastici, che sarebbe opportuno correggere?
Le donne vengono ancora sistematicamente dimenticate e cancellate, anche se - come Deledda - hanno vinto il premio Nobel per la Letteratura, finendo per essere lette più all’estero che nel proprio paese. Ancora una volta, rappresentare l’opera delle donne non è un premio o un contentino, ma il riconoscimento giusto di un valore. Se prima dell’Ottocento le donne non potevano, salvo davvero pochissime eccezioni, occuparsi di letteratura e filosofia, da un secolo e mezzo questo accade, dunque come è possibile che nei manuali scolastici siano ancora assenti?
14) “La prima donna che…” La prima donna a…” o “Per la prima volta una donna…” sono frasi che – complici i mass media – sentiamo in maniera sempre più ricorrente.
Eppure, nella positività del messaggio che questi “annunci mediatici” intendono trasmettere, essi testimoniano anche l’eccezionalità di vedere una donna ricoprire determinati ruoli.
Non a caso, nella bellissima intervista di Paola Filippi a Margherita Cassano, La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, pubblicata in questa Rivista, la Dott.ssa Cassano ha ribadito quanto già significativamente detto poco dopo la sua nomina, e cioè che “potremmo ritenere raggiunta la parità solo quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna” in un ruolo apicale della magistratura.
Questo, in effetti, è l’obiettivo che tutti noi, non solo le donne, ci dovremmo prefiggere.
Ma nel frattempo che ciò accada, potrebbe suggerirsi una riflessione: se le notizie di donne che hanno raggiunto i vertici nella loro professione, che si sono distinte in un determinato settore, che hanno scalato con successo il cursus honorum, realmente comunicano messaggi ambivalenti, nel lungo frangente di questo percorso tutto in salita probabilmente dovremmo continuare a privilegiare la faccia della medaglia che ci sorride. Per offrire l’idea della possibilità a chi è cresciuta invece nella cultura della impossibilità e della negazione delle opportunità; per offrire un messaggio di speranza a chi stava lottando ma stava per cedere…
Io non credo che sottolineare queste situazioni sia del tutto sbagliato, specie perché sono frequenti e danno l’idea che un altro muro sia crollato, e che dunque sia possibile anche per altre donne fare lo stesso. Il problema è quando la donna che raggiunge un certo ruolo per la prima volta viene raccontata solo in quanto donna, e spesso in quanto madre, oscurando così il suo nome, la sua individualità, le sue competenze. È importante raccontare cosa sta cambiando in tutti i settori, ma soprattutto raccontare le storie di queste donne, che spesso sono potenti, particolari, uniche, e che rischiano di essere appiattite sullo stereotipo de “la prima donna che…” Abbiamo bisogno di sapere che il soffitto di cristallo si può infrangere, ma abbiamo bisogno di ascoltare la storia di chi l’ha fatto.
Sull’utilizzabilità dei dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell’ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021
di Claudio Gittardi
Il decreto-legge 30 settembre 2021 n° 132 pubblicato in Gazzetta Ufficiale in pari data ed avente efficacia immediata introduce come noto all'articolo 1 modificazioni all'articolo 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003 n° 196 in materia di acquisizione dei dati di traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale.
Tale disciplina risulta introdotta per adeguare il sistema normativo nazionale alla luce dei principi enunciati dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea Grande Camera del 2 marzo 2021 e nello specifico al punto 2 del dispositivo ove si ritiene non conforme alle direttive europee una normativa nazionale che attribuisca al Pubblico Ministero quale autorità avente esclusivamente "…il compito di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitarle, eventualmente l'azione penale in un successivo procedimento…" la competenza ad autorizzare l'accesso di un'autorità pubblica ai dati relativi al traffico ed i dati relativi all'ubicazione ai fini di un'istruttoria penale.
Il novellato art 132 comma 3 DLVO 196/2003 prevede dunque che in presenza di sufficienti indizi di reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore al massimo a tre anni, e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo gravi alle persone col mezzo del telefono, ove tali dati siano rilevanti ai fini della prosecuzione dell'indagine, gli stessi devono essere acquisiti con decreto motivato del Giudice su richiesta del Pubblico Ministero o su istanza del difensore dell'imputato, della persona sottoposta a indagini, della persona offesa e delle altre parti private.
Il Pubblico Ministero mantiene, in base al nuovo comma 3 bis del citato art 132, la possibilità di disporre l'acquisizione dei dati con decreto motivato soltanto quando ricorrono ragioni di urgenza e vi sia fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini.
Ma anche in questo caso è previsto l'intervento del Giudice con l'emanazione di un provvedimento di convalida entro quarantott'ore dalla trasmissione del decreto motivato da parte del Pubblico Ministero. E in tale caso la mancata convalida del decreto del PM nel termine stabilito determina l'inutilizzabilità dei dati acquisiti.
Nella versione originaria del DL 132/2021 all'articolo 2 veniva in realtà dettata una disposizione transitoria che prevedeva l'utilizzabilità dei dati relativi al traffico telefonico e telematico acquisiti dall'Autorità giudiziaria nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto ove tale acquisizione fosse stato convalidata dal Giudice nella prima udienza successiva alla data di entrata in vigore del decreto ovvero, in caso di mancato esercizio dell'azione penale, da parte del Giudice per le indagini preliminari all'atto dell'adozione del primo provvedimento successivo all'entrata in vigore del decreto legge
Tale disposizione transitoria che avrebbe determinato per inciso notevoli problemi in sede applicativa e di interpretazione non è stata reiterata nel testo definitivo del DL 132 /2021. Si deve pertanto ritenere che, in assenza di una specifica disposizione transitoria e in base al principio di disciplina temporale degli atti processuali , siano utilizzabili i dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell'ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021 a seguito di provvedimento emesso dal Pubblico Ministero prima di tale data in vigenza della precedente disciplina; e questo anche nell'ipotesi che il provvedimento del Pubblico Ministero sia stato emesso anteriormente a tale data e i relativi dati risultino trasmessi allo stesso dall'autorità competente successivamente al 30.9.2021, data di entrata in vigore del DL 132/2021, posto che si tratta di dati acquisiti e trasmessi in base a provvedimento legittimamente emesso dall’Autorità giudiziaria in conformità al contenuto dell’allora vigente art 132 DLVO 196/2003 .
Altro e diverso aspetto attiene all’applicabilità o meno di tale disciplina anche ai provvedimenti di acquisizione dei c.d files di log ora emessi dal PM. I files di log contengono due tipologie di informazioni:
- i c.d. Registration Data, ossia le informazioni inserite dall’utente all’atto della creazione dell’account, come ad esempio nome, cognome, data e luogo di nascita, account di posta elettronica principale e secondario (di recupero), data/ora di creazione del profilo ed eventuale relativo indirizzo IP (pubblico), stato dell’account (attivato/disattivato con relativo gruppo data/ora), nonché altre informazioni descrittive dell’utente, per i quali non è previsto alcun sistema di autenticazione dei dati immessi, fatta eccezione per l’account di posta elettronica principale e, in alcuni casi, per il numero di cellulare, per cui esiste invece un’apposita procedura di verifica tramite mail o SMS;
- i c.d. Traffic Data, ovvero le informazioni relative alle connessioni effettuate verso lo specifico profilo utente, ossia indirizzo IP (pubblico) e gruppo data/ora della relativa connessione.
Le informazioni ricavabili dall’analisi delle citate tipologie di files di log appaiono strettamente riconducibili al legittimo utilizzatore del profilo (fatta eccezione per i casi di accesso abusivo ex art.615-ter c.p.), di cui sarà possibile rilevare, al massimo e non direttamente, l’eventuale impiego di una connessione assegnata ad un’utenza domestica, del luogo di lavoro o mobile.
In tale documentazione non è pertanto contenuta alcuna informazione che consenta di ricostruire direttamente l’interazione del soggetto con terzi e/o di geolocalizzare direttamente le attività svolte.
In altri termini con le acquisizioni dei files di log non si acquisiscono dati relativi al traffico telematico o dati relativi all’ubicazione idonei a “fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente” di comunicazione telematica (posto che la comunicazione implica interazione con altro soggetto) o “sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate”, che sono appunto le informazioni a cui si riferisce la citata sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea Grande Camera .
Si deve ritenere pertanto che i provvedimenti di acquisizione dei files di log non rientrino nella previsione del DL 132/2021 come novellato e possano essere sempre autonomamente emessi dal PM.
Il tempo e la responsabilità della P.A. nella visione del legislatore all’epoca della pandemia
di Antonella Manzione
Sommario: 1. Premessa - 2. La violazione del termine di chiusura del procedimento - 3. L’inefficacia quale strumento di rafforzamento dell’istituto del silenzio - 4. La certificazione del silenzio - 5. Le conseguenze del mancato rispetto del termine per il potere conformativo o inibitorio in materia di scia - 6. Le modifiche al potere di annullamento di ufficio - 7. L’autotutela in relazione alla S.C.I.A. - 8. Ancora sull’impatto della disciplina dell’autotutela sulla s.c.i.a. - 9. ll monitoraggio dei tempi dei procedimenti - 10. Le responsabilità - 11. Conclusioni
1. Premessa.
L’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della l. 18 giugno 2009, n. 69,rubricato “Conclusione del procedimento”, declina la doverosità amministrativa -in risposta ad un’istanza di parte necessaria all’attivazione del procedimento ovvero ad un obbligo di attivarsi ex officio- sia in termini di avvio che di conclusione del procedimento con un provvedimento espresso entro un tempo dato[1]. La sussistenza dell’obbligo, tuttavia, non è stata ancorata in maniera assolutistica ad una qualche previsione normativa che formalmente vincoli la Pubblica Amministrazione, ma ravvisata in tutti quei casi in cui ragioni di giustizia -recte, di giustiziabilità- e di equità impongono l’adozione di un provvedimento. La fonte dell’obbligo giuridico di provvedere, quindi, in genere consiste in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non dovendo necessariamente derivare da una disposizione puntuale e specifica, può scaturire anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi regolatori dell’azione amministrativa[2]. La non semplice ricerca di un punto di equilibrio tra la doverosa responsabilizzazione del privato, che deve darsi cura di corredare le proprie istanze con quanto necessario da subito ad attribuire loro consistenza e renderle “esaminabili” dall’Amministrazione e, quale contraltare, l’approccio collaborativo di quest’ultima, si gioca spesso proprio sulla auspicata unicità e tempestività delle richieste di integrazione, evitando la reiterazione dei contatti per il semplice tramite di una valutazione iniziale esaustiva e trasparente. Da un lato, infatti, si pone un’esigenza di corretta individuazione del dies a quo a decorrere dal quale computare la maturazione del provvedimento tacito, ovvero la possibilità di controllo “fisiologico” di un’attività soggetta a s.c.i.a., non potendosi dare certo rilievo a istanze meramente strumentali in quanto prive finanche del corredo documentale e descrittivo richiesto dalla norma; dall’altro, all’opposto, di far sì che un atteggiamento ondivago o comunque insistito dell’Amministrazione finisca per vanificare la portata anche responsabilizzante degli istituti, avvalorando la comprensibile ritrosia del privato ad accontentarsi di un atto non ostensibile all’organo di controllo. È in tale ambito che si collocano le più recenti novelle in materia che nella cornice dell’alleggerimento burocratico teleologicamente orientato a favorire la ripresa economica del post pandemia individuano modalità di rafforzamento degli istituti del silenzio assenso e della segnalazione certificata di inizio attività, sulla cui concreta efficacia può al momento avanzarsi solo un giudizio di prognosi[3].
2. La violazione del termine di chiusura del procedimento.
Come noto, in termini generali, tranne che nei casi di silenzi significativi, alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo - salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge - trattandosi di una regola di comportamento e non di validità[4]. La perentorietà dei termini procedimentali, peraltro, può aversi, quale eccezione alla regola della loro natura meramente ordinatoria o acceleratoria, nei soli casi in cui disponga in tal senso una norma che disciplini in modo specifico i procedimenti di volta in volta considerati, o sanzioni espressamente con la decadenza il mancato esercizio del potere dell’amministrazione entro gli stessi. L’art. 2-bis della medesima legge sul procedimento correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include profili afferenti la legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in definitiva, non è un vizio in sé dell’atto ma un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una eventuale forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione, ferma restando la possibilità per gli interessati di chiedere la condanna della stessa a provvedere ai sensi dell’art 117 c.p.a.[5].
3. L’inefficacia quale strumento di rafforzamento dell’istituto del silenzio.
Al fine di meglio comprendere i recenti interventi del legislatore sulla tematica, occorre ancora richiamare, ancorché sinteticamente, le linee di contorno dell’istituto del silenzio assenso. Esso costituisce la soluzione che da tempo il legislatore ha inteso individuare per porre rimedio al problema dell’inerzia della amministrazione, ovvero al fatto che non sia stato adottato il provvedimento finale nei procedimenti ad istanza di parte entro il termine certo e predeterminato di cui al richiamato art. 2 della l. n. 241 del 1990. Con il silenzio assenso, perciò, il richiedente ottiene automaticamente il bene della vita a cui tende, in conseguenza di un meccanismo normativamente determinato nei presupposti e nei limiti di applicazione che produce un effetto legale equipollente a quello di un provvedimento favorevole[6]. Il suo ambito di applicazione è stato declinato in chiave ricognitiva nella elencazione delle attività e dei procedimenti ad esso soggetti contenuta nella Tabella A allegata al d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (c.d. “SCIA 2”), che riporta anche quelli, comunque riferiti ai settori del commercio e delle attività assimilabili, dell’edilizia e dell’ambiente (per un totale di 246 attività/procedimenti) soggetti al regime dell’autorizzazione o della s.c.i.a. Va infine sinteticamente ricordato che nei casi in cui equivale ad accoglimento della domanda, il silenzio, in quanto provvedimento, può essere annullato o revocato, in via di autotutela, dall’Amministrazione (art. 20, comma 3, della l. n. 241 del 1990).
Dapprima con il c.d. “decreto semplificazioni”, 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 settembre 2020, n. 120, indi con il più recente d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito dalla l. 29 luglio 2021, n. 108, il quadro normativo ha subito, quanto meno nelle intenzioni del legislatore, un “rafforzamento”, nel dichiarato intento di colmare quell’area chiaroscurale tra l’astrazione giuridica e l’operatività pratica per come declinata nelle scelte gestionali delle Amministrazioni. Pur lasciando inevitabilmente immutata la struttura essenziale del provvedimento tacito, comprensiva delle scansioni temporali che ne determinano la formazione, si è dunque cercato di ovviare alla ricordata riluttanza del privato a ritenersi “appagato” dallo stesso, piuttosto che aspirare alla sua “materializzazione” sul piano formale, a torto o a ragione percepita come più cautelante a fronte di un eventuale controllo. Emblematica al riguardo è la casistica in ambito edilizio: nel procedimento di rilascio del permesso di costruire, disciplinato dall’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ne scansiona anche la relativa tempistica, è espressamente ribadita la possibilità di interruzione dello stesso per una sola volta per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino quelli presentati e che non siano già nella disponibilità dell’Amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente[7]. Al contrario, le lungaggini istruttorie sono all’ordine del giorno e vengono denunciate come fattore di criticità spesso portato ad esempio delle difficoltà pratiche connesse all’effettivo utilizzo degli strumenti di semplificazione via via introdotti dal legislatore. La problematica peraltro ha assunto contorni ancor più rilevanti in seguito al mutato significato del decorso del tempo da originario rifiuto di provvedere al rilascio del titolo in assenso allo stesso (art. 5, comma 2, lett. a), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, che ha riscritto in parte qua l’art. 20 del d.P.R. n. 380/2001)[8].
Con la prima delle richiamate novelle, dunque (art. 12 del più volte ricordato d.l. n. 76/2020), è stato inserito nell’art. 2 della l. n. 241/1990 un comma 8 bis ai sensi del quale «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza di alcuni termini, sono inefficaci». Vale la pena ricordare come la nozione dell’efficacia dei provvedimenti amministrativi trovi consacrazione formale nell’art. 21 bis, che con riferimento a quelli limitativi della sfera giuridica dei privati, superando la teorica dell’atto ricettizio, la individua nell’avvenuta messa a conoscenza dei contenuti da parte dei destinatari. Più in generale, e senza addentrarsi nella questione della capacità di un atto di produrre effetti nella sfera giuridica del destinatario, come ben sintetizzato da autorevole dottrina, l’efficacia di un atto amministrativo indica la sua idoneità a produrre effetti e conseguenze giuridiche e, allo stesso tempo, per una sovrapposizione semantica, il complesso medesimo di tali conseguenze[9].
Dopo la novella del 2020, dunque, l’inefficacia del provvedimento quale “sanzione” del mancato rispetto di alcuni termini, per lo più endoprocedimentali, consegue alla violazione di quelli previsti dalle seguenti norme, tassativamente individuate:
- art. 14, bis, comma 2, lett. c), relativo alle determinazioni delle amministrazioni coinvolte in sede di conferenza di servizi semplificata, che devono essere adottate entro il termine comunicato dall’amministrazione procedente, non superiore a 45 giorni (90, in caso di interessamento di amministrazioni preposte alla cura di interessi sensibili). La legge qualifica la mancata comunicazione della determinazione nei termini come assenso senza condizioni (articolo 14 bis, comma 4);
- art. 17 bis, commi 1 e 3, relativo all’acquisizione di assensi, concerti, nulla osta comunque denominati di competenza di altre amministrazioni pubbliche ovvero di gestori di beni o servizi pubblici per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi da parte di una pubblica amministrazione. Anche in questo caso è prevista la formazione del silenzio assenso decorso il termine di 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, di 90 nel caso di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili[10];
- art. 20, comma 1, che disciplina il silenzio assenso;
- art. 14 ter, comma 7, relativo ai lavori della conferenza di servizi simultanea, che si concludono non oltre 45 giorni decorrenti dalla prima riunione (90 giorni nel caso in cui siano coinvolte amministrazioni preposte alla cura di interessi sensibili ai sensi dell’art. 14 ter, comma 2). Anche in tale ipotesi sono previsti meccanismi di silenzio assenso: all’esito dell’ultima riunione l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento e si considera acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero non abbia espresso, partecipandovi, la propria posizione, ovvero infine abbia espresso un dissenso motivato riferito a questioni estranee all’oggetto della conferenza.
La decorrenza del termine normativamente previsto è foriera di conseguenze, nell’accezione sopra delineata, solo ove la domanda sia ammissibile: ciò non tanto e non solo in senso finalistico, bensì, ancor più a monte, con riferimento a quel minimo di consistenza, anche di corredo documentale, che la rende esaminabile dall’Amministrazione procedente. In alcuni casi, peraltro, è lo stesso legislatore che specifica quali informazioni sono necessarie al fine di rendere l’istanza scrutinabile, come tipicamente avviene ancora una volta in ambito edilizio avuto riguardo agli oneri e alle sanzioni che “accompagnano” le istanze di sanatoria, lato sensu intese[11].
Mentre, dunque, non risulta messo in discussione il principio, consolidato in giurisprudenza, in forza del quale il termine non decorre in mancanza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo[12], lo stesso non pare potersi affermare con riferimento alla egualmente diffusa considerazione in forza della quale il tempo di maturazione del silenzio non decorre laddove la domanda non sia assistita da tutti i presupposti per l’accoglimento per mancanza dei requisiti di fatto e di diritto richiesti dalla legge. La novella, infatti, nel sancire l’inefficacia del provvedimento tardivo, finisce per erodere l’affermazione che l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non conseguirebbero in virtù di un provvedimento espresso. Una decisione tardiva, infatti, sembrerebbe ormai limitata ai soli casi di esercizio dell’autotutela, richiedendo dunque, secondo i canoni generali sottesi alla stessa, la valutazione dell’esistenza di un interesse pubblico prioritario, non identificabile, per quanto già chiarito, con il mero ripristino della legalità lesa.
4. La certificazione del silenzio.
Non pago di tale meccanismo, il legislatore è tornato sulla materia del silenzio assenso anche con l’art. 62 del d.l. n.77 del 2021, inserendo il comma 2 bis direttamente nell’art. 20 della l. n. 241 del 1990: si è dunque previsto l’obbligo per l’amministrazione, nei casi in cui è previsto il silenzio assenso, di rilasciare in via telematica, su richiesta del privato, un’attestazione «circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda»[13]. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, il privato, anziché agire avverso l’inadempimento, può sopperire in via autonoma, sostituendo alla (mancata) attestazione dell’Amministrazione una propria autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico sulla documentazione ammnistrativa)[14]. Come esplicitato nella relazione illustrativa che ha accompagnato questa ulteriore novella, la finalità della disposizione è ancora una volta quella di «consentire la piena operatività e il rafforzamento dell’efficacia del silenzio assenso», evidentemente ravvisandosene uno strumento nella fornitura di un documento che cristallizzi formalmente l’avvenuta legittimazione dell’attività. Si è così confermato come nella prassi la disciplina del silenzio assenso abbia finito per costituire un blando incentivo a provvedere, incapace di offrire totale certezza al privato in merito alla sua equiparazione alla valutazione favorevole compiuta da parte dell’Amministrazione sull’istanza presentata. Il decorso dei termini per la sua formazione, cioè, in assenza di un provvedimento di diniego espresso, è stato ritenuto compatibile sia con tale valutazione positiva, sia con un’istruttoria ancora non completa, sia con una pura inerzia, sia infine con un giudizio negativo. In tale ultima ipotesi, tuttavia, occorrerà ora tenere anche conto da un lato della sancita inefficacia del provvedimento tardivo, dall’altro della -eventuale- presenza della dichiarazione sostitutiva resa dal privato per “materializzare” la propria legittimazione. Entrambe le previsioni, ove non le si voglia considerare lettera morta, finiscono per rafforzare l’obbligo motivazionale dell’annullamento d’ufficio, accentuando altresì la responsabilità del dipendente chiamato ad intervenire con un procedimento di revisione del proprio precedente operato. Il legislatore, infatti, non ha elevato la dichiarazione del privato, al pari della ricevuta rilasciata dall’Amministrazione, a provvedimento di secondo livello, capace di rafforzare l’atto originario formatosi per silentium, sì da metterne in discussione i tempi di maturazione (spostandoli in avanti): mantenendo nella norma l’inciso «fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso», ha piuttosto ribadito la portata solo formale e aggiuntiva dei rimedi indicati, la cui effettiva valenza è dunque esclusivamente pratica, ovvero di ulteriore sollecitazione all’adempimento. Non avendo tuttavia la novella toccato il comma 3 dell’art. 20, laddove continua appunto a fare salve le determinazioni dell’Amministrazione in via di autotutela ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della medesima legge sul procedimento amministrativo, la motivazione delle stesse anche in termini di comparazione di interessi dovrà necessariamente dare atto della prevalenza di quello pubblico rispetto all’inefficacia del provvedimento tardivo, esplicitando altresì le ragioni dell’inerzia serbata anche a fronte dell’istanza di rilascio dell’attestazione[15].
5. Le conseguenze del mancato rispetto del termine per il potere conformativo o inibitorio in materia di scia.
Il comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990 riveste particolare importanza anche nella parte in cui sanziona con l’inefficacia pure l’adozione fuori termine dei provvedimenti interdittivi dell’attività intrapresa sulla base di s.c.i.a. in assenza dei presupposti di legge. La norma peraltro circoscrive la previsione a ridetta tipologia di atti, non menzionando invece quelli espressivi del potere conformativo, che peraltro dopo le modifiche apportate dalla c.d. “riforma Madia” devono essere privilegiati, giusta il richiamo esplicitato nella norma al “possibile” ricorso agli stessi, associati o meno alla sospensione dell’attività, a sua volta limitata ai soli casi di attestazioni non veritiere o di sussistenza di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale. Si ricorda per completezza come il termine per provvedere alla regolarizzazione dell’attività, con o senza sospensiva della stessa, non può essere inferiore a 30 giorni, decorso il quale, senza che le misure siano state adottate, essa si intende vietata. L’atto motivato dell’amministrazione interrompe il termine di 60 giorni dalla segnalazione per l’effettuazione dei controlli (30 giorni in materia edilizia) che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle misure richieste. Vale anche in tale ambito la clausola di chiusura della norma che rinvia all’applicabilità dell’art. 21 nonies«ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni». Non essendo la segnalazione un provvedimento, è chiaro che l’esercizio dell’autotutela assume la diversa veste giuridica dell’intimazione tardiva a cessare l’attività e ripristinare lo stato dei luoghi, adottata cioè oltre il termine previsto dalla legge per i relativi controlli. Il che conferma che anche i provvedimenti conformativi adottati in maniera tardiva sono inefficaci.
6. Le modifiche al potere di annullamento di ufficio.
L’art. 21 nonies declina il potere di annullamento d’ufficio, in combinato disposto con l’art. 21 octies, che ne individua i presupposti nella teorica dei classici vizi dell’atto amministrativo (violazione di legge, eccesso di potere o incompetenza). Le istanze centripete e contrapposte di tutela della certezza delle situazioni giuridiche, da un lato, e di ripristino della legalità, dall’altro, hanno indotto a non ritenere sufficiente quest’ultima quale motivazione per l’esercizio del potere (discrezionale) di agire in autotutela per l’annullamento di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, circoscrivendone altresì la possibilità di utilizzo nel tempo. Il punto di equilibrio fra ridette contrapposte esigenze è stato ravvisato con le modifiche del 2015 in 18 mesi, ritenendo il relativo termine congruo a consentire lo ius poenitendi dell’Amministrazione, nel contempo non lasciando il privato cittadino in un limbo di incertezza sostanzialmente ad libitum. Con il d.l. n. 77 del 2021, tale termine è stato ridotto a 12 mesi, decorrenti dal momento dell’adozione del provvedimento di primo grado[16]. Non si è tuttavia modificato l’art. 21 della l. n. 241 del 1990, che dopo aver declinato le sanzioni che conseguono alle declaratorie mendaci o all’utilizzo di false attestazioni mediante rinvio all’art. 483 c.p. (comma 1), fa comunque salve «le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti». Facendo pertanto leva sulla sostanziale imprescrittibilità dei poteri di vigilanza edilizia di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U.E.), in correlazione con la natura permanente dell’illecito edilizio, si ha pertanto che, pur non essendo egualmente consentito l’annullamento del titolo, esplicito o implicito, al di fuori delle regole sopra delineate, resta ferma la possibilità di intervenire in repressione dell’abuso edilizio, siccome richiesto da generali esigenze di buon governo del territorio. L’importanza di chiarire con esattezza i confini tra attività di repressione di un abuso, e configurabilità dello stesso in tutti i casi in cui manchi un titolo espresso, essendo stato l’intervento legittimato per silentium, finisce tuttavia per creare un’ulteriore sacca chiaroscurale che rischia ulteriormente di vanificare la previsione di qualsivoglia tempistica, rendendo plasticamente percepibile la ravvisata necessità da parte del legislatore di dare veste formale al decorso del tempo[17].
7. L’autotutela in relazione alla S.C.I.A..
Si è già detto della natura non provvedimentale della segnalazione certificata di inizio attività di cui a livello generale all’art. 19 della l. n. 241 del 1990[18]. Superando le pregresse diatribe, correlate in particolare alle ravvisate esigenze di tutela del terzo, infatti, il legislatore sin dal 2011 ( d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), in aperta risposta alla dettagliata ricostruzione dell’istituto effettuata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[19], ha inserito il comma 6 ter nella norma per negare espressamente la equiparabilità della segnalazione, ovvero degli analoghi istituti della denuncia o della dichiarazione di inizio attività (dizioni corrispondenti alla precedente declinazione dell’istituto, residualmente presenti in singole disposizioni, anche di secondo livello) a «provvedimenti taciti direttamente impugnabili». La legittimità di tale previsione è stata confermata dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi a seguito di rimessione della relativa questione da parte del T.A.R. per la Toscana: i giudici della Consulta in tale occasione hanno affermato chiaramente che i poteri spettanti all’amministrazione che il privato può sollecitare sono esclusivamente quelli previsti dai commi 3 e 6 bisdell’art. 19, ovvero quelli inibitori, sospensivi e conformativi. A ciò consegue che se il terzo segnalante agisce nel termine di 30 o 60 giorni dalla presentazione della scia indicati dalla norma, ha diritto all’attivazione degli stessi e può tutelarsi a fronte dell’inerzia serbata dall’Amministrazione sul punto, in quanto inadempimento ad un obbligo di legge; se invece si attiva nei successivi 18 mesi (oggi 12), può aspirare solo al (discrezionale) esercizio del potere di autotutela. Decorsi i termini originari, infatti, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione ormai priva di poteri, e quindi anche nei confronti del terzo. Questi, dunque, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, ma venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche il suo interesse si estingue. «Questa conclusione, che, oltre che piana, è necessitata, non può essere messa in discussione dal timore […] di un vulnus alla situazione giuridica soggettiva del terzo, in quanto il problema esiste ma trascende la norma impugnata»[20]. Il terzo potrà pertanto attivare, oltre gli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni ai sensi dell’articolo 21, comma 1, della legge 241 del 1990, che vieta la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge in tali ipotesi, per i quali parrebbe residuare il più lungo termine di 18 mesi; ovvero potrà sollecitare i poteri di vigilanza repressivi “di settore”, spettanti all’amministrazione ai sensi dell’articolo 21, comma 2 bis, come, ad esempio, quelli già ricordati in materia di edilizia, regolati dagli articoli 27 e seguenti del d.P.R. 6 giugno 2001, n.380, espressamente richiamati anche dall’articolo 19, comma 6. In caso di mancato esercizio del potere di verifica, avrà infine la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione siccome previsto dall’art. 21, comma 2 ter, che fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata o l’istanza del privato non fosse conforme alle norme vigenti. In sintesi, se l’inefficacia dell’atto tardivo, quale ulteriore limite all’esercizio dell’autotutela, finisce per comportarne il mancato esercizio, essere annullato d’ufficio perché ne sussistono i presupposti, «Rimangono ferme le responsabilità connesse [sia] all’adozione [che] e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (art. 21 nonies, comma 1, ultimo periodo).
8. Ancora sull’impatto della disciplina dell’autotutela sulla s.c.i.a..
In relazione, tuttavia, all’impatto della disciplina dell’autotutela sulla s.c.i.a., seppure in riferimento al regime giuridico antecedente la novella del 2020, va anche segnalata una pronuncia del Consiglio di Stato che, ravvisando un’unica lacuna nella cornice delineata dalla Corte costituzionale nel 2019, ha chiarito in che termini essa presenti un margine di doverosità estraneo al quadro generale dell’istituto. In verità, la differenza terminologica nella formulazione del comma 4 dell’art. 19, laddove prevede, mediante ricorso al modo verbale indicativo, che l’Amministrazione competente “adotta” comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3, seppure in presenza delle “condizioni previste dall’articolo 21 nonies”, rispetto al servile facoltizzante “può” utilizzato proprio in tale ultima disposizione, aveva già indotto qualche commentatore a dubitare del carattere discrezionale dei poteri inibitori ivi contenuti. I giudici di Palazzo Spada hanno individuato la quadratura del cerchio nella ritenuta doverosità non dell’azione inibitoria, ma della risposta da dare all’esponente sulla richiesta di attivazione della stessa -recte, dei sottesi poteri di controllo[21]. Dopo avere dunque richiamato i principi espressi dalla Consulta, hanno ritenuto che la stessa non abbia lambito la questione della sussistenza o meno in capo all’amministrazione di un obbligo di avvio del procedimento di controllo tardivo sollecitato dal terzo, ferma restando la piena discrezionalità nel quomodo dello stesso, ed hanno conseguentemente affermato la operatività di una sorta di deroga al consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile sulla base dell’argomento letterale poc’anzi esposto. Una lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo, infatti, avendo il legislatore optato per silenzio inadempimento quale unico mezzo di tutela amministrativa messo a disposizione del terzo, non consente di ritenere che non sussista alcun obbligo di iniziare e concludere il procedimento di controllo tardivo con un provvedimento espresso, privando il terzo di tutela effettiva davanti al giudice amministrativo in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione. Così da concludere nel senso che è necessario riconoscere, rispetto alla sollecitazione dei poteri di controllo, quanto meno l’obbligo dell’amministrazione di fornire una risposta. Anche dopo la decorrenza del termine di verifica della regolarità della scia, pertanto, la pubblica amministrazione ha la possibilità di intervenire purché effettuando la doverosa comparazione di interessi sottesa all’esercizio dell’annullamento d’ufficio, secondo la cornice generale in materia di autotutela. Non trattandosi di un provvedimento da caducare, come già detto, potrà farlo soltanto con un atto inibitorio ovvero sospensivo, comunque da motivare, a pena di inefficacia dello stesso (ora prevista anche dopo i 60 giorni o 30, a seconda della materia) e tale motivazione è da ritenere attenga anche al motivo del ritardo e alla portata sostanziale della carenza dei presupposti per l’esercizio dell’attività.
9. ll monitoraggio dei tempi dei procedimenti.
Va infine ricordato che il quadro delle modifiche della disciplina sulla tempistica del procedimento si completa con una disposizione di tipo organizzativo, in verità scarsamente coordinata con altre, anche risalenti nel tempo, egualmente volte ad enfatizzare il monitoraggio dell’andamento dei procedimenti in ciascuna amministrazione, quale strumento di efficientamento e controllo del rispetto delle regole sopra indicate. Con il d.l. n. 76 del 2020, infatti, è stato introdotto nell’art. 2 anche il comma 4 bis, che contiene l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di misurare e rendere pubblici i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Come detto, l’attenzione alla tempistica di conclusione dei procedimenti non costituisce in realtà una novità per il legislatore. Già con l’art. 1, comma 9, della legge 190 del 2012, si prevedeva infatti l’individuazione di modalità di monitoraggio del rispetto dei termini procedimentali previsti dalla legge e dai regolamenti, eliminando tempestivamente le anomalie riscontrate e rendendo pubblici i risultati sul sito web istituzionale (art.1, comma 28). Tale metodica deve essere riportata nel piano di prevenzione della corruzione, il che ne sottintende la ritenuta valenza cautelativa avverso fenomeni di mala gestio. Analogamente, quindi, il d.lgs. n. 33 del 2013, con disposizione successivamente abrogata dal d.lgs. n. 97 del 2016, insisteva su tale obbligo di pubblicazione. Il d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, cosiddetto “semplifica Italia”, a sua volta, ha previsto un vero e proprio programma per la misurazione della riduzione dei tempi dei procedimenti amministrativi e degli oneri regolatori gravanti su imprese e cittadini inclusi gli oneri amministrativi, poi adottato con DPCM del 28 maggio 2014, da integrare con l’agenda per la semplificazione condivisa tra Stato, regioni e autonomie, cui era assegnato il compito di individuare sulla base degli esiti delle attività di misurazione sia i più rilevanti interventi di riduzione degli oneri e dei tempi da adottare, che le misure per assicurare effettività agli interventi già adottati. L’elemento di novità del novellato art. 2 della l. n. 241 del 1990 è una sorta di passaggio dall’astratto al concreto: la comparazione con i termini previsti dal legislatore serve per valutare la forbice di scostamento, evidentemente in termini riduttivi, quanto meno in relazione ai procedimenti amministrativi considerati “di maggiore impatto” (se pure non sia affatto chiaro con quali criteri questi ultimi vengano classificati tali). Ad ogni buon conto, la norma, secondo una deplorevole prassi mai abbandonata dal legislatore, non è autoapplicativa, in quanto rinvia ad un decreto attuativo, da adottare su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e previa intesa in conferenza unificata, la definizione delle modalità e dei criteri di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti. Sicché all’attualità non può che trarsene un monito ad enfatizzare l’importanza del rispetto della tempistica procedurale quali epifenomeno del buon andamento della pubblica amministrazione, recuperando la relativa finalità sulla base delle norme pregresse citate. Essa è peraltro accentuata dal fatto che il decreto-legge n. 76 del 2020 ha modificato anche l’art.29 comma 2 bis, della l. n.241, concernente il suo ambito di applicazione. La norma già ascriveva ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, le disposizioni concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelli relativi alla durata massima dei procedimenti (comma 2). Con il decreto legislativo 126 del 30 giugno 2016 ai livelli essenziali delle prestazioni sono state ricondotte anche le disposizioni concernenti la dichiarazione di inizio attività -ora scia- e il silenzio assenso nonché la conferenza di servizi, salva la possibilità di individuare, con intese in sede di conferenza unificata, casi ulteriori in cui tali disposizioni non si applicano (comma 2 ter). Con la novella del 2020 infine anche le disposizioni relative all’obbligo per le amministrazioni di misurare i tempi effettivi di conclusione dei propri procedimenti vengono inserite tra i livelli essenziali delle prestazioni. A ciò consegue che nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza le regioni e gli enti locali non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni in esame, ma solo prevedere livelli ulteriori di tutela (comma 2 quater). Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano hanno l’obbligo a loro volta di adeguare la propria legislazione alle disposizioni in questione, secondo i rispettivi statuti e relative norme di attuazione.
10. Le responsabilità.
Si è via via ricordato come le singole disposizioni nel declinare gli istituti in esame hanno fatto salve le responsabilità degli autori del ritardo, vuoi in ragione dell’avvenuta necessità di intervenire ex postsull’atto implicito o sull’attività, vuoi per il fatto che ciò non è più possibile per mancanza dei presupposti dell’autotutela (art. 2 bis, comma 1, 21, comma 2 ter e art. 21 nonies, comma 1, ultimo periodo). L’art. 2, commi 9 bis, 9 ter e 9 quater, dopo aver descritto il meccanismo di individuazione del soggetto istituzionalmente deputato a sostituirsi a quello competente, rimasto inerte, che dopo la novella del 2021 è individuabile anche nell’unità organizzativa, anziché nel singolo dipendente, gli impone di comunicare annualmente, entro il 30 gennaio, i procedimenti, divisi per tipologia e struttura coinvolta, per i quali non è stato rispettato il termine previsto. Il quadro descritto si completa con la nuova disciplina della responsabilità erariale introdotta con l’art. 21 del d.l. n. 76 del 2020. La norma contiene una modifica per così dire strutturale, che va ad incidere a regime sulla l. n. 20 del 1994, declinando il dolo richiesto quale uno dei possibili modi di atteggiarsi della colpevolezza nell’illecito erariale in chiave penalistica, e non civilistica (ovvero come coscienza e volontà anche dell’evento dannoso), sì da superare approcci, in verità minoritari, orientati in senso opposto; ed altra di portata eccezionale e temporalmente limitata, astrattamente correlata alla situazione emergenziale per la pandemia in corso, riferita alle fattispecie commesse nel lasso di tempo dal 17 luglio 2020 (data di entrata in vigore del decreto) al 30 giugno 2023 ( giusta la proroga da ultimo operata dal d.l. n. 77 del 2021 che ha esteso il termine originariamente individuato nel 31 dicembre 2021). Sulla base di tale norma transitoria opera una limitazione di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica alla sola forma di colpevolezza costituita dal dolo, con esclusione quindi della colpa grave. Tale limitazione tuttavia si applica ai soli danni cagionati con una condotta attiva, mentre non si estende a quelli riconducibili all’inerzia del soggetto agente, che continuano ad essere perseguibili anche a titolo di colpa (grave). La volontà del legislatore è chiaramente di far sì che i pubblici dipendenti siano incentivati ad agire piuttosto che a rimanere inerti anche dal timore di incorrere in maggiore responsabilità.
Solo per completezza, va infine ricordato come l’art. 28 del d.l. 21 giugno 2013, n.69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n.98, che ha disciplinato l’indennizzo per la ritardata conclusione del procedimento inserendo nell’articolo 2 bis il comma 1 bis, prevede che l’istante ha diritto ad ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni stabilite dalla legge. Sulla base della stessa con direttiva del Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione del 9 gennaio 2014 sono state dettate apposite linee guida. La direttiva ha in primo luogo sottolineato la diversa natura dell’indennizzo da ritardo rispetto alla fattispecie del risarcimento del danno da ritardo in quanto sganciato da ogni profilo di colpevolezza dell’amministrazione e dunque riconoscibile anche nel caso in cui il ritardo sia scusabile o addirittura dovuto a forza maggiore. Esso, cioè, viene inquadrato come una forma di ristoro, prevista equitativamente dal legislatore, in caso di disagio patito per la violazione dei termini di conclusione del procedimento. La sua erogazione tuttavia può costituire un tipico caso di danno erariale riconducibile ad inerzia e come tale sanzionato anche in fase emergenziale a titolo di colpa grave, secondo il paradigma ordinario.
11. Conclusioni.
L’analisi, pur sommaria, degli istituti del silenzio assenso e della scia, nonché, più in generale, della tempistica di adozione dei provvedimenti, per come innovati dai più recenti interventi normativi, evidenzia la continua ricerca, da parte del legislatore, di rimedi non tanto alla configurazione astratta degli stessi, quanto più propriamente all’attuazione che ne danno le Amministrazioni pubbliche. La paura delle responsabilità, tradizionalmente indicata quale fattore frenante l’esercizio delle funzioni pubbliche, in particolare laddove impattino con attività dei privati tutt’affatto aliene da risvolti economici, ha da sempre ostacolato l’individuazione di scelte di governo del territorio, intese nel senso etimologico del termine, innovative, ovvero celeri e contrassegnate dalla riduzione al minimo dei contatti con i cittadini, posti in grado da subito di conoscere le modalità di accesso ai servizi ovvero di esercizio delle proprie prerogative. Ed è la necessità di superare tale fattore che costituisce l’autentico fil rouge delle riforme degli ultimi mesi, il cui maggiore elemento di novità finisce per essere proprio l’accentuazione delle responsabilità che conseguono all’inerzia ovvero al ritardo: ferma restando, infatti, l’ormai consolidata natura di provvedimento del silenzio assenso e di non provvedimento della sciai, e rimaste inalterate le scansioni procedurali sottese all’uno e all’altra, la dichiarata inefficacia “spezza” il meccanismo, senza alterarlo, di fatto imponendo un maggiore onere motivazionale laddove si intenda annullare l’atto ovvero far cessare l’attività. La “certificazione” dell’avvenuto decorso del termine diviene dunque la cartina di tornasole di ridetta inefficacia, sicché la sua ostensione imporrà all’organo di controllo di verificare non solo la mancanza del titolo, bensì piuttosto quella dei presupposti per il suo conseguimento, intervenendo in vigilando, ove consentito sine die dalla legislazione di settore, ovvero in autotutela, nei rimanenti casi, e dunque nel limite temporale dei 12 mesi e ferma restando la sottesa, doverosa comparazione tra interessi in gioco, avuto riguardo alla situazione del privato che nel frattempo si è consolidata. La responsabilità civile, disciplinare e amministrativo-contabile che può conseguirne resta immanente ad un sistema immutato nei suoi assetti definitori, ancorché intriso di un’attenzione sempre crescente, chiaro indice del fallimento nella pratica dei pregressi tentativi di attribuire alla semplificazione l’effettiva portata di strumento regolatorio volto ad eliminare oneri, non certo a stimolare incertezze.
[1] Il vocabolario della giurisprudenza evoca quello del legislatore nell’incipit della norma, facendo espresso riferimento ai casi in cui «il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio». Ciò ha consentito di non ritenere dovute le cc.dd. “risposte di cortesia”, salvo in una logica di correttezza e buona fede dei rapporti (essa pure positivizzata mediante inserimento di esplicito richiamo nel comma 2 bis dell’art. 1 della l. n. 241/1990 introdotto in sede di conversione del d.l. n. 76/2020); ovvero quelle a domande palesemente incomplete o inammissibili, con riferimento alla idoneità delle quali a far decorrere i termini di maturazione del silenzio assenso vedi più avanti nel testo.
[2] Sul punto cfr. da ultimo CGARS, 2 marzo 2021, n. 167.
[3] Nella stessa logica va collocata la modifica all’art. 10 bis della l. n. 241 del 1990 riconducibile al decreto “semplificazioni” n. 76 del 2020: il preavviso di diniego, diversamente che in passato, sospende, non interrompe i tempi del procedimento, sicché gli stessi ricominciano a decorrere, senza azzerarsi, una volta scaduto quello per la presentazione delle osservazioni ovvero all’avvenuta presentazione delle stesse. Del mancato accoglimento delle osservazioni deve essere data ragione nel provvedimento finale, indicando «i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni». Infine, sul piano processuale, l’annullamento del provvedimento impedisce di rieditare il potere adducendo per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.
[4] Sulla natura perentoria dei termini previsti dall’art. 14 della l. 24 novembre 1981, n. 689 e la sua applicabilità agli atti delle Autorità indipendenti, v. Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2021, n. 2308; nonché id., 19 gennaio 2021, n. 584, ove si è affermato che « il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio promosso dall’Autorità [nel caso di specie, l’ARERA] ha natura perentoria, sicché il suo superamento inficia il provvedimento sanzionatorio impugnato, con ciò che ne consegue in termini di illegittimità dello stesso».
[5] Per una ricostruzione della tematica del danno da ritardo, v. M.L. Maddalena, Gli incentivi a decidere tempestivamente e i danni da ritardo, in www.giustiziaamministrativa.it, 2020. Con riferimento al danno da c.d. “contatto sociale”, definitivamente superato dalla pronuncia dell’A.P. del Consiglio di Stato (23 aprile 2021, n. 7), v. anche G. Tulumello, Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale: la “resistibile ascesa” del contatto sociale, ibidem, 2020.
[6] Il tema è stato da sempre al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Fra i molti contributi sulla c.d. “attività silenziosa”, si segnala, anche per la diversità dell’approccio sistemico, G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Milano, 2021, in particolare p. 142 e ss. V. altresì M. D’Orsogna e R. Lombardi, Il silenzio assenso, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, p. 968 e seguenti; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, ibidem, p. 273 ss.; N. Paolantonio, Il provvedimento in forma semplificata, ibidem, p. 301 ss.; nonché S. Cogliani, Il giudizio avverso il silenzio della P.A.: i nuovi poteri del giudice amministrativo, ibidem, p. 309 ss.; G. Mari, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla relativa violazione, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, 3 adizione, Milano, 2020, e ivi ulteriori richiami;
[7] Trattasi evidentemente della declinazione della regola contenuta a livello generale nell’art. 2, comma 7, della l. n. 241 del 1990, che il legislatore ha inteso richiamare espressamente al fine di enfatizzarne i contenuti di garanzia in tale specifico ambito, rivelatosi particolarmente “impermeabile” alle esigenze di certezza dei rapporti giuridici.
[8] Per una ricostruzione della tematica, v. Cons. Stato, sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1448. In dottrina, v. G.P. Cirillo, L’attività edilizia e la tutela giurisdizionale del terzo, in www.giustiziaamministrativa.it, anno 2011.
[9] V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, II, Torino, 2010, p. 422; G. Gardini, L’efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati, in Codice dell’azione amministrativa, cit. sub nota precedente, p. 1002 ss.
[10] Anche l’art. 17 bis è stato inciso dalla riforma del 2020 nella logica acceleratoria dell’estenderne l’applicabilità a tutti i casi di procedimenti nei quali interagiscono una pluralità di pubbliche amministrazioni, in particolare sotto il coordinamento di quel collettore organizzativo che è il SUAP: innanzitutto è stata sostituita, in maniera molto significativa, la rubrica, che ora recita «Effetti del silenzio e di inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici », sottolineando l’ampliamento delle fattispecie disciplinate dalla norma. Il meccanismo del silenzio è poi esteso ai casi in cui per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi è prevista la proposta di una o più amministrazioni pubbliche diverse da quella competente ad adottare l’atto; conseguentemente, in via analoga alla disciplina vigente per l’acquisizione del concerto, in tali casi, qualora l’amministrazione proponente rappresenti esigenze istruttorie, motivate e formulate in modo puntuale, si applica lo stesso termine di 30 giorni previsto dalla medesima norma.
[11] Per una compiuta ricostruzione della incidenza della tempestività del pagamento dell’oblazione nella sua interezza ai fini dell’accoglimento della domanda di condono, anche per silentium, v. Cons. Stato, sez. II, 4 maggio 2020, n. 2814.
[12] Con riferimento al titolo edilizio, v. Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2021, n. 3904, ove si legge che «il silenzio assenso su una domanda di condono edilizio può formarsi solo in presenza di tutti i requisiti, formali e sostanziali, per ’accoglimento della stessa»; sez. IV 5 settembre 2016, n. 3805; T.A.R. per il Piemonte, sez. II, 27 febbraio 2018, n. 270; id., 3 gennaio 2018, n. 12; T.A.R. per la Campania, Napoli, sez. VIII, 3 aprile 2017 n. 1776).
[13] La formulazione apparentemente poco felice della norma, tende a disgiungere il fatto oggettivo dell’avvenuto decorso del tempo, che si richiede all’Amministrazione inadempiente di attestare, dal suo significato, che consegue all’operatività del meccanismo del silenzio (equivalente «pertanto» ad accoglimento della domanda). Ciò non può non valere per il caso in cui in luogo dell’attestazione dell’Amministrazione il privato si avvalga della propria autodichiarazione, circoscrivendo le potenziali responsabilità dello stesso, il cui spettro rischia di divenire comprensibilmente il vero argine al concreto utilizzo dell’istituto.
[14] Sulle criticità di tale sistema, per l’ulteriore carico di responsabilità di cui si onera l’istante, v. M.A. Sandulli, Addenda 2021 a “Principi e regole dell’azione amministrativa” 2020, in www.giustiziainsieme.it, 2 settembre 2021 e, più in generale, sui rischi delle autodichiarazioni, dello stesso autore si segnala “Autodichiarazioni e dichiarazione non veritiera”, ivi, 15 ottobre 2020.
[15] Il fatto che la dichiarazione sostitutiva non possa essere utilizzata in prima battuta, ma presupponga a sua volta un tentativo non andato a buon fine di compulsare l’Amministrazione quanto meno al rilascio dell’attestazione dell’avvenuta decorrenza del termine, implica necessariamente un’accentuazione del piano della responsabilità della stessa laddove decida poi di agire in autotutela, salvo motivazione aggiuntiva anche a giustificazione della propria (reiterata) inerzia.
[16] In relazione alla modifica introdotta, va segnalato che l’art. 21-nonies della l. 241/1990, al comma 2-bis, dispone anche che i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, «possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1». Il testo non risulta coordinato con il nuovo termine di 12 mesi di recente introdotto.
[17] Al riguardo, si veda l’importante pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2017 ove si è affermato che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.
[18] Da ultimo, sulla s.c.i.a., v. M.A. Sandulli, La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, cit. sub note precedenti, p. 261 ss. (e ivi ulteriori richiami e focus di approfondimento di G.Strazza, su “La s.c.i.a. e la tutela del terzo”, ibidem, p. 281 ss) e G. Strazza, La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020.
[19] Cfr. Cons. Stato, A.P. n. 15 del 2011.
[20] V. ancora Corte cost., n. 45/2019.
[21] Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208.
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