ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia e comunicazione
2. Fare cronaca giudiziaria
Intervista di Maria Cristina Amoroso a Rosaria Capacchione
Nel contributo sul tema del linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale,Gianni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, ha evidenziato i pericoli insiti nella comunicazione dei media.
Oggi Giustizia Insieme affronta quest’argomento con la giornalista Rosaria Capacchione, firma eccellente di una sapiente cronaca giudiziaria che ha raccontato senza remore i fenomeni camorristici, dal 1985 al 31 marzo 2018 per Il Mattino di Napoli a Caserta e Napoli, ed oggi per la testata Fanpage.it.
Senatrice della Repubblica, Segretario della Commissione permanente della Giustizia e Componente della Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali; autrice di libri di successo che hanno valicato i confini del paese; destinataria dei più preziosi riconoscimenti per il suo straordinario impegno civico, oggi, da intervistata, regala a Giustizia Insieme il suo interessante punto di vista sull’etica della cronaca giudiziaria.
Cosa dobbiamo intendere per cronaca giudiziaria?
La mia carriera è iniziata in un momento in cui nel mondo della comunicazione vi era una separazione organizzativa tra la cronaca nera e la cronaca giudiziaria. La prima era costituita dalla narrazione del fatto, spesso concentrata sul lato più morboso dello stesso, la seconda dal reportage meramente tecnico di quanto emergeva dal processo e, pertanto, non particolarmente ricca di contenuti, essendo spesso limitata al riferimento ad avvenuti arresti, all’esistenza di misure cautelari e, soprattutto, alle pene di volta in volta irrogate.
In questo peculiare contesto, cercai di fare in modo che i miei primi passi nel mondo del giornalismo, per quanto novizi e quindi poco incisivi a confronto di colleghi più noti, presentassero un tratto distintivo.
Decisi, quindi, di affiancare alla narrazione tecnica quella del fatto, fondendo le due forme di comunicazione e, di fatto, attribuendo al concetto di cronaca giudiziaria un diverso contenuto raccontando non solo il processo ma anche la narrazione di ciò che avveniva “oltre”, sia all’interno dello stesso, nel “backstage” dell’aula di tribunale, sia al di fuori, nella società civile, particolarmente ricca di ricordi diretti e parole riferite.
La cronaca giudiziaria per così dire tradizionale è stata, a suo avviso, totalmente superata?
Io ho deciso di non far coincidere il contenuto della cronaca giudiziaria solo con il contenuto del processo, che è solo un frammento della narrazione del fatto che, tra l’altro, non necessariamente coincide con la realtà storica.
È molto interessante la prospettiva del processo come narrazione non meramente tecnica, ci approfondisce questo concetto?
Il processo è il rituale ma non solo. È la celebrazione solenne, ma è anche il testimone che prima di entrare in aula ti racconta qualcosa d’interesse, o la vittima che piange, o qualcuno che viene accompagnato da chi, in maniera assillante, gli ripete cosa deve dire, è l’avvocato che guarda in un certo modo il cliente che sta per dare una risposta cruciale. Tutte queste cose, che chiaramente il giudice non vede, unitamente al racconto raccolto da e tra il popolo, sono preziose tessere di un puzzle che solo l’occhio esterno del giornalista può compiutamente comporre.
Ma questa è la mia posizione, per altri la cronaca giudiziaria è ancora intesa in senso meno esteso per una serie di ragioni molto complesse.
Approfondiamo queste ragioni…
Dovendo limitarmi per evidenti ragioni, in questa sede, a selezionare solo alcune delle molteplici cause, soprattutto due fattori, uno nuovo ed uno vecchio, hanno, a mio avviso, snaturato e snaturano ancora la cronaca giudiziaria. Iniziando dal fattore “nuovo”, molto limitante, è stato, a mio avviso, l’eccessivo ed acritico interesse per le intercettazioni. Per anni non ho avuto alcuna necessità di andare in procura; i miei contatti erano limitati alla polizia giudiziaria e al giudice, evidenti e utili centri di conoscenza ove transitavano misure cautelari e altre informazioni.
Dopo Tangentopoli la caccia ai verbali ha decretato la fine del nostro mestiere, perché affidando al “bianco e nero” il racconto abbiamo barattato il nostro ricco punto di vista con quello che è per definizione solo un frammento della storia il cui contenuto, quando non assolutamente inutile, è comunque difficile da cogliere perché decontestualizzato. Questo è stato, a mio avviso il primo fattore che ha determinato anche una crisi del nostro mestiere chiaramente inteso nell'accezione a me più cara.
In questa prospettiva la riforma delle intercettazioni le è sembrata una giusta soluzione?
A me è sembrata una sconfitta, la necessità di ricorrere ad una legge per far sì che i magistrati non inseriscano nei provvedimenti verbali di intercettazioni non utili e per evitarne la pubblicazione da parte di noi giornalisti, rivela con drammatica chiarezza quanto ci siamo allontanati dal senso dei nostri rispettivi mestieri e dal rispetto dei relativi codici deontologici.
Così come sa di sconfitta l’aver dovuto prevedere delle sanzioni per reprimere comportamenti che non ci dovrebbero appartenere.
Ha parlato di due fattori, uno che Lei ha definito “nuovo” costituito dalle intercettazioni, e il “vecchio” qual è?
Più che vecchio è un fattore senza tempo, una vera e propria costante della cronaca giudiziaria ed è il costo della verità. Andare “oltre” il processo costa, costa in termini economici, soprattutto nelle inchieste in cui ci si scontra con il potere. Solo la gestione economica di una difesa in giudizio rischia di divenire un prezzo insostenibile anche in caso di vittoria giudiziale, un costo che proprio le testate medio piccole, che dovrebbero svolgere il compito di raccontare le realtà locali, non possono sostenere.
La cronaca giudiziaria “difensiva” quindi si autocensura e si rinchiude in una tutelante coincidenza con il processo, quando va bene.
Tutto questo condiziona fortemente l'effettività di una democrazia che si fonda sulla libertà di espressione, poiché è evidente che in un sistema così strutturato, più cresce la possibilità che il giornalista sia responsabile di danni economici, più la sua autonomia è legata, non più e non tanto al colore ma alla ricchezza dell’editore.
Come può influire, a suo avviso, il legislatore sulla modalità di fare cronaca giudiziaria?
Può farlo direttamente prevedendo disposizioni che, di fatto, costituiscono le forme velate di dissuasione cui ho già fatto cenno: prevedendo norme sulla responsabilità dei giornalisti, attribuendo ad alcune condotte rilievo penale, e può farlo anche indirettamente, dando al processo una struttura che impedisce la narrazione di una verità più ampia.
Si pensi ad esempio a quanto è accaduto durante la pandemia. Lo svolgimento dei processi per via telematica senza la previsione di una facoltà per la stampa di collegarsi, sia pur da remoto, per assistervi ha determinato la celebrazione “occulta” di moltissime cause di rilevante interesse pubblico e ha impedito quella narrazione che io sento come necessaria. Noi giornalisti ci siamo dovuti confrontare con questa formula che, di fatto, ci ha estromesso silenziosamente consegnandoci un processo inaccessibile ed ibrido - perché né cartolare né pubblico - che non ci ha consentito, con lo strumento del racconto, di adempiere alla funzione di controllo dell’esercizio del potere giudiziario.
Quanto i tempi di durata del processo influiscono sul modo di fare cronaca giudiziaria?
Un processo che dura tanto non può essere narrato e quindi, per questo verso, controllato. Si può controllare l’estrinseco, ovvero riferire dei lunghi rinvii, della mancata e ripetuta trattazione, ma si perde il controllo sul fatto, sulla gravità dello stesso perché se il suo accertamento vien diluito troppo nel tempo fisiologicamente l’attenzione giornalistica cala e soprattutto per vicende che invece meriterebbero sempre i riflettori accesi, il buio non giova, a tutti i livelli.
Quali processi vengono narrati dalla cronaca giudiziaria?
Per come la intendo io, la scelta su cosa raccontare è totalmente svincolata dalle categorie giuridiche. Non è detto che la cronaca giudiziaria racconti solo di reati.
La prospettiva giornalistica è, a mio avviso, differente da quella degli operatori della giustizia perché non deve tenere conto degli effetti penali della condotta, ma dell’interesse pubblico alla narrazione di un fatto.
Da questo punto di vista ci sono fatti di reato inenarrabili: un processo avente ad oggetto una grande evasione fiscale, a meno che non sia stata commessa da un personaggio pubblico, solitamente non si racconta perché si tradurrebbe in una mera elencazione di numeri. Si racconta il fatto di sangue, il crimine efferato, ma si racconta soprattutto il non reato, che tuttavia riveste interesse perché consente all’opinione pubblica di comprender persone e sistemi, a prescindere dalla loro responsabilità penale. Spesso una delle rettifiche che pubblichiamo consiste nel chiarimento del soggetto coinvolto di non essere indagato, quando l’editore mi consente due righe di replica, in maniera standardizzata, evidenzio che il dato non toglie interesse alla comunicazione che lo riguarda.
Da esperta di comunicazione come giudica la comunicazione istituzionale del mondo giustizia?
Distinguerei due livelli. La comunicazione che avviene tramite i provvedimenti e la comunicazione istituzionale.
Sovente la comunicazione effettuata “in nome del popolo italiano” è ostica e difficilmente comprensibile. In questo caso, il ruolo del giornalista è di fare da medium per restituire al lettore una coincidenza intellegibile tra significante e significato. E in presenza di una decisione non chiara è possibile avere quale medium un giornalista che si informa sul contenuto in maniera approfondita o uno che, al contrario, non cogliendo il senso del provvedimento offre una informazione non del tutto corretta.
Quanto alla comunicazione istituzionale io vorrei chiarire che per quanto chiara nella forma e completa nella sostanza non è la comunicazione che a me serve per fare cronaca giudiziaria, o meglio, non è la comunicazione che mi consente, da sola, di fare una buona cronaca giudiziaria.
Scendendo nel concreto, il comunicato stampa, ad esempio, può essere considerato una forma idonea di informazione dal punto dell’ufficio perché un punto di vista parziale sul quale il giornalista non deve assolutamente appiattirsi, in primo luogo perché la verità può coincidere o meno con la verità processuale del comunicato stampa, e poi perché non è detto che l’interesse pubblico coincida con il contenuto della voce ufficiale dell’ufficio, perché potrebbe invece riguardare fatti e persone non menzionate nel comunicato.
Quale tra le comunicazioni provenienti dalla giustizia non Le piace?
Non mi piace la comunicazione di potere, la conferenza stampa indetta per affermare la superiorità di un ufficio su un altro o sulla polizia giudiziaria.
E quale narrazione della giustizia non le piace?
Non mi piace quando noi giornalisti diventiamo uno strumento e ci prestiamo a raccontare solo una parte del tutto, presentandola come la verità assoluta. Perché ciò non accada bisogna mantenere integra la tensione ad offrire al lettore tutte le notizie, tutte le versioni fornite, in maniera ufficiale o ufficiosa, e sottoporre prima a verifica e poi a critica ciò che viene veicolato. Il mio monito per i colleghi più giovani è di chiedere, informarsi, verificare in maniera ossessiva e solo dopo chiedersi se vi è un interesse pubblico a diffondere una notizia data da una sola delle parti ed interrogarsi sul se e su come farlo.
Le è capitato di essere stata strumento di qualcuno?
Consapevolmente no, perché in maniera caparbia ho sempre valutato in maniera autonoma tutto ciò che mi è stato consegnato dalle fonti.
Le fonti dell’informazione giudiziaria non sono mai cambiate, la notizia la dà chi ce l’ha. Ed allora ciò che conta è mantenere autorevolezza con le fonti, così che sia già chiaro, prima di ogni tentativo, che io, per stile, modo di fare, scelte, non sarò certo lo strumento che cercano. E questo discorso vale nei confronti di tutti. Non bisogna divenire la voce della Procura così come non bisogna divenire il megafono della difesa. E per fare ciò bisogna non valicare i limiti di ciò che è possibile fare, per non dover essere “costretti a ricambiare il favore” e bisogna mantenere quale fede incrollabile l’obiettivo di raccontare il tutto e non solo un frammento dell’accaduto.
Come vive i limiti stabiliti per la comunicazione da parte dei magistrati? Come influenzano il suo lavoro?
Su questo bisogna intenderci e non essere ipocriti. Se è vero, ad esempio, che negli uffici di procura la comunicazione ufficiale è del Procuratore, è altrettanto vero che per piccoli chiarimenti o dettagli su cose di interesse pubblico nessun pubblico ministero mi ha mai invitato a lasciare il suo ufficio.
Quanto è stato difficile essere una cronista giudiziaria, nel senso che le è proprio in terra di camorra?
Fare la cronaca giudiziaria è stato facilissimo. Mi sono concentrata sull’aspetto umano di personaggi anche molto malvagi. La mia naturale vocazione a capire e verificare mi ha portato ad approfondire aspetti che per gli altri giornalisti non meritavano attenzione e così piano piano i miei racconti erano più dettagliati e completi, e offrivano anche a chi indagava spunti inediti. Voler conoscere anche al di là di ciò che accadeva nelle aule di giustizia per me è stato naturale, subire le conseguenze di questa narrazione inedita, e proprio per questo scomoda, è stato chiaramente la parte più complicata.
Lei vive sotto scorta ormai da molti anni, cosa significa per Lei?
Significa rinunciare a fare molte cose. Leggerezze che non mi apparterranno mai più, e non è facile.
Significa però anche sicurezza e rapporti e relazioni umane molto importanti.
Carta stampata e giornalismo televisivo, come cambia la cronaca giudiziaria?
La carta stampata è stata sempre il mio mondo e sempre lo sarà.
La cronaca giudiziaria, come la intendo io, è lontana dalla comunicazione televisiva, salvo la narrazione fatta di telecamera fissa e qualche commento tecnico finale di “un giorno in pretura” non apprezzo altro.
I programmi spesso diventano l’atecnico luogo di celebrazione di un processo alternativo privato della sua storia, e pertanto una narrazione monca che, inaccettabilmente, spesso non ha alcun contatto con le carte.
Lei è stata Senatrice della Repubblica, come questa esperienza ha influito sulla sua comunicazione dei meccanismi del potere legislativo?
Sicuramente dall'interno si capiscono meglio gli schemi di funzionamento di una macchina burocratica estremamente complessa altrimenti davvero difficile da raccontare. Stando in Senato ho visto le cause degli effetti di cui discorrevo nella mia vita antecedente l’esperienza politica.
Quanto al contatto con il potere posso dire che il potere che ho raccontato era più definito del potere che ho visto, dall’interno si percepisce soprattutto un magma indefinito, il potere si sente ma non si vede, nei miei racconti era sicuramente molto più delineato di come l’ho percepito nelle sedi che gli sono proprie.
Un’ultima domanda: Lei che per lavoro ascolta la gente ci dica, come la collettività percepisce la magistratura?
Secondo me la stima è bassissima, non c'è fiducia nella magistratura e la principale causa di questa disistima deriva dall’osservazione dei comportamenti della vita quotidiana dei magistrati, dal loro venir meno ai valori che sono chiamati a far rispettare.
A questo vanno aggiunte la lentezza della giustizia e gli errori giudiziari, fattori che oltre a gettare discredito e dubbi sul funzionamento della macchina giudiziaria consegnano i cittadini in mano a giustizie parallele illecite più funzionali, o percepite come tali. La crisi che investe la magistratura è la stessa che travolge il giornalismo, finché siamo in tempo dovremmo fare, ognuno per ciò che lo riguarda, un ritorno serio a comportamenti che siano d’esempio in quanto traducenti nei fatti un solido sistema valoriale.
La Corte di cassazione sulla sindrome di alienazione parentale: è colpa d’autore?
Nota a Corte di cassazione 17 maggio 2021 n. 13217, Pres. Genovese, est. Caiazzo
di Rita Russo
Sommario: 1. Il caso della madre malevola - 2. L’affidamento super esclusivo - 3. La sindrome di alienazione parentale.
1. Il caso della madre malevola
Una lunga battaglia legale per l’affidamento di una bambina, con alterne vicende nei giudizi di merito, approda in Cassazione.
I processi di affidamento dei minori sono difficili da gestire in sede di legittimità, perché le valutazioni di fatto, notoriamente incensurabili in cassazione, hanno sempre ampio spazio nelle motivazioni dei giudici di primo e secondo grado e talora prevalgono sulle valutazioni in diritto. La materia è regolata da principi e clausole generali quali la primaria considerazione del miglior interesse del minore e la tutela della relazione familiare, la cui concreta attuazione si lega inevitabilmente alle specifiche del caso concreto, a fatti accertati e inquadrati nel tempo e nello spazio e quindi, in definitiva, al giudizio di merito. Ciononostante, anche la valutazione di merito è censurabile in cassazione, se il giudice non segue i criteri legali procedimentali che devono presiedere alle decisioni.
Arriva dunque in cassazione la storia di un rapporto conflittuale tra genitori; la bambina, in età scolare, è stata affidata al padre (affido super-esclusivo), sulla base di quanto emerso in due consulenze tecniche d’ufficio, in primo ed in secondo grado, con risultati sostanzialmente conformi.
È stata diagnosticata la “sindrome della madre malevola” rilevando un elevato grado di conflittualità tra i genitori, con difficoltà comunicative e gravi carenze delle capacità genitoriali della madre, la quale non accetta il ripristino delle relazioni tra padre e figlia, e vorrebbe esclude il padre dal rapporto con la stessa; a ciò si aggiunge l'influenza della famiglia materna (in particolare della nonna), con prospettive dannose e rischiose. Alla madre si addebitano comportamenti “scellerati” quali il procurarsi falsi certificati di malattia per far assentare la bambina da scuola e così impedire al padre di portarla con sé.
La madre reagisce al provvedimento che modifica in termini così rigorosi l’affidamento della figlia, ricorrendo per cassazione e contestando la validità scientifica della diagnosi di “sindrome della madre malevola”, deducendo che si tratta nella sostanza di una diagnosi di sindrome di alienazione parentale (PAS), sia pure non esplicitata, cui la Corte d'appello ha aderito acriticamente.
La Corte di cassazione accoglie questa censura e osserva, richiamando precedente giurisprudenza della stessa Corte, che al fine di modificare l’affidamento del minore non è sufficiente la diagnosi di una patologia; il giudice è tenuto ad accertare la veridicità comportamenti pregiudizievoli per la minore, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della patologia diagnosticata.
La Corte di legittimità ricorda inoltre che qualora venga esperita una consulenza tecnica d’ufficio le relative conclusioni non possono essere acriticamente recepite dal giudice, specie se all'elaborato siano state mosse specifiche e precise censure.
Fin qui l’enunciazione di principi di diritto. La Corte passa poi ad un esame più penetrante, ritenendo non convincenti le conclusioni della consulenza, il cui contenuto è considerato in molti punti generico e non chiaro in ordine alla carenza delle capacità genitoriali della ricorrente; anche le condotte pregiudizievoli sono state solo genericamente enunciate. Si rileva quindi che la Corte d'appello, nel disporre l'affidamento esclusivo della minore al padre, ha escluso l'affidamento condiviso su una astratta prognosi circa le capacità genitoriali della ricorrente, fondata, in sostanza, su qualche episodio, attraverso cui la madre avrebbe tentato di impedire che il padre incontrasse la bambina, senza però effettuare una valutazione più ampia, e senza considerare la possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della madre. E, pur non entrando nel merito della validità scientifica della diagnosi, la Corte conclude nel senso che i fatti ascritti dalla Corte territoriale alla ricorrente non presentano la gravità legittimante la pronuncia impugnata, in mancanza di accertate, irrecuperabili carenze d'espressione delle capacità genitoriali.
Si tratta di considerazioni molto incisive, in cui il giudice di legittimità sembra diminuire considerevolmente il suo tradizionale distacco dal fatto ed esprimere valutazioni di merito, pur non avendo avuto un accesso diretto agli atti, ma solo sulla base dell’esame motivazione e cioè di una sintesi delle emergenze processuali e delle ragioni della decisione, e nell’implicita considerazione che la rigorosa giurisprudenza della Corte Edu in tema di interruzione dei rapporti tra il minore ed uno dei due genitori impone grande cautela[1].
La Corte, però, rese queste considerazioni che servono ad individuare gli errori cui dovrà porre rimedio il giudice di rinvio, la cui decisione è già fortemente indirizzata dalla valutazione di non gravità dei fatti a carico della madre, esprime anche un'altra considerazione di carattere più generale, osservando che la decisione impugnata appare “espressione di una inammissibile valutazione di tatertyp, ovvero configurando, a carico della ricorrente, nei rapporti con la figlia minore, una sorta di "colpa d'autore" connessa alla postulata sindrome” .
Forse, ancora più della sensibilità ai richiami della Corte di Strasburgo[2], è questa la vera ragione ed il fulcro centrale della decisione, e cioè l’esigenza di negare, anche nell’ambito del diritto di famiglia, che nel processo si giudichi (e se il caso si sanzioni) non tanto il fatto commesso, quanto piuttosto il modo d’essere dell’agente. In altre parole, non è ammissibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, scissa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. Nel processo si giudica questi ultimi e non la persona, e pertanto è dall’osservazione e dall’analisi dei comportamenti che occorre muovere; la diagnosi può aiutare a comprenderli e soprattutto a valutare se sono emendabili, ma non può da sola giustificare un giudizio -o pregiudizio- di pericolosità a carico del soggetto.
2. L’affidamento super-esclusivo
L’affidamento esclusivo, nel nostro sistema normativo, è ipotesi residuale ma non di scarsa importanza, perché trova applicazione quando il giudice ritenga dimostrata la violazione dei doveri o abuso dei poteri connessi alla responsabilità genitoriale ovvero la sussistenza di una condotta pregiudizievole per la prole.
Di conseguenza, se ne valuta l’applicabilità nei casi di genitori fragili, patologici, disinteressati, inadempienti, aggressivi. Non è però sufficiente accertare la fragilità o la inadeguatezza del genitore, perché il provvedimento di affidamento deve essere modellato dal giudice caso per caso, e pertanto è necessario indagare in concreto sulle cause della inadeguatezza del genitore e sulla emendabilità, totale o parziale, delle carenze riscontrate perché l’art. 337 quater c.c. consente invero di derogare alla regola, ma al tempo stesso impone di fare salvi, nei limiti del possibile, i diritti del minore [3].
Lo schema legale dell’affidamento esclusivo come descritto dall’art. 337 quater c.c. comma secondo, con decisioni di maggior interesse attribuite ad entrambi, non è sensibilmente differente dall’affidamento condiviso con poteri disgiunti sulle questioni di ordinaria amministrazione. Si vuole con ciò mantenere inalterato, nei limiti del possibile, quel doveroso compito genitoriale di collaborare nell’interesse del minore e di consultarsi prima di assumere decisioni che ne orientano la cura, educazione ed istruzione.
La differenza si avverte invece se il giudice dispone limitazioni della responsabilità genitoriale, ove ciò sia funzionale ad evitare pregiudizio per il minore.
L’affidamento super esclusivo è un assetto in cui queste limitazioni si estendono fino ad estromettere il genitore ritenuto inadeguato dalla funzione decisoria insita nella responsabilità genitoriale, e in cui si consente al genitore affidatario di adottare tutte le decisioni riguardanti il minore, anche senza il consenso dell'altro genitore, cui resta però il potere dovere di vigilare sulle scelte compiute dall’altro e se il caso di ricorrere al giudice, qualora le ritenga pregiudizievoli per il minore stesso.
Dette limitazioni si pongono come deroghe alla regola generale della pariteticità dei compiti parentali e quindi devono essere giustificate da una ragione forte e specificamente individuata.
Inoltre, si deve ricordare che affidamento, collocamento e diritto di visita costituiscono aree di intervento diverse e quindi è possibile che l’affidamento sia modellato secondo un regime decisorio fortemente limitativo della partecipazione di un genitore, ma al tempo stesso quel genitore, pur se escluso dalle decisioni che riguardano la vita del minore, possa continuare a frequentarlo ed anche in taluni casi a prendersi cura di lui, ove le capacità di accudimento siano intatte.
Nel disporre l’affidamento si valuta non soltanto con chi deve andare a vivere il bambino, ma anche chi, come e con quali eventuali limitazioni deve esercitare la responsabilità genitoriale. Affidare un minore significa infatti attribuire una responsabilità riguardo le funzioni di cura, educazione ed istruzione del minore e lo strumento per esercitare tali funzioni non può che individuarsi nell’esercizio della responsabilità genitoriale. È netta, nel nostro ordinamento la differenza tra la physical custody e cioè il collocamento e la ripartizione dei tempi di vita del minore, uguale o diseguale, tra i genitori, e la legal custody, vale a dire il potere-dovere di assumere le decisioni che riguardano la vita del minore.
La interruzione dei rapporti non è quindi necessariamente connessa ad un affidamento super esclusivo; inoltre occorre tenere presente che la stessa Corte Costituzionale ha affermato che la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore[4].
Non è tuttavia facile definire, in concreto, che cosa debba intendersi per best interests of the child, cioè il miglior interesse del minore, o, come taluni traducono dalla versione in lingua francese, interesse superiore del minore.
In un noto caso di sottrazione internazionale, la Corte Edu ha affermato che l’interesse del minore comprende tanto l’interesse a mantenere regolari rapporti con i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile e affidabile (sound enviroment). Il contatto con la famiglia si può recidere solo se essa è “particularly unfit”[5]. In questa come in altre decisioni, la Corte di Strasburgo sembra adottare una sorta di presunzione, secondo la quale il miglior interesse dei figli è mantenere rapporti con entrambi i genitori, salvo che siano particolarmente inadatti, rapporto che lo Stato ha il dovere di garantire, con una adeguato “arsenale” di misure positive e salvo ricorrano circostanze di particolare gravità[6].
3. La Sindrome di alienazione parentale
La PAS (Parental Alienation Syndrome), nella descrizione offerta dallo psicologo forense nordamericano Richard Gardner, è un disturbo provocato da un comportamento genitoriale di progressiva svalutazione agli occhi del figlio dell'altro genitore, al fine di rendere difficili i rapporti tra i due. Il minore si trasforma in un veicolo dei sentimenti e delle idee del genitore alienante, che opera il brainwashing (indottrinamento) sul minore, creando una relazione singolare in cui il genitore alienante porta il minore a percepire come propri i sentimenti di odio e rivalsa nei confronti dell’(ex) partner, così determinando il c.d. allineamento o schieramento del bambino con il genitore manipolante.
Diversi specialisti non riconoscono la validità della diagnosi; la teoria non avrebbe basi scientifiche e si fonderebbe soltanto sul pregiudizio indimostrato che, ogniqualvolta viene presentata una denuncia di abuso, vi sarebbe un comportamento patologico della madre, nonché su particolari idee sull’abuso sessuale attribuite a Gardner.
Gli specialisti che condividono e recepiscono la tesi di Gardner o talune sue varianti come ad esempio la P.A.D. (Parental Alienation Desorder) ovvero quelle relative ai "conflitti di lealtà", spesso suggeriscono di allontanare il minore dal genitore che opera il brainwashing, come si farebbe nel caso del genitore abusante o maltrattante. In altri casi si è parlato di “sindrome di Medea” prendendo mosse dal mito greco che vede Medea uccidere i figli per punire il tradimento di Giasone, oppure utilizzate altre definizioni più o meno suggestive. In qualche caso l’accento è sul profilo personologico della madre, in altre sul comportamento di strumentalizzazione di un rapporto privilegiato con i figli, usati come arma nel conflitto con l’ex partner.
Il contatto tra il bambino e il genitore patologico sarebbe dunque da interrompere, allontanando il minore dal genitore “malato”.
Questo suggerimento “terapeutico” talvolta ben si addice alle caratteristiche del caso, ma non può assumersi a regola fissa, perché non è detto che il comportamento manipolativo dipenda da una patologia e non è detto che interrompendo il contatto la questione si avvii a risoluzione: si pensi ad esempio al caso del genitore che cerca di sostenere le proprie rivendicazioni economiche rendendone partecipe i figli che così iniziano a percepire il padre come soggetto inadempiente; è un comportamento censurabile, ma non necessariamente frutto di una patologia, anzi potrebbe affondare la proprie radici in una “colpa” dell’altro genitore; quanto questo comportamento sia indicativo di scarsa capacità genitoriale è una valutazione da rendere nel contesto dell’intera vicenda, raffrontandolo anche con il comportamento dell’altro.
Inoltre, mentre è (relativamente) facile allontanare il bambino dal genitore abusante, è difficilissimo allontanare un minore da un genitore manipolante. Questi genitori hanno di solito altissime performance di accudimento e cura e il minore, se è schierato con il genitore manipolante, è a lui (più spesso a lei) fortemente legato e si oppone con tutte le sue forze ad esserne allontanato. Questo non significa che il miglior interesse del minore si persegua soltanto prendendosene cura materiale, perché anche l’aspetto educativo ha la sua importanza e la rescissione del legame affettivo con l’altro genitore può avere conseguenze, più evidenti nel lungo periodo, sulla sua armonica crescita.
La Corte di cassazione si è già occupata in passato della PAS affermando che il giudice del merito deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale[7], ma anche che non è solo attraverso la consulenza tecnica che si possono accertare questi comportamenti pregiudizievoli perché il giudice ha a disposizione tutti i mezzi di prova propri del processo civile ed anche uno strumento specifico, quale è l'ascolto del minore, che però non è un mezzo di prova bensì la modalità attraverso la quale il minore esercita il suo diritto di partecipare al processo e di esprimere la sua opinione sulle scelte di vita che lo riguardano[8].
La sentenza in esame, con il suo forte richiamo all’accertamento dei fatti, completa il quadro. La sentenza contiene inoltre un importante riferimento (e qui si avverte forte l’eco della giurisprudenza della Corte Edu) al dovere del giudice di approntare misure per il recupero di una relazione familiare sana.
In questo delicato settore però non è consigliabile usare la coercizione, ma è necessaria la collaborazione di tutte le parti interessate, temendo presente che il decorso del tempo senza che sia stabilito un contatto tra genitore ed il figlio può pregiudicare irrimediabilmente la relazione familiare[9]. Il giudice non può limitarsi a delegare ai servizi sociali un generico controllo e monitoraggio della situazione, ma deve, anche d'ufficio, ricorrere a tutti i mezzi possibili per tutelare la relazione familiare, e tra questi l'affidamento a terzi, le sanzioni aventi finalità dissuasive e la mediazione[10].
Da ricordare, tuttavia, che se pure è compito del giudice informare i genitori sui benefici della mediazione familiare e sottoporre loro l'opportunità di intraprendere un simile percorso, ovvero un percorso di sostegno psicologico e di miglioramento della genitorialità, né la mediazione né la psicoterapia possono essere imposte dal giudice agli adulti, ma sono scelte rimesse alla autodeterminazione delle parti[11].
[1] V. DE MARZO: Sindrome di alienazione parentale e salvaguardia del rapporto familiare: i doveri motivazionali del giudice di merito, in Foronews www.foroitaliano.it 20 maggio 2021
[2] Corte Edu: Piazzi c. Italia, 2.11.2010 n. 36168/09 Lombardo c. Italia 29.1.2013 n.25704/11; Santilli c. Italia, 7.12. 2013, n. 51930/10, tutte in www.giustizia.it (sito del Ministero della Giustizia); v. anche A.I. c. Italia1.4. 2021.
[3] Sia consentito il rinvio a R. Russo Affidamento esclusivo e super esclusivo: l’interesse del minore richiede flessibilità, in Fam. e dir. 2019, 10, 891
[4] V. Corte Cost. 23.1.2013 n. 7 in www.cortecostituzionale.it
[5] Corte Edu Neulinger e Shuruk c. Svizzera, 6.7.2010; in dottrina: LONG Il principio dei best interests e la tutela dei minori, in Questione Giustizia, speciale Corte Strasburgo, aprile 2019.
[6] V. nota n.2
[7] Cass. civ. sez. I 20.3.2013 n. 7401, in Dejure
[8] Cass. civ. sez. I 09.6.2015 n. 11890; Cass. civ. sez. un. 21.10. 2009 n. 22238, in Dejure
[9] Corte Edu, sez. IV, 17.11.2015, B. c. Italia
[10] Cass. civ. sez. I 22.5. 2014 n. 11412; Trib. Reggio Emilia, sez. I, 11.06.2015;Trib. Roma 10.5.2013; Trib. Messina 8.10.2012; Trib. Varese 3.2.2011, tutte in Dejure
[11] Cass. civ., sez. I, 01.07.2015, n. 13506, in Dejure
Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Le proposte condivisibili - 2. Le proposte non condivisibili - 3. Una precisazione sui nuovi provvedimenti di condanna o di rigetto in via breve - 4. Una seconda precisazione sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda - 5. La riforma e l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi - 6. Segue: il correttivo da porre.
“È chiaro che la nomina di un numero di magistrati corrispondenti, nei singoli gradi gerarchici, al bisogno del pubblico servizio, è una delle condizioni per cui lo Stato adempie il suo obbligo di organizzare l’amministrazione della giustizia”
MORTARA, Istituzioni di ordinamento giudiziario, Firenze, 1919, 85.
1. Le proposte condivisibili.
È stato diffuso in questi giorni l’articolato relativo al maxi-emendamento 1662 di riforma del processo civile.
Si tratta di un emendamento molto ampio, che certamente contiene delle proposte positive.
Senza preamboli, mi accingo a sottolinearle:
a) seppur non sia un amante della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, devo riconoscere che molte delle scelte fatte in punto di mediazione appaiono di buon senso.
Condivisibili gli incentivi fiscali che si prevedono per le parti che riescano a mediare; condivisibile che la legge precisi in modo chiaro chi debba attivare la mediazione in caso di opposizione a DI; condivisibile, ancora, che si preveda in modo espresso che la condizione di procedibilità della domanda è assolta quando le parti non raggiugano l’accordo al primo incontro e non manifestino intenzione di proseguire con l’attività di mediazione; condivisibile la previsione di farsi rappresentare in sede di mediazione, in presenza di giustificasti motivi, da un terzo: ancora, condivisibile la scelta di favorire la mediazione anche con i soggetti pubblici, prevendendo che non vi sia responsabilità contabile in tutte le ipotesi nelle quali il contenuto dell’accordo rientri nei limiti del potere decisionale; condivisibile, di nuovo, che in casi di nomina dell’esperto la relazione possa poi esser prodotta in giudizio e sia rimessa alla libera valutazione del giudice; certamente condivisibile, inoltre, che si proceda ad una verifica statistica circa l’opportunità di mantenere la condizione di procedibilità dell’azione; ed infine, ripeto, seppur con i dubbi che possa avere chi come me non ami l’istituto della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, ragionevole è da ritenere che questa sia stata estesa ai rapporti giuridici contrattuali di durata, ovvero a quei rapporti dove trovare una soluzione dei contrasti è maggiormente necessario.
b) Per quanto concerne il processo di cognizione, trovo corretto voler salvare quelle novità che abbiamo sperimentato a seguito dell’emergenza Covid 19, se queste, effettivamente, possono agevolare il lavoro degli avvocati e dei giudici senza pregiudicare il diritto alla difesa.
E così, mi pare ragionevole che si preveda che, fatta salva la possibilità per le parti di opporsi, il giudice disponga che le udienze civili, che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, si svolgano con collegamenti a distanza, e che addirittura il giudice debba disporre che le udienze siano sostituite con il deposito telematico di note scritte se vi è richiesta congiunta di tutte le parti costituite.
c) Trovo altresì condivisibile l’aver mantenuto l’atto di citazione, che molti avevano già dato per morto, e ciò, se non altro, per rispetto ad una tradizione antichissima, si dice risalente addirittura alle 12 tavole.
d) Trovo poi condivisibile che non si sia fatto del procedimento sommario di cui all’art. 702 bis e ss. c.p.c. il rito principale, se non addirittura unico, del giudizio di cognizione di primo grado, e che lo stesso si chiuda con sentenza e non con ordinanza, al fine di superare quelle problematiche che in questi anni abbiamo avuto con riferimento all’interpretazione dell’art. 702 quater c.p.c.
d) Trovo, ancora, condivisibile che si preveda, seppur in forme che al momento restano generiche, un aumento delle competenze del giudice di pace, in modo da lasciare al Tribunale le controversie più complesse e di maggiore rilevanza, anche economica.
e) Condivido inoltre che non si siano introdotte rilevanti novità con riferimento ai mezzi di impugnazione, martorizzati da mille riforme negli anni passati, ed in particolare condivido che non siano stati introdotti ulteriori, significativi filtri, che avrebbero costituito nuovi discutibili limiti ai diritti processuali garantiti dalla carta costituzionale. Condivisibile, poi, in questo contesto, l’unificazione del procedimento camerale in cassazione con l’eliminazione delle differenze di cui agli artt. 380 bis e 380 bis 1 c.p.c.
f) Ed infine, è condivisibile che non sia provveduto, secondo voci che invece da tempo circolavano, a creare ipotesi di decisioni arbitrali fissate ex lege, perché, tutto al contrario, si deve ricordare che l’intervento degli arbitri, se non richiesto congiuntamente da tutte le parti, è incostituzionale per violazione (almeno) dell’art. 102 Cost.
2. Le proposte non condivisibili.
Altri punti non mi sembrano invece convincenti.
In particolare:
aa) non condivido che una pronuncia di inammissibilità dell’appello possa esser data anche a seguito di trattazione orale, poiché credo che la difesa scritta sia invece coessenziale al diritto al contraddittorio in un processo civile.
bb) Non trovo poi condivisibile il nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito per la decisione di una questione di diritto previsto dall’art. 6 bis del progetto, poiché mi sembra strumento che contrasti con più di un principio giuridico, tra i quali quello che ogni giudice è giudice della sua competenza, e quindi che una decisione che spetta ad un giudice deve essere decisa da quel giudice, secondo scienza e coscienza, e non da altri, e quello del diritto dei cittadini di ricorrere in cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., che potrebbe evidentemente essere limitato da questo strumento preventivo. E ciò, oltre al fatto che questa novità potrebbe essere usata in senso dilatorio dai giudici di merito, e costituire grave ritardo nell’andamento del processo, con pari inutile aggravio del lavoro della Corte di cassazione; né ancora penso possa attribuirsi alla Corte di cassazione un ruolo simile a quello della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell’Unione europea, alle quali, effettivamente, si rimettono le questioni pregiudiziali.
cc) Non condivido, inoltre, la scelta fatta sub art. 3 in base al quale tanto l’atto di citazione quanto la comparsa di risposta debbono, a pena di decadenza, contenere l’indicazione specifica dei mezzi di prova.
Non condivido detto avanzamento delle preclusioni istruttorie perché il processo civile non può essere assimilato a quello del lavoro, e perché, nei limiti del possibile, è sempre preferibile optare per soluzioni di libertà, che meglio consentono agli avvocati di poter recuperare possibili errori, e quindi alla giustizia di poter decidere nel merito piuttosto che su errori o carenze processuali.
dd) Soprattutto, non condivido la nuova disposizione dell’art. 14, secondo la quale il soccombente può esser condannato, anche d’ufficio, a pagare in favore della controparte una somma equitativamente determinata, e in favore della cassa delle ammende una somma non superiore a cinque volte il contributo unificato.
Si tratta di una disposizione a mio parere del tutto incostituzionale, sia perché non può essere rimessa alla mera discrezione del giudice la determinazione di una sanzione (che, nel caso sia in favore della controparte, non conosce infatti limiti indicativi nemmeno di massima), e sia soprattutto perché non può essere sanzionato l’esercizio del diritto di azione e/o di difesa, visto che, indiscutibilmente, l’art. 24 Cost. comprende nel suo seno anche l’esercizio dell’azione infondata, e nessun’altra conseguenza può avere così il soccombente se non il pagamento delle spese processuali.
L’esperienza concreta ci insegna poi che i giudici non separano le domande infondate da quelle promosse con mala fede o colpa grave, e fanno di tutta l’erba un fascio (abbiamo sperimentato ciò sia con riferimento al pagamento del raddoppio del contributo unificato, sia con riferimento all’applicazione del 2° comma dell’art. 283 c.p.c.); dal che non è pensabile che il soccombente debba sopportare simili sanzioni, e che l’esercizio del diritto di azione sia sottoposto al ricatto permanente di minacce economiche.
A questo fine mi solleva ricordare ancora una volta il pensiero di due grandi statisti del passato quali Pasquale Stanislao Mancini e Luigi Einaudi.
Mancini scriveva che “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale” e che, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti” (in Mancini – Pisanelli – Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi, Torino, 1855, II, 9).
Luigi Einaudi sosteneva il principio della gratuita della giustizia quale momento fondamentale delle funzioni dello Stato, al pari della difesa nazionale e della sicurezza, e affermava senza mezzi termini che “Al litigante non è logico far pagare qualcosa (tassa, in qualunque modo congegnata, di bollo o di registro o altra) in aggiunta alle imposte che egli già pagò, come cittadino, per mettere in grado lo Stato di esercitare l’ufficio suo” (così Einaudi, Imposte e tasse giudiziarie, Riv. Dir. fin. 1937, I, 359).
Oggi, affermare un principio, che pure sarebbe evidente e logico, quale quello della gratuità del servizio giurisdizionale, non è possibile, e ragioni di cassa fanno sì che appaia invece legittima la pretesa fiscale dello Stato a fronte dell’iniziativa delle parti di far valere un diritto in giudizio.
Ma usare i tributi e le sanzioni quali mezzi per indurre il cittadino a non chiedere giustizia, fino a terrorizzarlo per le conseguenze economiche che l’aver adito il giudice potrebbe avere (quintuplo del contributo unificato e triplo delle spese liquidate), non è solo del tutto incostituzionale perché in violazione dell’art. 24 Cost., e non è solo qualcosa che, come già diceva Mancini nel secolo XIX, danneggia i ceti più deboli in deroga al nostro odierno art. 3 Cost., ma è il segno, evidente, di un cedimento culturale al quale dobbiamo opporre resistenza.
3. Una precisazione sui nuovi provvedimenti di condanna o di rigetto in via breve.
Ciò premesso, alcune precisazioni.
L’art. 3 e-decies 1 recita: “prevedere che il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate”.
Orbene, di questa riforma non posso lamentarmi, poiché essa assomiglia molto alla condanna con riserva che io propongo fin dalla fine degli anni ’80, e che recentemente ho riformulato con un breve scritto (ID, Sul principio secondo il quale i tempi del processo devono andare a danno della parte che ha bisogno della trattazione della causa, ovvero su una proposta di riforma per l’efficienza del processo civile a costo zero, Judicium, ottobre 2020).
Tuttavia sia consentito rilevare che la cosa andrebbe a mio parere formulata in termini un po’ diversi.
La proposta di riforma, direi in gran parte, è collegata alla novità delle preclusioni istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, cosicché il giudice può pronunciare in questo modo un provvedimento sommario di condanna, o di rigetto della domanda, anche a seguito della prima udienza. Ed in tal contesto, poiché la creazione di questi nuovi provvedimenti da pronunciare in via breve è sembrata al riformatore evidentemente audace, si è previsto, quasi a compensazione, che questi non formino comunque cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c. (così l’art. 3 e-decies).
Orbene, alcune osservazioni.
In primo luogo, se il giudice può pronunciare una condanna in limine litis nelle ipotesi in cui la posizione di un litigante sia completa e soddisfacente e l’altra no, allora lì direi, in verità, noi non abbiamo più bisogno della preclusione agli atti introduttivi del giudizio fissata ex lege, perché la preclusione, anche senza espressa previsione, sorge egualmente quale necessità delle parti di presentarsi al giudice fin dalla prima udienza in modo completo ed esaustivo sotto tutti i punti di vista.
Dunque, l’esistenza di questi provvedimenti già di per sé induce le parti a essere complete fin con gli atti introduttivi; e così, se possiamo ottenere quel risultato senza imposizione, il legislatore non deve allora porre l’obbligo, poiché al contrario è preferibile attenersi ad un principio di libertà, se questo è possibile.
Oltre a questo, sottolineo:
a) che la fattispecie che consente l’emanazione della condanna in via breve in favore dell’attore che ha già fornito al giudice la prova dei fatti costitutivi non può completarsi con l’esistenza di difese del convenuto che “appaiono manifestamente infondate”, poiché non può introdursi una differenza tra “difese infondate” e “difese manifestamente infondate”, ove solo quest’ultime consentirebbero l’emanazione del provvedimento di condanna. Si tratta infatti di una distinzione troppo labile che, come tale, potrebbe generare confusione, oppure attribuire al giudice poteri discrezionali troppo ampi. Dal che, insisto, il provvedimento deve esser concesso non quando, a fronte della prova dei fatti costitutivi, le difese del convenuto sono “manifestamente infondate” ma quando il convenuto non sia riuscito a fornire la prova di almeno un fatto impeditivo, modificativo o estintivo dei fatti costitutivi già provati in giudizio dall’attore.
b) Inoltre, questo provvedimento funge da sé, ed evidentemente, quale deterrente alla prosecuzione del giudizio, ma esso non può darsi come provvedimento che necessariamente lo chiude; e la soluzione di compromesso di chiudere il processo senza al contempo attribuire al provvedimento autorità di cosa giudicata non sembra convincente, poiché l’assenza della forza del giudicato, anche in una ottica di economia processuale, aumenta, e non diminuisce, il contenzioso, visto che il convenuto ha così la possibilità di proporre una nuova lite alla quale seguirebbero almeno due nuovi processi: quello in accertamento negativo rispetto alla condanna pronunciata, e quella in opposizione all’esecuzione avverso la condanna che è stata concessa.
Credo, allora, che la soluzione ideale sia semplicemente quella di consentire al giudice, in limine litis, di valutare tanto la sussistenza della prova dei fatti costitutivi quanto quella dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi fatti valere da chi si difende, e quindi di pronunciare la condanna quando a fronte della prova dei fatti costitutivi nessuna prova sia fornita dei fatti impeditivi, estintivi o modificativi, oppure di rigettarla quando la prova dei fatti costitutivi non si abbia, o, pur essendoci, vi sia per contro la prova di almeno un fatto estintivo, impeditivo o modificativo.
Questi provvedimenti, poi, indirettamente, come detto, a monte sono in grado di creare di fatto un regime rigido di preclusioni (e senza la necessità che questo sia categoricamente fissato dalla legge) e a valle portano alla tendenziale chiusura del processo, che però non va disposta per legge, poiché, al contrario, tanto in ipotesi di provvedimento di accoglimento quanto di rigetto, deve essere consentito al soccombente, se lo vuole, di poter proseguire le attività processuali e completare quelle difese che in limine litis non son sembrate al giudice adeguate.
Dunque, a fronte della parte dell’art. 3 e-decies, io semplicemente proporrei, previa eliminazione delle preclusioni istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, una norma del seguente tenore: “Su domanda di parte, e quando il processo abbia ad oggetto diritti disponibili, il giudice concede ordinanza anticipatoria della sentenza sui diritti dei quali l’attore abbia già fornito prova dei fatti costitutivi, e sempreché al processo non sussista pari prova dei fatti impeditivi, estintivi e modificativi. Il provvedimento vale come titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione ipotecaria, sopravvive all’estinzione del processo e contiene la liquidazione delle spese secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss. c.p.c.”.
4. Una seconda precisazione sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda.
Una seconda precisazione ritengo debba farsi con riferimento alla mediazione quale condizione di proponibilità della domanda.
Ho premesso che le novità che si propongono appaiono ragionevoli una volta data questa condizione; solo dubito che debba continuare a prevedersi che la mediazione possa costituire, in taluni casi, condizione di esercizio dell’azione giudiziale.
La mediazione fonda le sue radici, infatti, in un negozio, e un negozio giuridico non può non basarsi sulla libertà delle parti.
Dal che, immaginare che le parti, per andare dinanzi al giudice, debbano previamente presentarsi ad un mediatore per affermare, assai spesso, che, proprio in forza del loro diritto di libertà negoziale, non intendono mediare, appare meccanismo del tutto inutile, che costituisce solo perdita di tempo e di denaro.
Giuseppe Chiovenda diceva che il processo deve dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, e la mediazione, al contrario, presupponendo la definizione della lite attraverso la concessione di una qualche cosa, non è mai in grado di dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, e quindi non è mai in grado di assolvere pienamente il compito di rendere giustizia; semplicemente opera attraverso un negozio, che come tale deve essere, però, rimesso alla libertà delle parti, senza costituire condizione di accesso al giudice.
Di questo avviso era tutta la dottrina classica, con posizioni che forse giova ricordare:
a) Giuseppe Pisanelli: “La conciliazione delle parti è un’idea che ha molte attrattive, ma conviene di non esagerarla, e molto più ancora di non forzarla. Quando lo sperimento della conciliazione si volle rendere obbligatorio, come preliminare necessario al giudizio, non corrispose alle aspettative e degenerò in una vana formalità” (PISANELLI, Procedura civile, Palermo, 1868, VII, 2);
b) Luigi Mattirolo: “Il sistema che impone lo sperimento della conciliazione, prima di iniziare la causa, sebbene annoveri tuttora qualche partigiano, è respinto dalla maggiore parte degli scrittori. In verità l’idea di conciliazione ripugna al concetto di coazione. La legge non deve farsi indiscreta tutrice dei cittadini; essa deve permettere, agevolare anche in ogni miglior modo lo sperimento della conciliazione; non imporlo. Il tentativo forzato, appunto perché forzato, degenera, siccome l’esperienza ha luminosamente dimostrato, in una vana formalità, spesso inutile, talvolta dannosa” (MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1892, I, 145);
c) Ludovico Mortara: “Questo istituto teoricamente ottenne un certo plauso ma in pratica non diede notevoli vantaggi. È necessario che la sua interposizione sia domandata, giacché non saprebbe rispondere al decoro della giustizia un’intromissione volontaria, per quanto officiosa, nelle questioni private. Il giudice non si ha interporre in discussioni, ufficio questo di mediatore e non di magistrato” (MORTARA, Manuale della procedura civile, Torino, 1921, I, 576);
d) Giuseppe Chiovenda: “Il conciliatore interpone il suo ufficio solo se richiesto” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1934, II, 22).
e) Piero Calamandrei: “In altri paesi la simpatia con la quale si guarda alla conciliazione è fondata su un senso di crescente scetticismo contro la legalità; così può avvenire che il favore con cui si guarda alla funzione conciliativa vada di pari passo col discredito della legalità e sia indice di un ritorno alla concezione della giustizia come mera pacificazione sociale” (CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 87).
E se oggi, poi, correttamente e senza mezzi termini, si afferma che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità, la condizione si considera avverata se le parti si presentano al primo incontro dinanzi al mediatore e detto incontro si conclude senza accordo”, a maggior ragione la necessità della condizione di procedibilità della domanda viene meno e andrebbe soppressa, poiché l’obbligo che ne discende si riduce solo alla recita con la quale le parti, pagato un piccolo obolo, affermano semplicemente al mediatore che non intendono mediare.
5. La riforma e l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi.
Questi, a mio parere, i punti principali della riforma.
Dopo di che, date le note positive e negative sopra evidenziate, non vedo però che pertinenza possa avere questo progetto con l’obiettivo di ridurre i tempi del contenzioso civile (si dice, del 40%), se non addirittura, si sente dire altresì da qualche altra parte, con quello di ridurre la stessa mole del contenzioso che attualmente grava sui nostri uffici giudiziari.
Premesso che una riforma non può darsi l’obiettivo di ridurre la misura del contenzioso, in quanto, sotto questo profilo, lo Stato semplicemente deve rendere giustizia nella misura in cui i cittadini la richiedono e non altro, residua tuttavia il tema della riduzione dei tempi, sul quale aggiungerei la riflessione che segue.
6. Segue: il correttivo da porre.
Ripeto, questa riforma a me non sembra funzionale alla riduzione dei tempi del processo.
Essa ha ad oggetto scelte di rito: alcune possono essere condivisibili, altre a mio parere, no; in ogni caso i tempi del processo dipendono da altro, non dipendono dal rito, dipendono dal rapporto tra domanda e offerta di giustizia.
Per l’esattezza, a fronte di un certo numero di domande di giustizia da parte dei cittadini, lo Stato deve organizzare una offerta di giustizia adeguata se vuole contenere in modo ragionevole i tempi dei processi. Se l’offerta di giustizia non è adeguata, è evidente allora che i processi durano un tempo non ragionevole, e a niente serve modificare in tal contesto le regole processuali.
E se vogliamo ridurre i tempi del processo, forse conviene allora ricordare Lodovico Mortara.
Lodovico Mortara, nel 1919, ristampava le sue Istituzioni di ordinamento giudiziario: in quell’anno, Lodovico Mortara era il Ministro della Giustizia, e seppur sospeso per l’incarico governativo, era anche il Primo Presidente della Corte di cassazione di Roma.
Quindi, immaginate l’autorevolezza di quella voce, primo magistrato del Regno e Ministro Guardasigilli.
Ebbene, Lodovico Mortara scriveva una cosa semplicissima.
Scriveva: “È chiaro che la nomina di un numero di magistrati corrispondenti, nei singoli gradi gerarchici, al bisogno del pubblico servizio, è una delle condizioni per cui lo Stato adempie il suo obbligo di organizzare l’amministrazione della giustizia”.
La funzione giurisdizionale, dunque, diceva Lodovico Mortara, deve muoversi in conformità alle esigenze della funzione, ovvero deve essere organizzata con un numero di magistrati corrispondenti al bisogno del pubblico servizio.
Anche oggi, così, se invece di cercare effimeri miglioramenti del servizio giurisdizionale modificando continuamente i riti, si facesse quello che a inizio ‘900 già diceva di fare Lodovico Mortara, ovvero semplicemente si aumentasse il numero dei magistrati e dei cancellieri fino a portarli ad una misura idonea al bisogno del pubblico servizio, probabilmente molti nostri problemi non ci sarebbero.
Questa, se si vuole ridurre i tempi della giustizia, è l’unica riforma da fare.
E non si dica che ciò avrebbe un costo, poiché, se si vuole, le risorse economiche vi sono; e a questo riguardo ricordo anch’io, come già ha fatto il mio Maestro Andrea Proto Pisani, l’eccellente volume di un altro ex magistrato, Marco Modena, Giustizia civile, Le ragioni di una crisi, ove l’autore sottolinea come la crisi della giustizia civile dipenda infatti dall’insufficienza dei mezzi, soprattutto umani, e che le risorse economiche vi sarebbero, se solo le si volessero utilizzare.
Peraltro, se a fronte di 2 milioni di nuove cause in Tribunale all’anno, abbiamo circa 10.000 magistrati, di cui parte sono addetti all’Ufficio della Procura della Repubblica, parte sono giudici che si occupano del penale, parte sono fuori ruolo o non attivi per ragioni varie, cosicché, si ritiene, che circa solo 3.000 magistrati, e non di più, si occupino, per tutti i gradi di giudizio, del contenzioso civile, non si vede proprio come i processi possano durare un tempo ragionevole, se 3.000 magistrati debbano far fronte ad un contenzioso di 2 milioni di cause ogni anno.
In tutti i settori economici, se aumenta la domanda, aumenta l’offerta; e questo aumento, in tutti i settori economici, è considerato un bene, non un male.
Solo nel campo del diritto processuale si ritiene che l’aumento della domanda sia un male, e si pensa che la soluzione all’aumento della domanda debba esser quello della sua forzata diminuzione.
Né, sia chiaro, può esser considerata una soluzione soddisfacente quella della riforma sull’Ufficio del processo di cui all’art. 12 bis del progetto; che certamente è lodevole, ma altrettanto certamente non è la soluzione.
Cinque odi per i nostri morti
LARGO FALCONE E BORSELLINO
di Werner Mussner
La città di Bolzano per esprimere la riconoscenza della comunità per l'impegno e per gli sforzi compiuti dai due magistrati in difesa delle Istituzioni ha a loro intitolato una piazzetta ed un vicolo cieco “Largo Falcone e Borsellino”.
Oltre al cartello stradale le Autorità hanno commemorato i due magistrati apponendo la famosa fotografia dei due giudici, ripresi mentre Paolo Borsellino commenta e Giovanni Falcone sorride durante un convegno, pochi mesi prima di cadere vittime dei due attentati. Una fotografia diventata simbolo della lotta alla mafia.
Si tratta di uno spazio minuto, a lato del Tribunale, che attraverso ogni giorno per recarmi al lavoro. E quasi quotidianamente la mia compagna – lei sì di buon umore sin dalla prima mattina - s’immagina una nuova battuta di Paolo Borsellino che fa sorridere Giovanni Falcone, cercando di far sorridere anche a me.
Ma al di là della nostra personale attenzione Largo Falcone e Borsellino, e con esso i magistrati cui deve il nome, forse non godono della dovuta considerazione. Sintomatica è la presenza ancora, accanto alla fotografia di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, di una fatiscente cabina telefonica, probabilmente dismessa, una delle ultime rimaste a Bolzano.
La sensazione è che in una terra geograficamente così lontana dalla Sicilia, la gente fatichi ancora oggi a comprendere appieno il significato dell’importanza dell’inibizione della criminalità organizzata, un contrasto che invece altri hanno condotto senza se e senza ma, con le Istituzioni non sempre al fianco. Un’attività volta semplicemente ad affermare lo stato di diritto ma che è costata la vita a molti magistrati ed agenti delle forze dell’ordine. Purtroppo, non solo fatica a capire il sacrificio compiuto in nome della giustizia dai colleghi, uomini e donne, ma spesso non si ferma nemmeno ad interrogarsi sulle ragioni che hanno reso necessaria la repressione del fenomeno mafioso e sulle radici della criminalità organizzata.
Sotto questo profilo la realtà locale presta senza dubbio il fianco a critiche. La necessità di studiare, analizzare e capire il crimine organizzato è poco sentita. Una lezione che sicuramente va ripetuta. Per non perdere l’eredità lasciataci da Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e da chi in nome della giustizia, con passione e professionalità, ha perso la vita.
di Lorenzo Miazzi
Sabato. Ero stato p.m. di turno, nella mia prima funzione che avevo scelto solo per stare vicino a casa e che adesso, dopo neanche due anni, mi piaceva sempre di più. Alle sei di un pomeriggio luminoso, con un caldo che annunciava l’estate, giocavo con mio figlio facendolo andare in biciclettina sull’aia dietro casa. In macchina avevo il regalo che gli avrei dato il giorno dopo, per il suo secondo compleanno. C’era anche mia moglie con in braccio Pietro, nato 14 giorni prima ed eravamo lì, in quel pomeriggio luminoso e nel caldo che odorava di estate, quando mio cognato ci disse che avevano fatto un attentato a Falcone.
Mia moglie rientrò e io rimasi fuori con Rocco che voleva ancora andare in bici, entravo in casa ogni tanto. Vidi immagini sconvolgenti, e ogni volta che entravo avevano aggiunto il nome di un morto della scorta e mostravano l’immagine di un ragazzo che non c’era più; non riuscivo a crederci. Vidi la gente che stava a guardare da fuori l’autostrada o si aggirava attorno alle macchine sventrate e alla buca creata dalla bomba come se fossero turisti; ne rimasi sbalordito, disorientato; non riuscivo a capire. Sentivo montare dentro di me, insieme, la rabbia contro gli assassini e un senso di estraneità rispetto a quella gente.
Poi venne sera, tv accesa su Raiuno per vedere, ero certo, un servizio che consentisse di capire anche a chi non aveva visto la tv nel pomeriggio. Invece apparve la faccia perplessa di Fabrizio Frizzi, che dopo alcune parole dedicate a Giovanni Falcone e alla sua scorta, in modo imbarazzato disse che lo spettacolo andava avanti, che era la decisione dell’azienda. E riprese con l’ultima puntata di “Scommettiamo che…” Allora anche quel senso di estraneità e stupore divenne rabbia.
Imprecavo contro quegli assassini; e detestavo quella gente che si mostrava indifferente; e mi sentivo in rivolta contro quello Stato che si rivelava neutrale fra mafia e antimafia, che voleva il compromesso e non la sconfitta della mafia, come nel caso del prefetto Mori. Solo che stavolta per non esporsi allontanando i magistrati antimafia, li aveva lasciati soli, aveva lasciato il lavoro sporco alla mafia stessa. Non siete il mio Stato, pensavo annichilito da un senso di impotenza, di inutilità del mio lavoro, dalla sensazione che fossimo in realtà un cane alla catena, e il messaggio era guai se andate oltre.
Domenica. Festeggiavamo il compleanno, mi chiesero cosa sapevo di Falcone. Raccontai un po’ la sua storia, comprese le perplessità che i suoi comportamenti mi avevano suscitato. Perché lasciare la procura per andare al CSM e poi al ministero? al CSM ci possono andare in tanti, ma lui era indispensabile, era il più bravo nella lotta antimafia. Perché non aveva voluto approfondire alcune indagini, fermandosi ai margini della politica che si intuiva già coinvolta, come aveva dimostrato due mesi prima l’omicidio di Lima? Ma ero troppo giovane. Non sapevo ancora che combattere, da dentro le istituzioni, quella parte dello Stato che era neutrale o alleata della mafia era necessario ed era più difficile che farlo da magistrato; non avevo ancora capito che quanto più è delicata la funzione, l’uso ragionevole, e non l’eccesso, dei propri poteri rende straordinario, come Falcone, un magistrato che voglia essere efficace e non insegua l’apparenza.
Lunedì. Quanta ipocrisia e quanto dolore vidi ai funerali. Le facce delle mogli distrutte, e le facce ributtanti dello Stato neutrale. Ancora più forte era il senso di estraneità rispetto a quello Stato, e di quello Stato rispetto a me, a noi che credevamo nel nostro lavoro e nel servizio alla comunità.
Poi, una domenica di luglio, afosa e sudata, sentii alla radio che avevano ucciso anche Borsellino e quel senso di estraneità divenne rabbia cieca, disillusione, sconforto, odio… Ma questa è un’altra storia.
QUEL CHE RESTA DI QUEL GIORNO
di Maria Cristina Amoroso
Economia politica. Un esame surreale per chi si iscrive a giurisprudenza. Ostico.
La prima volta avevo rinunciato per la mia naturale idiosincrasia per tutto ciò che non è parola ma numeri, rette e grafici.
Ci stavo riprovando.
Maggio. Un maggio caldo, già in manica corta. Napoli di fuoco.
Ero una studentessa. Ero una ragazza.
L’ansia della chiamata… tra quando? Sistema il libretto, parla con voce calma, speriamo di ricordare tutto.
Il brusio degli studenti interrotto da una strana agitazione della Commissione.
Gli esami si fermano.
Capaci, Falcone, Morvillo, la scorta, un’autobomba.
Non ricordo neanche più come ce lo dissero. Ricordo solo che ci congelammo all’unisono, fermi, immobili.
La stanza diventò l’autostrada con il fumo nel naso.
Tutti in piedi. Un minuto di silenzio o forse di preghiera.
Quel minuto ancora lo porto dentro, venni invasa da un devastante e potente senso di appartenenza che non mi ha mai più lasciata.
In quel tempo indefinito e senza suoni, da studentessa diventai, violentemente, più che semplicemente adulta, un magistrato, tanto che l’accaduto da quell’esame in poi è stato semplicemente un duro, ma fisiologico, impegno per adeguare nella realtà la nuova forma che già avevo dentro.
DM 19 ottobre 2004, non più un giovane magistrato, quindi, e sicuramente non ancora tra quelli di maggiore esperienza, l’insegnamento di quel giorno, ovvero l’essere parte di un tutto, va pertanto annoverato tra quelli “laici”, tra quelli che mi hanno plasmata prima che prendessi servizio e che inevitabilmente mi hanno fatto da guida nel corso dello stesso.
Di Giovanni Falcone mi è rimasta dentro la sua coinvolgente determinazione nell’esportare i valori della verità e della giustizia anche al di fuori delle sedi giudiziarie; di Francesca Morvillo la riservata tenacia nel lavoro e la straordinaria forza di un amore che ha deciso, consapevolmente, di rinunciare ad una vita più “leggera” per condividere le paure e le restrizioni che comporta una vita blindata.
Di Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, la capacità di essere protezione e famiglia al tempo stesso, come sanno fare solo coloro che vivono quotidianamente per tutelare gli altri.
Il dopo di quel giorno di maggio ho cercato di viverlo sempre così, come avevano fatto loro, sicuramente sbagliando, ma provando a farlo con tutte le mie forze.
Per questo, quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, istintivamente rispondo che “sono un magistrato”, non che “faccio” il magistrato, ma che lo sono.
Perché da quella mattina appartengo alla magistratura che si pone al servizio della collettività, non senza stanchezza, difficoltà, scoramento e delusione, ma sempre e innanzitutto al servizio, con generosità e con la consapevolezza che si può essere davvero per gli altri solo se si riescono a declinare, non solo nell’ambito lavorativo ma anche e soprattutto in altri contesti della vita quotidiana, i valori del rispetto, della giustizia della verità e della solidarietà, poiché, in quanto magistrato, avendo il potere di influenzare la vita degli altri, non si può che vivere così.
Nel mio breve percorso professionale ho incontrato moltissime volte colleghi animati dal medesimo senso di appartenenza, maturato o meno in quel maggio, e giovani laureati che, mossi da questa forza, sono riusciti a coronare il loro sogno di entrare in magistratura.
Quando ciò accade, è forte la percezione di trovarsi finalmente in quel luogo ideale comune per raggiungere il quale, nella età della giovinezza, abbiamo sacrificato tanto.
Quel posto c’è, non sempre, non ovunque, ma c’è, e quando c’è, se ne accorgono tutti.
LETTERA A GIOVANNI FALCONE
di Marta Agostini
23 Maggio 2021,
Questa sarà probabilmente la milionesima lettera che hai ricevuto, tra le tante scritte da chi, avendo avuto la fortuna di conoscerti, ha nostalgia di te e vive sulla propria pelle il tuo ricordo o da chi, invece, come me, ti ha conosciuto solo nei racconti degli altri, sui libri, nei film, nei documentari che parlavano di Palermo, di Cosa Nostra, del maxi processo e può soltanto provare ad immaginare chi tu fossi
Sono entrata in magistratura nel 2012, esattamente vent’anni dopo la tua morte.
Tu già allora probabilmente rappresentavi la parte migliore della magistratura italiana, il suo momento più alto. Io, invece, sono oggi testimone della sua storia peggiore, del periodo forse più buio.
Eppure mi piace pensare, con un certo orgoglio tipico di chi, nonostante tutto, mantiene un approccio idealistico alle cose della vita, di appartenere allo stesso corpo a cui appartenevi tu, quel corpo di uomini e di donne che, scegliendo questa professione, la nostra professione, hanno scelto un modo di essere. Non solo un lavoro, ma un servizio
Avevo più o meno undici anni quando sei stato ucciso e non ho alcun ricordo. Ma di certo ricordo come le stragi e, prima ancora, le tue indagini, la tua storia e quella del pool di Palermo, abbiano influito sulla mia decisione di entrare in magistratura. E come me credo che tantissimi altri colleghi della mia generazione, cresciuti anche loro all’ombra del tuo mito, abbiano inteso seguire i tuoi passi. Di questo, come di tanto altro, non finirò mai di ringraziarti perché ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni dall’inizio del mio percorso professionale e nonostante tutto, rifarei quella scelta milioni di volte
È un’eredità importantissima quella che ci hai lasciato e, credimi, il grande insegnamento che hai regalato alle generazioni di magistrati che sono venute dopo di te è ancora vivo, fortissimo; anche se non abbiamo mai sentito la tua voce è come se ti conoscessimo da sempre e questo, caro Giovanni, è il dono più grande che tu potessi fare a questo Paese. Essere e restare una guida, un esempio, un simbolo di speranza e levatura morale per giudici e pubblici ministeri che, per tante e complicate ragioni, hanno perso molto della credibilità e della legittimazione che tu, assieme a chi con te ha perso la vita in ragione del proprio operato, avete contribuito a costruire e fortificare
Mi chiedo cosa penseresti di questi nostri tempi, di quello che siamo diventati, come cittadini e come magistrati, di come la giurisdizione, nel bene e nel male, sia cambiata rispetto a come la conoscevi tu.
Mi domando come avresti affrontato questa crisi etica profonda dalla quale la magistratura sembra non riesca ad uscire e che sta lentamente logorando il rapporto di fiducia tra questa e la società.
Ma credo anche che tutto sommato ogni epoca abbia i suoi mostri e tu sul tuo percorso ne hai trovati tanti, fuori e dentro lo Stato. Forse quanto è emerso negli ultimi anni, gli scandali e le polemiche che oggi continuano a provocare al nostro interno ferite laceranti, da fine conoscitore dell’animo umano quale eri, non ti avrebbero stupito affatto. Di certo comunque ne avresti sofferto, come ne soffro io
Mi ha sempre colpito molto, rivedendo le registrazioni delle tue interviste o degli interventi che hai fatto in TV o nei talk show a cui hai partecipato, l’integrità e la solennità con cui davi le tue risposte, la sobrietà con cui replicavi alle critiche ad agli attacchi, cercando di trattenere la rabbia, che pure a volte trapelava lasciando, così, intravedere anche la tua umanità (e la tua sicilianità). Mi colpiva l’autorevolezza e la fermezza con cui in quei momenti rappresentavi lo Stato, le sue Istituzioni, forte delle tue ragioni, che riuscivi a trasfondere anche nel semplice cittadino che nulla sapeva e capiva di diritto e di processi. Uno Stato in cui credevi ed in nome del quale combattevi, nonostante tu stesso fossi consapevole che, ad un certo punto, quello Stato ti aveva abbandonato.
Quel Giovanni Falcone mi ha insegnato quanto dirompente possa essere un’idea, anche la più folle (come folle era percepita all’epoca la tua visione-intuizione di cosa fosse e come operasse Cosa Nostra), se sostenuta dalla forza delle proprie ragioni, delle proprie convinzioni, a loro volta maturate a seguito di un intenso e serio lavoro e studio approfondito dei fatti. Nonostante la solitudine, quella che può uccidere anche il più forte degli uomini
E mi chiedo se oggi sarei in grado di avere quel tuo coraggio, quella tua ostinazione e determinazione nel portare avanti fino in fondo e a costo della vita un’idea che, nel tuo caso, in molti, sino alla fine, hanno osteggiato
Non so dare questa risposta, forse non so tuttora chi sono e chi sarò ancora in grado di essere. So per certo, però, anche grazie a te, cosa non voglio essere.
L’ho capito quando, almeno quindici anni fa, durante una vacanza estiva con gli amici in Sicilia, ci fermammo allo svincolo per Capaci, sull’autostrada, dove si erge il monumento in memoria della strage. Andavamo all’università, tutti iscritti a Giurisprudenza, tutti con lo stesso sogno, che poi siamo riusciti a realizzare. Quella tappa, nel corso del nostro giro in macchina della Sicilia, era scontata; la sentivamo tutti quasi come dovuta, senza bisogno di pianificarla. C’era un forte sole, faceva caldo e c’era uno strano silenzio, interrotto solo dalle macchine che passavano veloci, ma alle quali nessuno di noi faceva caso. Ricorderò sempre il profumo di quell’aria, l’ho respirata tutta, fino in fondo. Ricordo anche il calore della lacrima che mi sfuggì. E anche se non ne parlammo ed, anzi, restammo a lungo in silenzio anche dopo esserci rimessi in viaggio, so che quella forza, quella emozione profonda, l’empatia che provai con quei luoghi e quello che simboleggiavano, difficile da descrivere a parole, l’hanno percepita anche i miei compagni di viaggio che, come me, non la scorderanno
Porterò con me, sempre, un pezzo di te, del tuo ricordo, della tua storia, alla quale sono inscindibilmente legata perchè per tante ragioni in qualche modo fa parte della mia. Porterò con me quello che hai lasciato, l’esempio che per tanti di noi sei stato, quell’idea di magistrato che voglio essere e che, spero anche attraverso le future generazioni, continuerà ad esistere.
SPINTA EMOZIONALE SU E PER GIOVANNI FALCONE
di Andrea Apollonio
Ero andato a trovare un collega, a Palermo, molto più grande di me. Non c'erano ragioni di servizio, anzi avevo preso appositamente un giorno di ferie: lui aveva condotto, negli anni Novanta e Duemila, i principali processi contro Cosa Nostra, e mi si era presentata la possibilità di incontrarlo. Nella penombra della sua stanza, in cui la luce del sole faticava ad arrivare per via dei vetri blindati, parlavamo del momento difficile che stava attraversando la magistratura, degli scandali che si erano succeduti negli ultimi tempi, quando lui ad un tratto, improvvisamente e senza ragione, aveva preso a parlare di Falcone. Mi raccontava cose che nessuno poteva sapere, salvo chi non avesse lavorato con lui gomito a gomito. Mi spiegava - non era infatti un raccontare, era uno spiegare - come Falcone si comportava con i colleghi, con quelli amici e quelli che gli erano avversi, con i collaboratori di giustizia, con la polizia giudiziaria. Mi illustrava le tecniche di indagine e il modo con cui affrontava i processi. Come un magistrato non possa mai farne questioni personali, né abbia il diritto di sconsolarsi.
Tornando a casa, in treno, vedevo scorrere la costa siciliana ed ero frastornato. Perché, sebbene non ci fossimo mai incontrati prima, aveva voluto rendermi partecipe di ricordi tanto intensi, che certamente avevano riaperto ferite dolorose? Poi ci fu uno scambio di mail, e compresi. Lui mi aveva scritto: "Sappi che giovani come te danno senso all’ impegno che uomini come me, e molto migliori di me, hanno profuso per arginare il male e l’ingiustizia, perché alimentano la speranza che qualcosa resterà". Era chiaro a chi si stesse riferendo: a quale fosse il punto d'origine di quella catena. Cadeva così il velo che mi aveva impedito, fin lì, di comprendere la concretezza e la materialità dell'esperienza umana e professionale di Giovanni Falcone; ben oltre le effigi sui muri e le targhe nelle piazze.
Certo: la foto di Falcone e Borsellino era stata collocata nel mio ufficio prima d'ogni altra cosa, perché esprime un ideale (astratto, in quanto tale): lo spirito di servizio perseguito ogni oltre umano timore. Nessun magistrato dovrebbe prescinderne, e quella foto - esposta dentro il mio piccolo ufficio giudiziario di frontiera - intendeva testimoniare l'adesione ideologica allo spirito che animava i due colleghi. Intende ancora: ma dopo quell'incontro a Palermo mi è stato chiaro come la professionalità, la levatura morale e l'abnegazione di Falcone si fossero trasfuse - concretamente: nel modo di ragionare e nell'agire quotidiano - nella generazione appena successiva, e da questa a colleghi ancora più giovani, e via così: affinché quelle caratteristiche - dell'uomo e del magistrato Falcone - potessero essere ancora patrimonio e linfa della magistratura italiana, e non invece freddo reperto della memoria: che è sempre infeconda, se non coltivata a dovere.
Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria*[1]
di Fabio Francario
Sommario: 1. Premessa - 2. L’arretramento contestato (dalle Sezioni Unite) - 2.1. La riscrittura del sistema di giustizia amministrativa avvenuta a cavallo del nuovo millennio - 2.2. Giudice amministrativo e tutela risarcitoria - 2.3. L’ibridazione del diritto soggettivo “amministrativizzato” - 2.4. L’ibridazione dell’interesse legittimo “patrimonializzato” - 3. L’arretramento auspicato (dalle riforme legislative) - 4. La trappola della tutela risarcitoria.
Spinto dall’avvenuto spostamento dei diritti soggettivi nell’ambito della giurisdizione esclusiva e dall’attribuzione del potere di condanna al risarcimento del danno e suggestionato dalle teorizzazioni in termini di giudizio di spettanza, all’inizio del nuovo millennio il giudice amministrativo sembrerebbe essersi incamminato sulla via della ibridazione delle figure soggettive, incontrando la resistenza della Corte di cassazione e prestando il fianco ad ulteriori interventi riformatori pronti a considerare la tutela risarcitoria un modo come un altro per tutelare l’interesse legittimo.
La tutela risarcitoria è la trappola perfetta per il giudice amministrativo e la strada dell’ibridazione è la pericolosa scorciatoia che vi conduce, poichè espone il giudice amministrativo al perenne e carsico contrasto con le Sezioni Unite nel momento in cui l’ibridazione tende a costruire una tutela risarcitoria che è un surrogato di quella fruibile nel sistema della tutela civile dei diritti e lo allontana da quella che è la sua mission istituzionale (e costituzionale), assicurare cioè giustizia nell’amministrazione, che rappresenta la sua stessa ragion d’essere.
1.- Premessa. Le considerazioni che vengono svolte nel presente articolo rispondono all’invito di Scoditti e Montedoro a riflettere sul tema se l’attuale struttura pluralistica del sistema giurisdizionale disegnato dalla Costituzione repubblicana sia un punto di forza o di fragilità dello Stato sociale italiano[2] .
Lo spunto è offerto da due eventi che nel corso del 2020 hanno messo in discussione il ruolo del giudice amministrativo e rivitalizzato l’attenzione degli studiosi per il tema della giurisdizione amministrativa, dei suoi limiti e confini.
Il primo è dato dalla nota ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 18 9 2020 che, con una pronuncia senza precedenti, ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea di pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto euro unitario dei limiti della giurisdizione amministrativa così come definiti dalla Corte costituzionale con la sentenza 6 / 2018 (ma anche, a ben guardare, a prescindere dalla suddetta pronuncia della Corte)[3].
Il secondo è dato dall’evento pandemico e dalla situazione emergenziale dallo stesso creata, non tanto sotto il profilo sanitario, quanto socio - economico, per la necessità di porre in essere interventi straordinari di immediato sostegno e rilancio dell’economia, la cui efficacia, si è paventato, potrebbe essere condizionata e pregiudicata dall’intervento del giudice amministrativo.
Tali eventi hanno riacceso la discussione sul rapporto tra giudice amministrativo e giudice ordinario, da un lato, e tra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, dall’altro, imponendo una riflessione complessiva sul ruolo del giudice amministrativo nell’assetto ordinamentale contemporaneo.
Il problema non può essere ridotto ad una questione di mera delimitazione di reciproci confini. Certamente, l’auspicato dialogo tra le Corti, nazionali e non, attraversa un momento difficile, che può giustificare anche una lettura in termini di antagonismo finalizzato all’affermazione di una primazia giudiziaria, o meglio, con specifico riferimento al rapporto Consiglio di Stato e Cassazione, all’affermazione o meno di una piena ed assoluta equiparazione delle due giurisdizioni, amministrativa e ordinaria, con relativa nomofilachia “differenziata” sotto ogni profilo. Questa lettura del fenomeno, visto per così dire dall’alto, dal punto di vista cioè del giudicante che deve difendere e delimitare il proprio territorio giurisdizionale, rischia però di essere sterile e fuorviante e può portare a soluzioni che finiscono con il perdere di vista l’esigenza primaria che è quella di vedere come debba essere qualitativamente soddisfatto il bisogno di tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della PA.
Questa esigenza primaria diventa immediatamente visibile cambiando prospettiva, guardando le cose per così dire dal basso, dal punto di vista cioè del cittadino utente del servizio di giustizia. In tal caso, il problema di valorizzare il giudice amministrativo come risorsa diventa immediatamente comprensibile nei suoi termini essenziali perché diventa subito ben chiaro che il problema è innanzi tutto quello di capire a cosa serva un sistema dualistico. Così posto, l’interrogativo impone di sciogliere, in un senso o nell’altro, l’alternativa tra il ritenere che un sistema dualista serve a far sì che il cittadino possa ottenere nei confronti della PA una tutela qualitativamente diversa e maggiore rispetto a quella comunemente offerta dal sistema della tutela civile dei diritti; oppure che la creazione di un giudice speciale, appositamente costituito per decidere le controversie in cui sia parte la PA, serva per garantire la completa sottrazione di questa al diritto comune[4].
Detto diversamente, bisogna domandarsi se il giudice amministrativo esiste per rispondere ad un bisogno di tutela diverso da quello proprio già della figura del diritto soggettivo ovvero per soddisfare diversamente un bisogno di tutela che verrebbe altrimenti garantito dal sistema della tutela civile dei diritti.
Sono fermamente convinto che questa alternativa renda chiaro come il giudice amministrativo sia una risorsa inestimabile e insostituibile in un ordinamento che intenda raggiungere e conservare un elevato livello di civiltà giuridica. Ciò implica, però, che egli debba garantire il rispetto degli obblighi di comportamento che gravano sulla PA in ragione della specialità dei principi e delle regole del diritto amministrativo rispetto a quelle proprie dei rapporti di diritto comune; e non già che la giurisdizione amministrativa possa radicarsi ratione personae, per il solo fatto che parte in causa sia una PA, a prescindere dal fatto che debba essere protetta una situazione di interesse legittimo. Se così fosse, la specialità caratterizzerebbe la figura del giudice in quanto tale, con buona pace del divieto posto dall’art 102 Cost., e attesterebbe che la PA sarebbe sempre e comunque sottratta all’applicazione delle regole e dei principi di diritto comune. Il rivendicato dualismo nomofilattico, in questa seconda ipotesi, non rifletterebbe la diversità degli istituti che i giudici sarebbero chiamati ad applicare, ma a creare regimi differenziati di un medesimo istituto. La questione della tutela risarcitoria, vero e proprio casus belli dei conflitti di giurisdizione, è esemplare sotto questo profilo.
Prima di giungere alle conclusioni, in parte già anticipate da queste considerazioni introduttive, è opportuno capire meglio come e perché i suddetti eventi siano tali da sollecitare una riflessione complessiva sul ruolo del giudice amministrativo.
Al centro della discussione è sempre il problema dell’arretramento della giurisdizione amministrativa, ma le vicende sono speculari. In un caso, l’arretramento viene addebitato dalle Sezioni Unite assumendo che il giudice amministrativo rifiuti di rispondere al bisogno di tutela che l’ordinamento vuole invece protetto nelle forme del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo; nell’altro, l’arretramento viene invece auspicato nel presupposto che serva a garantire un recupero di efficienza e celerità dell’azione amministrativa.
2.0.- L’arretramento contestato (dalle Sezioni Unite).
2.1.-La riscrittura del sistema di giustizia amministrativa avvenuta a cavallo del nuovo millennio. L’ordinanza 19598 del 2020 pone un problema che non può essere affrontato e risolto sulla base di più o meno raffinate tecniche esegetiche applicate all’interpretazione tanto dell’ordinanza, quanto, più in generale, alle pronunce delle altre Corti, esplicitamente o implicitamente richiamate dalla prima. Intendo dire che il problema non è quello di prendere posizione a favore o contro la Cassazione (o, a seconda dei punti di vista, del Consiglio di Stato o della Corte costituzionale), proponendo quella che si ritiene sia la soluzione più corretta sul piano puramente esegetico, raggiunta valorizzando o enfatizzando questa o quella espressione, questo o quel lemma impiegato dalla Corte costituzionale, dalla Cassazione, dal Consiglio di Stato o dalla CGUE in una sentenza piuttosto che in un'altra. Qualsiasi soluzione raggiunta in questo modo è destinata ad avere breve vita se non si comprendono le ragioni sostanziali di quella che viene spesso rappresentata come una vera e propria “ostinazione” delle Sezioni Unite nel porre il problema che i termini della questione di giurisdizione debbano oggi essere in qualche modo ripensati.
Non certo soltanto con la più recente ordinanza 19598, ma ormai da tempo, il problema di fondo che le Sezioni Unite stanno ponendo è quello dell’arretramento della linea della tutela giurisdizionale.
Le ragioni affondano le radici nelle riforme, legislative e “giudiziarie”, del 1998 – 2001, che finiscono poi con l’essere codificate nel 2010 dal c.p.a. e che possono riassumersi in cinque momenti essenziali.
Il d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80 dà l’avvio ad un disegno riformatore che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto rendere superata, obsoleta e priva di interesse la problematica delle situazioni giuridiche soggettive, attraverso l’introduzione del criterio dei blocchi di materie come nuovo criterio di riparto della giurisdizione e l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni.
Nel 1999 la storica sentenza 500 delle Sezioni Unite afferma la risarcibilità degli interessi legittimi; nel presupposto (della sussistenza della giurisdizione ordinaria e) dell’eliminazione della pregiudizialità del previo annullamento dell’atto illegittimo, rimedio (l’annullamento) che, nell’impianto della sentenza 500, viene sostituito da quello della disapplicazione la quale garantisce l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento[5].
Nel 2000 le norme che ampliano l’ambito delle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e che consentono allo stesso di condannare anche al risarcimento del danno, originariamente recate dagli artt 33, 34 e 35 del d.dlvo 80/98, vengono dichiarate incostituzionali per eccesso di delega da Corte Cost.17 luglio 2000 n. 292; ma vengono poi riprodotte dalla l. 21 luglio 2000 n. 205 con l’eliminazione del riconoscimento della possibilità di condannare al risarcimento del danno nei soli casi di giurisdizione esclusiva[6].
Queste norme vengono infine trasfuse nel codice del processo amministrativo il quale precisa che l’azione risarcitoria può essere proposta tanto per diritti soggettivi, quanto per interessi legittimi, che nel secondo caso va proposta nel termine di 120 giorni e che il risarcimento va escluso se i danni si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti (1227 cod civ)(art 30 cpa);
Le norme sulla tutela risarcitoria, recate dalla l 205/2000, prima, e dal codice del processo amministrativo, dopo, vengono entrambe “salvate” dalla Corte costituzionale con le sentenze 204/2004 e 94/2017 [7] ; non anche quelle sul criterio (di riparto della giurisdizione) dei blocchi di materie, censurato dalla sentenza 204/2004 perché prescinde dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte [8].
In pratica, a cavallo del nuovo millennio, il sistema di giustizia amministrativa viene ridisegnato spostando quanto più possibile la tutela dei diritti soggettivi, quando parte in causa è una pubblica amministrazione, dal giudice ordinario al giudice amministrativo e questo spostamento si perfeziona con l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di condannare anche al risarcimento del danno.
Questa riscrittura del sistema di giustizia amministrativa supera il giudizio di costituzionalità, ma non senza riserve o condizioni. Secondo le pronunce della Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204 e 22 febbraio 2017 n. 94 la differenziazione delle situazioni soggettive rimane ferma e può (e deve) giustificare tutela differenziata anche nell’ambito del processo amministrativo. Rimane comunque fermo che, pur con i limiti e le riserve suddette, l’allargamento della giurisdizione esclusiva viene legittimato dalla Corte costituzionale e il giudice amministrativo viene così chiamato ad apprestare tutela anche a quelle situazioni di diritto soggettivo che prima ricevevano tutela da parte del giudice ordinario principalmente attraverso la tutela risarcitoria o dichiarativa.
L’affermazione del principio di concentrazione della tutela giurisdizionale ha fatto però perdere di vista la specificità delle tutele delle due situazioni soggettive ed ha evidenziato la tendenza alla loro ibridazione in una forma indistinta che sembrerebbe mutuare il peggio (i limiti) dell’una e dell’altra. Una cosa è assicurare la ragionevole durata di un processo; altra trasformare forma e sostanza della tutela della situazione soggettiva.
2.2.-Giudice amministrativo e tutela risarcitoria.
Non si può seriamente negare che lo spostamento della tutela dei diritti soggettivi innanzi al giudice amministrativo abbia posto, con buona pace dell’art 113 Cost., un problema di effettività della tutela giurisdizionale.
Non si può negare il problema limitandosi ad osservare che il c.p.a. ormai consente al giudice amministrativo di esercitare tutti i poteri propri già del giudice ordinario. Il problema è che il giudizio amministrativo è, e si è comunque dimostrato nella concreta applicazione, fisiologicamente inidoneo ad erogare la tutela risarcitoria. Il dato storico è di tale ed immediata evidenza per tutti gli operatori del diritto da non richiedere particolare dimostrazione ed affonda le sue radici nella perdurante assenza di una vera e propria istruttoria nella fisiologia del processo amministrativo.
Intendo con ciò dire che, anche successivamente all’adozione del codice del processo amministrativo, la disciplina permette al giudice amministrativo di poter continuare a definire comunque il giudizio in base ad un giudizio sulla ragionevolezza della decisione amministrativa e/o a valutazioni puramente equitative o indennitarie dei risarcimenti, estranee alla cultura giuridica della vera e propria tutela risarcitoria. Ripeto a scanso di ogni possibilità di equivoco che non intendo con ciò dire che il giudice amministrativo oggi come oggi non abbia il potere di accertamento diretto dei fatti. La disciplina dei mezzi di prova e dell’attività istruttoria recata dagli artt. 63 e ss del c.p.a. non lascia più dubbi al riguardo. Intendo dire che il sindacato sulla ragionevolezza della decisione amministrativa è ancora più che largamente impiegato come strumento alternativo all’accertamento diretto dei fatti, compromettendo la credibilità del sindacato giurisdizionale quantomeno in termini di equidistanza del giudice amministrativo dalle rappresentazioni delle parti[9].
E a ciò si può aggiungere che, alla constatazione che il giudice amministrativo abbia il potere di condannare al risarcimento del danno per equivalente o anche ad un fare specifico, si accompagna l’osservazione che questo potere spesso e volentieri può prescindere dalla domanda di parte per il suo esercizio [10]: alludo, per fare degli esempi, alla possibilità che in sede di cognizione, senza domanda di parte, il giudice può disporre “le misure idonee ad assicurare l’esecuzione del giudicato” (art 34 co. 1 lett e); al fatto che ha il potere di dichiarare o meno l’inefficacia del contratto quando annulla l’aggiudicazione definitiva di una gara pubblica (art 122 cpa); al fatto che, nelle condanne pecuniarie, può limitarsi a stabilire “i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine” (art 34 co. 4 c.p.a.).
Credo, in buona sostanza, non si possa negare la realtà delle cose e negare che il processo amministrativo sia inevitabilmente condizionato dalla rilevanza dell’interesse pubblico istituzionalmente affidato alle cure della pubblica amministrazione e che ciò abbia inevitabilmente incidenza sulla prevedibilità delle decisioni e limiti il sindacato giurisdizionale.
In questo contesto, il giudice amministrativo ha acquisito nell’ambito della sua giurisdizione i diritti soggettivi, ma la tutela ha subito una variazione qualitativa e si è in parte affievolita.
2.3.- L’ibridazione del diritto soggettivo “amministrativizzato”.
Questo nuovo scenario ha avuto innanzi tutto l’effetto di rivitalizzare la figura “classica” del rifiuto di giurisdizione, secondo la quale è censurabile l’arretramento fatto in via generale e astratta, in maniera aprioristica e non con riferimento alla specificità del caso concreto, della linea della giurisdizione fruibile dal cittadino. Ha poi visto prender corpo un tentativo di dilatare la concezione del motivo di giurisdizione in modo da ricomprendere anche le ipotesi dell’errore abnorme in procedendo o in judicando, teorizzando la c.d. interpretazione evolutiva, criticata e censurata da Corte cost 6/2018.
Nella realtà delle cose, non solo nella sua interpretazione “evolutiva”, ma anche nella sua accezione classica, il rifiuto di giurisdizione è però rimasto sostanzialmente confinato al livello di figura più teorica che pratica[11], lasciando al giudice amministrativo la libertà di muoversi nel nuovo scenario come giudice dei diritti.
Ciò ha prodotto la già ricordata ibridazione della tutela del diritto soggettivo innanzi al giudice amministrativo, che non sarebbe avvenuta se si fosse evitato che il cambio di giurisdizione venisse accompagnato anche da un mutamento qualitativo della tutela fruibile. Sotto questo profilo, è quasi più grave che le Sezioni Unite non abbiano quasi mai concretamente applicato la figura (del rifiuto di giurisdizione), piuttosto che il fatto che ne abbiano teorizzato interpretazioni evolutive.
Le Sezioni Unite hanno dunque in realtà applicato poco o nulla la figura classica del rifiuto di giurisdizione; e il Consiglio di Stato si è spesso e volentieri rifiutato di erogare tutela risarcitoria nelle forme proprie della tutela civile dei diritti e si è troppo spesso rifugiato nel sindacato di ragionevolezza, rifiutando l’accertamento diretto dei fatti. Per recuperare l’effettività della tutela giurisdizionale basterebbe in realtà poco; e cioè che le Sezioni Unite cassassero le decisioni dove c’è rifiuto aprioristico e tipizzato, formulato in via generale e astratta, di una certa situazione; e che il Consiglio di Stato fosse meno creativo e più attento alle categorie generali dell’Ordinamento quando si tratta tutelare diritti soggettivi e rinunciasse a plasmarle o adattarle alla specificità del processo amministrativo, cosa che ha un senso se si tratta d’interessi legittimi, non di diritti soggettivi. Va senz’altro apprezzata in tal senso, ad esempio, la recente Ad. Plen 4 12 2020 n.24 [12]sul termine di prescrizione, che ha evitato una di quelle ibridazioni che nel futuro prossimo venturo avrebbero quasi sicuramente originato il proliferare di nuove questioni di giurisdizione. Elementi di preoccupazione riemergono però immediatamente se solo si considera che l’Adunanza plenaria è stata investita della questione della natura della tutela risarcitoria nel processo amministrativo da CGARS 15 12 2002 n.1136 per chiarire, inter alia, “se il paradigma normativo cui ancorare la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento (ovvero da inerzia e/o ritardo) sia costituito dalla responsabilità contrattuale piuttosto che da quella aquiliana”, con conseguente rilevanza della prevedibilità del danno ai fini della risarcibilità (da escludere in caso di sopravvenienze normative che sarebbero comunque nella disponibilità dell’amministrazione ove ad agire fossero gli apparati politici e non quelli amministrativi)[13].
2.4.- L’ibridizzazione dell’interesse legittimo “patrimonializzato”.
Il processo di ibridazione ha fatto perdere di vista la specificità non solo della tutela che deve ritenersi propria delle situazioni di diritto soggettivo, ma anche di quella propria delle situazioni di interesse legittimo.
L’esigenza di rispondere al bisogno di tutela proprio delle situazioni di diritto soggettivo e delle domande risarcitorie ha infatti finito con il concentrare su tali profili l’attenzione e lo sforzo del giudice amministrativo e ha fatto perdere di vista l’esigenza di tutela delle situazioni non riducibili a tali schemi e che dovrebbero invece rappresentare il proprium della giurisdizione amministrativa, la tutela dell’interesse legittimo. Il processo di ibridazione ha appiattito la forma di tutela di questa situazione su quella del diritto soggettivo, patrimonializzandola; dandole un contenuto necessariamente patrimoniale, come pretesa a che un bene della vita entri nel proprio patrimonio ovvero non ne esca.
Sotto questo profilo, non solo la giurisprudenza, ma anche buona parte della dottrina amministrativistica dovrebbe avviare una riflessione critica sui danni prodotti dal fatto di aver enfatizzato oltremodo la costruzione del processo amministrativo in termini di giudizio sulla fondatezza della “pretesa” vantata dal ricorrente, sulla “spettanza” del bene della vita, ponendo in secondo piano il fatto che nella generalità dei casi il conseguimento del bene della vita è pur sempre protetto in termini di probabilità e non di certezza. Insisto nel ritenere esemplari sotto questo profilo le parole di Riccardo Villata pronunciate in occasione del convegno celebrativo dei 130 anni della istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato: “Il processo amministrativo, abbandonato “finalmente” il modello di processo all’atto, è divenuto giudizio sul rapporto. Nel dettaglio, è un giudizio di spettanza nel senso che accerta la fondatezza della pretesa al bene della vita, pretesa che può oggi soddisfare tramite l’azione divenuta atipica o meglio il ventaglio di azioni che il c.p.a. riconosce e di cui si deve se mai criticare i limiti (quelli apposti alle azioni di adempimento, di nullità, risarcitoria) superandoli per quanto possibile nell’applicazione. Ebbene, io non mi riconosco affatto in questa prospettiva, spero non solo perché con il trascorrere degli anni ai propri convincimenti sempre più ci si affeziona e si consolida l’ostilità ad accettare tesi di segno diverso” [14]. Annullare il giudizio negativo di una commissione, annullare la lex specialis che impedisca la partecipazione a una gara, annullare la previsione di uno strumento urbanistico, accertare l’illegittimità del silenzio; in casi come questi casi e, più in generale, tutte le volte in cui l’esercizio della giurisdizione generale di legittimità lascia margini di scelta all’Amministrazione, non è possibile ravvisare l’obbligo di soddisfare in maniera immediata e diretta la pretesa al bene della vita cui si aspira[15].
L’occasione per avviare questa riflessione critica è stata offerta proprio dalla recente ordinanza 19598/2020 che, all’apparenza, sembrerebbe ricollegarsi al filone della c.d. interpretazione evolutiva del rifiuto di giurisdizione, che si vorrebbe estendere alle ipotesi del rifiuto di assicurare “l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria” e della “omissione immotivata del rinvio pregiudiziale”. Rispetto ai precedenti dell’ultimo decennio, quello che sembra caratterizzare la recente pronuncia non è però tanto l’apertura della figura verso la nuova frontiera del diritto eurounitario, quanto proprio il fatto che, muovendo dal parametro eurounitario, l’arretramento della giurisdizione amministrativa viene questa volta ipotizzato rispetto al bisogno di tutela proprio della figura dell’interesse legittimo e non ad una situazione di diritto soggettivo. Al di là delle diverse opzioni esegetiche che i primi due quesiti dell’ordinanza lasciano alla mercè dell’intelligenza e della cultura del giurista, la questione di sostanza che pone l’ordinanza è espressa in realtà nel terzo quesito e riguarda limiti e consistenza della figura dell’interesse legittimo[16]: se e fino a che punto, in base al diritto eurounitario in materia di appalti, possa essere fatto valere l’interesse legittimo alla esclusione del concorrente e alla ripetizione della gara. Raffinate tecniche interpretative hanno mantenuto a lungo vivo il dialogo tra Consiglio di Stato e Corte di Giustizia, ma lo stesso succedersi delle decisioni ha finito solo con il rendere evidente l’esistenza di un contrasto di fondo proprio sul modo d’intendere la situazione soggettiva d’interesse legittimo.
Dando per nota la tormentata vicenda del rapporto tra ricorso principale e incidentale escludente, ci si limita a ricordare come tutte le volte che il giudice amministrativo nazionale ha provato a circoscrivere gli effetti dell’affermazione di principio della Corte di Giustizia, quest’ultima ha ribadito la propria posizione nel senso che l’interesse, o se si vuole il bene protetto, sia in ultima analisi quello alla correttezza della procedura che non si risolve necessariamente in quello alla concreta aggiudicazione della gara espletata (Fastweb 2013 – Puligienica 2016 – Lombardi 2019). Principio chiaramente riaffermato nell’ultimo caso, nel quale il giudice amministrativo nazionale aveva praticamente chiesto di lasciare alla discrezionalità del legislatore nazionale la stima dell’interesse a ricorrere nel caso concreto, e la Corte ha invece ribadito che, a prescindere dalla possibilità di risultare effettivamente aggiudicatari della gara, ricorso “efficace” è quello che tutela anche solo indirettamente l’interesse a ottenere l’appalto, ravvisato anche “nell’ipotesi di esclusione di tutti gli offerenti e dell’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione” perché “ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi”. Secondo i principi comunitari, il concetto di “interesse ad ottenere l’aggiudicazione” non s’identifica dunque necessariamente con quello di chi, in esito all’accoglimento del ricorso, verrebbe riconosciuto aggiudicatario in luogo del controinteressato, situazione agevolmente patrimonializzabile e idonea ad essere risarcita per equivalente monetario. Bisogna quindi decidere se e fino a che punto possa arretrare la linea della tutela giurisdizionale dell’interesse strumentale al corretto svolgimento della gara d’appalto e se e fino a che punto il bene della vita che deve essere protetto dal giudice amministrativo sia quello all’aggiudicazione o alla corretta partecipazione.
3.- L’arretramento auspicato (dalle riforme legislative).
Occorre a questo punto considerare che la riflessione sull’attuale ruolo del giudice amministrativo deriva non solo dalla pressione esercitata dalle Sezioni Unite per evitare l’arretramento della linea della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, ma anche dal fatto che, per altro verso, il giudice amministrativo si trova ciclicamente esposto a disegni riformatori che auspicano se non proprio la scomparsa, quantomeno l’arretramento della linea della tutela giurisdizionale fruibile dal cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione.
Anche in occasione della situazione emergenziale creata dall’epidemia Covid 19 la proposta di escludere o limitare la tutela fruibile dal giudice amministrativo è puntualmente riemersa[17]. L’emergenza sanitaria ha causato il blocco della gran parte delle attività produttive e commerciali, determinando la necessità di prevedere misure straordinarie per rilanciare immediatamente ed efficacemente l’economia al termine dell’emergenza pandemica. Il timore, al solito, è che l’intervento pubblico si riveli lento e inefficace, donde la proposta di risolvere il problema limitando la possibilità di ricorso e la tutela nella materia dei contratti pubblici di appalto di opere, servizi e forniture; limitando la tutela erogabile dal giudice amministrativo alla sola tutela risarcitoria.
Anche questa volta si è cercato di riscrivere il sistema di tutela appiattendolo sulla tutela risarcitoria con esclusione di quella costitutiva di annullamento. Al fine di incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell'emergenza sanitaria globale del COVID-19, l’art. 4 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 alla fine si è limitato a prevedere l’estensione, ai giudizi promossi avverso le procedure di gara bandite entro il 31 dicembre 2021, dell’articolo 125 del c.p.a., il quale, nonostante manifesti un indubbio favor per la tutela risarcitoria, non giunge sino al punto di escludere in assoluto la tutela d’annullamento. Ma tutti ricordiamo molto bene come si sia molto discusso della possibilità di escludere del tutto la tutela costitutiva per lasciare spazio unicamente alla tutela risarcitoria [18]. Probabilmente, anche per la ferma opposizione di buona parte della dottrina, alla fine il risultato è stato quello di estendere solo l’applicabilità dell’art 125 c.p.a., ma non dimentichiamo che da più parti è stato seriamente messo in discussione il fatto che l’art 113 Cost. offrisse copertura costituzionale al principio della giurisdizione generale di legittimità, sostenendo che il legislatore potesse pertanto escludere, in determinate materie o per particolari categorie di atti, l’impugnazione in sede giurisdizionale. Segno più evidente della tendenza a ridurre il giudice amministrativo a giudice del risarcimento del danno non potrebbe esservi e non è detto che si riesca a resistere anche al prossimo attacco che, sempre in nome dell’esigenza di recuperare efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, c’è da aspettarselo, tenderà nuovamente a sterilizzare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice amministrativo.
La vicenda occasionata dall’emergenza pandemica è emblematica e sintomatica del rischio insito nelle teorizzazioni che neghino la differenziazione tra le situazioni soggettive del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo e dei correlati bisogni di tutela: se il risarcimento diventa un modo come un altro per tutelare le situazioni d’interesse legittimo (il che si verifica nel momento in cui le due tutele, demolitoria e risarcitoria, divengono fungibili tra loro), dell’annullamento dell’atto illegittimo se ne può anche fare a meno.
Come già sottolineato altrove[19], proposte siffatte non sono pensabili vigente la Costituzione Repubblicana. Il diritto dell’emergenza non deve diventare un pretesto per giustificare l’ennesimo tentativo di ridurre la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione e di sottrarre il diritto amministrativo al suo giudice naturale. Non si può fare però a meno di sottolineare come un tale anelito riformatore condurrebbe a una falsa semplificazione che non risolverebbe alcun problema; anzi, lo acuirebbe[20]. E’ noto, infatti, che i ritardi e gli arresti nella conclusione dei processi decisionali, oltre che dal concorso non coordinato di più protagonisti pubblici nell’esercizio della medesima funzione, dipendono essenzialmente dalle innumerevoli e instabili normative, continuamente cangianti e in crescita esponenziale senza che il profluvio normativo ubbidisca ad un qualsivoglia principio che possa orientarne l’applicazione. Fenomeno che disorienta il decisore pubblico fino al punto da paralizzarne l’azione per evitare l’assunzione di responsabilità sanzionabili sotto il profilo amministrativo, contabile e civile, che il pubblico funzionario finisce con l’assumere solo se e nel momento in cui, all’atto pratico, la decisione si presenta pressochè interamente praticamente vincolata.
Sotto il profilo della fenomenologia normativa, dovrebbe essere evidente che il problema si risolve rendendo più chiaro e semplice il quadro normativo, e che tale risultato si ottiene non già esasperando il ricorso all’interpretazione autentica o al continuo aggiustamento in progress della norma per chiarire l’effettiva voluntas legis, ma recuperando quanto più possibile il carattere generale e astratto della formulazione normativa[21] e allontanandola simmetricamente dal concreto contenuto provvedimentale.
Sotto il profilo della funzione amministrativa, andrebbero recuperati margini più chiari e più netti di discrezionalità del decisore pubblico,
E il giudice amministrativo dovrebbe inserirsi in questo circolo virtuoso volto a ristabilire un minimo di certezza del diritto esercitando la funzione nomofilattica con esclusivo riferimento ai principi e alle regole tipiche del diritto amministrativo e non già cercando di moltiplicare i centri di nomofilachia per quel che concerne la tutela delle situazioni di diritto soggettivo.
E’ evidente che si è giunti al punto di dover trarre le conclusioni.
4.- La trappola della tutela risarcitoria.
4.1.- Spinto dall’avvenuto spostamento dei diritti soggettivi nell’ambito della giurisdizione esclusiva e dall’attribuzione del potere di condanna al risarcimento del danno e suggestionato dalle teorizzazioni in termini di giudizio di spettanza, all’inizio del nuovo millennio il giudice amministrativo sembrerebbe essersi incamminato sulla via della ibridazione delle figure soggettive, incontrando la resistenza della Corte di Cassazione e prestando il fianco ad ulteriori interventi riformatori pronti a considerare la tutela risarcitoria un modo come un altro per tutelare l’interesse legittimo.
La tutela risarcitoria è la trappola perfetta per il giudice amministrativo e la strada dell’ibridazione è la pericolosa scorciatoia che vi conduce: espone il giudice amministrativo al perenne e carsico contrasto con le Sezioni Unite nel momento in cui l’ibridazione tende a costruire una tutela risarcitoria che è un surrogato di quella fruibile nel sistema della tutela civile dei diritti, sistema che è fondato sul principio della responsabilità patrimoniale del debitore proprio per garantire la tutela per equivalente monetario come misura generale; lo allontana da quella che è la sua mission istituzionale (e costituzionale), assicurare cioè giustizia nell’amministrazione, che rappresenta la sua stessa ragion d’essere.
L’ibridazione degrada i diritti soggettivi e patrimonializza l’interesse legittimo. Ma la patrimonializzazione dell’interesse legittimo ha senso, là dove sia possibile, se vale a concentrare la tutela risarcitoria innanzi a un unico giudice, non se diventa un pretesto per fornire un surrogato e, soprattutto, per abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui si è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità e se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo. Esaltare la ricostruzione dell’interesse legittimo come situazione finale significa offrirlo su un piatto d’argento sul tavolo della tutela puramente risarcitoria (che, come si è appena ricordato, è la misura generalmente erogata nel sistema della tutela civile dei diritti) e appiattire la tutela del giudice amministrativo sul momento puramente risarcitorio, come ricorrentemente si auspica, significherebbe negarne la ragion stessa della sua esistenza. Tutto ciò ci riporterebbe indietro di oltre un secolo, al tempo dell’abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo, quando nel Regno d’Italia l’unica tutela fruibile era quella del risarcimento del danno per equivalente monetario ed era assicurata dallo stesso giudice competente a conoscere delle liti tra soggetti privati, il giudice ordinario. Rinunciare alla garanzia giurisdizionale che le questioni siano trattate dai pubblici poteri in modo imparziale ed equo proprio nel momento in cui una tale garanzia trova fondamento non più solo nell’art 97 della nostra Costituzione, ma anche quale diritto fondamentale dell’individuo nelle norme recate dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali UE o dall’art. 6 CEDU, non sarebbe una geniale riforma, ma un passo indietro nel livello di civiltà giuridica dell’ordinamento repubblicano.
4.2.- L’ibridazione sembrerebbe in armonia con la diffusa e sempre crescente tendenza a ritenere in via di dissoluzione, se non ormai già superata, la distinzione tra diritto civile e diritto amministrativo, tra diritto privato e diritto pubblico o, più in generale, la possibilità di continuare ad impiegare categorie giuridiche tradizionali nell’ordinamento contemporaneo. Che gli istituti e le categorie giuridiche tradizionali siano in una crisi anche profonda è un dato di fatto, e ne sono note le ragioni: crisi della politica; inadeguatezza del principio di legalità e complicazione e moltiplicazione del sistema delle fonti; crisi della sovranità in un sistema di produzione normativa e di tutele multilivello globalizzato e via dicendo.
In questo contesto, per il diritto amministrativo e il suo giudice, diventa fondamentale conservare la consapevolezza che l’uno e l’altro hanno ancora pienamente ragione di conservare la loro specialità perché forme e modi della cura e della protezione degli interessi pubblici ubbidiscono a principi fondamentali differenti rispetto a quelli propri della cura e della protezione degli interessi privati, tanto sul piano sostanziale, quanto su quello giustiziale, non mutuabili dal sistema di diritto privato[22]. Rilevanza dell’elemento volontaristico e atipicità degli effetti giuridici contraddistinguono il diritto privato; procedimentalizzazione dell’attività, unilateralità e tipicità degli effetti giuridici, il diritto amministrativo (e pubblico). Le ragioni della specialità del diritto amministrativo non si risolvono nel mero tecnicismo della disciplina, ma si riassumono nella specificità dei principi informatori. Quella stessa globalizzazione cui è in gran parte imputabile la crisi del sistema attuale, tende ad imporre che i Saperi si omogenizzino quanto più possibile per agevolare la comunicazione e favorire il confronto e riconosce la specialità della disciplina solo se questa abbia una chiara e giustificata ragion d’essere.
L’ordinamento, gli ordinamenti giuridici, sono in trasformazione, e questo rende senz’altro spesso inadeguati gli istituti tradizionali. Ma, quali che siano le forme che il nuovo ordinamento assumerà al termine della crisi, una volta stabilito il nuovo ordine, ci sarà sempre qualcuno che dovrà provvedere alla cura degli interessi propri della collettività unitariamente considerata per assicurarne la conservazione o lo sviluppo. E si riproporrà a questo punto l’alternativa tra modelli diversi. Il modello del Principe di Machiavelli, secondo il quale chi governa il popolo non deve preoccuparsi dei modi o mezzi attraverso i quali raggiunge il fine di assicurare la cura dell’interesse della collettività governata; anzi: più inganna il popolo, come la volpe, e più è autoritario, come un leone, e più risponde al modello ideale di buon governatore; non contano le regole dell’azione, perché agire con la forza e non secondo la legge è spesso dovere del buon Principe; il fine giustifica i mezzi[23] . Ovvero il modello del Romagnosi o del Cardinal De Luca, per il quale regola fondamentale “è far prevalere la cosa pubblica alla privata entro i limiti della vera necessità” (“Lo che è sinonimo di far prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio della proprietà privata e libertà. Qui la prevalenza della cosa pubblica alla privata non colpisce il fine o l’effetto ma il semplice mezzo”)[24] ed è essenziale che non diventi “Vanum disputare de potestate” [25]. L’alternativa rende evidente che un ordinamento può anche fare a meno del diritto amministrativo, dei suoi principi e del suo giudice, ma bisogna aver ben presente che su questo piano si gioca il livello di civiltà dell’ordinamento medesimo.
[1] *L’articolo è stato già ospitato insieme ad altri numerosi contributi nel fascicolo monotematico 1/2021dedicato a “La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo” della rivista Questione Giustizia.
[2] E. Scoditti, G. Montedoro, Il giudice amministrativo come risorsa, in QuestioneGiustizia, 11.12.2020.
[3] L’ordinanza è stata già oggetto di numerosi commenti dottrinari. Per tutti v. M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in www.giustiziainsieme.it , 30 11 2020 e ivi ulteriori riferimenti.
[4] E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, 2 ed., Milano, 1968.
[5] Il problema dell’autonomia dell’azione risarcitoria è centrale nella sentenza 500/1999, che ritiene insussistente “la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento ... in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi l'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 cc riservata ai soli diritti soggettivi”; giungendo alla conclusione che “qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 cc”. Per più ampi riferimenti mi sia consentito rinviare a F. Francario, Degradazione e pregiudizialità quali limiti all’autonomia dell’azione risarcitoria, in Dir. Amm., 3/2007 ripubblicato in Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, Napoli, Editoriale scientifica, 2019.
[6] In tal modo la domanda di risarcimento del danno, in origine questione sempre “riservata” all’autorità giudiziaria ordinaria anche nei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dopo aver rappresentato una questione che poteva essere conosciuta anche dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, è divenuta questione che può essere sempre conosciuta dal giudice amministrativo, anche quando è investito della sola giurisdizione di legittimità. L’evoluzione è meglio riassunta, nei termini essenziali di cui nel testo, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4/2016.
[7] La previsione della possibilità del giudice amministrativo di condannare al risarcimento del danno anche nelle ipotesi di sola giurisdizione generale di legittimità, e quindi a tutela di interessi legittimi, è uscita immune dal giudizio di costituzionalità operato dalla pronuncia Corte Cost. 6 luglio 2004 n. 204 e la secolare riserva al giudice ordinario delle «questioni patrimoniali conseguenziali alla pronunzia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre», di cui all’art 30 del TU delle leggi sul Consiglio di Stato (RD 26 giugno 1924 n. 1054), è stata così definitivamente eliminata: prima dalla sola giurisdizione esclusiva (d.lgs. 80/1998), poi dalla giurisdizione amministrativa tout court (l. 205/2000).
Con specifico riferimento al profilo del termine di proposizione dell’azione nel termine di 120 giorni per il risarcimento degli interessi legittimi, Corte cost. 22 02 2017 n. 94 afferma che “Il legislatore ha, dunque, delineato una disciplina che riconosce al danneggiato la facoltà di scegliere le modalità della tutela risarcitoria nei confronti dell’esercizio illegittimo della funzione pubblica, adottando un modello processuale che determina un significativo potenziamento della tutela, anche attraverso il riconoscimento di un’azione risarcitoria autonoma, con il conseguente abbandono del vincolo derivante dalla pregiudizialità amministrativa”. Quella della pregiudizialità dell’annullamento è tuttavia una questione mai del tutto sopita, che continua ancor oggi a riproporsi praticamente nei medesimi termini in cui veniva posta anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo negando la proponibilità dell’azione in assenza della previa impugnazione dell’atto amministrativo a prescindere dalla concreta incidenza sula determinazione del risarcimento (v. ad es. nota redazionale a Cons Stato Sez. Terza, 13 05 2020 n.3040, Il ritorno della pregiudiziale dell’annullamento per la tutela risarcitoria, in www.giustiziainsieme.it , 22 maggio 2020).
[8] La sentenza afferma chiaramente che i criteri ai quali deve ispirarsi la legge ordinaria quando voglia riservare una “particolare materia” alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non consentono “che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.)” e che il criterio dei blocchi di materie non è pertanto un criterio che possa ritenersi sufficiente ai fini del riparto di giurisdizione; non lo è se e in quanto prescinde dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte e se ignora le condizioni minime richieste per la sussistenza della giurisdizione generale di legittimità
[9] Oltre ad essere un dato di comune esperienza per gli operatori del diritto, il profilo critico è generalmente sottolineato anche negli studi della dottrina sul tema. Alla lucida sintesi operata da M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria tra procedimento e processo, in Dir e Soc., 2/2020, 203 ss, per ulteriori riferimenti v. anche, tra gli altri, G. D’Angelo, La cognizione del fatto nel processo amministrativo fra Costituzione, codice e ideologia del giudice, in Jus – online. Rivista di scienze giuridiche, 3/2020, 11 ss; P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva temperata, in Dir.proc. amm., 1/2016, 125 ss; S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2015, 203 ss; L- Perfetti, L’istruttoria nel processo e il principio di dispositivo, , in Dir e proc amm., 2014, 46 ss; B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir proc amm., 2014, 105 ss; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2013, 145; F. Saitta, Onere della prova e poteri istruttori del giudice amministrativo dopo la codificazione, in Dir e proc amm., 2013, 126 ss)
[10] Il tema è stato ampiamente trattato nell’edizione del 2018 delle “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa” i cui atti sono raccolti nel volume F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili soggettivi e oggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018.
[11] Cfr. M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in www.giustiziainsieme.it , 30 11 2020.
[12] Sulla quale v. G.A. Primerano, L’actio judicati nel nuovo processo amministrativo, in www.giustiziainsieme.i t, 12 01 2021.
[13] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria, in www.GiustiziaInsieme.it ,17 febbraio 2021.
[14] R.Villata, Pluralità delle azioni ed effettività della tutela, Relazione al Convegno tenuto a Palazzo Spada il 20 novembre 2019 e dedicato ai 130 anni della IV Sezione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it.. Con riferimento all’impiego della formula del giudizio di spettanza, Villata ricorda efficacemente come “l’autore – Falcon – di questa apprezzata formula divenuta di largo utilizzo ha avuto modo di precisare, rivendicando il valore dell’interesse legittimo quale fondamento di una raffinata tecnica di sindacato di legittimità del provvedimento, che “ciò che spetta non è in realtà che un nuovo, corretto esercizio della discrezionalità amministrativa” ovvero che la “spettanza è il risultato dell’esercizio del giudizio sul potere”.
[15] Significativa è la rilettura dell’interesse legittimo come figura di teoria generale recentemente operata da F.G.Scoca, L’interesse legittimo. Teoria e storia, Torino, 2019, il quale esclude che sia oggettivamente protetto l’interesse pubblico e che l’interesse privato sia solo occasione per la protezione dell’interesse pubblico, così come che si risolva nel bene della vita cui si aspira, e cioè nella pretesa al bene in quanto tale; per giungere alla conclusione che l’interesse legittimo si sostanzierebbe nell’interesse del privato al provvedimento favorevole. Pur senza risolversi nella legittimità dell’atto, la situazione è e rimane correlata all’esercizio del potere.
[16] Si rinvia a F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in www.giustiziainsieme.it , 11 11 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in www.federalismi.it , 16 12 2020.
[17] G. della Cananea, M. Dugato, A Police, M. Renna, Semplificare la disciplina degli appalti pubblici si può. Meglio agire subito, IL FOGLIO, 2 aprile 2020; V. Visco, Il culto del diritto amministrativo frena la ricostruzione della PA, Il Sole24Ore, 6 febbraio 2021.
[18] Il dibattito è significativamente riassunto nel convegno dedicato dall’Associazione Italiana Professori Diritto Amministrativo – A.I.P.D.A al tema “Poteri del giudice amministrativo ed efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti” e tenuto in forma di webinar il 29 aprile 2020, visibile sul sito dell’Associazione e in www.giustiziainsieme.it (21 maggio 2020).
[19] F. Francario, Giurisdizione amministrativa e risarcimento del danno, in Scritti per Franco Gaetano Scoca, vol. III, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, 2231 ss.
[20] Cfr. F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in www.federalismi.it , 15 04 2020.
[21] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II. Le fonti normative, Padova, 1970, 24 ss.
[22] Le considerazioni di cui nel testo sono state già svolte con riferimento anche al ruolo della dottrina in F. Francario, Considerazioni sul dibattito tra giovani studiosi sui concetti tradizionali del diritto amministrativo e sulla loro evoluzione, in www.federalismi.it 11/2018, ripubblicato in Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 561. In sintonia sul tema v. di recente anche M. Mazzamuto, L’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo, in www.giustiziainsieme.it , 1 3 2021.
[23] N. Machiavelli, Il principe di Niccholo Machiavello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici. La vita di Castruccio Castracani da Lucca a Zanobi Buondelmonti et a Luigi Alemanni descritta per il medesimo. Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliverotto da Fermo il s. Paolo et il duca di Gravina Orsini in Senigaglia, descritta per il medesimo, stampata in Roma per Antonio Blado d'Asola a dì iiij de gennaio del M.D.XXXII (edizione originale postuma).
[24] G.D. Romagnosi, Principi fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Parma, 1814 , p. 14
[25] Cardinal De Luca, Summa sive compendium Theatri veritatis et iustitiae, Roma, 1679. La citazione è ripresa da E. Cannada Bartoli, Vanum disputare de potestate, in Dir. Proc. Amm., 2/1989.
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