ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Prosegue la riflessione di Giustizia insieme sul programma di gestione per l'anno 2021 della Corte di Cassazione. Agli interventi di Renato Rordorf - Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti” - e di Bruno Capponi - Lampeggi sulle motivazioni - segue, oggi, il contributo dell'Avv. David Cerri su chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti).
Riflessioni sulla Relazione illustrativa del programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021.
2. Chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti) di David Cerri
Nei primi giorni di maggio è venuto alla luce il programma di gestione per l’anno 2021 dei procedimenti civili e penali della Corte di Cassazione; documento oltre modo interessante, non solo per i suoi aspetti amministrativi ed (appunto) più strettamente gestionali, ma per alcuni profili che confermano indicazioni che sempre più chiaramente vengono offerte ai giuristi pratici ormai da diversi anni. Il riferimento è evidentemente al linguaggio giuridico, ed in specie a quello del processo. È quindi possibile formulare qualche breve osservazione per quanto concerne il processo civile, leggendo con attenzione la relazione del Primo Presidente Pietro Curzio. Parafrasando una celebre serie retorica riferita ad avvenimenti di tutt'altro genere e ben più tragici [1], e limitandoci soltanto agli ultimi mesi e settimane, potremmo iniziare dicendo... Vennero prima le linee programmatiche della ministra Cartabia; vennero poi il PRRN, ed insieme i lavori della commissione Luiso, infine venne l’ emendamento al disegno di legge Bonafede AS 1662, frutto delle scelte sui suggerimenti della Commissione [2]. Stavolta, però, è rimasto qualcuno a dire qualcosa, e cerco di dargli voce solo per uno specifico aspetto: quello dei riferimenti ad un linguaggio chiaro e conciso.
Per spiegare i concetti di chiarezza e concisione, e soprattutto per applicarli alle concrete scelte del giudice o dell'avvocato, si corre il rischio di violarli in radice, con illustrazioni fumose e prolisse; cerco allora di dare dei riferimenti che siano invece in linea con il tema.
In primo luogo, allora, mi piace far riferimento al processo culturale che ha portato a far sì che di tali concetti e più in generale del linguaggio giuridico dapprima si facesse uno studio, e poi un'applicazione normativa nel campo della formazione: questo risultato (che rivendico agli anni della Scuola Superiore dell'Avvocatura diretta da Alarico Mariani Marini [3]) è divenuto realtà già con la legge di riforma ordinamentale forense (L.247/2012, art.43,c.2 lett.b), e 46, c.6, lett.a), e quindi col D.M. 17/2018 sui corsi di formazione per l'accesso, che all’art.3, c.2 fa espresso riferimento alle “tecniche di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità”, ed alla “teoria e pratica del linguaggio giuridico”. Quanto simili considerazioni si possano fare anche a proposito della formazione dei magistrati è reso evidente anche soltanto e da ultimo dalle indicazioni del D.L. 44/ 2021 sul concorso per magistrato ordinario, laddove si prescrive che la prova scritta (mantenuta, a differenza che per gli avvocati, dove è stata sostituita per l’emergenza pandemica con una specifica nuova prova orale) consista nello “svolgimento di sintetici elaborati teorici”, e dove si sottolinea che tra i criteri per la valutazione si dovrà tener conto della “capacità di sintesi nello svolgimento degli elaborati “.
Sono partito dalla formazione, ritenendola il campo che meriti il maggiore sforzo, dovendo contribuire anche il linguaggio e la scrittura alla tutela dei valori costituzionali portati dall'articolo 111; ma avrei invece potuto iniziare riferendomi a quelle che sono già realtà di diritto positivo. In particolare mi riferisco alle novelle del 2016 per l'art.3 del codice del processo amministrativo, con la (pur controversa) previsione del potere regolamentare del Presidente del Consiglio di Stato sui limiti dimensionali degli atti (art.13 ter disp.att.), oppure alla norma sul processo civile telematico (art.16 bis, c.9 octies, D.L. 179/2012) che sancisce la sinteticità come carattere principale degli atti di parte e del giudice.
Vi è quindi da tempo un movimento generale per l'affermazione dei due concetti con cui ho esordito, la cui origine non è misteriosa: sono gli stessi strumenti di lavoro concordati tra avvocatura e magistratura, tanto a livello nazionale (come il Protocollo tra S.C. e C.N.F. del 2015 sulla redazione dei ricorsi in Cassazione in materia civile e tributaria, o le Linee Guida del 2017 redatte dall’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla Giustizia Civile [4]), quanto a livello territoriale (dove in numerosi Fori si sono approvati Protocolli d’intesa) a dar conto dell'importanza dell'esperienza delle corti europee, che nella loro impostazione - di ispirazione anglosassone - hanno sempre tenuto in gran conto gli aspetti “pratici” del processo, spingendosi ad indicazioni sulla lunghezza degli atti, sulla loro struttura, sulla forma grafica, di cui anche da noi si è fatto tesoro. Senza peraltro dimenticare che tale esperienza era stata preceduta da quella statunitense: se mi è consentita una battuta, spesso in Italia arriviamo tardi, ma quando arriviamo talvolta superiamo i maestri; il trasparente riferimento è alle previsioni del processo amministrativo, dove la lunghezza degli atti è misurata in termini di caratteri, così oltrepassandosi non solo il richiamo al numero delle pagine, ma addirittura quello al numero delle parole, criterio tuttora seguito negli U.S.A., per esempio a proposito dei processi di fronte delle Corti d'appello federali (Rule 32, Federal Rules of appellate Procedure: 13.000 parole per i principal briefs).
Torniamo quindi alla sequenza ricordata.
Con le sue Linee Programmatiche la ministra Cartabia – premesso assai saggiamente che non era il caso di “coltivare illusorie ambizioni di riforme di sistema non praticabili nelle condizioni date” – a marzo preannunciava la valorizzazione di “alcuni aspetti” dei disegni di legge già presenti in Parlamento, “quali ad esempio il principio di sinteticità degli atti, mediante una sua chiara affermazione e l’introduzione di specifiche disposizioni volte a renderlo effettivo”. A metterci il carico da 11 provvedeva poi il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza – ed il Recovery Fund è sempre ben presente alla ministra – dove per gli interventi sul processo civile si legge che “Dal punto di vista generale si rendono effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”; carico da 11, dicevo, reso evidente dal riferimento a premi e sanzioni…
La Commissione ministeriale presieduta da Francesco P.Luiso, e che ha visto come Vicepresidente Filippo Danovi, vice capo dell’ufficio legislativo del ministero, ha fornito all’esecutivo una serie di soluzioni, tradotte poi (con scelte doverosamente politiche su alcune delle alternative proposte) nell’emendamento al d.d.l. AS 1662 di recentissima diffusione.
Sul punto le proposte della Commissione parlano scarnamente dell’ “introduzione nel codice di procedura civile e con portata generale del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali di parte e dei provvedimenti giudiziali”.
Ebbene, è nella proposta governativa che appaiono - e per la prima volta nel codice di rito – riferimenti espressi a chiarezza e concisione, per tutte le parti del processo; dal 1940 fino a tempi più recenti le indicazioni erano sempre state date ai giudici, non anche alle parti private. La musica ora dovrebbe cambiare. Andando in ordine: a proposito degli atti introduttivi, si propone di sostituire all’art.3, c.1 del d.d.l. Bonafede le lett. b) e c) , in modo tale che i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, così come le difese del convenuto, siano esposti “in modo chiaro e specifico”[5]; analogamente, per il giudizio di appello (art.6) si indica che “le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata di cui all’articolo 342, comma primo, n.2), del codice di procedura civile siano esposte in modo chiaro e specifico”; ed in Cassazione (art.6 bis) che “il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione”[6]. Ancor più esplicitamente, all’art.12 si prevede che il criterio cardine sia il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità. Una scelta importante è infine effettuata in merito alle conseguenze in termini di validità degli atti, della violazione delle “specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo”: non potranno esserci sanzioni di invalidità o inammissibilità; ma, ove ad esser violate siano “le specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali” se ne potrà tener conto nella disciplina delle spese. Al riguardo osserverei soltanto, dal punto di vista testuale, che non mi è chiaro il perchè della diversa formulazione adottata (solo nel secondo riferimento si precisa che si tratta di limiti redazionali: il che esplicita la possibilità di seguire la strada del C.P.A. – magari ed auspicabilmente con indicazioni del legislatore e non di un organo amministrativo); per il contenuto, che si è scelta una via intermedia tra le indicazioni del Protocollo Cassazione/C.N.F. del 2015 (rilevanza delle violazioni ai – soli - fini delle spese [7]) e quelle di altra Commissione ministeriale più risalente (Mura: si trattava per la precisione del Gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali, 2016/2017) secondo i cui lavori, facenti esplicito riferimento nel proposto nuovo art.140 disp att. c.p.c. ai Protocolli stipulati tra gli organi apicali di magistratura ed avvocatura, “Il solo mancato rispetto delle previsioni dei protocolli non è motivo di inammissibilità dell’atto o di altra conseguenza a carico delle parti” [8]. La Commissione Luiso da parte sua ricorda che “anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna” è parso opportuno inserire nella legge delega la previsione secondo cui, per quanto riguarda gli atti di parte, la violazione di tali principi non potesse comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità dell’atto, bensì rilevare ai fini della liquidazione delle spese.
Il requisito del “raggiungimento dello scopo” di cui all’emendamento presentato pare allora l’elemento differenziale, col richiamo di un’espressione consolidata. A voler essere pessimisti, si potrebbe però anche ipotizzare che possibili equivoci interpretativi potranno nascere proprio sulla definizione di raggiungimento dello scopo… quando un richiamo secco a) a riferimenti determinati e univoci (per es.: “specifiche tecniche e limiti redazionali”) e b) a conseguenze obbligate (“rilievo ai fini della liquidazione delle spese”) li avrebbe eliminati alla radice. Quale sarebbe infatti l’atto che “ha raggiunto lo scopo” benchè non redatto secondo le indicazioni del caso ? quello che ha invertito per errore materiale/informatico il contenuto di campi predisposti nello schema ? l’atto troppo lungo ma alla fine comprensibile ? Avrei seguito piuttosto una regola aurea della Formula Uno di parecchi anni fa (quando contava la meccanica, e non l’elettronica): “quel che non c’è non si rompe”.
Fatto sta che chiarezza e concisione dovrebbero così entrare ufficialmente nel codice, incidendo in buona misura sulle abitudini di avvocati e giudici.
Se questo è il contesto, come si colloca allora il Programma di Gestione ?
Trovo che si possa constatare un notevole allineamento con il movimento culturale delineato.
Ci si può subito dichiarare d’accordo con la premessa della parte dedicata alla motivazione dei provvedimenti (§ 11.1) : “L’impegno di tutti i protagonisti della giurisdizione per realizzare i principi costituzionali in tema di giusto processo richiede, anche nel prossimo triennio, una rinnovata attenzione al tema della motivazione dei provvedimenti e del linguaggio”, e con l’immediato riferimento all’art.111 Cost.. Ma dove chi scrive sente una consonanza assoluta è quando legge (§ 11.2) che “Il giusto processo è, quindi, anche un giudizio ben comprensibile, posto che il controllo sull’esercizio della giurisdizione non si attua soltanto in via endo-processuale, attraverso i rimedi apprestati dai codici di rito civile e penale rispetto alle decisioni del giudice, ma si realizza anche attraverso la comprensione della giurisdizione da parte del cittadino, nel cui nome la giustizia viene amministrata.”
Qual è infatti lo scopo di chiarezza e concisione ? la comprensibilità. E si poteva già concludere che, per l’avvocato nel processo, la comprensibilità si declina in due modi: come strumento di persuasione, e come strumento di trasparenza; nella seconda accezione intendendosi come trasparenza anche l’obbligo deontologico di una corretta informazione dapprima verso il cliente, e poi verso il giudice, se è vero ciò che leggiamo nella legge 247/2012 e nel Codice deontologico. E cioè che uno degli scopi primari dell’ordinamento forense è la tutela dell’affidamento della collettività; ciò che anche meglio si apprezza nel riferimento della Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo (e nel Codice degli avvocati europei, entrambi adottati dal C.C.B.E.) al “rispetto dello Stato di Diritto e contributo alla buona amministrazione della giustizia”. Che questa esigenza sia affermata a chiare lettere nell’invito del Primo Presidente ai giudici di Cassazione non può quindi che consolidare l’opinione che all’interno del sistema giustizia i valori essenziali siano condivisi, o debbano esserlo, da tutti gli operatori. Da notare che anche l’altro profilo (la persuasione) è ben presente nel documento, e forse ovviamente, quando richiama l’accresciuto valore del “precedente” nella logica nomofilattica della S.C.: il tema è chiaramente e sinteticamente (evviva!) così riassunto: “Nell’attuale assetto costituzionale, la certezza del diritto oggettivo e la parità di trattamento dei cittadini sono gli obiettivi assegnati alla Corte di cassazione le cui decisioni, mediante l’autorevolezza e la persuasività del discorso giustificativo, possono assicurare l’uniformità della giurisprudenza, valore fondamentale per l’ordinamento”. Direbbe il padre Dante: Parole non ci appulcro. L’esposizione del tema è svolta soprattutto a proposito della motivazione dei provvedimenti, come naturale, e si esprime con robuste conclusioni: “La chiarezza può e deve favorire la qualità della risposta giudiziaria, obiettivo cui il giusto processo deve tendere non meno di quanto miri alla celerità. La sintesi è il mezzo per assicurare la chiarezza… La corretta e sintetica struttura della motivazione aiuta la progressione logica del ragionamento, evita inutili ripetizioni, favorisce un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice.
La redazione di atti e provvedimenti improntati a sinteticità e chiarezza e contenenti una solida argomentazione deve costituire il parametro per una nuova modalità di scrittura che contribuisca a dare attuazione ad alcuni principi costituzionali”.
Non solo ai colleghi giudici di legittimità si rivolge però il Primo Presidente: ricorda infatti anche agli avvocati che “la chiarezza e la sinteticità degli atti contribuiscono ad assicurare una più sollecita risposta da parte del giudice: è indubbio, infatti, che l’eccessiva lunghezza degli atti processuali danneggia, in primo luogo, proprio la parte che ha ragione e che, nel ritardo, vede leso il proprio diritto di difesa…”, e a chiusura del cerchio, con perfetta congruità con quanto sinora ho tentato di tratteggiare, sottolinea che quel vizio “Può danneggiare anche, indirettamente, la collettività, poiché la giurisdizione è una risorsa limitata della quale occorre razionalizzare l’impiego”. Verrebbe voglia di dire: Quod erat demonstrandum.
Può rimanere, in conclusione, solo una incertezza: parliamo tanto di chiarezza e concisione, ma le definizioni ? Se rimangono clausole generali, la loro efficacia precettiva ne risentirà alquanto. D’altro canto, ci vuole coraggio a tentare una definizione teorica (non fosse altro che per la mole di studi su tali argomenti e la necessità di una valutazione comparata con altri ordinamenti) mentre è più facile immaginare una serie di norme che – incidendo su struttura (ricordiamoci anche che nel P.C.T. la “forma” influenza direttamente il “contenuto”), limiti dimensionali, “leggibilità” grafica dell’atto – ne agevoli l’applicazione pratica. Per applicare un principio, un criterio, però, non si può fare del tutto a meno di un chiarimento in linea astratta. Quel coraggio, allora, l’hanno avuto gli Osservatori sulla Giustizia civile nel documento del 2017 ricordato, quando in esergo ai 12 Principi delle Linee Guida per la redazione di atti e provvedimenti in maniera chiara e sintetica hanno pur cercato di darle, quelle definizioni, che qui pertanto voglio ripetere anche per cercare di diminuire lo scetticismo di chi – giustamente – non crede più a parole vuote:
“CHIAREZZA
La chiarezza degli atti processuali, di parte e del giudice, attiene all’agevole comprensione del testo, che deve seguire un lineare ordine argomentativo, evitando ripetizioni, espressioni gergali, termini desueti, periodi e frasi lunghe, punteggiatura approssimativa, forme verbali passive.
E’ preferibile impiegare nessi di coordinazione, anziché di dipendenza, fra due o più proposizioni.
SINTETICITA’
La sinteticità degli atti, di parte e del giudice, è un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra la mole delle questioni da esaminare e la consistenza dell’atto chiamato ad esaminarle”.
Come si ricordava nelle Note esplicative alle Linee Guida, “La stringata definizione della CHIAREZZA è il portato delle ricerche linguistiche in ambito giuridico degli ultimi vent’anni, in ambito non solo italiano; mentre la definizione di SINTETICITÀ è tratta da C. Stato, sez. III, 12.6.2015, n. 2900, secondo la quale più precisamente “L’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito [c.p.a.], non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola”.
Alla fine, qualsiasi esito finale abbia il maxi emendamento (proprio Francesco Luiso ricordava di recente in un webinar come la regola aurea sarebbe quella di studiare le leggi solo dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale…) resto nella ferma convinzione che quello che ho definito come il movimento culturale verso chiarezza e concisione nella scrittura giuridica, in specie processuale, sia inarrestabile; ma dovrà esser governato – oltre che dalla Costituzione - dal buon senso, per non cadere in una tentazione a due facce: da quella dei giudici, di strumentalizzare novità normative come “trappole” formali, e, da quella degli avvocati, di gridare alla compressione del diritto di difesa, quando (riprendo ancora la relazione del Primo Presidente) “La richiesta di atti difensivi di lunghezza contenuta, quindi, non va a detrimento del diritto di difesa né preclude l’esposizione esauriente dei fatti e delle argomentazioni. Al contrario, è la trattazione prolissa a indebolire l’efficacia dell’atto: adottare una dimensione adeguata significa rendere effettivo il diritto di difesa, eliminando tutto ciò che è superfluo e, soprattutto, poco chiaro”. Buon senso e duro lavoro[9]: non ci sono scorciatoie, nel processo.
[1] Si tratta ovviamente di quanto scrisse Martin Niemöller sull’avvento del nazismo, spesso attribuite a Brecht.
[2] in questa Rivista un primo commento a cura di B.CAPPONI, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n.1662/S/XVIII, incidentalmente scettico sui temi qui in esame; seguito da quelli dello stesso B.CAPPONI e A.PANZAROLA, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, e di G.SCARSELLI, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/s/XVIII di riforma del processo civile.
[3] Sia consentito il rinvio, ad es., a “Efficienza e comprensibilità come obiettivi deontologici nel linguaggio del civilista” di chi scrive, in “Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali” a cura di A. Mariani Marini e F. Bambi, Pisa University Press, 2013, 69 ss.
[4] Si leggono in https://www.questionegiustizia.it/doc/doc_4_atti_e_provvedimenti.pdf (consult.23.5.2021); v, il mio “Le Linee Guida 2017 degli Osservatori sulla Giustizia Civile sulla redazione degli atti in maniera chiara e sintetica”, in www.judicium.it.
[5] Sia consentito però notare che nel nuovo articolato proposto, nell’art.163 c.p.c. l’indicazione non è riportata, a differenza che nell’art.167, dove lo è, ma chiaramente ai fini del principio di non contestazione. In compenso (…) l’attore deve indicare specificamente mezzi di prova e documenti, mentre al convenuto simile ingiunzione non è rivolta. Come diceva Totò, peraltro, queste son quisquilie, bazzecole, pinzillacchere, sciocchezzuole.
[6] Al riguardo le sfiduciate note di B.CAPPONI e A.PANZAROLA, Questioni e dubbi cit., a mio parere eccessivamente negativi sull’esperienza dei Protocolli.
[7] Nuova licenza richiesta per il rinvio del lettore a “La scrittura degli atti processuali ed il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi”, in www.judicium.it.
[8] Si leggono tra l’altro in https://www.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2017/01/decretosinteticitaATTIprocessuali.pdf (consult.23.5.2021); ma quegli stessi lavori della Comm.Mura prevedevano poi per il giudizio di Cassazione l’introduzione di un ultimo comma all’art.385 c.p.c., secondo il quale “la corte può ridurne o aumentarne l’importo fino ad massimo del 20% se le parti non si sono attenute, nella redazione degli atti difensivi, a criteri di chiarezza e sinteticità”. Del resto, non contiene l’art.4 del D.M. 55/2014, tra i vari criteri per la liquidazione delle spese, quello del “pregio difensivo” ? e non si è data un’indicazione in tal senso con la modifica dello stesso articolo (D.M. N.37/2018) con l’aumento premiale per gli atti telematici “navigabili” ?
[9] Tutti conoscono, tanto che ho ritrosia a rinnovare la citazione, quanto scriveva Pascal nella 16a delle Lettere provinciali: "Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve".
Scrivere meno e meglio, cioè in modo chiaro e conciso, richiede più tempo e fatica: non il contrario.
Sull’efficacia del provvedimento d’urgenza che ha sospeso parte della proclamazione degli eletti del CNF
di Giuliano Scarselli
“E’ insito nel sistema un principio per il quale la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione”.
PROTO PISANI, Rilevanza costituzionale del principio secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, Foro it., 1985, I, 1881.
1. All’esito delle elezioni del componenti del CNF tenutasi alla fine del 2018, taluni avvocati impugnavano dinanzi al TAR Lazio la proclamazione con cui il CNF aveva proclamato gli eletti.
Il TAR Lazio si dichiarava carente di giurisdizione in favore del giudice ordinario, e la causa veniva allora riassunta dinanzi al Tribunale di Roma con procedimento sommario ex art. 702 bis c.p.c.
In corso di causa i ricorrenti richiedevano altresì al Tribunale di Roma provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. volto a sospendere gli effetti della proclamazione, e il Tribunale di Roma, con ordinanza del 13 marzo 2020, accoglieva il ricorso cautelare, e sospendeva “gli effetti della proclamazione a Consigliere Nazionale forense degli avvocati…………”.
Svolto il giudizio di merito in primo grado, previa dichiarazione di difetto di legittimazione delle associazioni forensi e del Ministero della Giustizia, e previa dichiarazione di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata da alcuni dei resistenti, il Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e dichiarava “gli avvocati…………..ineleggibili alla carica di consigliere del Consiglio Nazionale forense”.
I resistenti interponevano appello alla decisione di primo grado e chiedevano inoltre la sospensione cautelare ex art. 283 c.p.c. degli effetti della ordinanza di primo grado pronunciata ex art. 702 quater c.p.c.
La Corte di Appello di Roma, con ordinanza del 17 maggio 2021, premesso che il procedimento non ha ad oggetto una condanna bensì l’accertamento di uno status, dichiarava inammissibile la richiesta ex art. 283 c.p.c. delle parti appellanti, poiché gli “effetti eventualmente esecutivi solamente riflessi e non immediati, peraltro rimessi alla valutazione di altri soggetti, non consentono un ampliamento del perimetro di applicabilità dell’istituto di cui all’art. 283 c.p.c.”.
2. Si chiede, dunque, ciò premesso, se il provvedimento della Corte di Appello di Roma, nella misura in cui, sostanzialmente, ha dichiarato priva di effetti immediati l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. possa aver come ulteriore conseguenza il venir meno (anche) degli effetti del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
E io ritengo, per le ragioni che vado ad esporre, che gli effetti della misura cautelare ex art. 700 c.p.c. non siano venuti meno a seguito della pronuncia della Corte di Appello di Roma.
3. In primo luogo, la durata e l’efficacia delle misure cautelari pendente il processo è disciplinata dall’art. 669 novies c.p.c.
Si legge in tale disposizione al 3 comma che: “Il provvedimento cautelare perde efficacia.se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso”. Il 1 comma invece precisa che il provvedimento cautelare può perdere efficacia se entro sessanta giorni non è iniziata la causa di merito (fatto che tuttavia non riguarda la presente fattispecie) oppure se: “successivamente al suo inizio si estingue”[1].
Dunque, la legge è precisa al riguardo: ottenuta una misura cautelare in corso di causa, la stessa perde efficacia solo se una pronuncia di merito a cognizione piena dichiara inesistente il diritto controverso, oppure se il giudizio di merito si estingue[2]. E in questo contesto, è opinione comune che l’inefficacia dei provvedimenti cautelari non possa darsi se non per eventi menzionati dall’art. 669 novies c.p.c. stante un principio di tassatività delle ipotesi[3].
Poiché, allora, nel nostro caso non esiste una sentenza di merito che abbia dichiarato inesistente il diritto delle parti ricorrenti, ma, anzi, il provvedimento che ha chiuso il procedimento ex art. 702 bis c.p.c. ha confermato l’ineleggibilità dei consiglieri nazionali forensi interessati, e poiché il giudizio di merito non si è estinto, essendo evidentemente ancora pendente dinanzi alla Corte di Appello di Roma, si deve concludere che la misura cautelare concessa ex art. 700 c.p.c. del 13 marzo 2020 in RG 1275-1/2020, è ancora efficace e produttiva di effetti, poiché nessuna fattispecie tra quelle previste dall’art. 669 novies c.p.c. si è realizzata.
4. Ne’, d’altro canto, si può ritenere che, al di là della disciplina dell’art. 669 novies c.p.c., il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. ha perso egualmente efficacia a seguito della definizione della lite in primo grado connessa alla successiva pronuncia della Corte di Appello di Roma ex art. 283 c.p.c.
Per l’esattezza, chi volesse invece sostenerlo, potrebbe argomentare che, una volta pronunciato il provvedimento di merito definitivo del giudizio di primo grado (ordinanza ex art. 702 quater c.p.c.), la misura cautelare ex art. 700 c.p.c. non esiste più ed è assorbita da detta ordinanza che ha chiuso il procedimento; dopo di che, poiché la Corte di Appello di Roma ha statuito che detta ultima ordinanza di merito ex art. 702 quater c.p.c. non produce effetti esecutivi in quanto avente ad oggetto l’accertamento di uno status e non una condanna, nessun provvedimento effettivo/esecutivo sussisterebbe allora più: - non l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. perché espressamente dichiarata non esecutiva dalla Corte di Appello di Roma; - e non l’ordinanza ex art. 700 c.p.c. in quanto assorbita dall’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. che, a sua volta, non ha effetti esecutivi.
Orbene, questo ragionamento, che a qualcuno potrebbe venir in mente di fare, non può però, in verità, a mio parere, essere fatto:
a) in primo luogo perché esso contrasterebbe con il principio di tipicità delle ipotesi di inefficacia delle misure cautelari disciplinate nell’art. 669 novies c.p.c., atteso che quella disposizione prevede il venir meno della misura cautelare a seguito di pronuncia di primo grado di rigetto, non di accoglimento; cosicché immaginare la stessa cosa anche con riferimento alla pronuncia di accoglimento comporterebbe la creazione di una nuova caducazione della misura non espressamente prevista, e contrasterebbe con la ratio della stessa norma, che è quella di sottrarre il provvedimento a chi ha torto, non di far venir meno la tutela cautelare a chi ha ragione.
b) Ma, in ogni caso, l’assorbimento della misura cautelare, in tanto può immaginarsi, in quanto il provvedimento di accoglimento riesca sotto ogni profilo a contenere quello cautelare, ovvero ne abbia tutte le caratteristiche; poiché, se così non è, è evidente che nessun assorbimento può essere dato, in quanto lo stesso altrimenti cancellerebbe quelle peculiarità cautelari che non vi sono nel provvedimento di merito[4].
Si dice che l’assorbimento si ha con “l’esaurimento della funzione cautelare che li caratterizza”[5].
E si dice, conseguentemente, che il c.d. assorbimento si ha solo quando vi sia identità di decisum tra misura cautelare e merito, e solo quando la pronuncia di merito abbia effetti esecutivi al pari della misura cautelare che deve andare ad assorbire[6]; fuori da ciò, nessun assorbimento vi è, e la misura cautelare resta viva anche dopo la definizione del giudizio di primo grado.
Nel nostro caso, pertanto, il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. deve considerarsi non assorbito dall’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c., in quanto:
a) il decisum del provvedimento ex art. 700 c.p.c. è diverso da quello dell’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c.; il provvedimento d’urgenza “sospende gli effetti della proclamazione a Consigliere Nazionale forense degli avvocati…………”; l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. “dichiara gli avvocati…………..ineleggibili alla carica di consigliere del Consiglio Nazionale forense”; dal che, par evidente, le decisioni dei due provvedimenti non si sovrappongono; uno è di sospensione e l’altro è di accertamento; uno, dunque, non in grado di contenere l’altro.
bb) Inoltre, l’ordinanza ex art. 702 quater non ha effetti esecutivi, mentre il provvedimento ex art. 700 c.p.c. ha l’attitudine esecutiva/attuativa di tutte le misure cautelari ex art. 669 duodecies c.p.c.
5. Una volta rilevato, così, che il provvedimento d’urgenza non può dirsi assorbito e/o venuto meno con l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c., va da sè che la decisione della Corte di Appello di Roma ex art. 283 c.p.c. è irrilevante rispetto all’autonoma efficacia del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
Per l’esattezza, la richiesta di una sospensione ex art. 283 c.p.c. è anch’essa, se si vuole e sostanzialmente, una misura cautelare/sommaria[7].
Ciò significa che, nel caso di specie, sussistono due misure cautelari/sommarie: una ex art. 700 c.p.c., l’altra ex art. 283 c.p.c.
E l’una non incide sull’altra, poiché una misura cautelare non è mai in grado di interferire su altra misura cautelare, almeno che la successiva misura cautelare non sia richiesta (anche) ai sensi dell’art. 669 decies c.p.c., ovvero quale provvedimento di revoca o modifica della prima misura cautelare, e questa revoca e/o modifica della prima misura cautelare risulti espressamente dal tenore letterale della seconda misura cautelare.
Ma poiché nel nostro caso questo non è, in quanto la misura della Corte di Appello di Roma non è certamente chiesta in revoca e/o modifica del provvedimento ex art. 700 c.p.c. ne’ niente in modo espresso sussiste su ciò, si deve dunque ribadire che trattasi di due misure distinte e parallele, di cui una non è in grado di produrre conseguenze sull’altra.
6. Ne’ vi è contraddittorietà logica tra il provvedimento ex art. 700 c.p.c. e l’ordinanza ex art. 283 c.p.c., tale da ritenere parimenti venuto meno il primo provvedimento.
Premesso che le misure cautelari non perdono efficacia secondo un generico principio di contraddittorietà, non v’è comunque alcuna contraddizione tra i due provvedimenti: il provvedimento d’urgenza ha sospeso gli effetti della proclamazione; il provvedimento ex art. 283 c.p.c. ha escluso che la dichiarazione di illegittimità della proclamazione sia provvisoriamente esecutiva.
Ciò significa che la ineleggibilità si avrà solo con il passaggio in giudicato, ma questo non contrasta con la necessità che in via cautelare debba sospendersi la proclamazione degli eletti fino a quel passaggio in giudicato; solo, evidentemente, in questi casi, il provvedimento d’urgenza tenderà ad avere una vita più lunga, perché maggiore è normalmente il tempo in cui il diritto controverso ha bisogno di essere cautelato se il provvedimento di merito che chiude il giudizio in primo grado non gode della provvisoria esecuzione.
7. E ancora, il fatto che l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. non sia provvisoriamente esecutiva non intacca ne’ inficia l’attitudine esecutiva/attuativa del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
Sono due provvedimenti distinti e separati, che tali restano e devono restare.
Secondo un insegnamento che risale a Giuseppe Chiovenda[8], a fronte di ogni azione giudiziale di merito, sia questa di accertamento, oppure costitutiva, oppure di condanna, se vi è pericolo imminente di un pregiudizio irreparabile, può esser chiesta una misura che cauteli il diritto fatto valere in giudizio[9], e questa cautela ben può, ed anzi, deve, per il raggiungimento del suo scopo, avere effetti esecutivi/attuativi a prescindere dagli effetti che possa avere poi il provvedimento di merito che definisce il giudizio di primo grado.
Ciò è confermato:
a) da un punto di vista pratico, o della ratio della misura, dalla circostanza che un provvedimento cautelare ha un senso se produttivo di un effetto immediato, che costituisce infatti condizione coessenziale e imprescindibile alla stessa misura cautelare;
b) e da un punto di vista normativo dall’art. 669 terdecies c.p.c. il quale, statuendo che “il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento”, indirettamente asserisce che tutte le misure cautelari godono sempre di una forza esecutiva propria.
Non fosse così, in tutte le controversie, ad esempio, aventi ad oggetto diritti della persona, non si potrebbe mai chiedere provvedimenti cautelari conservativi o anticipatori perché inseriti in contesti ove la decisione di primo grado non è normalmente provvisoriamente esecutiva; invece è questo un settore dove le misure cautelari abbondano, perché, come detto, la circostanza che la sentenza di primo grado non sia provvisoriamente esecutiva, non impedisce alla misura cautelare di godere egualmente di una autonoma e pronta forza di attuazione.
8. Dunque, in estrema sintesi:
a) un provvedimento d’urgenza può essere richiesto e concesso anche a fronte di un giudizio avente ad oggetto un diritto della personalità o uno status, ovvero anche a fronte di diritti che vengono decisi con provvedimenti di merito che non godono della provvisoria esecuzione.
b) Questo niente toglie alla esecutività della misura cautelare concessa in quel contesto; la misura cautelare, anche in quel contesto, e per sua struttura, è sempre idonea alla esecuzione/attuazione ai sensi degli artt. 669 duodecies e terdecies c.p.c.
c) In queste ipotesi, inoltre, la pronuncia di merito di accoglimento che chiude il processo in primo grado non assorbe, e non fa venir meno, la misura cautelare concessa in corso di causa, in quanto tal provvedimento di merito non è capace di interamente contenere l’oggetto e gli effetti della misura cautelare.
d) Dal che, l’autonomia della misura cautelare rispetto alla decisione di merito rende poi irrilevante alla prima ogni decisione ex art. 283 c.p.c.
e) La misura cautelare, così, ai sensi degli artt. 669 novies e decies c.p.c. può venir meno solo: a) dinanzi ad una sentenza di merito che neghi il diritto cautelato; b) a seguito dell’estinzione del processo; c) a fronte di nuova misura cautelare che espressamente la revochi o la modifichi; d) ed infine, ovviamente, a fronte del formarsi della cosa giudicata sul diritto già oggetto di cautela. Non altro.
9. Non contraddice tutto questo, infine, la recente pronuncia Cass. 7 ottobre 2019 n. 24939, per la quale: “La tutela cautelare dei diritti fatti valere, in un giudizio di condanna o di accertamento costitutivo, si può concretare in una misura di salvaguardia dell'effetto esecutivo che ne può derivare, volto a rendere possibile la soggezione del debitore alla sanzione esecutiva, ma tale tutela cautelare non può generare l'effetto dichiarativo o la costituzione giudiziale di un diritto - effetto che certamente può derivare solo dalla sentenza”.
La decisione, infatti, attiene al contenuto del provvedimento cautelare e non alla sua efficacia; e, come può vedersi, semplicemente avverte che la misura cautelare può assolvere solo la funzione di assicurazione del diritto, ma non può anticiparlo ne’ dichiararlo in via preliminare, visto che tale effetto “certamente può derivare solo dalla sentenza”[10].
Ma questo è conforme a quanto avvenuto in questa vicenda.
Il provvedimento d’urgenza in questione, infatti, non ha dichiarato ineleggibili i componenti, e dunque non ha anticipato qualcosa che può discendere solo dalla sentenza.
Il provvedimento d’urgenza del Tribunale di Roma si è solo preoccupato della “salvaguardia del diritto costituendo”; e, a cautela del diritto azionato, ha sospeso i consiglieri da ritenere ineleggibili, senza dichiararli tali, e quindi senza anticipare il giudizio di merito.
Tutto questo, tuttavia, ripeto ancora, non ha niente a che vedere con l’efficacia e la durata della misura cautelare anticipatoria concessa ex art. 700 c.p.c., che resta, appunto, quella indicata.
[1] Da ricordare che il 1° comma dell’art. 669 novies c.p.c. non si applica, o è di dubbia applicazione, in base all’art. 669 octies, 6° comma c.p.c., al nostro caso, che ha ad oggetto un provvedimento d’urgenza.
La questione non è tuttavia centrale nell’economia del problema trattato.
Precisamente, se ci atteniamo all’aspetto formale, secondo il quale il provvedimento cautelare pronunciato dal Tribunale di Roma è un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., allora dovremmo convenire che lo stesso gode di una stabilità ancora maggiore di quella descritta nel testo, ovvero che sopravvive addirittura ad una eventuale estinzione del processo, e ciò per la mancata applicazione del 1° comma dell’art. 669 novies c.p.c. disposta dall’art. 669 octies, 6° comma c.p.c.
Se viceversa facciamo prevalere la sostanza alla forma, e riteniamo che il provvedimento, ancorché pronunciato ex art. 700 c.p.c., ha contenuto di sospensione, e quindi ha natura cautelativa e non anticipatoria, allora l’estinzione del processo lo coinvolge e lo fa venir meno ai sensi del 1° comma dell’art. 669 novies c.p.c. (questa, personalmente, è la mia opinione, conforme ora a Cass. 7 ottobre 2019 n. 24939).
In ogni caso, niente muta rispetto al problema qui affrontato.
[2] Ovviamente, poi, ogni misura cautelare perde altresì efficacia con il formarsi della cosa giudicata, ovvero con la definizione del giudizio sul diritto relativamente al quale la misura cautelare, evidentemente, svolge una funzione strumentale.
Non è comunque questo un aspetto che rileva a fronte del problema posto.
[3] Così Cass. 21 agosto 2007 n. 17778, per la quale i provvedimenti cautelari perdono efficacia solo nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 669 novies c.p.c. “essendo prevista la caducazione del provvedimento nelle sole ipotesi tassative di cui all'art. 669 novies c.p.c.”.
[4] Così MERLIN, Il processo cautelare, Padova, 2011, 455: “Certamente, la sentenza di accoglimento, dotata per legge di immediata efficacia esecutiva, dovrebbe di norma assorbire ogni esigenza di tutela dell’attore vittorioso. Tuttavia occorre considerare le ipotesi in cui la sentenza non è dotata di immediata efficacia esecutiva. Ed in tali casi mi pare non possono nutrirsi ragionevoli dubbi nell’accogliere la soluzione favorevole alla sopravvivenza della misura cautelare”.
[5] In questo senso Cass. 28 aprile 2006 n. 9936; Cass. 11 marzo 2004 n. 4964; Cass. 27 dicembre 1993 n. 12787; Cass. 29 ottobre 1992 n. 11770; Cass. 27 luglio 1992 n. 9008, le quali tutte considerano il c.d. assorbimento subordinato a dette condizioni.
Nello stesso contesto logico si inserisce, a mio avviso, anche Cass. 4 giugno 2008 n. 14765, che, seppur dichiari venuto meno un sequestro a seguito di sentenza di merito di accoglimento, lo fa sullo base del principio del “raggiungimento dello scopo”.
[6] V. anche, sul punto, RECCHIONI, I procedimenti cautelari, Torino, 205, 646, per il quale: “Mi parrebbe quindi necessario, riguardata la vicenda giudiziale nella sua complessità, se il provvedimento finale sia capace di fornire protezione immediata a tutti i profili possibili della vicenda, anche prima del suo passaggio in giudicato o meno; e in questa seconda ipotesi, concludere per la permanenza in vita della misura cautelare che, dunque, può considerarsi fonte concorrente o meglio ausiliare o di complemento dell’altra”.
[7] Sulla natura cautelare dei provvedimenti ex art. 283 c.p.c. v. Cass. 21 febbraio 2007 n. 4024 e Cass. 1 marzo 2005 n. 4299, per le quali: “L'ordinanza, emessa ai sensi dell'art. 283 c.p.c. ha carattere provvisorio e cautelare”. Natura cautelare, normalmente, si attribuisce poi a tutti i provvedimenti di sospensione, quali la sospensione dell’esecuzione (Cass. 10 marzo 2006 n. 5368), la sospensione delle delibere assembleari di società o di condominio (Cass. 2 marzo 1999 n. 1748), ecc……..
[8] Ricordo in proposito PROTO PISANI, Rilevanza costituzionale del principio secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, Foro it., 1985, I, 1881, in nota alla celebre pronuncia, che vedeva come relatore Virgilio Andrioli, Corte Cost., 28 giugno 1985 n. 190.
[9] V. PAGNI, Provvedimenti d’urgenza, voce dell’Enc. Giur. Sole 24 Ore, XII, 492: “Non dissimile è l’ulteriore problema dell’ammissibilità di una tutela atipica volti ad assicurare gli effetti della pronuncia di mero accertamento…….essa potrebbe estendersi ad abbracciare i casi in cui il ricorso si traduca in una sorta di inibitoria, volta a vietare al resistente quel comportamenti che un domani andrebbero ad infrangersi contro il dictum giudiziale passato in giudicato”.
[10] Da rilevare, comunque, che tutta la riflessione della Corte è dovuta alla necessità di decidere se un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. di sospensione di una delibera assembleare (e quindi di un provvedimento cautelare che possiamo ritenere analogo a quello del Tribunale di Roma qui in esame) sopravvive o meno all’estinzione del processo; e la Corte di Cassazione, con questa pronuncia, ha ritenuto che non vi sopravviva; e io, personalmente, concordo con questa decisione, che tuttavia, come già fatto presente in nota n. 1, non ha rilevanza al fine del tema qui dibattuto.
Prolegomeni ad una teoria della raccomandazione giudiziaria di Rosario Russo
Sommario: 1.Premessa - 2.Fenomenologia della raccomandazione – 3. Il sistema clientelare-spartitorio.
1. Premessa
I magistrati ordinari sono selezionati fin dall’inizio in base al proprio merito, accertato per mezzo di un rigoroso concorso a numero chiuso. La loro carriera (trasferimenti, promozioni, sanzioni disciplinari, etc.) è regolata da rigorose norme (costituzionali, primarie, secondarie) ed è amministrata dal C.S.M., organo di rilievo costituzionale (presieduto dalla più alta Magistratura), istituito al fine di assicurare l’indipendenza (interna ed esterna) dell’Ordine giudiziario e dei magistrati.
Come in tutti i paesi facenti parte della famiglia romano-germanica (o famiglia di civil law), nel nostro ordinamento il fondamento e la legittimità della funzione giudiziaria riposa soltanto sul merito e sulla capacità professionale del giudice. Servo soltanto della legge[1], egli gode di un’assoluta indipendenza, la sola che gli consente di giudicare in nome del Popolo. E tale formidabile indipendenza deve difendere non solo da attacchi interni ed esterni all’ordine, ma anche dalla propria personale ambizione.
Questo, soltanto questo, è lo statuto costituzionale del magistrato ordinario, il suo habitus professionale e personale. Con misurata enfasi, può affermarsi che egli è assunto, e retribuito, dallo Stato innanzi tutto per tutelare la propria libertà e dominare le proprie ambizioni di potere. Specularmente il cittadino, che è l’Utente finale del servizio Giustizia, può fidarsi – e si fida – soltanto di un magistrato giudicante che sia capace, indipendente e imparziale, siccome scelto dal C.S.M. secondo il principio meritocratico (art. 111, 2° Cost.). Razionalmente egli diffida di un magistrato che raccomanda o si fa raccomandare, temendo per altro che egli abbia favori da restituire o debiti di gratitudine da acquisire.
Con questo paradigma di senso deve misurarsi il recente scandalo delle «toghe sporche», documentato dai numerosi messaggi sequestrati al dott. Luca Palamara.
È allarmante osservare che in tali documenti (numerosi e licenziati in un arco di tempo significativo) gli interlocutori – a volte autorevoli magistrati in ruoli di grande responsabilità - non trattano mai (neppure per inciso) di ‘diritto’. Approfonditamente, e con vari accenti, invece essi discorrono a lungo soltanto del «rovescio del diritto», e precisamente di raccomandazioni e di accordi correntizi, sicché il Presidente della Repubblica ha (generosamente) parlato di «modestia etica» dei loquentes.
2. Fenomenologia della raccomandazione
Al di fuori delle fattispecie penali[2], la ‘classica’ raccomandazione (o segnalazione) normalmente consiste in un rapporto trilaterale, composto com’è dal raccomandante, dal raccomandato (o favorito) e dal raccomandatario. Si distingue non solo dalla sponsorizzazione (finanziamento di attività a scopo pubblicitario), ma anche dal mero consiglio. Se un magistrato suggerisce ad un suo amico di rivolgersi al dentista di cui è soddisfatto cliente, non resta integrata la fattispecie della raccomandazione, perché il dentista è un professionista la cui scelta è per legge libera. Per essere (anche) giuridicamente rilevante, la raccomandazione deve (almeno potenzialmente) incidere negativamente su un procedimento amministrativo di selezione formalizzato all’insegna del merito: esami scolastici o universitari, abilitazioni, concorsi e forniture pubblici, etc. Il raccomandante cerca di indurre il raccomandatario a preferire il raccomandato, anche a dispetto delle disposizioni di legge che assegnano maggior merito o maggiori titoli di preferenza ad altri candidati (non raccomandati). Perché la raccomandazione possa avere successo, è necessario che il raccomandato abbia qualche influenza sul raccomandante e che questi a sua volta possa esercitare qualche ascendente sul raccomandatario, tanto da indurlo a violare il procedimento disciplinato dalla legge.
Ma se il raccomandato può esercitare qualche potere della stessa natura sul raccomandatario, non è necessario l’intervento del raccomandante. È il caso dell’autopromozione.
Tanto la raccomandazione (trilaterale) quanto l’autopromozione incitano a comportamenti illegittimi di vario genere, comunque in netto contrasto con la legge che premia il merito (artt. 54 e 97 Cost.), tanto nei procedimenti selettivi aperti (esami scolastici e universitari, abilitazioni, etc.), quanto in quelli a numero chiuso (in cui si pretende che il raccomandato ‘scavalchi’ i non raccomandati). Nel primo caso, è danneggiato il sistema nel suo complesso, attribuendo un titolo o una carica a chi non li merita, con tutte le conseguenze negative che ne derivano (chi vorrebbe essere curato da un medico laureatosi a seguito di raccomandazioni?); nel secondo caso è pregiudicato non solo il sistema nel suo complesso (nel senso anzidetto), ma anche direttamente il candidato meritevole ‘scavalcato’ dal raccomandato.
La raccomandazione può essere esercita in due modi cumulabili: o esaltando il valore del raccomandato; ovvero (specialmente nei procedimenti selettivi chiusi) denigrando i suoi concorrenti. Anche se infine non accolta dal raccomandatario, essa turba comunque il procedimento di formazione della decisione, facendolo deragliare dai binari vincolativamente previsti.
Dunque, la raccomandazione, sempre che sia idonea ad influire sulla decisione, non è mai innocua.
La sua gravità è direttamente proporzionale sia all’importanza (sociale e giuridica) della funzione o del titolo cui aspira il raccomandato, sia al demerito del medesimo, sia soprattutto alla capacità di condizionare le scelte del raccomandatario.
Perciò essa è sanzionata doverosamente dal codice deontologico dei magistrati[3]. Ben vero, qualunque sia l’esito della raccomandazione, i suoi protagonisti inevitabilmente pregiudicano, con la propria indipendenza, anche quella dell’Ordine giudiziario. Soltanto un magistrato che non debba sperare o temere (o restituire favori ricevuti o precostituirsi futuri vantaggi) è realmente libero e autonomo nel concreto esercizio della giurisdizione, come prescritto dalla Costituzione. La pratica della raccomandazione mette dunque in crisi, smentendolo, il criterio meritocratico, l’unico da cui dipende la legittimazione stessa della funzione giurisdizionale (v. retro sub par. 0).
La raccomandazione può essere isolata ovvero sistematica, dando luogo allora, oltre che al nepotismo, al sistema clientelare, in opposizione a quello meritocratico imposto dalla legge.
3.Il sistema clientelare-spartitorio
All’interno della A.N.M. convivono categorie diverse di magistrati. Accanto a quelli che vi partecipano operativamente coesistono quelli che vi fanno parte passivamente. Tra gli attivisti si annoverano sia quelli che legalmente si battono per l’affermazione soltanto dei valori ideali della corrente cui appartengo (attivisti disinteressati); sia coloro (attivisti interessati) che invece, mediante una distorta ’attività’ associativa, principalmente «certant del lucro captando», cioè aspirano a vantaggi illegittimi, ovvero (coscientemente o putativamente) «certant de damno vitando», avvalendosi di mezzi illegittimi.
La captazione dell’illegittimo vantaggio può avvenire prima dell’elezione a cariche associative ovvero al C.S.M., secondo il classico «voto di scambio»: «mi adopero per la tua elezione al C.S.M. se ti impegni a favorirmi successivamente». Oppure può intervenire a elezione avvenuta: «ho contribuito alla tua elezione ovvero per tanti anni al successo della nostra corrente, dunque ora pretendo la mia ricompensa». A volte il magistrato associato ha effettivamente diritto, e sa di avere diritto, a conseguire l’ambito provvedimento. Temendo tuttavia che il Consiglio possa illegittimamente preferire altri per effetto di raccomandazioni altrui, chiede in prevenzione di essere ‘protetto’ o ‘accompagnato’ o ‘difeso’ dal sodale Consigliere del C.S.M., invece di affidarsi alla G.A. impugnando la delibera ‘raccomandata’. Nella raccomandazione ‘difensiva’ si rinviene la prova tangibile della estensione e del consolidamento del metodo clientelare: la preventiva scorciatoia illegittima è ritenuta più affidabile del successivo rimedio ordinamentale.
Essendo agevolmente riscontrabile, il sistema clientelare può operare soltanto per mezzo del «metodo spartitorio»[4]; perché il metodo regga è necessario che tendenzialmente le correnti siano parimenti avvantaggiate e compromesse, sicché ciascuna di esse non possa far valere una virginale irreprensibilità. Una prima scrematura avviene in Commissione: di norma i magistrati privi di appoggi correntizi sono subito esclusi dall’agone, qualunque sia il loro merito professionale. I ‘giochi’ o le trame correntizie (con o senza il sistema dei ‘pacchetti’ di nomine) si svolgono poi nel Plenum, con la singolare conseguenza che le nomine concordate ricevono addirittura il consenso unanime. Ovviamente, nomine siffatte sono impugnabili davanti al G.A.: è tuttavia un’evenienza (praticata spesso con successo, ma) non frequente, sia perché è scarsa la propensione al ricorso giurisdizionale al T.A.R.; sia perché la decisione definitiva, ancorché favorevole, perviene dopo qualche anno, quando già l’interessato è in quiescenza o prossimo ad essa; sia perché talvolta il C.S.M. reitera con diversa motivazione il provvedimento annullato.
Approfondendo l’analisi, si scopre che il sistema spartitorio entra in crisi – ed è entrato in crisi, com’era prevedibile – allorché i privilegi illegittimamente erogabili non bastano a soddisfare l’esorbitante domanda dei clientes, sempre più numerosi ed esigenti. Allorché cioè, a misura che si amplia (con l’altalenante successo delle varie correnti) la pletora di coloro che ‘devono’ essere favoriti per meriti correntizi, non vi siano più sufficienti magistrati indipendenti e disinteressati da sacrificare! Tale è la ’legge fondamentale’ – e l’intrinseco limite - del paradigma clientelare-spartitorio, condannato perciò a crollare proprio quando si erge a generale o prevalente sistema. Ma - si sa - poco importa del suo destino, perché «il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla e gli uomini non vogliono pensare che al giorno dopo» (A. de Tocqueville): fa parte del generale nichilismo culturale accontentarsi dell’oggi o del domani, senza pensare al futuro dell’istituzione (anche) giudiziaria. Né manca chi si ostina a proclamare e a teorizzare, con rara protervia, la necessità dell’abietto sistema descritto[5].
Pertanto è necessario che il rapporto instaurato tra il magistrato che aspira ad ottenere un qualunque provvedimento ed il C.S.M. sia depurato da qualunque impropria interferenza. Soltanto così potrà avviarsi l’auspicata ‘rinascita’ della Magistratura Ordinaria[6] e riconquistare soprattutto la fiducia dei cittadini[7].
[1] «Legum omnes servi sumus ut liberi esse possimus»: M.T. CICERONE, Pro Aulo Cluentio Habito, 66 a.c.
[2] «In tema di abuso di ufficio, non è configurabile nella mera "raccomandazione" o nella "segnalazione" una forma di concorso morale nel reato, in assenza di ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato, atteso che la "raccomandazione", come fatto a sé stante, non ha un'efficacia causativa sul comportamento del soggetto attivo, il quale è libero di aderire o meno alla segnalazione secondo il suo personale apprezzamento.» (Sez. 6, Sentenza n. 35661 del 13/04/2005 Ud. (dep. 04/10/2005) Rv. 232073 - 01).
Ma a volte il discrimine non è così netto. V., per esempio, Sez. 5, Sentenza n. 40061 del 12/07/2019 Cc. (dep. 30/09/2019): «In tema di concorso di persone nel reato, la mera "raccomandazione" o "segnalazione" non ha di per sè un'efficacia causale sul comportamento del soggetto attivo, il quale è libero di aderirvi o meno secondo il suo personale apprezzamento, salvo che essa sia caratterizzata da ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato, costituendo in tale caso una forma di concorso morale nel reato. (Fattispecie in cui è stato ritenuto configurabile il concorso per istigazione nel reato di rivelazione di segreti di ufficio nei confronti di un importante esponente politico che, facendosi "collettore" di segnalazioni o raccomandazioni in favore di candidati in pubblici concorsi, induceva i membri delle commissioni esaminatrici a rivelare in anticipo le tracce dei temi e dei quesiti da utilizzarsi nel successivo esame, per farle pervenire direttamente ai candidati segnalati)».
[3] Codice deontologico dei magistrati:
«Nello svolgimento delle sue funzioni, nell'esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità» (art. 1, 2°); «Il magistrato non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri. Il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad assegnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore. Il magistrato si astiene da ogni intervento che non corrisponda ad esigenze istituzionali sulle decisioni concernenti promozioni, trasferimenti, assegnazioni di sede e conferimento di incarichi.» (art. 10).
[4] La cui introduzione a livello dommatico, nel 1976, risale ad una pubblicazione di G. AMATO, illustre costituzionalista.
[5] Infatti, ex presidente dell’A.N.M. ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, il dott. P. non teme di rivendicare pubblicamente una funzione necessariamente e saggiamente mediatrice, come riferisce la Stampa. All’interno della magistratura, le nomine agli uffici giudiziari – sostiene egli con forza, chiamando in correità i suoi numerosi sodali - necessariamente devono svolgersi con il metodo spartitorio, a prescindere dal merito. Pazienza se ne restino esclusi i magistrati privi di appoggi correntizi, ancorché più meritevoli! Se ne faranno una ...ragione! Dunque la logica correntizia e spartitoria prevale – deve prevalere - secondo il signor P., sia sulla legalità sia sullo statuto dell’A.N.M. E deve trionfare – a suo dire - perfino nell’ambito di un organo, il Consiglio Superiore della Magistratura, tuttavia deputato costituzionalmente ad assicurare, nel segno della più stretta legalità, l’indipendenza dei magistrati sia dagli altri poteri (ivi compresi gli intrighi associativi), sia dalle stesse smisurate ambizioni dei magistrati militanti nelle correnti associative.
[6] R. RUSSO, Giustizia è sfatta. Appunti per un accorato necrologio, 8 gennaio 2020, in Judicium.it.
[7] Idem, Non punibile il vilipendio dell’ordine giudiziario. Vox populi? - in questa Rivista, 15 maggio 2021.
Insufficienti garanzie per chi non aderisce alle exit-strategies di Giorgio Spangher
La relazione della Commissione istituita dal Ministro, ha due punti nevralgici: le proposte sulla prescrizione e la riforma delle impugnazioni e dell’appello in particolare.
Sul primo profilo la Commissione propone due soluzioni alternative, delle quali la seconda appare preferibile, perché la prima rimetterebbe il tema nelle mani del p.m. che potrebbe decidere i tempi dell’esercizio dell’azione penale, con conseguente blocco della prescrizione, non temperato dalla possibile tempistica dei tempi delle fasi successive, rimesse alle scelte degli organi giudicanti in ordine al loro rispetto ed alle relative conseguenze di estinzione del processo.
Della seconda, al di là di qualche errore per il mancato coordinamento con la disciplina riformata delle impugnazioni, si segnala il superamento – si spera definitivo – della ritenuta incostituzionalità della differenza tra condannati e prosciolti.
Il punto centrale del dissenso sulla proposta della Commissione riguarda la disciplina dell’appello, al di là delle questioni sui numeri dei gravami dei p.m., delle differenze nei vari distretti, dei tempi della loro celebrazione, dei loro esiti rispetto alle decisioni di prima istanza.
Se si vuole fare un discorso di sistema, e non potrebbe essere diversamente, si deve evitare la truffa delle etichette.
Si afferma, infatti, che il modello accusatorio esclude, ovvero ridimensiona il giudizio di secondo grado e quindi l’appello dell’imputato.
Ora, pur nella considerazione che ogni modello processuale fa storia a sé – anche quella risalente, nella cultura giuridica che le è propria – è corretto affermare che i singoli elementi di un percorso procedimentale vanno visti nella loro interezza e nella loro progressione.
Ora, guardando nel suo insieme il nostro processo, solo con non poche forzature può dirsi che si tratta di un modello accusatorio, anche senza volersi rifare al modello anglosassone o a quello americano, in particolare, in ordine al quale basterebbe a differenziarlo la presenza della giuria, la decisione con il verdetto immotivato, il ruolo del giudice garante della regolarità del giudizio e non artefice della decisione, e così via.
Certamente, si può ridurre il ricorso al controllo da parte di un altro giudice, ma bisognerebbe che il giudizio di primo grado e la fase delle indagini prima siano connotate da specifiche garanzie. Basterebbe considerare come l’attuale processo, sia ben lontano da quello introdotto nel 1988 e significativamente alteratosi negli anni, al punto che a fronte di alcune profonde riforme, alcuni membri della Commissione Ministeriale chiamata al monitoraggio dei primi passi del nuovo codice, si dimisero.
Igiene processuale e operatività della regola dei frutti dell’albero avvelenato, effettività del contraddittorio nell’esame delle prove dichiarative attraverso l’esame incrociato condotto dalle parti, regole di esclusione delle prove, soprattutto se disposte per il venir meno degli originari presupposti, mancanza di poteri probatori officiosi, limitatissimo recupero del precedente investigativo, solo per esemplificare, costituirebbero allora sì di ritenere l’accusatorietà del modello e di contenere il ricorso al controllo attraverso i gravami. Ma il nostro è un modello significativamente diverso, come a tutti è noto, che solo reiterando i controlli ritiene di consegnare alle parti ed alla società una sentenza più aderente ai fatti.
Il limite della proposta della Commissione è proprio questo: quello di aver compresso i controlli senza aver rimesso in equilibrio il sistema.
Sotto questo profilo, il discorso non riguarda solo l’imputato ma anche le altre parti e con riferimento al p.m. (al di là dei dati statistici, pochi appelli: si conserva la legittimazione ovvero si può eliminare), bisogna far riferimento al suo statuto ed al suo ruolo in parte ridisegnato dalla proposta di riforma.
La criticità della riforma sotto questo profilo è ulteriormente accentuata anche da una più ampia riflessione sulla filosofia complessiva del modello che emerge dall’intersecarsi del rinnovato sistema sanzionatorio sostanziale e processuale nonchè dei suoi sviluppi nella dinamica dei comportamenti delle parti.
Il superamento dell’attuale sistema carcerocentrico (non accompagnato da correlati provvedimenti in materia cautelare), integrato da meccanismi sanzionatori alternativi, premiali o comunque “favorevoli”, con una forte “spinta” alla loro volontaria adesione (accentuata anche da due nuove regole di giudizio dell’archiviazione e del rinvio a dibattimento), è connesso con una disciplina della prescrizione, che ne rende problematica l’applicazione, ma soprattutto, per chi voglia difendersi nel processo da un percorso che resta quello attuale, con la compressione del giudizio da gravame (disincentivato, oltre che sotto il profilo normativo, da ulteriori sconti di pena, nel caso dell’opposizione al decreto penale, dell’appello della sentenza di condanna dell’abbreviato (non è chiaro se si tratta solo di quello condizionato) e assorbito dall’accordo nel patteggiamento.
Sarebbe necessario consegnare a chi non vuole aderire alle nuove ipotesi di definizione, un processo che assicuri effettivamente – come anticipato – le garanzie di un giusto processo accusatorio, con possibilità di ricondurre nella filosofia di un processo giusto anche l’attività di controllo, che in questo caso potrà essere rimodulata.
Il ruolo dei giudici comuni e i loro rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo dinanzi alle “nuove domande di giustizia”*
di Alberto Randazzo
Sommario: 1. Introduzione - 2. Cenni sul primato della legislatio sulla iurisdictio e prime considerazioni sul rapporto tra i giudici e le altre Corti - 3. I rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo - 3.1. … a proposito dell’applicabilità diretta della CEDU - 3.2. … a proposito dell’interpretazione conforme - 3.3. (segue) la sent. n. 43 del 2018 - 3.4. La massimizzazione della tutela - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Quando, nel 1992, Alessandro Pizzorusso (da qui in avanti, P.) interveniva al Convegno organizzato da “Magistratura democratica”, per discutere della “posizione” che il potere giudiziario stava assumendo in quel contesto storico e sociale, notava un superamento delle impostazioni che, in sintesi, potevano ricondursi al «liberalismo politico e al positivismo giuridico», tipiche del ’800. Ciò, a suo avviso, aveva condotto ad «una nuova domanda di giustizia da parte dei titolari di diritti vecchi e nuovi» con il contestuale sviluppo di «una cultura delle garanzie» che aveva determinato «un nuovo ruolo da parte del diritto».
Se quanto ora detto veniva rilevato dall’illustre Maestro quasi trent’anni fa, non si può fare a meno di osservare come quella “domanda di giustizia” si sia oggi ulteriormente rinnovata unitamente al “ruolo del diritto” e, insieme a quest’ultimo, dei giudici.
Non è certamente questa la sede per affrontare funditus un tema che è al tempo stesso ampio, complesso e affascinante, connotato com’è da molteplici aspetti non solo di natura giuridica, ma – direi – anche sociologica e forse pure antropologica[1] che meriterebbero di essere studiati; tuttavia, è proprio muovendo da quell’intervento svolto da P. che si vuole accennare ad uno dei profili che – a mio modesto avviso – ineludibilmente hanno rinnovato, appunto, il ruolo dei giudici comuni.
D’altra parte, chiunque voglia accostarsi a questo tema non può fare a meno di confrontarsi con il fondamentale pensiero di P. che, a questo ambito del Diritto costituzionale e pubblico, ha dedicato buona parte degli studi durante la sua luminosa carriera universitaria, lui che peraltro riuniva in sé non solo il profilo di studioso e maestro di generazioni di studiosi ma anche di “pratico” del diritto, essendo stato – come tutti sanno – magistrato negli anni giovanili, dal 1958 al 1972 (in particolare, fu pretore ad Empoli e giudice del Tribunale di Pisa). Nella parte finale di quel periodo, poi, ebbe modo – in qualche misura – di porre a confronto il suo ruolo con quello del giudice delle leggi, essendo stato assistente di studio di Costantino Mortati (dal 1966 al 1971).
Precisando meglio l’oggetto di questa succinta riflessione, sembra di poter affermare senza tema di smentita che il ruolo dei giudici, oggi, non possa essere compreso in pieno se si sottovaluta l’incidenza che con il trascorrere del tempo è stata esercitata sulla giurisdizione dal nuovo modo di atteggiarsi dei rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee. Il rilievo che negli anni è stato riconosciuto (pur sempre entro certi limiti) alle seconde ha avuto non poche ricadute, come adesso si ricorderà, sui giudici comuni, ridisegnandone la posizione all’interno dell’ordinamento quali primi “custodi” dei diritti. Quanto ora si sta dicendo, d’altra parte, è strettamente legato alle sempre crescenti e nuove (o, se si preferisce, insolite) “domande di giustizia” che si levano dal tessuto sociale, spesso originate da fenomeni extra-giuridici che si possono ricondurre, volendo esemplificare al massimo, ai seguenti: un crescente individualismo, che porta il singolo ad avanzare pretese connesse ad interessi che in passato, in linea di massima, non erano avvertiti; il progresso tecnologico, che ha creato opportunità e possibilità prima inimmaginabili delle quali (comprensibilmente) l’uomo di oggi non si vuole (e, in alcuni casi, non si può) privare.
Spostandoci, invece, sul piano giuridico, non si può fare a meno di notare che l’aumento delle domande di giustizia sia figlio di una crisi del legislatore, non in grado di offrire quelle risposte che sarebbe chiamato a dare. Questo dato di fatto, a sua volta, ha molteplici cause che non si possono qui indagare, non ultima quella dovuta ad una certa incapacità di interpretare adeguatamente (e “preventivamente”, cioè in via generale e astratta) il sentire sociale e quindi, conseguentemente, andarvi incontro. Ciò è certamente dovuto sia alla crisi dei corpi intermedi (partiti in primis) che a quella del corpo sociale nella sua interezza. Non a caso, in dottrina, molti anni or sono, si è fatto notare che la crisi dei rappresentanti derivi da quella dei rappresentati[2].
Le inefficienze del legislatore, poi, non sono certo slegate da quelle della disciplina (in sede costituzionale ma anche regolamentare) relativa al funzionamento del Parlamento. Si pensi, ad es., ai possibili vantaggi, sia sul piano della tempistica che su quello della rappresentanza territoriale (e quindi della tutela dei diritti), che potrebbero aversi a seguito dell’introduzione, nel nostro ordinamento, del bicameralismo imperfetto.
Quanto appena rilevato, però, non è altro che un cenno rispetto a ciò che potrebbe (e dovrebbe) dirsi se si volessero studiare le cause che stanno alla base della crisi della legge (e, a monte, del legislatore), alla quale il potere giudiziario – come tutti sanno – è soggetto; a motivo del nesso inscindibile che c’è tra essi, la generale crisi della legge non può essere senza effetto per l’intero potere giudiziario, che conseguenzialmente può “entrare in sofferenza”. In questa sede interessa sottolineare che l’aumento delle domande di giustizia è proporzionale (anche o soprattutto) all’aumento delle omissioni del Parlamento[3]. A tutto ciò si aggiunga che i tempi di crisi (ad es., economica o sanitaria) aggravano, nei cittadini, il senso di ingiustizia (a prescindere che quest’ultima sia reale o presunta) e la frantumazione sociale, il che porta ad una rinnovata, più insistente e diffusa domanda di tutela.
2. Cenni sul primato della legislatio sulla iurisdictio e prime considerazioni sul rapporto tra i giudici e le altre Corti
Com’è ovvio, le domande di giustizia sono volte a ottenere tutela per diritti che si ritengono lesi e quindi ad assicurare idonea protezione della sfera giuridica, che si ritiene essere stata intaccata.
Per prima cosa, a scanso di equivoci, occorre rammentare che il “luogo” deputato ad individuare e a predisporre forme e modalità di salvaguardia dei diritti, alla luce di una adeguata “lettura” del contesto sociale, è il Parlamento. Come si sa, è infatti la legge, prima (e più) ancora che la giurisprudenza, a doversi fare carico del compito di saper andare incontro alla persona umana, dovendone recepire le esigenze e i bisogni. In questo senso, infatti, una troppo frequente sostituzione dei giudici al legislatore (e quindi delle sentenze alle leggi) appare una patologia del sistema; i primi dovrebbero essere chiamati ad intervenire solo per individuare, nei casi dubbi, «la volontà normativa da far valere nel caso concreto»[4] e per “ricomporre” l’ordine giuridico violato, non anche per supplire sistematicamente chi (il Parlamento, appunto) si dovrebbe occupare di stabilire le regole costitutive dell’ordine stesso[5].
Nella legislatio (e non nella iurisdictio) va pertanto individuata la “sede” naturale nella quale occorre prestare attenzione agli interessi umani per soddisfarli, una volta riconosciuti meritevoli di tutela[6].
Quanto più sono chiamati i giudici ad intervenire tanto più è possibile rilevare una crisi del sistema, così come pensato dai Padri costituenti e suggellato nella Carta.
Fatte queste precisazioni, però, non si può fare a meno di constatare – come mi sono trovato già altre volte a rilevare – che la scrivania del giudice è adesso più “affollata” di un tempo[7], non essendovi su di essa solo i “classici” codici, ma anche – almeno idealmente – le numerose fonti esterne che oggi hanno assunto un rilievo assai diverso rispetto al passato (sia perché esse sono aumentate e sia per il nuovo valore che la Corte costituzionale e le Corti europee hanno ad esse attribuito)[8].
Come tutti sappiamo, oggi, la protezione dei diritti (in risposta alle domande di giustizia) trova in più “attori del diritto”, nazionali e sovranazionali, una possibilità di soddisfazione, com’è tipico del costituzionalismo multilivello. Ovviamente, i giudici sono coloro ai quali in prima battuta ci si rivolge e che, in un certo senso, operano “in trincea”; nella maggior parte dei casi, sono proprio loro ad offrire le risposte che la persona reclama, in quanto «avampost[i] della ricezione delle domande emergenti nel vivere sociale»[9]. Tuttavia, anche quando le istanze di tutela sono rivolte alle Corti europee, i giudici comuni rimangono essenziali sia nel sollecitare le alte Corti a pronunziarsi u questioni di cruciale rilievo che nel dare idoneo “seguito” alla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, ruolo che con il tempo è cresciuto, secondo quanto si vedrà meglio a momenti.
Con specifico riferimento alla funzione che essi svolgono nei rapporti con la Corte costituzionale, appare palese quanto prezioso sia il loro compito nell’ambito dei giudizi in via incidentale, sede privilegiata – com’è noto – per la tutela dei diritti da parte della Consulta. A quest’ultimo proposito, però, non si può tacere che l’uso sempre più libero e disinvolto delle regole processuali da parte del giudice delle leggi (delle quali quest’ultimo, come ha osservato P., è «quasi sempre l’unico possibile interprete ufficiale»)[10] ha molte volte ridimensionato (o addirittura sacrificato) il ruolo dei giudici, a fronte di una maggiore estensione di quello della Consulta[11]. Ciò accade ormai con una certa frequenza quando la Corte, prescindendo dalla rilevanza della questione, utilizza tecniche decisorie con le quali modula nel tempo e nello spazio gli effetti delle proprie decisioni[12], mettendo di fatto in discussione l’elemento dell’incidentalità[13]. Emblematica è, poi, la messa da parte del limite della discrezionalità del legislatore, di cui si hanno ormai numerose e preoccupanti testimonianze.
Ciò che si intende dire è che, mentre sul “versante” esterno (rispetto alle Corti europee) il ruolo dei giudici (o, forse, sarebbe meglio dire della «funzione giurisdizionale»)[14] appare (almeno in parte) rinvigorito[15], su quello interno – cioè nei rapporti con la Consulta – sembra spesso ridimensionato.
In questa sede, ci si occuperà solo del primo e, nello specifico, del rapporto intercorrente tra i giudici e la Corte EDU[16], sebbene non meno rilevante sarebbe indagare quello tra i primi e la Corte di giustizia.
3. I rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo
3.1. … a proposito dell’applicabilità diretta della CEDU
Ci si metterà ora nei panni dei giudici comuni e si volgerà dal loro angolo visuale verso la CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, al fine di stabilire quale “uso” essi possano farne per rispondere alle numerose e pressanti “domande di giustizia” loro indirizzate.
Nel momento in cui P. scriveva il lavoro a partire dal quale muovono queste osservazioni il rilievo riconosciuto alla CEDU era pari a quello di qualunque altro trattato internazionale, come tale avente il rango della fonte interna (ossia la legge) in grado di portare ad esecuzione quella esterna. Non poche, nel tempo, erano state le istanze presentate al giudice comune (e in alcuni casi alla Consulta), con le quali si chiedeva di riconoscere maggior valore alla Convenzione, a cominciare dalla possibilità di darvi applicazione diretta. Tuttavia, il primo vero scostamento dai precedenti orientamenti il giudice delle leggi lo ha manifestato solo nel 2007, con le note sentt. nn. 348 e 349 (le c.d. “gemelle”). Da lì in poi i rapporti tra la CEDU e la Costituzione (e, in generale, il diritto interno) hanno, seppure moderatamente, cambiato fisionomia.
Come si diceva, non è possibile in questa sede ripercorrere nel dettaglio la giurisprudenza costituzionale in materia, ma guardare con gli “occhi” del giudice i rapporti in parola al fine di individuare la sua “collocazione” all’interno di essi.
Il desiderio degli operatori interni di applicare direttamente la CEDU è stato subito smorzato dalla Corte costituzionale che, com’è noto, ha escluso una tale possibilità, premurandosi di mettere in luce le differenze del diritto convenzionale rispetto al diritto dell’Unione europea e riconoscendo ai giudici la facoltà di sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione di fonte interposta[17]. Sebbene non vi sia dubbio che le fonti esterne in parola non siano equiparabili, tuttavia non pochi dubbi residuano in merito alla totale impossibilità di dare applicazione diretta alla Convenzione; ciò che si intende dire è che in taluni limitati casi essa potrebbe anche aversi. Tuttavia, non interessa indugiare su questo punto, quanto prendere atto della impostazione della Consulta, che però nella sent. n. 311 del 2009 non ha mancato di precisare che «allo stato» le norme della CEDU non sono direttamente applicabili[18]. Senza volere fare un processo alle intenzioni della Corte, una semplice interpretazione letterale della decisione farebbe pensare che il giudice delle leggi, nel 2009, non escludesse una tale possibilità futura (magari qualora fosse avvenuta o avvenisse l’adesione della UE alla CEDU, che invero appare ancora lontana).
Se quanto appena detto rispecchia l’orientamento della Consulta, non si può fare a meno di rilevare che rispetto ad esso non sono mancati «giudici ribelli»[19]. Effettivamente, qualche osservazione critica può farsi al fine di prospettare alcuni casi in cui sembrerebbe possibile (o forse inevitabile) l’applicabilità diretta. Ad esempio, qualora si fosse in presenza di una norma legislativa anteriore alla CEDU e con questa in stridente contrasto[20], si potrebbe fare utilizzo del canone della lex posterior, così come potrebbe aversi applicazione diretta in caso di vuoto legislativo[21].
Inoltre, con riferimento ai casi di sostanziale coincidenza di norme della CEDU e di norme della Carta dei diritti dell’Unione europea, laddove ci si discostasse dall’indirizzo fatto proprio dal giudice costituzionale, si potrebbe accogliere la tesi favorevole alla immediata applicazione da parte del giudice della Carta suddetta; la qual cosa produrrebbe un effetto di trascinamento nei confronti anche della Convenzione.
Non mancano, poi, altri casi in cui la CEDU – al di là di quanto dice la Consulta – potrebbe trovare diretta applicazione; ad es., in fase cautelare[22] oppure qualora fosse il giudice di Strasburgo a richiederlo[23] (non si sottovaluti che il nostro Stato, come gli altri che hanno sottoscritto la Convenzione, si sono impegnati a dare esecuzione alle decisioni della Corte EDU, ex art. 46).
Non v’è dubbio che, a prescindere dalla concreta percorribilità delle strade ora illustrate (o di altre ancora che potrebbero immaginarsi), l’intervento dei giudici comuni potrebbe acquisire particolare rilievo in tutti i casi in cui il legislatore sia rimasto inerte sul piano dell’esecuzione di sentenze di condanna della Corte EDU.
A quanto ora detto si ricollega un altro aspetto da prendere in considerazione, che peraltro è stato interessato da una certa evoluzione nella giurisprudenza costituzionale.
3.2. … a proposito dell’interpretazione conforme
Fin dalle sentenze del 2007, la Corte ha chiesto ai giudici comuni di tentare l’interpretazione conforme della fonte interna alla CEDU, secondo il significato data alla previsione convenzionale dalla Corte di Strasburgo. Solo nel caso in cui non fosse riuscita (o non riuscisse) tale operazione, non potendo – come detto – applicare direttamente la norma esterna, l’operatore interno si sarebbe dovuto (o si dovrebbe) rivolgere alla Corte costituzionale.
A tal proposito, non v’è dubbio che sia stato riconosciuto un ruolo centrale ai giudici interni, chiamati ad essere “ponte” tra le Corti e, quindi, tra le Carte (CEDU e Costituzione); tuttavia, come accennato, il loro margine di manovra era (ed in parte è) alquanto limitato, l’ultima parola spettando alla Consulta. Non è comunque da sottovalutare il compito ad essi attribuito di svolgere operazioni ermeneutiche nel senso che si è ora detto perché dalle modalità con cui esse vengono portate a termine dipende il rilievo (seppure “indiretto”) della Convenzione nel nostro ordinamento; non si può a priori escludere, poi, che i giudici possano provare “acrobatiche” e ardite interpretazioni per evitare la presenza ingombrante della Consulta, con conseguente applicazione (diretta) “mascherata” della CEDU.
Strettamente collegata a quanto ora detto è la richiesta ai giudici di considerare la previsione convenzionale, al fine di valutare la conformità ad essa della norma interna, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo (in questo senso, d’altra parte, si esprime l’art. 32, par. I, CEDU); nel 2007 – con le sentenze “gemelle” – sembrava che quest’ultima fosse da seguire “alla lettera”, non residuando per i giudici comuni alcun margine di manovra. Due anni dopo, invece, con la sent. n. 311 del 2009, la Corte si è espressa in modo alquanto innovativo per quanto attiene l’oggetto di questa riflessione; in questa decisione, infatti, si legge che gli operatori interni erano chiamati a cogliere la “sostanza” dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU, solo da essa rimanendo vincolati. In questo momento, la Consulta riconosceva agli operatori interni una certa discrezionalità, se si pensa che ad essi sarebbe spettato individuare la linea di confine tra “sostanza” (una sorta di “nucleo duro” dell’interpretazione) e “non-sostanza”. Solo alla prima essi avrebbero dovuto “guardare” in sede di interpretazione conforme. Tuttavia, tale impostazione poneva, a mio avviso, non pochi problemi di compatibilità con l’art. 46 della Convenzione, che invece – come già accennato e come tutti sanno – pone un generale obbligo per gli Stati (e quindi per i suoi operatori interni) di attenersi (verrebbe da dire, “in tutto e per tutto”) alle decisioni emesse a Strasburgo; al riguardo, come si sa, si è molte volte espressa la stessa Corte EDU, ma si ricordi anche la Raccomandazione del Comitato dei ministri R(2000)2.
Nel 2015, poi, con la sent. n. 49, il giudice delle leggi ha chiarito cosa fosse la “sostanza”, riconducendo a quest’ultima solo la presenza di orientamenti consolidati della Corte EDU. Esemplificando al massimo, ai giudici interni (volendo ancora una volta metterci dal loro angolo visuale) è stato chiesto di attenersi a quando detto dal giudice di Strasburgo solo se sull’interpretazione di quella previsione vi fosse già, appunto, un orientamento consolidato, un filone giurisprudenziale già ben definito[24]. Ecco allora cosa avrebbe dovuto (o dovrebbe) fare il giudice nel chiuso del suo ufficio: «collocare la singola pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne un senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia di pregiudizio per la Costituzione»[25]. In questo senso, allora, è apparso ulteriormente valorizzato il ruolo dei giudici, come sembra confermare quanto si legge poco dopo: «sarebbe errato, e persino in contrasto con queste premesse, ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato»[26], fermo restando però che i giudici comuni non «possano ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione. Corrisponde infatti a una primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo»[27]. Eppure «il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è stata assegnata dall’art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si “esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto” (sentenza n. 40 del 1964; in seguito sentenza n. 234 del 1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento»[28]. Se ne ha, per un verso, che la Corte costituzionale ha «responsabilizza[to] i giudici comuni» ma, per altro verso, si è riserva[ta] la competenza di verificare la «correttezza delle [loro] operazioni»[29].
In altre parole, il rispetto della “sostanza” è strettamente connesso al (e condizionato dal) rispetto degli orientamenti consolidati, se questi ultimi vi sono. In caso contrario, infatti, il giudice sembrerebbe libero di muoversi, pur sempre, com’è ovvio e come ha precisato anche la Consulta, senza potersi sostituire alla Corte EDU. Il giudice delle leggi, infatti, ha osservato (non senza una certa creatività) che è «solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo». Non si comprende sulla base di quale fondamento normativo il giudice interno non debba ritenersi vincolato alla giurisprudenza EDU anche in assenza di un orientamento consolidato, sempre che l’operatore non si trovi dinanzi ad una “sentenza-pilota” (anch’essa considerata vincolante)[30], la cui riconoscibilità è pur sempre a lui affidata; ancora una volta, l’art. 46 CEDU pare di ardua conciliabilità con quanto ora detto. È ovvio che nulla vieterebbe (o potrebbe vietare) ad un giudice di seguire l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo anche in assenza di un orientamento consolidato, la cui sussistenza sarebbe comunque affidata all’operatore interno; a tal proposito, quest’ultimo sarebbe chiamato a prendere in considerazione una serie di indici, ai quali fa rimando la Consulta[31] e la cui presenza indicherebbe la mancanza del suddetto orientamento. In altre parole, nulla può impedire che il giudice comune interpreti una previsione convenzionale alla luce dell’interpretazione fornita da una pronuncia “isolata” (o da più sentenze che non sono sufficienti a dare vita ad un orientamento consolidato) del giudice di Strasburgo qualora ritenga che ciò implichi un innalzamento della tutela dei diritti “in gioco”; quanto ora detto apre un’altra questione sulla quale mi soffermerò a breve, quella cioè relativa alla massimizzazione della tutela, nella individuazione della quale i giudici sono chiamati a svolgere un ruolo ancora una volta cruciale.
In altre parole, l’impostazione del 2015 della Corte costituzionale sembra volta ad evitare possibili (“inutili”, mi verrebbe da dire) antinomie tra CEDU e Costituzione qualora queste ultime fossero causate da singole decisioni della Corte di Strasburgo[32]. Che poi ciò sia difficilmente conciliabile con l’art. 46 CEDU è un’altra storia.
Tornando a quanto si diceva poco sopra, viene spontaneo chiedersi: se, per un verso, dalla sent. n. 49 traspare una certa apertura nei riguardi dei giudici, lasciati più liberi di agire pur nel rispetto delle leggi ordinarie (compresa quella che ha reso esecutiva la CEDU), siamo certi che gli “indici” illustrati dalla Corte costituzionale siano sempre sufficienti ad offrire aiuto agli operatori interni? E ancora: non è forse vero che da ogni decisione giurisprudenziale (a prescindere dalla sede istituzionale da cui provenga) sia possibile trarre il principio di diritto (appunto, la “sostanza”) che ne sta alla base? Non si possono certo immaginare sentenze che “nella sostanza” non dicano nulla.
Si faccia caso, peraltro, all’eventualità che una decisione dapprima non venga presa in considerazione dal giudice comune in quanto isolata e dopo, qualora sulla scia di quella (ed in conformità ad essa) la Corte EDU si pronunciasse altre volte, contribuisca a comporre un orientamento consolidato, acquisendo necessariamente un diverso valore (e forza vincolante) per il giudice comune in un tempo successivo. Si assisterebbe al curioso caso di una sentenza ad efficacia (o, meglio, a vincolatività) variabile. Qualche perplessità in merito sembra legittima.
Infine, ci si chiede se con la sent. n. 49 il giudice delle leggi non abbia solo voluto venire in soccorso agli operatori interni, ma abbia anche voluto sollevarsi a sua volta dall’essere costretto a confrontarsi con la giurisprudenza EDU, in sede di giudizio di legittimità costituzionale, in assenza di orientamenti consolidati. Ciò che si intende dire è che la decisione della Corte sottende una volontà di quest’ultima di smarcarsi (ove possibile) dalla Corte europea, ferma restando la libertà di scelta dell’operatore interno in merito alla possibilità di sollevare o meno una questione di legittimità costituzionale assumendo la Convenzione come fonte interposta in caso di insuccesso dell’operazione di interpretazione conforme della norma interna alla CEDU. Che poi il ragionamento della Corte possa anche “scoraggiare” i giudici comuni dal sollevare questioni di legittimità per contrasto con la CEDU (e quindi con l’art. 117, I comma, Cost.) non si può escludere. Tuttavia, quanto da ultimo detto potrebbe avere un effetto contrario e rivelarsi un boomerang per la Consulta se si considera, come si diceva prima, che i giudici comuni potrebbero finire per applicare la CEDU bypassando la Corte costituzionale. Certo è che, dalla decisione in parola, la giurisprudenza di Strasburgo è apparsa nel complesso sminuita.
3.3. (segue) la sent. n. 43 del 2018
Ulteriore e significativo passaggio in merito alle possibilità riconosciute ai giudici comuni nei rapporti con la Corte EDU, ma anche nella valorizzazione di quest’ultima (e, in generale, della Convenzione), appare quello rappresentato dalla sent. n. 43 del 2018 della Corte costituzionale. Senza volere (e potere) ripercorrere qui la vicenda che ha originato la pronuncia in discorso, sembra opportuno rilevare che in questa occasione la Consulta ha ritenuto vincolante, ai fini ermeneutici, per l’operatore interno, una singola decisione resa a Strasburgo, siccome dotata di «carattere innovativo»[33] rispetto al momento in cui era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale[34]: in altre parole, un novum (anche se il giudice delle leggi preferisce non usare tale lemma)[35].
La Corte costituzionale rilevava che la decisione in merito, specificamente, alla non operatività del divieto del ne bis in idem in presenza di una close connection tra due giudizi, con la conseguente procedibilità del secondo a prescindere dal primo[36], dovesse «passare da un giudizio casistico, affidato all’autorità che procede»[37]. Com’è evidente, anche ai fini della valutazione della pena[38], appare allora rilevante il ruolo riconosciuto ai giudici comuni, i quali però potrebbero trovarsi un po’ disorientati nel discernere i casi nei quali essi sarebbero vincolati, sul piano interpretativo, solo in presenza di un orientamento consolidato e quando, invece, una pronuncia isolata (rappresentando, appunto, un novum) possa (o, addirittura, debba) avere una efficacia altrettanto vincolante. Il tutto con i non pochi rischi ai quali va incontro la certezza del diritto.
3.4. La massimizzazione della tutela
Infine, non si trascuri il fondamentale ruolo che i giudici comuni svolgono (rectius, potrebbero svolgere) nell’individuazione della tutela più intensa dei diritti “in gioco”[39].
Al di là di alcuni passaggi non irrilevanti della sent. n. 348 del 2007, è nella sent. n. 317 del 2009 che la Consulta ha osservato che la CEDU non può causare una diminuzione di protezione dei diritti ma un «ampliamento» della stessa[40], non essendo ammissibile «che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale»[41]. Si tratta allora di individuare la «massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti»[42]; ma – verrebbe da dire – non solo (quell’“anche” fa pensare, infatti, che la “massima espansione delle garanzie” potrebbe aversi – com’è ovvio – grazie al contributo offerto da fonti pure diverse dalla Costituzione)[43].
Il giudice delle leggi ha inoltre significativamente e opportunamente osservato che «appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea»[44]. Come si sa, più volte, la Consulta ha avuto modo di richiamare il principio della massimizzazione della tutela, del quale già discorreva Paolo Barile nel 1984[45]. Non è possibile in questa sede soffermarsi sul contenuto del principio in parola[46], tuttavia non si può fare a meno di rilevare quanto sia prezioso il contributo che i giudici possano offrire nell’individuazione della fonte (esterna o interna) nella quale riposi la più intensa tutela dei diritti ritenuti di volta in volta prevalenti, con il minor sacrificio degli altri; si tratta, in altre parole, di individuare il “miglior bilanciamento possibile” (o, per dirla con la Corte, il «ragionevole bilanciamento»)[47] tra tutti i diritti che vengono in rilievo. In una operazione di questo tipo, sembra ineliminabile una certa dose di discrezionalità degli operatori interni, chiamati per primi «ad individuare, maneggiare e conformare in vivo diritti fondamentali»[48]. Se si concorda sul fatto che, «l’effettività dei diritti è il termometro che consente di stabilire se e quanto è davvero “costituzionale” l’ordinamento dello Stato»[49], ben si comprende il ruolo che la Corte costituzionale svolge nell’usare il canone in parola, possibilità però che dovrebbe poter essere data anche ai giudici comuni nello svolgimento del loro irrinunciabile ruolo di salvaguardia dei diritti[50]. Nella complessa opera volta a conciliare domande di tutela contrastanti, il criterio della “massimizzazione della tutela” diventa una preziosa “bussola”, le cui istruzioni d’uso non sempre sono facilmente intellegibili. Ciò che si intende dire è che i parametri di riferimento sulla cui base misurare l’intensità della tutela possono essere diversi e, comunque, pur sempre esposti ad una ineliminabile dose di discrezionalità di chi tiene in mano quella bussola. Certo è, però, che privare i giudici dell’utilizzo di tale “metacriterio” (o “metaprincipio”)[51] potrebbe comportare un vulnus alla tutela dei diritti.
4. Conclusioni
Non v’è dubbio che molti altri sarebbero i profili da trattare, tuttavia non è possibile farlo in questa sede. Tra gli altri, non è da sottovalutare il rilievo che potrebbe avere il Protocollo n. 16, qualora fosse ratificato anche dal nostro Paese, per favorire il dialogo tra le “giurisdizioni superiori” e la Corte di Strasburgo e prevenire possibili contrasti tra quest’ultima e la Corte costituzionale. Di certo, il ruolo dei giudici verrebbe ulteriormente valorizzato a beneficio della tutela dei diritti.
Pur nella consapevolezza che il tema avrebbe richiesto ben altro approfondimento di quello che qui può esservi dato, è necessario avviarsi a qualche osservazione conclusiva, rinviando ad altri studi per ulteriori considerazioni in argomento.
È adesso possibile riannodare le fila del discorso e ripartire dalle parole di P. che, nel lavoro del 1992 dal quale ha preso spunto questa riflessione, notava l’importante ruolo dell’«organizzazione internazionale» e, in particolare, per ciò che ci riguarda da vicino, del diritto comunitario (oggi, eurounitario o dell’Unione europea) e, nello specifico, della Corte di giustizia, che ha favorito un «ravvicinamento fra i diritti statali» grazie alla «conciliazione di tecniche proprie degli ordinamenti appartenenti alla tradizione romanistica con tecniche proprie della common law». Proprio quanto da ultimo detto non sembra senza effetto. L’innegabile vicinanza, o forse anche commistione, delle due grande famiglie del diritto, quella di common law e di civil law, anche dovuta alla spinta data in tal senso dalle Corti europee, hanno di certo rinvigorito il ruolo dei giudici. La stessa Consulta, nel ridefinire i rapporti tra la Costituzione e la CEDU, profilo al quale si è fatto qui riferimento, ha riconosciuto agli operatori interni – implicitamente o esplicitamente – una serie di attribuzioni (o, se si preferisce, di possibilità) che fino al 2007 non erano ben precisate. In estrema sintesi, questo è quanto emerge dalla giurisprudenza costituzionale che negli ultimi quindici anni circa si è interessata alla materia. D’altra parte, non poteva essere altrimenti se si considera che la soggezione dei giudici alla legge implica la soggezione degli stessi anche alle leggi di esecuzione dei trattati internazionali (e quindi delle Carte dei diritti), con le non poche conseguenze che ne derivano sul piano delle fonti esterne, nelle quali il singolo operatore può rintracciare la regola da applicare al caso[52].
Già nel 1992, P. osservava che vi erano state «innovazioni tecniche di grande rilievo […] nell’ambito della tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in particolare per effetto della creazione di un’istituzione come la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale applica una sorta di “diritto comune”, in certa misura costruito sulla comparazione fra i diritti degli stati aderenti al Consiglio d’Europa». Ciò ha condotto, «anche nell’ambito delle giurisdizioni statali, all’impiego diretto del diritto di altri paesi, quanto meno come strumento d’interpretazione del diritto nazionale»[53].
I rapporti con “l’esterno”, come “disegnati” nel tempo dalla Corte costituzionale, unitamente al contesto-storico politico nel quale ci muoviamo, hanno di certo maggiormente favorito la valorizzazione del ruolo dei giudici[54], «primi e principali attori della implementazione del diritto europeo e del diritto Cedu»[55]; il fatto poi che questi ultimi, come detto, si trovino spesso a dover porre riparo alle omissioni del legislatore non autorizza a parlare di Stato giurisdizionale, com’è stato fatto notare in dottrina[56]. Semplicemente, il “mestiere del giudice”[57] appare (in parte) ridefinito[58] o, comunque, arricchito dalle potenzialità che offrono gli “strumenti” a sua disposizione[59] (in questo caso, le fonti sovra- e internazionali) per la tutela dei diritti fondamentali – e, in primis, della dignità umana – in una “società che cambia”[60] molto più rapidamente che nel passato e nella quale «la mancanza, o l’eccessiva la debolezza, della politica» provoca un certo «deficit democratico» inversamente proporzionale rispetto all’aumento del rilievo dei giudici[61].
In definitiva, pur nella necessaria distinzione dei ruoli della legislatio e della iurisdictio, non si può fare a meno di rilevare che il giudice, all’interno di un sistema a più livelli all’interno dei quali nessuno può reclamare una primazia[62], appare oggi come «cuore pulsante dei diritti fondamentali»[63], la cui tutela più intensa è il primo a dovere garantire.
A conferma di quanto si sta dicendo, ritorna la lungimiranza di Alessandro Pizzorusso, il quale già nel 1992 segnalava la tendenza di una «sempre maggiore diffusione della tutela dei diritti mediante l’opera di organi imparziali». Da qui nasceva (e nasce) l’esigenza di «fare ogni possibile sforzo per cercare di adeguare la realtà italiana, nella misura in cui essa si presenta arretrata rispetto a queste esigenze, respingendo l’offensiva attualmente in corso contro il potere giudiziario […] affrontando i nuovi problemi che occorre risolvere per assicurare un avvenire migliore»[64]. Queste parole sembrano pronunciate oggi.
* Il contributo è destinato al Volume, in corso di pubblicazione, che raccoglierà gli Atti del Seminario “Ricordando Alessandro Pizzorusso” (Pisa, 15 dicembre 2020). Il titolo riprende l’opera di A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, volume secondo, Napoli 2019, 1093 ss., a partire dalla quale queste brevi riflessioni prendono le mosse.
[1] I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano 2012.
[2] M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA. VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon-F. Biondi, Milano 2001, 109 ss.
[3] Cfr. A. Ruggeri, Omissioni del legislatore e tutela giudiziaria dei diritti fondamentali, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2020, 193 ss. Cfr. G. Sorrenti, Il giudice soggetto alla legge… in assenza di legge: lacune e maccanismi integrativi, Napoli 2020, spec. 24, ma passim.
[4] T. Martines, Diritto costituzionale, Milano 2020, 421.
[5] In argomento, cfr. G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore a tutela dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di G. Silvestri, II, Torino 2016, 1486 ss.
[6] Cfr. R. Bin, Chi è il giudice dei diritti? Il modello costituzionale e alcune deviazioni, in Rivista Aic, n. 4/2018, 621 ss., e Id., Il giudice, in BioLaw Journal, n. 2/2019, spec. 188.
Sul rapporto, oggi in parte nuovo, tra legislatio e iurisdictio, cfr. G. Laneve, Legislatore e giudici nel contesto delle trasformazioni costituzionali della globalizzazione: alcune riflessioni, in Rivista Aic, n. 4/2018, 421 ss.
[7] L’immagine della “scrivania” è condivisa da diversi autori; v. A. SAITTA, Il concetto di “noi” e di “altri” nella Costituzione e nella C.E.D.U., in Consulta Online, 4 novembre 2014, § 4; A. RUGGERI, Dal legislatore al giudice, sovranazionale e nazionale: la scrittura delle norme in progress, al servizio dei diritti fondamentali, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XVIII, Studi dell’anno 2014, Torino 2015, 595; R. CONTI, Ruggeri, i giudici comuni e l’interpretazione, in www.giustiziainsieme.it, 4 ottobre 2019, § 3; ID., Giudice o giudici nell’Italia postmoderna? La scelta del tema, in www.giustiziainsieme.it, 10 aprile 2019. Infine, sia consentito rinviare al mio La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Milano 2017, XIII.
[8] In argomento, la letteratura è ormai sterminata; riferimenti possono aversi, se si vuole, dal mio La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, cit.
[9] G. Sorrenti, Il giudice soggetto alla legge, cit., 24.
[10] A. Pizzorusso, Fonti del diritto, II ed., Bologna-Roma 2011, 538. In argomento, dell’illustre A., v. Uso ed abuso del diritto processuale costituzionale, in AA.VV., Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Torino, 1996; R. Romboli, Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Napoli 2011, 2995 ss.
[11] In argomento, cfr. almeno A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., n. 2/2019, 251 ss.; Id., Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in www.federalismi.it, n. 12/2021, 170 ss.
[12] Come osserva A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, cit., 1095, nel XX secolo l’uso delle sentenze manipolative, unitamente all’annullamento degli atti legislativi e all’interpretazione adeguatrice, hanno contribuito a mettere in crisi il positivismo giuridico.
[13] In argomento, per tutti, v. A. Pizzorusso, Uso ed abuso del diritto processuale costituzionale, in AA.VV., Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Torino 1996. Nella giurisprudenza costituzionale i casi sono numerosi; si pensi, ad es., alla sent. n. 10 del 2015.
[14] Cfr. G. Moschella, Magistratura e legittimazione democratica, Milano 2009, 169.
[15] Di recente, in argomento, cfr. E. Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in Questione giustizia, n. 4/2020, 89 ss.
[16] Per tutti, v. R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011; Id., Il ruolo del giudice comune nell’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in AA.VV., Tra diritti fondamentali e principi generali della materia penale. La crescente influenza della giurisprudenza delle Corti europee sull’ordinamento penale italiano, a cura di G. Grasso-A.M. Maugeri-R. Sicurella, Pisa 2020, 337 ss.
[17] V., di recente, A. Fusco, Il mito di Procruste. Il problema dell’interposizione delle norme generative di
obblighi internazionali nei giudizi di legittimità costituzionale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), n. 4/2020, 23 ottobre 2020, 250 ss., e Id., Il caleidoscopio normativo. La categoria dell’interposizione nell’esperienza del Giudice delle leggi, in Quad. cost., n. 1/2021, 153 ss.
[18] Corte cost. n. 311 del 2009; v., inoltre, n. 93 del 2010, n. 80 del 2011.
[19] I. Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale, in Pol. dir. 1/2010, 76 ss. e 80 ss.
[20] Ovviamente si immagina il caso che il conflitto sia rispetto ad una certa lettura della CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo in relazione ad una specifica vicenda processuale.
[21] Verosimilmente, nella ipotesi ora fatta, il giudice farebbe congiuntamente applicazione sia della norma convenzionale che di una norma costituzionale, nell’assunto della loro sostanziale coincidenza e della insussistenza di una lacuna della Carta fondamentale della Repubblica. Com’è noto, il giudice delle leggi è restio a riconoscere l’esistenza delle lacune in parola, specie con riferimento alla prima parte della Costituzione (ma v. quanto osserva A. Ruggeri, Lacune costituzionali, in Rivista Aic, 2/2016).
[22] … come rileva R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura di R. Cosio e R. Foglia, Milano 2013, 249 s.
[23] Si pensi alla sent. Popescu c. Romania del 26 aprile 2007, richiamata da P. Tanzarella, I diritti della Corte europea dei diritti: Europa e America a confronto, in Quad. cost., n. 2/2009, 113 s.
[24] Al fine di chiarire meglio “la nozione stessa di giurisprudenza consolidata”, la Corte rimanda all’art. 28 CEDU (p. 7 del cons. in dir.).
[25] P. 6.1 del cons. in dir.
[26] P. 7 del cons. in dir.
[27] P. 7 del cons. in dir.
[28] P. 7 del cons. in dir.
[29] Cfr. A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno. A prima lettura di Corte cost. n. 49 del 2015, ora in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XIX, Studi dell’anno 2015, Torino 2016, 169.
[30] Cfr. p. 7 del cons. in dir.
[31] La Consulta fa riferimento ai seguenti: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano» (p.to 7 del cons. in dir.).
[32] Cfr., da ultimo, A. Ruggeri, La CEDU e il gioco degli specchi deformanti alla Consulta, in Rivista Oidu, 2021, 271.
[33] P. 7 del cons. in dir. della dec. del 2018 appena citata nel testo.
[34] In ispecie si trattava della sent. della Grande Camera, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.
[35] Cfr. R. Romboli, Vincolatività della interpretazione della Cedu da parte della Corte Edu, in Giur. cost., 2018, 866 ss.
[36] È comunque da precisare che nel caso ora richiamato si trattava di un procedimento tributario e di uno penale.
[37] P. 7 del cons. in dir.
[38] Cfr. A.F. Triprodi, Il nuovo volto del ne bis in idem convenzionale agli occhi del giudice delle leggi. Riflessi sul doppio binario sanzionatorio in materia fiscale, in Giur. cost., 2018, 536.
[39] … come mette in rilievo A. Ruggeri in molti scritti, tra i quali v., ad es., più di recente, Tecniche decisorie dei giudici e “forza normativa” della Carta di Nizza-Strasburgo, in www.forumcostituzionale.it, 8 aprile 2020, 524.
[40] V. p. 7 del cons. in dir.
[41] P. 7 del cons. in dir.
[42] P. 7 del cons. in dir. (c.vo aggiunto).
[43] Degna di nota è poi la sent. n. 25 del 2019 (p. 13 del cons. in dir.), nella quale la Consulta ha osservato che la Costituzione e la CEDU offrono una «concorrenza di tutele» non sempre «sovrapponibili»; potrebbe infatti esservi uno «scarto di tutele rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia». Lascia perplessi, però, il riferimento ad un «predominio assiologico» che la Costituzione eserciterebbe – a dire del giudice delle leggi – sulla CEDU (passaggio, quest’ultimo, ripreso dalla sent. n. 49 del 2015).
[44] Corte cost. n. 317 del 2009, p. 7 del cons. in dir.
[45] P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, 41.
[46] Al riguardo, ci si permette di rinviare al mio Il “metaprincipio” della massimizzazione della tutela dei diritti, in www.dirittifondamentali.it, n. 2/2020, 689 ss.
[47] Corte cost. n. 348 del 2007, p. 4.7 del cons. in dir.
[48] R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2019.
[49] A. Ruggeri, Integrazione sovranazionale e democrazia parlamentare, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2020, 777.
[50] Cfr. G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore, cit., 1486 ss.
[51] In tal senso lo ha definito molte volte A. Ruggeri: ad es., in La oscillante “forza normativa” della CEDU, vista dalla Consulta, in www.rivistaoidu.net, n. 1/2020, 205 s.
[52] Così, quasi testualmente, G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 446.
[53] A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, cit., 1096.
[54] Cfr. G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore, cit., 1486 ss. (e spec. 1502).
[55] G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 443.
[56] Cfr. G. Sorrenti, Il giudice soggetto alla legge, cit., 38.
[57] AA.VV., Il mestiere del giudice, a cura di R. Conti, Padova 2020.
[58] G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 429, discorre di un “riposizionamento che il potere giurisdizionale ha portato a termine nell’assetto complessivo dei poteri e, dunque, in primis nei confronti del potere legislativo”.
[59] Cfr., di recente, B. Nascimbene, La tutela dei diritti fondamentali in Europa: i cataloghi e gli strumenti a disposizione dei giudici nazionali (cataloghi, arsenale dei giudici e limiti o confini), in Eurojus (www.rivista.eurojus.it), 3/2020.
[60] Il riferimento è al noto intervento di R. Livatino, Il giudice nella società che cambia, in Id., Non di pochi, ma di tanti. Riflessioni intorno alla Giustizia, Caltanissetta-Roma 2012, 17 ss.
[61] G. Laneve, Legislatore e giudici, cit., 439.
[62] Cfr. E. Malfatti, I “livelli” di tutela dei diritti fondamentali nella dimensione europea, Torino 2015, 283.
[63] R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, II ed., Roma 2015, 112 (c.vo testuale).
[64] A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, cit., 1107 s.
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