ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La nomina dei giudici maltesi e il principio di non regressione nella tutela dello Stato di diritto: l’“onda lunga” del caso Repubblika
Nota a Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 20 aprile 2021, Repubblika contro Il-Prim Ministru, causa C-896/19.
di Giulia Battaglia
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il giudizio a quo: l’actio popularis promossa da Repubblika. – 3. La decisione della Corte di Giustizia. – 3.1. La ricevibilità delle questioni. – 3.2. La prima questione: la portata «apparently limitless» dell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE. – 3.3. La seconda questione: il principio dell’obbligo di non regressione nella tutela della rule of law. – 3.3.1. La giurisprudenza eurounitaria in tema di modalità di nomina dei giudici. – 3.3.2. La “digressione” argomentativa della Corte nel caso Repubblika. – 4. Alcune osservazioni conclusive. Dubbi e prospettive del caso maltese.
1. Introduzione.
La sentenza in commento[i] si inserisce nel solco di un recente indirizzo giurisprudenziale, sviluppato dalla Corte di Lussemburgo in tema di indipendenza dei giudici. In particolare, a partire dalla pronuncia Associação Sindical dos Juízes Portugueses[ii], i giudici eurounitari hanno valorizzato il principio di tutela giurisdizionale effettiva sancito nell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE[iii], estendendone significativamente la sfera di operatività; sia nell’ambito della procedura di infrazione, sia – per ciò che maggiormente rileva in questa sede – nell’ambito del procedimento pregiudiziale. È evidente il tentativo della Corte di fronteggiare la deriva della rule of law nelle cc.dd. “democrazie illiberali”, attraverso il sistema integrato composto da tale giudice e dagli organi giurisdizionali degli Stati nazionali[iv].
Una siffatta elaborazione fa perno su alcuni postulati esplicitati nella decisione poc’anzi rammentata e successivamente ulteriormente sviluppati in alcune note sentenze rese nei confronti dell’ordinamento polacco[v], che conviene di seguito sinteticamente ripercorrere.
In primo luogo, la Corte di Giustizia ha sottolineato che l’articolo 19 TUE «concretizza il valore dello Stato di diritto affermato all’articolo 2 TUE», rendendolo “azionabile”[vi], e «affida l’onere di garantire il controllo giurisdizionale nell’ordinamento giuridico dell’Unione non soltanto alla Corte, ma anche agli organi giurisdizionali nazionali»[vii]. Sulla base di questa premessa si è sostenuto che, sebbene l’organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza di questi ultimi, nell’esercitare tale attribuzione essi sono comunque tenuti a rispettare gli obblighi derivanti dal diritto eurounitario[viii] e, quindi, ad assicurare che i propri giudici, in quanto parte del sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati da tale diritto, soddisfino i requisiti necessari a garantire un controllo giurisdizionale effettivo. In questo senso, può apparire perfino superfluo sottolineare come nel novero di tali presupposti figuri quello dell’indipendenza, «intrinsecamente connesso al compito di giudicare»[ix], che rappresenta invero uno dei corollari al diritto fondamentale a un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47, secondo comma CDFUE.
Nell’evidenziare l’interdipendenza tra quest’ultima disposizione e l’art. 19, primo paragrafo, secondo comma TUE [x], la Corte ha chiarito, nondimeno, che, diversamente dalla norma contenuta nella Carta di Nizza, l’art. 19 «riguarda “i settori disciplinati dal diritto dell’Unione”, indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano tale diritto, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta»[xi]. Pertanto, come puntualizzato nelle successive pronunce, svincolato dai più severi margini applicativi posti dall’art. 51 della Carta, e nella prospettiva della nuova e significativa connessione con l’art. 2 TUE, l’art. 19 può essere invocato, quale «stand-alone provision»[xii], nei confronti di misure nazionali che incidono negativamente sull’organizzazione della magistratura, a prescindere dall’esistenza di una specifica correlazione tra dette misure e l’attuazione del diritto eurounitario.
È in questo contesto che – come detto – si colloca e deve essere letta la pronuncia dello scorso 20 aprile.
2. Il giudizio a quo: l’actio popularis promossa da Repubblika.
Le questioni pregiudiziali sottoposte all’esame della Corte di Giustizia dalla Prima sezione del Tribunale civile di Malta, in veste di giudice costituzionale (Prim’Awla tal-Qorti Ċivili – Ġurisdizzjoni Kostituzzjonali), sono sorte nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la asserita non conformità al diritto eurounitario, per violazione del principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura, della procedura di nomina dei giudici maltesi vigente tra il 2016 e il 2020 delineata dagli artt. 96, 96 A e 100 della Costituzione dello Stato; sulla quale, pertanto, occorre brevemente soffermarsi.
Fino alla più recente revisione costituzionale intervenuta nel 2020[xiii], che ha estromesso l’esecutivo dalla procedura in parola, l’art. 96, primo comma Cost. disponeva che i giudici fossero nominati dal Presidente della Repubblica, su parere del Primo Ministro.
Il ruolo del Presidente era, dunque, di tipo «puramente formale»[xiv], risiedendo l’effettivo potere di scelta nelle mani del Primo Ministro, il quale, fino all’introduzione dell’art. 96 A Cost., a seguito della precedente modifica costituzionale del 2016, era vincolato al rispetto dei soli requisiti professionali[xv] fissati dagli artt. 96 e 100 Cost. Con tale novella, infatti, è stato disposto che le candidature delle persone interessate a svolgere la funzione di giudice, sia presso le corti inferiori, sia presso quelle superiori, devono essere ricevute e preliminarmente esaminate dal Comitato per le nomine in magistratura appositamente costituito, che cura il registro delle manifestazioni di interesse da cui il Primo Ministro poteva attingere allorché un posto si fosse reso vacante. Nondimeno, anche all’indomani della modifica testè rammentata, il capo dell’esecutivo aveva conservato un considerevole margine di discrezionalità: egli aveva, infatti, la possibilità di non conformarsi al giudizio espresso dal Comitato, sia pure a condizione di rendere pubbliche le ragioni della decisione esponendole entro cinque giorni dinanzi alla Camera dei Deputati.
Non stupisce, quindi, che nel 2018 la procedura descritta fosse stata oggetto di valutazione, sul versante della grande Europa, da parte della Commissione di Venezia, chiamata a esprimere un parere sull’indipendenza della magistratura maltese e, più in generale, sullo “stato di salute” delle istituzioni della Repubblica, in ragione degli allarmanti segnali di deterioramento della rule of law, venuti alla luce soprattutto a seguito dell’omicidio della giornalista d’inchiesta Daphne Caruana Galizia[xvi]. L’organo consultivo del Consiglio d’Europa aveva concluso che l’introduzione del filtro del Comitato nel 2016, pur rappresentando «a step in the right direction»[xvii], non costituiva ancora una garanzia sufficiente di indipendenza del sistema giudiziario maltese. In particolare, la Commissione aveva sottolineato l’inadeguatezza, per un verso, della composizione del Comitato, posto che la quasi totalità dei membri era di designazione parlamentare[xviii]; per l’altro, del ruolo comunque preponderante del Primo Ministro, lesivo del principio di separazione dei poteri[xix].
È proprio sulla base di tali rilievi che, nel 2019 – un anno prima che il legislatore maltese procedesse nuovamente alla revisione della Costituzione[xx] – l’associazione Repubblika, attiva nella difesa dei valori della giustizia e dello Stato di diritto a Malta, ha promosso, ai sensi dell’art. 116 della Carta fondamentale[xxi], l’azione popolare da cui ha avuto origine la domanda di pronuncia pregiudiziale.
Segnatamente, l’associazione chiedeva al giudice nazionale, in primo luogo, di dichiarare che Malta, in ragione dell’assetto costituzionale vigente relativamente alle modalità di nomina dei giudici, aveva infranto gli obblighi sanciti dall’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE e dall’art. 47 CDFUE, poiché il potere discrezionale del Primo Ministro sollevava dubbi circa l’indipendenza dei designati. In secondo luogo, e conseguentemente, Repubblika chiedeva che fossero dichiarate nulle le nomine effettuate in base a tale sistema, in particolare, quelle formalizzate il 25 aprile 2019, nonché ogni altra nomina che fosse eventualmente intervenuta nelle more della causa, e di disporre che non ne fossero effettuate ulteriori, se non conformemente alle raccomandazioni contenute nel parere della Commissione di Venezia.
Nell’ambito di tale controversia, quindi, il giudice del rinvio si è rivolto alla Corte di Giustizia interrogandola, anzitutto, in ordine all’applicabilità dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE e dell’articolo 47 della Carta, letti separatamente o in combinato disposto, con riferimento alla validità giuridica degli articoli 96, 96A e 100 della Costituzione di Malta. In caso di risposta affermativa alla prima questione, veniva poi chiesto se il potere del Primo Ministro fosse conforme alle disposizioni eurounitarie poc’anzi evocate, considerandolo, altresì, alla luce dell’articolo 96A della Costituzione entrato in vigore nel 2016 e, infine, quali fossero le ricadute della eventuale rilevata non conformità.
3. La decisione della Corte di Giustizia.
3.1. La ricevibilità.
Rigettata la domanda di procedimento accelerato e applicato, invece, il trattamento prioritario ai sensi dell’art. 53, par. 3 del regolamento di procedura, la Corte di Giustizia affronta in via preliminare il profilo della ricevibilità, replicando alle eccezioni sollevate dal governo polacco. Le censure di quest’ultimo si appuntavano, in particolare, sul sostanziale aggiramento della procedura per infrazione posto che, stante il petitum dell’azione promossa da Repubblika, attraverso la domanda di pronuncia pregiudiziale il giudice nazionale avrebbe sostanzialmente sollecitato la Corte a esprimersi sulla conformità del diritto nazionale al diritto dell’Unione.
Nel respingere tali obiezioni, il Giudice di Lussemburgo, per un verso, ribadisce come nell’ambito della procedura ex art. 267 TFUE, fondata su una netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, spetti esclusivamente ai primi valutare tanto la necessità di una pronuncia pregiudiziale, quanto la rilevanza delle questioni da sottoporle alla luce delle peculiarità del giudizio a quo. Per l’altro, la Corte di Giustizia puntualizza, sia pure implicitamente, che l’oggetto dell’actio popularis intrapresa da Repubblika – ovvero, come si è detto, l’accertamento in ordine alla (in)compatibilità di una disciplina nazionale con il diritto eurounitario – non comporta alcuna elusione degli artt. 258 e 259 TFUE: nell’ambito della competenza pregiudiziale, infatti, al Giudice dell’Unione spetta unicamente fornire a quello del rinvio gli elementi interpretativi per risolvere la controversia e non dichiarare esso stesso la conformità o meno del diritto costituzionale maltese al diritto eurounitario.
Del resto, come argomenta in modo più esplicito l’avvocato generale Hogan[xxii], in altre occasioni i giudici eurounitari avevano avuto modo di chiarire che «la circostanza che l’azione esperita nel caso di specie abbia carattere declaratorio non osta a che la Corte statuisca su una questione pregiudiziale se tale azione è consentita dal diritto nazionale e detta questione corrisponde ad un bisogno oggettivo ai fini della soluzione della controversia con cui esso è ritualmente adito»[xxiii]. Tanto più, prosegue Hogan, che nel sistema maltese «le decisioni di nomina non sarebbero considerate […] soggette a controllo giurisdizionale» e che, pertanto, «è attualmente esperibile solo il rimedio dell’actio popularis» per quanto tale strumento «rappresent[i] semplicemente un mezzo per contestare la costituzionalità di una legge e non si tratta di una procedura in cui può essere esaminata la validità di una nomina giudiziaria individuale»[xxiv].
3.2. La prima questione: la portata «apparently limitless» dell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE.
Ribaditi, dunque, gli ampi margini della propria competenza pregiudiziale, altrove definita «chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati»[xxv], la Corte di Giustizia passa ad esaminare il primo quesito concernente l’applicabilità al caso de quo dell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE e dell’art. 47 CDFUE.
A tal fine, la Corte richiama gli approdi ermeneutici poc’anzi rievocati. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalla pronuncia sul trattamento economico dei giudici portoghesi, l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE deve essere interpretato nel senso che esso impone a «ogni Stato membro [di] garantire che gli organi che fanno parte […], del suo sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione e che, pertanto, possono trovarsi a dover statuire […] sull’applicazione o sull’interpretazione [di tale] diritto, soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva»[xxvi]. In questa prospettiva, per stabilire l’applicabilità dell’art. 19 TUE alla causa de qua, è sufficiente determinare se «l’organo nazionale al centro di [essa]» sia, «fatte salve le verifiche spettanti al giudice del rinvio», «idoneo a pronunciarsi, in qualità di organo giurisdizionale, su questioni riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del diritto [eurounitario] e rientranti dunque in settori [da esso] disciplinati»[xxvii].
Così, nel caso di specie, non vi è dubbio che i giudici maltesi, della cui procedura di nomina si discute nel procedimento principale, possano essere chiamati a pronunciarsi su questioni relative all’interpretazione o all’applicazione del diritto dell’Unione e ciò, come evidenziato dall’avvocato generale, «è di per sé […] sufficiente a garantire che [essi], nominati secondo la procedura prevista dalla Costituzione, [debbano] godere di sufficienti gradi di indipendenza giudiziaria per soddisfare i requisiti dell’articolo 19 TUE»[xxviii].
Se, come si è già avuto modo di osservare, l’ambito di applicazione ratione materiae dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE trascende i margini definiti dall’articolo 51, paragrafo 1, CDFUE; l’applicabilità dell’art. 47 CDFUE presuppone, invece, che la persona che lo invoca «si avvalga di diritti o di libertà garantiti dal diritto dell’Unione»[xxix]. Circostanza, quest’ultima, che non sussiste nel caso di Repubblika, la quale ha promosso dinanzi al giudice interno un’actio popularis concernente unicamente la non conformità al diritto dell’Unione della procedura di nomina dei giudici e il conseguente annullamento di quelle effettuate secondo tale protocollo.
Nondimeno, in virtù della stretta correlazione sussistente tra le due norme, già evidenziata nelle precedenti occasioni, la Corte sottolinea come «quest’ultima disposizione [debba] essere debitamente presa in considerazione ai fini dell’interpretazione dell’art. 19, par. 1»[xxx]. Invero, il diritto riconosciuto dall’art. 47 della Carta non può che essere garantito tramite l’imposizione dell’obbligo di cui all’art. 19 TUE, il quale, per contro, è riempito di contenuto dalle enunciazioni del primo, che, nel suo secondo comma, specifica il significato del diritto a un ricorso effettivo, disponendo che «[o]gni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge». In altre parole, tra le due previsioni vi è una “passerella costituzionale”[xxxi], di talché «l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE impone a tutti gli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva, segnatamente ai sensi dell’articolo 47 della Carta, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione»[xxxii].
3.3. La seconda questione: il principio dell’obbligo di non regressione nella tutela della rule of law.
3.3.1. La giurisprudenza eurounitaria in tema di modalità di nomina dei giudici.
Ciò posto, la Corte si concentra sulla seconda questione – il “cuore” del petitum pregiudiziale – prendendo, anche a questo riguardo, le mosse dai propri precedenti in merito alla verifica dell’indipendenza degli organi giurisdizionali, sotto lo specifico profilo delle modalità di nomina.
Nelle pregresse decisioni, la Corte di Giustizia, in assonanza, peraltro, con la giurisprudenza sviluppata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’art. 6 della Convenzione[xxxiii], aveva specificato che il fatto che le nomine dei magistrati siano operate dall’esecutivo «non è, di per sé, idone[o] a creare una dipendenza dei designati nei confronti [di quest’ultimo], né a generare dubbi quanto alla loro imparzialità, se, una volta nominati, gli interessati non sono soggetti ad alcuna pressione e non ricevono istruzioni nell’esercizio delle loro funzioni»[xxxiv]. A questo proposito, ad avviso dei giudici eurounitari, occorre infatti verificare, secondo un «contextual approach»[xxxv], se «i requisiti sostanziali e le modalità procedurali che presiedono all’adozione delle decisioni di nomina siano tali da non poter suscitare nei singoli dubbi legittimi in merito all’impermeabilità dei giudici interessati rispetto a elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, una volta avvenuta la nomina degli interessati»[xxxvi].
In questo senso, la Corte di Giustizia aveva ulteriormente puntualizzato che la previsione, nell’ambito della procedura di nomina dei giudici, di un parere (rectius: di una proposta), formulato da parte di un organo asseritamente indipendente – quale, ad esempio, un Consiglio di Giustizia – è certamente idonea a rendere meno arbitrario il potere dell’esecutivo e, dunque, più obiettivo il sistema nel suo complesso; purché, ovviamente, «detto organo sia a sua volta sufficientemente» – ed effettivamente – «indipendente dai poteri legislativo ed esecutivo e dall’autorità alla quale è chiamato a presentare una tale proposta di nomina»[xxxvii].
Anche rispetto a quest’ultimo profilo, non si può fare a meno di evidenziare come il Giudice lussemburghese si astenga dal definire precisi requisiti istituzionali o, quantomeno, delineare degli standard minimi; preferendo, invece, calare gli indicatori “neutri”, di volta in volta enucleati o ripresi dalle precedenti pronunce, nel complessivo contesto ordinamentale di riferimento[xxxviii]. Così, ad esempio, in relazione alla composizione di un siffatto organo, in un caso si è affermato che «la preponderanza dei membri scelti dal potere legislativo» «non può, di per sé sola, indurre a dubitar[ne] dell’indipendenza»[xxxix]; in un altro, che la medesima circostanza, «valutata alla luce dell’insieme [di altri] fattori pertinenti» evidenziati dal giudice del rinvio, «può invece indurre a dubitare dell’indipendenza di un organo chiamato a partecipare al procedimento di nomina di giudici, e ciò quand’anche, considerando detti elementi separatamente, una conclusione del genere non si imponga»[xl].
3.3.2. La “digressione” argomentativa della Corte nel caso Repubblika.
Dopo aver richiamato tali assunti, la sentenza in esame opera una sorta di “biforcazione” argomentativa; offrendo al giudice a quo – e, prima di tutto, a se medesima, pro futuro – una prospettiva ulteriore, forse non del tutto inedita, ma quanto meno enunciata in modo esplicito[xli], per valutare la conformità della misura ordinamentale in questione agli obblighi eurounitari[xlii].
In particolare, la Corte di Giustizia integra il combinato disposto degli artt. 2 e 19 TUE, con l’art. 49 TUE, ricavandone il principio dell’obbligo di non regressione nella tutela dei valori dello Stato di diritto.
A tal fine, la Corte osserva che gli Stati membri, sulla base dell’art. 49 TUE, hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni consacrati nell’articolo 2 TUE sui quali si fonda l’Unione e sui quali riposa, inoltre, la fiducia reciproca tra i Paesi dell’Unione. Da ciò consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei suddetti valori «costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro»[xliii] che, pertanto, non può modificare la propria normativa, in modo da comportare una regressione dello Stato di diritto e, in special modo, della garanzia di indipendenza dei giudici, che ne costituisce uno degli elementi più qualificanti.
Ciò che non può trascurarsi, peraltro, è che nella sentenza si individua altresì chiaramente il “punto di non regressione”, costituito, nel caso di specie, dall’assetto ordinamentale vigente al momento dell’adesione di Malta all’Unione europea nel 2004. Vale a dire, dalle disposizioni costituzionali vigenti dal 1964 al 2016[xliv], a mente delle quali, come si è potuto osservare nel paragrafo 1, il potere di nomina dei giudici del Primo Ministro era limitato dai soli requisiti professionali previsti dagli artt. 96 e 100.
Da questo angolo visuale, la Corte non può far altro che rilevare che l’istituzione del Comitato per le nomine in magistratura ad opera della revisione costituzionale del 2016 sia stata tale da rafforzare l’indipendenza dei giudici potendo, «in linea di principio, contribuire a rendere obiettivo [il processo di nomina], delimitando il margine di manovra di cui dispone il primo ministro»[xlv] e, pertanto, che, diversamente da quanto occorso nella vicenda polacca[xlvi], non vi è stata alcuna regressione.
Solo a questo punto, la Corte riprende l’analisi interrotta al punto 57 e passa sbrigativamente in rassegna, anzitutto, «una serie di regole menzionate dal giudice del rinvio», ritenute «idonee a garantire l’indipendenza del Comitato per le nomine in magistratura nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo»[xlvii]: quali, la «composizione», il «divieto per i politici di parteciparvi, l’obbligo imposto ai membri di agire in piena autonomia e senza essere assoggettati a una direzione o a un controllo di qualsiasi altra persona o autorità», così come «l’obbligo per lo stesso Comitato di pubblicare, con l’accordo del Ministro della giustizia, i criteri su cui basa le proprie valutazioni». Nonché altri indici[xlviii] alla luce dei quali «non risulta», ad avviso della Corte, «che le disposizioni nazionali […] siano, in quanto tali, idonee a suscitare nei singoli dubbi legittimi relativamente all’impermeabilità dei giudici nominati rispetto ad elementi esterni, in particolare, ad influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, né che esse siano quindi atte a condurre ad una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detti giudici tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto»[xlix].
Sulla base di questi elementi, la Corte di Giustizia conclude che «l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE, deve essere interpretato nel senso che non osta a disposizioni nazionali che conferiscono al Primo Ministro dello Stato membro interessato un potere decisivo nel processo di nomina dei giudici, prevedendo al contempo l’intervento, in tale processo, di un organo indipendente incaricato, segnatamente, di valutare i candidati ad un posto di giudice e di fornire un parere al primo ministro».
4. Alcune osservazioni conclusive. Dubbi e prospettive del caso maltese.
L’esito cui è pervenuto il Giudice di Lussemburgo con riguardo al caso maltese non appare del tutto appagante, soprattutto se si considera il diverso tenore dei rilievi formulati dalla Commissione di Venezia sulla riforma del 2016[l], che, peraltro, hanno trovato puntuale riscontro nelle modifiche medio tempore intervenute, cui la sentenza fa appena incidentalmente cenno[li].
La pronuncia, per vero, risulta coerente con il case-law della Corte di Giustizia, per quanto concerne sia la posizione in merito all’origine governativa delle nomine, sia il tema del coinvolgimento di organi asseritamente indipendenti nella procedura di designazione dei giudici. Ciononostante, l’analisi di contesto risulta piuttosto sintetica e non pare inverosimile che la riforma del 2020, pur non avendo inciso sull’oggetto del procedimento dinanzi al giudice del rinvio né sulla domanda di pronuncia pregiudiziale, abbia, di fatto, abbassato la soglia di guardia dei giudici eurounitari rispetto all’assetto dell’ordinamento giudiziario maltese ratione temporis sub iudice. In particolare, preme segnalare come nella motivazione, per un verso, sia stata frettolosamente avallata la natura non necessariamente vincolante del parere rilasciato dal Comitato per le nomine in magistratura. Per l’altro, sia stato schivato un profilo lasciato per c.d. “in sospeso” nelle precedenti sentenze[lii], vale a dire la mancata previsione di uno strumento di controllo giurisdizionale sulle decisioni di nomina dei giudici[liii].
Ulteriori dubbi, poi, sorgono relativamente alla portata del vero novum della decisione, vale a dire l’esplicitazione del principio dell’obbligo di non regressione nella tutela dello Stato di diritto.
Come è stato sottolineato dai primi commentatori[liv], si tratta, all’evidenza, di un surplus motivazionale. Invero, la Corte avrebbe potuto sciogliere il dubbio posto dal giudice del rinvio, semplicemente attingendo alla giurisprudenza pregressa.
Secondo alcuni autori, tale principio potrebbe essere stato introdotto con un intento per c.d. “limitativo”; ovverosia quello di «opporre dei chiari limiti ratione temporis» alla «forza espansiva virtualmente illimitata» dell’art. 19 TUE, che, in tale prospettiva, «arretrerebbe e non sarebbe applicabile dinanzi a norme rimaste inalterate dopo l’adesione dello Stato membro»[lv].
In effetti, la formulazione del divieto di regressione nel caso Repubblika è legata a un presupposto piuttosto chiaro, tale per cui, «in assenza di modifiche che determinino un arretramento nella tutela, la normativa costituzionale vigente in uno Stato membro al momento della sua adesione all’Unione [sarebbe] assistita da una presunzione di conformità ai valori tutelati dall’art. 2 e quindi all’art. 19 TUE»[lvi].
Tuttavia, anche assumendo che la Corte voglia arginare possibili “derive” interpretative dell’art. 19, come sembra suggerirle l’avvocato generale Bobek in un caso di poco successivo[lvii]; appare assai inverosimile che il Giudice dell’Unione intenda perseguire tale scopo attraverso un “appiattimento” della valutazione sulle possibili violazioni dello Stato di diritto, “cristallizzandone” il parametro nell’assetto ordinamentale vigente al momento dell’adesione di ciascuno Stato membro.
Così operando, infatti, la Corte finirebbe per introdurre un criterio non soltanto discriminatorio tra i Paesi dell’Unione[lviii], ma anche fortemente riduttivo di un concetto, per l’appunto quello di Stato di diritto, che non può che giovarsi e assimilare le evoluzioni in senso maggiormente garantista delle istituzioni. Paradossalmente, una riforma che annullasse le modifiche apportate alla Costituzione maltese nel 2020, che hanno rafforzato le garanzie di indipendenza della magistratura rispetto alle regole del 2016, potrebbe, in questo senso, non essere considerata una “regressione” in materia di organizzazione della giustizia.
Occorre, allora, collocare il principio in parola in una cornice più ampia.
La scelta di utilizzare un ragionamento nuovo, fondato sugli artt. 2, 19 e 49 TUE deve, invero, essere letta come una chiara intenzione della Corte di aprirsi, in prospettiva, ulteriori spazi argomentativi per dare il proprio apporto al tentativo di superamento del c.d. “dilemma di Copenaghen”[lix]; ovvero l’incapacità delle istituzioni eurounitarie, soprattutto sul versante politico, di preservare il nucleo della rule of law, una volta che gli Stati abbiano fatto ingresso nell’Unione.
Confermano tale lettura due decisioni immediatamente successive a Repubblika, entrambe rese dalla Grande Sezione.
Il riferimento corre, in primis, alla sentenza pronunciata il 18 maggio[lx] all’esito di un procedimento pregiudiziale avente ad oggetto una serie di modifiche – peggiorative – apportate tra il 2017 e il 2018 dalla Romania alle cc.dd. “leggi sulla giustizia”. In particolare, si tratta di tre leggi che lo Stato aveva approvato nel 2004, con l’obiettivo di migliorare l’indipendenza e l’efficienza della giustizia, divenute oggetto di monitoraggio da parte della Commissione europea in forza del meccanismo di cooperazione e di verifica (MCV) istituito dalla decisione n. 2006/928, entrato in vigore in concomitanza dell’ingresso della Romania nell’Unione europea. In questo caso, il principio di non regressione viene evocato nella parte in cui si stabilisce che tale decisione, e così pure le relazioni redatte dalla Commissione sulla base di essa, costituiscono atti adottati da un’istituzione dell’Unione, suscettibili, quindi, di interpretazione ai sensi dell’articolo 267 TFUE, nonché tuttora vincolanti per la Romania. In altri termini, esso viene correlato alla perdurante vigenza di strumenti introdotti dalle istituzioni eurounitarie allo scopo di monitorare i progressi di un (allora) aspirante e, poi, nuovo, Stato membro, ancora “fragile” sul versante delle garanzie del sistema giudiziario al momento dell’adesione.
Inoltre, la Corte ha applicato il principio nell’ultima vicenda della “saga” polacca. Il 15 luglio, nell’ambito di una procedura per infrazione[lxi], si è statuita la non conformità, rispetto agli articoli 19 TUE e 267 TFUE, di vari profili della riforma che nel 2017 ha pesantemente inciso, tra l’altro, il regime disciplinare della magistratura in Polonia. In questo secondo caso, pronunciandosi sulla mancanza di indipendenza e di imparzialità della Sezione disciplinare della Corte suprema, competente a riesaminare le decisioni emesse nei procedimenti disciplinari nei confronti dei giudici, la Corte di Giustizia ha concluso che «tale evoluzione [rectius, involuzione] costituisce una riduzione della tutela del valore dello Stato di diritto ai sensi della giurisprudenza della Corte» e che, per tale motivo, «la Repubblica di Polonia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi del secondo comma dell’art. 19, paragrafo 1, TUE»[lxii]. In questa evenienza, è appena il caso di notare che il parametro di cui all’art. 49 TUE non viene menzionato: la regressione, dunque, viene “misurata” all’esito di una ricostruzione giurisprudenziale e fattuale ben più complessa e articolata di quella prospettata in Repubblika; se non altro, per la particolare gravità delle infrazioni contestate e poi accertate.
In conclusione, è possibile affermare che il principio enunciato nella sentenza sul caso maltese è destinato a trovare – ed in effetti ha già trovato – ulteriori applicazioni e significativi sviluppi nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo.
Come è stato osservato, per di più, la sua portata potrebbe estendersi ben al di là dell’art. 19 TUE e, attraverso di esso, il Giudice dell’Unione potrebbe aver trovato «a way to build a potential bridge [to the] many values deserving protection – including of course not only the most obvious candidates, such as democracy and fundamental rights, but also all the other aspects of the rule of law beyond the margins of judicial independence»[lxiii].
Dietro l’angolo, non è un caso, si prospettano i ricorsi promossi da Polonia e Ungheria [lxiv] per l’annullamento del regolamento 2020/2092 contenente il c.d. “regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione”[lxv], al momento, di fatto, bloccato dal “combinato disposto” dei suddetti ricorsi e dalle criticate conclusioni del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2021[lxvi]; nonché le procedure di infrazione promosse dalla Commissione nei confronti di detti Stati in ragione della violazione dei diritti LGBT.
[i] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 20 aprile 2021, Repubblika contro Il-Prim Ministru, causa C-896/19.
[ii] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 27 febbraio 2018, Associação Sindical dos Juízes Portugueses contro Tribunal de Contas, causa C-64/16, commentata, ex multis, da M. Krajewski, Associação Sindical dos Juízes Portugueses: The Court of Justice and Athena’s Dilemma, in European Papers, vol. 3, 2018, n. 1, 395; M. Parodi, Il controllo della Corte di giustizia sul rispetto del principio dello Stato di diritto da parte degli Stati membri: alcune riflessioni in margine alla sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses, in European Papers, vol. 3, 2018, n. 2, 985; N. Lazzerini, Le recenti iniziative delle istituzioni europee nel contesto della crisi dello Stato di diritto in Polonia: prove di potenziamento degli “anticorpi” dei Trattati?, in Osservatorio sulle fonti, 2018, spec. 17 ss.
[iii] A mente del quale «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione».
[iv] M. Parodi, Il controllo della Corte di giustizia sul rispetto del principio dello Stato di diritto, cit., la quale osserva, a commento della sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses, che «la Corte di giustizia coinvolge attivamente i giudici nazionali nella protezione dello Stato di diritto come valore comune tutelato dall’art. 2 TUE. Così facendo, peraltro, […] offre loro, almeno indirettamente, la possibilità di reagire di fronte a eventuali misure nazionali idonee a ledere la funzione giudiziaria di cui sono titolari. Non di meno, il ruolo stesso della Corte di giustizia nel controllo del rispetto dello Stato di diritto da parte degli Stati membri risulta sensibilmente rafforzato atteso che, attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale, essa potrà pronunciarsi sulla compatibilità o meno di misure nazionali con il valore dello Stato di diritto, come declinato all’art. 19 TUE, a prescindere dall’esistenza di altri collegamenti con il diritto dell’UE».
[v] Il riferimento corre alle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) del 24 giugno 2019, Commissione contro Polonia (Indipendenza della Corte suprema), causa C‑619/18; nonché del 19 novembre 2019, A.K. contro Krajowa Rada Sądownictwa e CP e DO contro Sąd Najwyższy (Indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema), causa C-585/18 e del 2 marzo 2021, A.B. contro Krajowa Rada Sądownictwa e a. (Nomina dei giudici della Corte suprema), causa C-824/18. A commento di queste pronunce, v., ex multis, N. Lazzerini, Le recenti iniziative delle istituzioni europee nel contesto della crisi dello Stato di diritto in Polonia, cit., passim; E. Ceccherini, L’indipendenza del potere giudiziario come elemento essenziale dello stato di diritto. La Corte di giustizia dell’Unione europea esprime un severo monito alla Polonia, in DPCEonline, n. 3, 2019; A. Angeli, Il principio di indipendenza e imparzialità degli organi del potere giudiziario nelle recenti evoluzioni della giurisprudenza europea e polacca, in federalismi.it, 21 febbraio 2021.
[vi] In questo senso, cfr. A. von Bogdandy, P. Bogdanowicz, I. Canor, G. Rugge, M. Schmidt, M. Taborowski, Un possibile «momento costituzionale» per lo Stato di diritto europeo: i confini invalicabili, in Quaderni costituzionali, 2018, n. 4, 857.
[vii] Associação Sindical dos Juízes Portugueses, cit., punto 32. Sull’impiego dell’art. 2 TUE, A. Angeli, Il principio di indipendenza e imparzialità degli organi del potere giudiziario, cit., 8, evidenzia come la Corte abbia «dunque tradotto una diposizione “programmatica”, l’art. 2 TUE, nella quale si elencano i valori sui quali si fonda l’Unione, in una norma “prescrittiva” e giustiziabile ancorandola all’art. 19 TUE».
[viii] V. sul punto, V. Zagrebelsky, L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi, in questa rivista, 28 maggio 2021.
[ix] V., ex multis, A.K., cit., punto 120.
[x] Per cogliere la portata di questo profilo, si noti il diverso tenore delle conclusioni dell’avvocato generale Henrik Saugmandsgaard Øe, in relazione alla causa Associação Sindical dos Juízes Portugueses, secondo il quale «la nozione di “tutela giurisdizionale effettiva” ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE non [può] essere confusa con il “principio dell’indipendenza dei giudici”, il quale è menzionato nella questione pregiudiziale come risultante, asseritamente, da tale disposizione».
[xi] Associação Sindical dos Juízes Portugueses, cit., punto 29.
[xii] M. Coli, The Associação Sindical dos Juízes Portugueses judgment: what role for the Court of Justice in the protection of EU values?, in www.diritticomparati.it, 1° novembre 2018 e, in senso analogo, L. Pech, S. Platon, Rule of Law backsliding in the EU: The Court of Justice to the rescue? Some thoughts on the ECJ ruling in Associação Sindical dos Juízes Portugueses, in EU Law Analysis, 13 marzo 2018.
[xiii] Constitution of Malta (Amendment) Act n. XLIII of 2020, to amend the Constitution of Malta relative to the appointment of judges and magistrates, accessibile tramite il link: https://legislation.mt/eli/act/2020/43/eng/pdf.
[xiv] Commissione di Venezia, opinione n. 940/2018, 17 dicembre 2018, 9.
[xv] Vale a dire, l’esercizio, per un periodo continuativo o per periodi cumulati di almeno dodici anni, della professione di avvocato o la funzione di Maġistrat (giudice delle Corti inferiori), per i giudici delle giurisdizioni superiori (Imħallfin); e l’esercizio, per un periodo continuativo o per periodi cumulati di almeno sette anni, della professione di avvocato per i Maġistrat.
[xvi] La preoccupazione è stata avvertita e manifestata, a livello politico, sia sul versante del Consiglio d’Europa, sia su quello eurounitario. A quest’ultimo riguardo, si ricorda, da ultima, la Risoluzione del Parlamento europeo del 29 aprile 2021 sull’assassinio di Daphne Caruana Galizia e lo Stato di diritto a Malta (2021/2611(RSP).
[xvii] Commissione di Venezia, opinione n. 940/2018, cit., 10.
[xviii] Cfr. ivi, 9-10: «The JAC is composed of the Chief Justice, the Attorney General, the Auditor General, the Ombudsman, and the President of the Chamber of Advocates. The delegation of the Venice Commission was informed about the rationale behind the current composition of the JAC. Two out of five members are chosen and dismissed by a two thirds majority in Parliament (The Ombudsman and the Auditor General), two members can only be dismissed by a two thirds majority in Parliament (the Chief Justice and the Attorney General), and one member is not appointed at all by politicians (the President of the Chamber of Advocates) […] In order to improve the system of judicial appointments, the Venice Commission therefore recommends: […] 2. The JAC should have a composition of at least half of judges elected by their peers from all levels of the judiciary».
[xix]A p. 10 dell’opinione, la Commissione raccomanda che il Comitato «should propose a candidate or candidates directly to the President of Malta for appointment [and] [t]he proposal should be binding on the President».
[xx] Segnatamente, la legge di revisione costituzionale poc’anzi citata ha modificato gli artt. 96, 96 A e 100 Cost., incidendo significativamente sulla procedura di nomina dei giudici, sia delle corti inferiori (Maġistrat), sia delle corti superiori (Imħallfin). Invero, allorché un posto si rende vacante, il Comitato per le nomine in magistratura propone i tre candidati ritenuti più idonei direttamente al Presidente della Repubblica, il quale sceglierà i giudici o i magistrati da tale novero, secondo i criteri di valutazione inseriti nella Costituzione (art. 96 A, comma 6, lett. d). È inoltre opportuno sottolineare che la riforma ha integrato la composizione del Comitato con componenti provenienti ed eletti dalla magistratura e riformato l’art. 85 Cost., rubricato «Esercizio delle funzioni del Presidente», aggiungendo alle ipotesi in cui egli non deve agire in conformità con il parere dell’esecutivo, «l’esercizio del potere conferito dalla presente Costituzione di nominare qualsiasi ufficio previsto dalla presente Costituzione» (art. 85, comma 1, secondo periodo, lettera d Cost.). Sulla bontà della riforma del 2020, si vedano le osservazioni della Commissione di Venezia, opinione n. 993/2020, 8-9 ottobre 2020, spec. 8. Sul fronte dell’Unione europea, cfr., invece, Commissione europea, Capitolo sulla situazione dello Stato di diritto a Malta che accompagna il documento Relazione sullo Stato di diritto 2020. La situazione dello Stato di diritto nell’Unione europea, {COM(2020) 580 final} - {SWD(2020) 300 final} - {SWD(2020) 301 final}, 30.09.2020.
[xxi] Art. 116 Cost. Malta: «A right of action for a declaration that any law is invalid on any grounds other than inconsistency with the provisions of articles 33 to 45 of this Constitution shall appertain to all persons withoutdistinction and a person bringing such an action shall not berequired to show any personal interest in support of his action».
[xxii] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, Repubblika, C-896/19, ECLI:EU:2020:1055, 17 dicembre 2020, punto 28 ss.
[xxiii] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza del 10 dicembre 2018, Whigthman e a. contro Secretary of State for Exiting the European Union, causa C-621/18, punto 31.
[xxiv] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, cit. punto 90.
[xxv] A.B. e a., cit., punto 90. In proposito, riflette sulla “flessione” per c.d. costituzionale del rinvio pregiudiziale S. Gianello, Il rinvio pregiudiziale e l’indipendenza dei giudici:alcune riflessioni a margine di due recenti vicende, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 2021, n. 1.
[xxvi] A.B. e a., cit., punti 111-114 e, prima ancora, A.K., cit., punti 82-84 e Commissione/Polonia (Indipendenza della Corte suprema), cit., punto 51 (corsivi dell’A.).
[xxvii] Particolarmente esaustivo, a questo proposito, risulta essere un passaggio della sentenza A.K., cit., punto 83: «Contrariamente a quanto sostenuto dal procuratore generale a tale riguardo, la circostanza che le misure nazionali di riduzione salariale discusse nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 27 febbraio 2018, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, siano state adottate a causa di esigenze imperative connesse all’eliminazione del disavanzo eccessivo del bilancio dello Stato membro interessato e nel contesto di un programma di assistenza finanziaria dell’Unione a tale Stato membro, come emerge dai punti da 29 a 40 di tale sentenza, non ha giocato alcun ruolo nell’interpretazione che ha portato la Corte a concludere per l’applicabilità dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE alla causa di cui trattasi. Tale conclusione è stata, infatti, fondata sulla circostanza che l’organo nazionale al centro di tale causa, vale a dire il Tribunal de Contas (Corte dei conti, Portogallo), era, fatte salve le verifiche spettanti al giudice del rinvio in detta causa, idoneo a pronunciarsi, in qualità di organo giurisdizionale, su questioni riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del diritto dell’Unione e rientranti dunque in settori disciplinati da tale diritto» (corsivi dell’A.).
[xxviii] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, Repubblika, cit., punto 41.
[xxix] Repubblika, cit., punto 41.
[xxx] Ivi, punto 45 e, prima ancora, A.B. e a., cit., punto 143.
[xxxi] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, cit., punto 46.
[xxxii] Corte di Giusitizia, sentenza del 14 giugno 2017, Online Games e a. contro Landespolizeidirektion Oberösterreich, causa C‑685/15, punto 54.
[xxxiii] V. ex multis, Corte europea dei diritti dell’Uomo, Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ric. n. 26374/18, 1° dicembre 2020, par. 207: «As pointed out by the Venice Commission and the CCJE (see paragraphs 122 and 126 above), there are a variety of different systems in Europe for the selection and appointment of judges, rather than a single model that would apply to all countries. The Court reiterates in this connection that although the notion of the separation of powers between the political organs of government and the judiciary has assumed growing importance in its case-law, appointment of judges by the executive or the legislature is permissible under the Convention, provided that appointees are free from influence or pressure when carrying out their adjudicatory role».
[xxxiv] Repubblika, cit., punto 56.
[xxxv] Parlano di «contextual approach» M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il-Prim Ministru, in RECONNECT Working Paper (Leuven), n. 15, 2021, 18 giugno 2021, spec. 13.
[xxxvi] Repubblika, cit., punto 57.
[xxxvii]A.K., cit., punto 137.
[xxxviii] Parlano di «contextual approach» M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il-Prim Ministru, in RECONNECT Working Paper (Leuven), n. 15, 2021, 18 giugno 2021, spec. 13.
[xxxix] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza del 9 luglio 2020, Land Hessen, C-272/19, punti 55-58.
[xl] A.K., cit., punti 143-144 e, in senso analogo, A.B e a., punto 131.
[xli] Si veda, in questo senso, il richiamo alle sentenze A.K., cit., e A.B. e a. ., cit., al punto 65.
[xlii] Repubblika, cit., punti 59-66.
[xliii] Ivi, punto 63.
[xliv] Secondo M. E. Bartoloni, Limiti ratione temporis all’applicazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva: riflessioni in margine alla sentenza Repubblika c. Il-Prim Ministru, in Osservatorio europeo, maggio 2021, 11, «la Corte, nel collegare l’art. 19 TUE rispettivamente agli articoli 2 e 49 TUE, sembrerebbe prospettare una automatica presunzione di conformità della Costituzione del 1964 ai requisiti imposti dal principio della tutela giurisdizionale effettiva». In proposito, v., infra, par. 4.
[xlv] Repubbika, cit., punto 66.
[xlvi] Ivi, punti 65 e 66.
[xlvii] Ivi, punto 67.
[xlviii] Ivi, punti 70-71. Il riferimento corre, nello specifico, ad alcuni elementi che la Corte ritiene idonei a delimitare la discrezionalità del Primo ministro: quali, i requisiti professionali dei giudici posti dagli artt. 96 e 100 Cost. e, inoltre, l’obbligo motivazionale previsto nel caso in cui lo stesso avesse deciso di presentare al Presidente un candidato non proposto dal Comitato.
[xlix] Ivi, punto 72.
[l] Si vedano, in proposito, le osservazioni dell’avvocato generale Hogan, cit., secondo il quale «[a]i sensi del diritto dell’Unione», tali relazioni costituiscono sì «un’utile fonte di informazione», ma l’analisi della Commissione di Venezia «anche se è basata su una raffinata analisi giuridica e politica» «ha carattere essenzialmente politico» e il suo parere «mira al raggiungimento di un sistema ideale» (punto 88). In proposito, cfr. altresì M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., spec. 13.
[li] Repubbika, cit., punto 24.
[lii] Su questo aspetto, infatti, l’incedere della Corte di Giustizia si mostra assai incerto. V. A.K., cit., punto 145: «tenuto conto del fatto che, come emerge dagli atti a disposizione della Corte, le decisioni del presidente della Repubblica recanti nomina di giudici al Sąd Najwyższy (Corte suprema) non possono essere oggetto di sindacato giurisdizionale, spetta al giudice del rinvio verificare se il modo in cui è definita, all’articolo 44, paragrafi 1 e 1 bis, della legge sulla KRS, la portata del ricorso esperibile contro una risoluzione della KRS contenente le sue decisioni relative alla presentazione di una proposta di nomina alla posizione di giudice presso tale organo giurisdizionale consenta di assicurare un controllo giurisdizionale effettivo nei confronti di tali risoluzioni, controllo vertente, quantomeno, sulla verifica dell’assenza di eccesso o di sviamento di potere, di errori di diritto o di errori manifesti di valutazione» e, di seguito, A.B. e a., punto 129: «mentre l’eventuale assenza della possibilità di proporre un ricorso giurisdizionale nel contesto di un processo di nomina a posti di giudice di un organo giurisdizionale supremo nazionale può, in taluni casi, non rivelarsi problematica alla luce dei requisiti derivanti dal diritto dell’Unione, in particolare dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, la situazione è diversa in circostanze nelle quali l’insieme degli elementi pertinenti che caratterizzano un siffatto processo in un dato contesto giuridico-fattuale nazionale, e, in particolare, le condizioni in cui improvvisamente interviene la soppressione delle possibilità di ricorso giurisdizionale fino ad allora esistenti, siano tali da suscitare, nei singoli, dubbi di natura sistemica quanto all’indipendenza e all’imparzialità dei giudici nominati al termine di tale processo».
[liii] V. supra, par. 3.1., a proposito delle sia pur brevi considerazioni dell’avvocato generale sul tema.
[liv] M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., passim.
[lv] M. E. Bartoloni, Limiti ratione temporis all’applicazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva, cit., 13.
[lvi] Ibidem.
[lvii] In merito alla lettura estensiva dell’art. 19 TUE, vale la pena quantomeno accennare alle perplessità espresse dall’avvocato generale Bobek nell’opinione resa il 23 settembre 2020, nell’ambito della più recente causa Asociaţia “Forumul Judecătorilor din România” (v. infra, nota lx). Il giurista rileva, infatti, che la portata «apparently limitless» della disposizione «both institutionally (with regard to all courts, or even bodies, which potentially apply EU law), as well as substantively» potrebbe rappresentare, in prospettiva, sia un punto di forza, sia un punto di debolezza: «Will the Court in the future be ready to review whichever issues or elements brought to its attention by its national counterparts, alleging that this or that element of national judicial structure or procedure might pose, certainly in their subjective view, issues in terms of the degree of judicial independence they consider appropriate?» (punto 211).
[lviii] Cfr., in proposito, M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., 18 e N. Canzian, Indipendenza dei giudici e divieto di regressione della tutela nella sentenza Repubblika, in Quaderni costituzionali, 2021, n. 3, spec. 717. Quest’ultimo, in particolare, sottolinea come una «sua applicazione generalizzata potrebbe anche rivelarsi per certi aspetti discriminatoria, perché non è affatto detto che ogni Stato membro sia stato ammesso presentando lo stesso grado di tutela rispetto ai valori comuni [...] Il principio potrebbe così tradursi in una serie di parametri mutevoli da Stato a Stato, rivelandosi meno efficace proprio laddove al momento dell’adesione la garanzia offerta dal diritto nazionale fosse meno intensa di quella di altri Paesi membri».
[lix] Cfr. Parlamento europeo, Discussione plenaria sulla situazione politica in Romania, dichiarazione di Viviane Reding, 12 settembre 2012: «Once this Member State has joined the European Union, we appear not to have any instrument to see whether the rule of law and the independence of the judiciary still command respect». In senso analogo, e, Id., The EU and the Rule of Law: What Next?, discorso tenuto presso il Centre for European Policy Studies, 4 settembre 2013.
[lx] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 18 maggio 2021, Asociaţia “Forumul Judecătorilor din România”, causa C-83/19.
[lxi] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) del 15 luglio 2021, Commissione europea / Repubblica di Polonia, Causa C-791/19.
[lxii] Ivi, punti 112-113.
[lxiii] M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., 16.
[lxiv] Cause C-156/21, Ungheria c. Parlamento e Consiglio e C-157/21, Polonia c. Parlamento e Consiglio.
[lxv] In argomento, cfr. B. Nascimbene, Il rispetto della rule of law e lo strumento finanziario. La “condizionalità”, in rivista.eurojus.it, 2021, n. 3, 182. È interessante notare, a questo proposito, il considerando n. 12 del regolamento: «L’articolo 19 TUE, che concretizza il valore dello Stato di diritto di cui all’articolo 2 TUE, impone agli Stati membri di prevedere una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, compresi quelli relativi all’esecuzione del bilancio dell’Unione. L’esistenza stessa di un effettivo controllo giurisdizionale destinato ad assicurare il rispetto del diritto dell’Unione è intrinseca a uno Stato di diritto e presuppone l’esistenza di organi giurisdizionali indipendenti. Preservare l’indipendenza di detti organi è di primaria importanza, come confermato dall’articolo 47, secondo comma, della Carta. Ciò vale segnatamente per il controllo giurisdizionale della regolarità degli atti, dei contratti o di altri strumenti che generano spese o debiti pubblici, in particolare nell’ambito di procedure di appalto pubblico ove è parimenti possibile adire detti organi».
[lxvi] Conclusioni della riunione del Consiglio europeo (10 e 11 dicembre 2020), doc. EUCO 22/20, CO EUR 17-CONCL, 2: «Al fine di garantire che tali principi siano rispettati, la Commissione intende elaborare e adottare linee guida sulle modalità con cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare la propria valutazione. Tali linee guida saranno elaborate in stretta consultazione con gli Stati membri. Qualora venga introdotto un ricorso di annullamento in relazione al regolamento, le linee guida saranno messe a punto successivamente alla sentenza della Corte di giustizia, in modo da incorporarvi eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza. Il presidente della Commissione informerà il Consiglio europeo in modo esaustivo. Fino alla messa a punto di tali linee guida la Commissione non proporrà misure a norma del regolamento».
Il green pass (per i soli magistrati) negli uffici giudiziari
di Federica Resta*
Il d.l. 127 del 2021 ha introdotto un obbligo generalizzato di possesso del green pass ai fini dell’accesso dei lavoratori (dei settori pubblico e privato) al luogo di lavoro. Analogo obbligo è stato previsto ai magistrati, ai fini dell’accesso agli uffici giudiziari. Tale estensione a un ambito del tutto peculiare, quale quello giudiziario, determina, tuttavia, implicazioni particolarmente rilevanti e alcuni dubbi applicativi, che la conversione in legge del decreto-legge o, per aspetti diversi, la circolare del Ministero della giustizia potranno chiarire.
Sommario: 1. Il green-pass - 2. Il d.l. 127 del 2021 - 3. Il green pass quale requisito per l’accesso dei magistrati agli uffici giudiziari.
1. Il green-pass
Tra le varie problematiche connesse al governo dell’emergenza (pandemica), quella relativa all’uso della tecnologia a fini di prevenzione sanitaria si è rivelata una delle più complesse.
La definizione dei limiti da porre alla tecnica, per favorirne un uso “sostenibile” tale da non degenerare in forme di sorveglianza massiva ha, infatti, rappresentato uno degli elementi discretivi dell’approccio europeo al contrasto della pandemia, rispetto ad altri modelli fondati su di un ampio ricorso al digitale, ma anche sul controllo capillare dei cittadini.
La “differenza europea”, su questo terreno, è emersa con particolare nettezza rispetto a due importanti misure di contenimento dei contagi: il contact tracing digitale e il green pass.
Già dai primi mesi di pandemia, infatti, con la scelta di un sistema di contact tracing che tracciasse i contatti, non le persone e il rifiuto della georeferenziazione costante dei cittadini, l’Europa ha delineato un equilibrio democraticamente sostenibile tra salute (nella sua duplice componente di diritto fondamentale e interesse collettivo), tecnica e libertà.
Lo stesso bilanciamento è, del resto, sotteso alla disciplina europea delle certificazioni verdi, che con il Regolamento 2021/953 ha promosso uno strumento (temporaneo) di prevenzione dei contagi profondamente diverso dai “passaporti sanitari” o dalle altre misure di biosorveglianza proprie, ad esempio, del sistema cinese. Le componenti essenziali del green pass europeo rappresentano, anche in questo caso, il frutto di un ricorso lungimirante alla tecnica, tale da realizzare uno strumento di contenimento dei contagi efficace, ma anche idoneo a minimizzare l’impatto sulla privacy. Garantendo riservatezza sul suo presupposto (vaccino, guarigione, negatività al tampone), il green pass ha anche impedito forme, dirette o indirette, di discriminazione nei confronti di quanti non possano o non vogliano vaccinarsi, pur rappresentando indubbiamente, esso stesso, una forma di “nudging”, di promozione della vaccinazione.
La previsione di presupposti, alternativi alla vaccinazione, suscettibili di determinare il conseguimento del green pass ne esclude, tuttavia, la configurabilità alla stregua di obbligo surrettizio di vaccinazione, assimilandolo invece alla figura giuridica dell’onere[1]. Tale, infatti, è stata la qualificazione fornita dalla Corte costituzionale (sent. 137 del 2019) della previsione di una legge regionale relativa alla subordinazione dell’accesso, da parte del personale sanitario, a determinati reparti ospedalieri, alla sottoposizione a vaccinazioni solo raccomandate dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale.
E anche sulla base di tali garanzie che, sia in Italia che in Francia, sono state respinte le principali eccezioni d’illegittimità di tale istituto. Con pronuncia n. 824 del 5 agosto, infatti, il Conseil Constitutionnel ha escluso profili di illegittimità della disciplina francese delle certificazioni verdi, in quanto di carattere temporaneo, conforme al canone di ragionevolezza e proporzionalità perché efficace in termini di prevenzione sanitaria e non tale da imporre un obbligo terapeutico coercitivo, non essendo il vaccino l’unico presupposto per il rilascio del titolo.
Argomentando, poi, proprio sulle garanzie di privacy offerte in particolare dalla disciplina attuativa (d.P.C. M. 17 giugno 2021), l’ordinanza n. 5130 della Terza Sezione del Consiglio di Stato ha potuto escludere la sussistenza di “lesioni della riservatezza sanitaria” in relazione all’obbligo di esibizione del green pass ex art. 9, c.10. d.l. 52 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. 87 del 2021 - v. su questa Rivista Green pass e protezione dei dati personali (nota a Cons. Stato, Sezione Terza, 17 09 2021 n. 5130)-.
Sono state (anche) le garanzie di riservatezza assicurate dal green pass ad averne favorito la graduale estensione, anche in Italia, a partire dal d.l. 52 del 2021 e con i successivi dd.ll. 105, 111, 121, che ne hanno interpolato il testo con l’effetto di ampliare l’ambito applicativo dell’istituto dapprima agli spostamenti tra regioni di colore diverso (d.l. 52 stesso), poi alla partecipazione ad eventi o attività suscettibili di determinare una significativa concentrazione di persone o, comunque, condizione di potenziale circolazione virale (d.l. 105), quindi al settore dell’istruzione e dei trasporti (d.l. 111), al personale esterno di scuole e r.s.a. (d.l. 121, rifluito in emendamento al d.d.l. di conversione del d.l. n. 111).
2. Il d.l. 127 del 2021
L’estensione più significativa dell’ambito applicativo del green pass si è determinata, indubbiamente, con il d.l. 127 del 2021 (il cui disegno di legge di conversione è attualmente all’esame della 1^ Commissione del Senato, in prima lettura). Con tale provvedimento, infatti, il possesso (e l’esibizione, su richiesta) di una certificazione verde in corso di validità è stato previsto come requisito necessario per l’accesso ai luoghi di lavoro per il settore pubblico (in regime contrattualizzato o meno, ivi inclusi gli organi a rilievo costituzionale), il settore privato e, per i soli magistrati (ma di ogni giurisdizione) agli uffici giudiziari. L’obbligo di possesso del green pass si estende anche ai titolari di cariche elettive o istituzionali di vertice, nonché - sulla base delle previsioni autonomamente emanate- agli organi costituzionali.
Il principale elemento innovativo del d.l. 127 concerne il suo riferire il possesso di una certificazione verde valida non già a un settore o a un’attività ma, unilateralmente, ai lavoratori.
Nei provvedimenti precedenti, infatti, la titolarità del green pass è stata concepita, essenzialmente, quale condizione per l’accesso a determinati luoghi o lo svolgimento di determinate attività e, anche quando ha riguardato i lavoratori è stata generalmente prevista anche per i soggetti fruitori della prestazione lavorativa (come per gli studenti universitari, soggetti a controlli pur a campione: art. 9-ter, c.4, ultimo periodo, d.l. 52).
Con il d.l. 127, invece, il possesso di una certificazione verde valida assurge ad onere da soddisfare per l’accesso al luogo di lavoro e, dunque, requisito necessario per lo svolgimento, in presenza, dell’attività lavorativa, pena la qualificazione come ingiustificata dell’assenza e la sospensione della retribuzione, pur con diritto alla conservazione del posto di lavoro e l’esclusione di conseguenze disciplinari (previste invece in caso di accesso in violazione degli obblighi).
Lo schema-tipo su cui si modella, nelle parti comuni ai vari settori, la disciplina di cui al d.l. 127, prevede in linea generale l’effettuazione dei controlli “prioritariamente, ove possibile” al momento dell’accesso al luogo di lavoro, “anche a campione” (commi 5 degli articoli 9-quinquies e 9-septies, rispettivamente per il settore pubblico e per quello privato, nonché, per gli uffici giudiziari, c. 5 dell’articolo 9-sexies, che a sua volta rinvia al comma 5 dell’articolo 9-quinquies), nonché con le modalità di cui al d.P.C.M. adottato ai sensi dell’articolo 9, comma 10, del d.l. 52 del 2021.
Sulla base di quanto previsto dal d.P.C.M. 17 giugno 2021, attuativo del citato art. 9, c.10, che dunque rappresenta al momento la disciplina di riferimento delle modalità di svolgimento dei controlli, oggetto della verifica – mediante l’app ufficiale Covid-19 - è (oltre al nome, al cognome e alla data di nascita dell’intestatario) il solo qr code attestante il possesso di una certificazione in corso di validità, senza alcun riferimento al presupposto del certificato (vaccinazione, guarigione, tampone). Questa previsione consente di evitare la conoscenza, da parte dei terzi, della condizione sanitaria o, comunque, delle scelte vaccinali del soggetto.
Per minimizzare l’impatto delle verifiche sulla riservatezza individuale, si è poi espressamente esclusa la registrazione, da parte dei soggetti verificatori, dei dati dell'intestatario della certificazione (art. 13, c.5, d.P.C.M. 17 giugno 2021). La circolare del Ministero dell’interno del 10 agosto 2021 ha, peraltro, chiarito che l’identificazione dell’intestatario del green pass, attraverso il raffronto con il documento identificativo, ai sensi dell’art. 13, c.4, del d.P.C.M. 17 giugno, non deve intendersi come sistematica ma va svolta su base discrezionale e, in particolare, nei casi di manifesta incongruenza con i dati anagrafici contenuti nella certificazione.
Un ulteriore elemento comune ai vari settori (e, in linea generale, a tutti gli ambiti applicativi delle certificazioni verdi) è l’esclusione dell’obbligo di possesso del pass per i soggetti esenti dalla campagna vaccinale in ragione di controindicazioni cliniche rispetto alla somministrazione del vaccino (art. 9-bis, c.3; 9-quinquies, c.3; 9-sexies, c. 7, 9-septies, c. 3, d.l. 52).
Non è stata, tuttavia, ancora attuata (con dPCM) la disciplina di carattere tecnico per la gestione digitale delle certificazioni di esenzione. Tale lacuna determina la proroga dell’utilizzo (concepito come transitorio) delle attestazioni cartacee, per le quali la circolare del 4 agosto 2021 del Ministero della salute esclude, doverosamente, la possibilità d’indicazione della motivazione clinica dell’esenzione. Tuttavia, anche questo accorgimento non rende le certificazioni cartacee di esenzione del tutto equivalenti, in termini di garanzie, a quelle digitali e soprattutto al green pass, dal momento che presuppone comunque la rivelazione a terzi di un dato sanitario quale quello dell’incompatibilità con il vaccino, per ragioni cliniche.
Il certificato digitale dovrebbe, invece, essere concepito come l’equivalente del green pass, dunque con un qr code che, senza rivelare la condizione di esenzione del soggetto, semplicemente ne “documenti” il diritto all’accesso ai luoghi soggetti a restrizione. Questo, almeno nella misura in cui per i soggetti esenti non è previsto l’obbligo di tampone, come rileva l’audizione del prof. Boscati dinanzi alla 1^ Commissione del Senato.
3. Il green pass quale requisito per l’accesso dei magistrati agli uffici giudiziari
L’articolo 9-sexies del d.l. 52 del 2021, introdotto dall’articolo e d.l. 127 del 2021, dispone che dal 15 ottobre fino al 31 dicembre 2021 (termine di cessazione dello stato di emergenza), i magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari e onorari[2], nonché i componenti delle commissioni tributarie non possono accedere agli uffici giudiziari, ove svolgono la loro attività lavorativa se non possiedono e, su richiesta, non esibiscono la certificazione verde COVID-19. Rispetto alla formulazione utilizzata dagli articoli 9-quinquies e 9-septies, quella in esame si differenzia per la previsione “in negativo”, non già di un obbligo di possesso (della certificazione verde), quale condizione per l’accesso al luogo di lavoro, ma di divieto di accesso in assenza del green pass.
L’obbligo di possesso ed esibizione del green pass non si applica ai soggetti esenti dalla campagna vaccinale sulla base della certificazione medica di cui si è detto.
Il comma 2 dispone le medesime conseguenze già illustrate per le altre categorie di lavoratori, in caso di carenza o mancata esibizione della certificazione, ovvero la qualificazione dell’assenza come ingiustificata, con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro e sospensione della retribuzione (o altro compenso o emolumento, comunque denominati).
Diversamente da quanto previsto per il lavoro pubblico e privato, per i magistrati non è previsto che l’assenza dovuta a carenza di green pass non comporti sanzioni disciplinari. La ragione di tale mancata previsione potrebbe ricondursi alla tipicità degli illeciti disciplinari dei magistrati (segnatamente, degli ordinari), che non contemplano l’ipotesi (prevista invece dagli altri codici disciplinari) dell’assenza ingiustificata. Ma anche non volendo accedere a tale interpretazione, ritenere che tale mancata previsione comporti, di per sé sola, l’applicabilità di sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati impossibilitati ad accedere agli uffici giudiziari per carenza di green pass sarebbe del tutto irragionevole e, peraltro, contrastante con l’espressa qualificazione (art. 9-sexies, c.3) dell’accesso senza green pass come illecito disciplinare. Tale disparità di trattamento rispetto agli altri lavoratori non avrebbe, infatti, giustificazione alcuna, considerando anche che l’esclusione di conseguenze disciplinari in caso di assenza da carenza di green pass è motivata dall’esigenza di non penalizzare, ulteriormente, la posizione di quanti abbiano scelto di non vaccinarsi.
In ogni caso, in sede di conversione del decreto-legge questo aspetto potrebbe essere ulteriormente precisato, al fine di escludere ogni possibile dubbio interpretativo.
La verifica del rispetto di tali obblighi spetta ai responsabili della sicurezza interna degli uffici (il Procuratore generale presso la Corte d'appello[3] per la giustizia ordinaria), con possibilità di delega (a soggetti che peraltro, sotto il profilo privacy, dovranno essere designati come specificamente autorizzati ai sensi degli articoli 29 del Regolamento 2016/679 (UE) e 2-quaterdecies del d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.).
Le verifiche delle certificazioni verdi COVID-19 sono effettuate con le modalità di cui al comma 5 dell’articolo 9-quinquies ovvero con le già illustrate garanzie previste dal d.P.C.M. 17 giugno 2021 (mediante lettura del solo qr-code con l’app ufficiale, senza registrazione dei dati). Ulteriori modalità di verifica potranno, tuttavia, essere stabilite con circolare del Ministero della giustizia. Sul punto, va osservato come tali modalità ulteriori non potranno determinare una regressione in termini di garanzie (anche) sotto il profilo privacy[4]: presupposto necessario anche per evitare un’indebita rivelazione a terzi della condizione sanitaria o, comunque, delle scelte di profilassi vaccinale del soggetto e, quindi, anche per contrastare il rischio di discriminazioni.
La circolare ben potrà determinare, invece, le modalità organizzative di effettuazione dei controlli, che potranno essere anche a campione (art. 9-sexies, c.5, penultimo periodo, nella parte in cui rinvia al comma 5 dell’articolo 9-quinquies) individuando, dunque, anche i criteri in base ai quali formare i campioni stessi.
L’accesso dei magistrati agli uffici giudiziari in assenza di green pass è qualificato come illecito disciplinare, sanzionato per i magistrati ordinari ai sensi dell’articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 e per quelli appartenenti alle altre giurisdizioni secondo i rispettivi ordinamenti di appartenenza. Si prevede, inoltre, che il verbale di accertamento della violazione sia trasmesso senza ritardo al titolare dell’azione disciplinare.
L'accesso agli uffici giudiziari in violazione dell’obbligo di possesso del green pass e la violazione degli obblighi di controllo integrano gli estremi di un illecito amministrativo, sanzionato con sanzione amministrativa pecuniaria, irrogata dal Prefetto.
Una soluzione, questa, che potrebbe presentare aspetti delicati, se si considera che proprio l’attribuzione al Procuratore generale presso la Corte d'appello delle funzioni di controllo del rispetto della sicurezza interna degli uffici e, per quanto qui interessa, dei poteri di verifica sull’assenza di green pass risponde allo scopo di garantire l’autonomia della magistratura rispetto ad ingerenze di autorità esterne.
Il comma 8 dell’articolo 9-sexies esclude espressamente l’obbligo di green pass per l’accesso agli uffici giudiziari da parte dei soggetti diversi dai magistrati, anche onorari, ivi inclusi gli avvocati e gli altri difensori, i consulenti, i periti e gli altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia, i testimoni e le parti del processo.
Come rileva la relazione illustrativa, tale esclusione muove "dall’esigenza di chiarire che l’intervento intende regolare solo il rapporto tra l’amministrazione e i suoi dipendenti, al più con estensione per chi in favore della stessa svolge un’attività analoga a titolo onorario". L’esclusione potrebbe, prima facie, apparire irragionevole, nella misura in cui, imponendo l’obbligo di possesso del green pass soltanto a una parte di coloro che frequentano abitualmente gli uffici giudiziari senza alcun tipo di restrizione ad ogni altro (eccezion fatta per il personale amministrativo, soggetto agli obblighi di cui all’articolo 9-quinquies), è idonea a depotenziare la finalità di contenimento dei contagi perseguita dalla misura.
Tale esclusione (probabilmente fondata anche sulla caratterizzazione della normativa in esame come volta a disciplinare in via principale la posizione dei dipendenti delle diverse strutture e non dei fruitori del servizio) ha, tuttavia, una sua ragione tutt’altro che trascurabile, legata all’esigenza di evitare che l’eventuale impossibilità di accesso per testimoni, consulenti, difensori e persino per le stesse parti processuali determini conseguenze processuali pregiudizievoli, con il rischio di una vera e propria paralisi dell’attività giudiziaria.
Meno ragionevole, tuttavia, appare la mancata ricomprensione, tra i soggetti obbligati, dei giudici popolari, i quali pure partecipano, come recita l’art. 102 Cost., all’amministrazione della giustizia, ma che non possono rientrare nella categoria dei magistrati come definita al comma 1 dell’art. 9-sexies, né nella categoria della magistratura onoraria. Su questo aspetto il legislatore, in sede di conversione, potrà probabilmente fornire qualche precisazione.
Per altro verso, essendo il possesso del green pass configurato quale condizione per l’accesso, da parte dei magistrati, agli uffici giudiziari, esso non potrà estendersi in via interpretativa a fattispecie diverse quali, ad esempio, l’accesso ad altri luoghi ove essi svolgano, sia pur temporaneamente, le proprie funzioni (si pensi, ad esempio, al carcere per le convalide di arresti o fermi o per le attività proprie del magistrato di sorveglianza). In quanto obbligo straordinario, di carattere eccezionale (oltre che temporaneo) esso non può, infatti, che essere di stretta interpretazione.
Per quanto ragionevole in un contesto di perdurante emergenza pandemica, infatti, il divieto di accesso dei magistrati privi di green pass agli uffici giudiziari configura sostanzialmente una sia pur peculiare sospensione dal servizio, che come noto l’art. 107 Cost. subordina alla previa deliberazione dell’Organo di governo autonomo, “per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario”.
La previsione, con norma di legge ordinaria, di quella che in effetti appare una specifica ipotesi di sospensione dal servizio (seppure conseguente al mancato adempimento dell’obbligo del magistrato di dotarsi del certificato abilitativo conseguibile agevolmente da chiunque), senza il coinvolgimento del CSM, si fonda sulla cogenza delle esigenze di sanità pubblica tuttora sussistenti. Esigenze che hanno legittimato, del resto, analoga previsione anche per i titolari di cariche elettive negli organi costituzionali, sulla base di disposizioni dagli stessi adottate nell’esercizio della loro autonomia. Se si considera che, per i parlamentari, l’assenza di green pass potrebbe determinare- ove le delibere camerali confermassero le anticipazioni- l’impossibilità d’ingresso in Aula, con conseguente mancato esercizio del diritto di voto e delle altre prerogative connesse alla funzione, si comprende dunque quanto il fine di contenimento dei contagi, perseguito con misure quali, appunto, il green pass in primo luogo, assuma nel contesto attuale un ruolo davvero preminente.
*dirigente del Garante per la protezione dei dati personali. Le opinioni contenute in questo contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano, in alcun modo, l’Autorità
[1] I. MASSA PINTO, Volete la libertà? Eccola, pubblicato il 3 agosto 2021 sulla Rivista on line di Questione giustizia; v. anche N. ROSSI, Venerdì 6 agosto 2021. Esordisce la certificazione verde, in Questione giustizia, 6.8.21. Circa l’onerosità economica della sottoposizione a tampone per i soggetti non vaccinati cfr. audizione del prof. Boscati dinanzi alla 1^ Commissione del Senato in data 6 ottobre 2021, che si chiede se non si tratti, in tal caso, di monetizzazione dell’esercizio di una libertà.
[2] Ai quali le norme sulle sanzioni da irrogarsi in caso di accesso in violazione degli obblighi e sulle conseguenze del mancato possesso del green pass si applicano “in quanto compatibili”.
[3] Individuato dal decreto del Ministero di grazia e giustizia del 28 ottobre 1993 quale autorità competente ad adottare i provvedimenti per la sicurezza interna delle strutture in cui si svolge l'attività giudiziaria
[4] Cfr. memoria del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali depositata in 1^ Commissione del Senato il 5 ottobre 2021, nell’ambito delle audizioni sul ddl AS 2394.
Ancora in tema di obbligatorietà del vaccino contro il Covid-19 e della responsabilità per la sua mancata introduzione
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Perché è necessario ed urgente prevedere il carattere obbligatorio della vaccinazione contro il Covid-19 - 2. Perché lo Stato può essere chiamato a responsabilità per risarcimento dei danni conseguenti alla omessa adozione di una legge che, imponendo il carattere doveroso della vaccinazione, possa efficacemente arginare la diffusione del virus e con essa fugare il rischio di porre limiti stringenti per i diritti costituzionali, quali quelli che conseguirebbero alla qualificazione come “rossa” di una determinata porzione del territorio nazionale.
1. Perché è necessario ed urgente prevedere il carattere obbligatorio della vaccinazione contro il Covid-19
Avverto subito che la succinta riflessione che mi accingo a svolgere potrebbe, ad una prima (ma erronea) impressione, apparire viziata da un certo astrattismo o, diciamo pure, da palese ingenuità. Mi auguro, tuttavia, che così non sia; ed è con quest’animo che ora la rendo pubblica, precisando di considerarla una sorta di aggiunta, a mo’ di post scriptum, fatta ad altra riflessione svolta di recente in cui ho provato ad argomentare la tesi favorevole alla obbligatorietà del vaccino contro la pandemia ad oggi in corso ed alla necessità di stabilire siffatto carattere con la massima urgenza, non foss’altro che per il fatto che la misura qui nuovamente patrocinata produrrebbe l’effetto sicuro di abbattere in significativa misura i contagi e, per ciò stesso, di circoscrivere i danni anche permanenti alla salute ad esso conseguenti e – ciò che più importa – di evitare il sacrificio di non poche vite umane[1].
Che la questione ora nuovamente discussa possa presentare carattere teorico-astratto appare avvalorato dalla circostanza che la stessa non risulta iscritta tra quelle presenti nell’agenda del Governo, sulle quali il dibattito politico è animato non soltanto tra maggioranza ed opposizione ma anche tra i partiti componenti la prima[2]. Dal mio canto, confesso di non farmi soverchie illusioni che la misura qui caldeggiata possa farsi largo, traducendosi quindi in un testo di legge che la faccia propria, connotata da un pugno di indicazioni essenziali concernenti, per un verso, le sanzioni (a mia opinione, severe, anche di natura penale) per coloro che si sottraggono all’obbligo in parola e, per un altro verso, le categorie di persone che, per motivi acclarati di salute o di età, non possono andarvi soggette. È pur vero, poi, che, portandosi viepiù in avanti la campagna vaccinale, la misura suddetta, che a mia opinione avrebbe dovuto già da tempo essere stabilita, parrebbe perdere viepiù di significato. Un argomento, questo, però inconsistente, sol che si consideri la velocità con cui il virus si riproduce, dando vita a varianti sempre più insidiose ed invasive, nonché la circostanza per cui il vaccino costituisce la più efficace risorsa di cui disponiamo per contenere l’avanzata, altrimenti inarrestabile, della pandemia, con ciò che ne consegue in termini di vite umane spezzate a causa della malattia.
Basterebbe già solo quest’ultimo rilievo per avvalorare – a me pare – la tesi nella quale fermamente mi riconosco; basterebbe, insomma, far salva anche una sola vita umana in più di quelle che altrimenti andrebbero perse a causa della mancata adozione della misura qui caldeggiata per chiudere una buona volta la discussione sul punto, superando ogni residua esitazione che pure potrebbe legarsi, per un verso, ad una malintesa ed esasperata accezione del principio di autodeterminazione della persona umana[3] e, per un altro verso, ai rischi ai quali si va incontro per effetto della sottoposizione al vaccino. Rischi che, poi, come si sa, pur sempre sussistono in relazione non soltanto ad ogni vaccinazione[4] ma, in generale, ad ogni assunzione di farmaci, anche di quelli di uso comune (basterebbe rammentare cosa sta scritto nei “bugiardini” presenti in ogni confezione di medicinali…). Ad ogni buon conto, la mera eventualità che si abbiano effetti negativi conseguenti alla somministrazione del vaccino e suscettibili di manifestarsi anche a distanza di anni non regge di certo il confronto con i sicuri benefici per la salute e la vita di innumerevoli persone discendenti dalla somministrazione stessa; ed è perciò singolare che pur non sprovveduti autori seguitino stancamente a prospettare il primo argomento, quasi che meriti maggiore considerazione del secondo[5].
2. Perché lo Stato può essere chiamato a responsabilità per risarcimento dei danni conseguenti alla omessa adozione di una legge che, imponendo il carattere doveroso della vaccinazione, possa efficacemente arginare la diffusione del virus e con essa fugare il rischio di porre limiti stringenti per i diritti costituzionali, quali quelli che conseguirebbero alla qualificazione come “rossa” di una determinata porzione del territorio nazionale
Desidero ora dire da dove nasce la sollecitazione che mi è venuta a tornare a discorrere di un tema che per vero mi ero ripromesso di non riprendere più, dopo averne trattato a più riprese. Ebbene, l’idea mi è balzata subito in mente ascoltando lo sfogo, misto di rabbia e di amarezza, di un piccolo operatore nel campo della ristorazione che, incontrandomi pochi giorni addietro e conoscendomi quale studioso di diritto costituzionale, mi ha fatto una domanda a bruciapelo che mi ha lasciato francamente interdetto. Mi ha chiesto, infatti, se è rispettosa dei principi di eguaglianza e di giustizia sociale, riconosciuti dalla Carta, la circostanza per cui lui, la sua famiglia e la cerchia dei suoi parenti si erano tutti sottoposti al vaccino, in adempimento – parole sue – di un “obbligo morale”, secondo l’insegnamento del Presidente Mattarella, e, ciononostante, il paese nel quale vive ed opera rischia di essere qualificato come “rosso” a causa della colpevole negligenza di molti abitanti (non vaccinatisi), nonché dei comportamenti scorretti diffusamente adottati (per il mancato o l’improprio utilizzo della mascherina e la inosservanza del canone relativo al distanziamento interpersonale). Di qui, poi, la domanda cruciale, che mi ha indotto a stendere le brevi note che vado ora rappresentando: “ma se io resto sul lastrico, perché obbligato nuovamente a chiudere il mio esercizio commerciale, o, peggio, se vengo ugualmente contagiato da chi posso pretendere di essere risarcito per il danno subìto?”.
Qui è, dunque, il cuore della questione ora discussa.
Di certo, non è possibile, a mia opinione, avanzare la richiesta in parola nei riguardi della persona responsabile del contagio, salvo ovviamente il caso che essa sia nota e che, sapendo di essere affetta dal virus, non abbia rispettato le regole relative al proprio isolamento. Il più delle volte, però, non si ha la certezza circa il modo con cui il virus stesso è stato trasmesso, specie se si considera che, anche grazie all’avanzata della campagna vaccinale, non pochi sono i soggetti totalmente asintomatici. D’altronde, tranne che per alcuni ambienti, come quelli di lavoro, non c’è ad oggi alcun obbligo di sottoporsi a controlli periodici al fine di verificare se si è, o no, portatori del virus; lo stesso certificato vaccinale, seppur richiesto in casi progressivamente crescenti, non va di necessità esibito in alcuni ambienti sociali, difettando ad oggi un obbligo di vaccinazione a tappeto per l’intera popolazione, con le sole eccezioni dei soggetti che non possono soggiacervi per motivi di salute o di età (ma la soglia per quest’ultima, verosimilmente, sarà via via abbassata, prevedibilmente anche in tempi brevi).
Ebbene, a mio modo di vedere, l’istanza di risarcimento può essere avanzata nei riguardi dello Stato, proprio per aver omesso di stabilire la obbligatorietà del vaccino (con le sole eccezioni appena indicate), una volta che si assuma in partenza che, nel presente contesto, la Costituzione (non semplicemente facultizza ma di più) impone l’adozione della misura in parola[6].
So bene qual è il modo con cui la dottrina ad oggi pressoché unanime qualifica le omissioni del legislatore, non a caso distinte in assolute e relative, facendosi notare che avverso le prime non vi sarebbe rimedio che valga, non potendosi di certo obbligare manu militari i rappresentanti in Parlamento a varare una legge ed a dotarla di certi contenuti (e non altri) laddove restino totalmente inerti e manifestino una irresistibile vocazione a non risvegliarsi dal loro letargo[7]. Diverso discorso – come si sa – è da fare per le seconde, a riguardo delle quali mi limito qui solo a far notare che il limite delle classiche “rime obbligate” di crisafulliana memoria, ancora fino a poco tempo addietro giudicato invalicabile[8], è stato più volte messo disinvoltamente da canto dallo stesso massimo garante della legalità costituzionale, preoccupato di dare una qualche tutela – costi quel che costi[9] – ai diritti costituzionali negletti a causa delle gravi carenze esibite dai testi di legge. Com’è stato efficacemente rilevato da una sensibile studiosa[10], si è ormai trapassati dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti”, mentre dal suo canto un autorevole studioso e giudice costituzionale[11] ha discorso di un “progressivo commiato dal teorema delle ‘rime obbligate’”. Insomma, stabilire cosa resta tanto teoricamente quanto praticamente dell’antica discrezionalità del legislatore, pure fatta oggetto di oscillanti e non di rado discordanti applicazioni giurisprudenziali[12], è cosa – temo – impossibile, sia pure in modo largamente approssimativo.
Ora, a me pare difficile argomentare l’idea che la mancata prescrizione a tappeto dell’obbligo vaccinale rientrerebbe tra le omissioni relative, sì da poter coltivare la speranza che la disciplina in atto vigente, nella parte in cui contiene la prescrizione stessa limitatamente ad alcune categorie di persone, possa un domani essere caducata nella parte in cui non prevede il carattere erga omnes dell’obbligo in parola[13]. Malgrado la più recente giurisprudenza costituzionale (specie da Cappato in avanti) offra numerose testimonianze di una viepiù ardita (o, forse meglio, temeraria) intraprendenza della Consulta, la manipolazione qui astrattamente ipotizzata sarebbe francamente eccessiva; e non credo, d’altronde, che la stessa Corte possa rendersi disponibile a gravarsi di una responsabilità, morale e politica allo stesso tempo, di sì elevata portata, specie davanti ad una pubblica opinione in seno alla quale è assai agguerrito il fronte dei c.d. “no vax”, tanto da abbandonarsi – com’è noto – a manifestazioni, anche recentissime, inqualificabili (se non penalmente) pur di far valere a forza il proprio punto di vista. Si aggiunga che vi è poi una porzione ad oggi alquanto consistente di persone che non sanno decidersi se vaccinarsi, o no[14], come pure si hanno non poche persone che hanno perseguito a freddo il disegno di lasciare ad altri il compito di esporsi per raggiungere la c.d. immunità di gregge, ricevendone quindi in un momento successivo i conseguenti benefici[15], in applicazione della “logica” perversa mirabilmente racchiusa nel noto detto “armiamoci e partite” reso famoso da un accreditato poeta ravennate[16].
Il vero è che la responsabilità in parola devono assumersela i decisori politici, nelle sedi e con le forme allo scopo costituzionalmente stabilite.
Ora, è noto che da noi i meccanismi previsti per far valere la responsabilità in parola sul piano politico-istituzionale si sono inceppati da tempo o, diciamo pure, non hanno mai funzionato a dovere: indice eloquente, particolarmente attendibile, della felice intuizione di un’accreditata dottrina[17] che, già da tempo, ha messo in chiaro con puntuali argomenti come nella “crisi del rappresentante” si specchi fedelmente una ben più grave ed inquietante “crisi del rappresentato” per il cui superamento temo che la ricetta giusta non sia ancora stata inventata[18].
Si dà, tuttavia, un modo – a me pare – efficace per smuovere il legislatore dal suo annoso letargo; ed è quello di obbligare lo Stato a mettere mano al portafoglio per risarcire il danno causato dalla mancata adozione di testi di legge, laddove sia ormai acclarata la loro doverosa approvazione, come pure sia provato che il danno stesso consegue in modo immediato e diretto alla colpevole inerzia del legislatore. È questa una proposta affacciata da qualche anno a questa parte da una sensibile e coraggiosa dottrina[19], che in tempi non sospetti (perché non ancora gravati dalla cappa soffocante del Covid-19) ho qualificato meritevole di considerazione[20] e che ha quindi ricevuto ulteriori adesioni[21], senza che nondimeno ad oggi abbia trovato terreno fertile per crescere e farsi valere.
Ora, è pur vero che lo Stato potrebbe un domani essere citato in giudizio pur dopo aver introdotto l’obbligo vaccinale in parola, ed anzi proprio per il fatto di averlo stabilito. D’altronde, circola da tempo l’idea, seppur non sempre esplicitata, che una delle ragioni che hanno finora trattenuto lo Stato dall’imporre (con le sole eccezioni poc’anzi accennate) la vaccinazione a tappeto si leghi proprio al timore di essere chiamato a risarcire i danni conseguenti a vaccinazioni legislativamente imposte[22]. Francamente, mi parrebbe un argomento frutto di un calcolo cinico che non mi parrebbe meritevole di alcuna considerazione. A stare però all’ordine di idee nel quale questa riflessione si dispone, assai più oneroso per lo Stato è dover far fronte alle richieste di risarcimento per danni che possono venire da tutti coloro che, pur essendosi diligentemente sottoposti alla vaccinazione, dimostrando così non solo attenzione per la propria salute e quella altrui ma anche spiccato senso civico, vadano poi ugualmente incontro a seri problemi di salute o si trovino sul lastrico a causa della negligenza di coloro che non rispettano le regole anti-Covid e – ciò che più importa – della omessa imposizione della obbligatorietà del vaccino cui pure si deve – come si è venuti dicendo – la qualificazione come “rosso” del territorio in cui vivono ed operano.
Insomma, calcolo per calcolo – ad usare un linguaggio franco e duro – non so se convenga di più allo Stato correre il rischio di una class action esercitata da migliaia di operatori ed avente come sua causa efficiente la indebita omissione legislativa di cui qui si è discorso o l’altro di poter essere citato in giudizio da un numero estremamente esiguo di persone che abbiano patito un danno per essersi sottoposti al vaccino, sempre che – come si diceva – siano in grado di dimostrare la sussistenza di un rapporto di causa-effetto tra questo e quello.
Ma, il vero è che la questione qui nuovamente trattata non può essere di certo impostata e risolta in modo adeguato sul terreno economico, alla luce di un mero, meschino calcolo di spesa conseguente all’una ovvero all’altra scelta. Quando è in ballo la salute e la vita stessa delle persone, è questo il punto obbligato, primario, di riferimento, davanti al quale ogni altro ha da essere posposto, così come d’altronde si è fatto quando si è presa la scelta sofferta di chiudere tutte le attività produttive impossibilitate a svolgersi via remoto, imponendo il distanziamento interpersonale e le altre misure rese necessarie dalla diffusione inarrestabile della epidemia.
Il vero è che finora si è preferito stare alla finestra e confidare sulla spontanea sottoposizione al vaccino di una larga fascia del corpo sociale[23], senza introdurre una misura che avrebbe ulteriormente esasperato gli animi e causato una grave frattura in seno al corpo stesso. Una soluzione pilatesca, questa, che purtroppo ha avuto un suo costo sicuro, anche se non puntualmente calcolabile, in termini di vite umane perdute. E però se vogliamo coltivare una pur pallida speranza che il virus non diventi endemico e, comunque, che sia efficacemente contrastato nella sua rapida ed incontrollata diffusione, una sola è la via maestra da battere senza esitazione alcuna: quella di obbligare anche gli incerti o i riottosi a vaccinarsi, sì da mettere così al riparo se stessi e gli altri, arginando allo stesso tempo uno sfilacciamento del tessuto produttivo del Paese già messo a dura prova sin da quando la pandemia ha iniziato a manifestarsi in tutta la sua formidabile virulenza.
[1] Maggiori ragguagli sul punto nel mio Perché la Costituzione impone, nella presente congiuntura, di introdurre l’obbligo della vaccinazione a tappeto contro il Covid-19, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 15 settembre 2021. Avevo, peraltro, già trattato della questione nel mio La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2021, 22 maggio 2021, 170 ss.
[2] … specie in conseguenza dell’andamento non lineare ma a zig zag della politica della Lega, in relazione a non poche questioni di cruciale rilievo schieratasi più dalla parte di chi sta all’opposizione che di chi sorregge con lealtà il Governo.
[3] … a riguardo del quale, oltre al mio scritto sopra cit. che espressamente lo evoca già nel titolo, v., in termini generali, la mia voce Autodeterminazione (principio di), in Digesto/Disc. Pubbl., VIII Agg. (2021), 1 ss.
[4] … stranamente lasciate tutte miracolosamente esenti da polemiche e contestazioni, tranne appunto questa.
[5] V. quanto ne dicono al riguardo A. Mangia, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 9 settembre 2021, spec. 443 ss., e A.R. Vitale, Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 15 settembre 2021, spec. § 2.
[6] È questa, appunto, la tesi che mi sono sforzato di argomentare nel primo dei miei scritti sopra già richiamati.
[7] Degli sforzi, da noi come altrove, prodotti al fine di porre riparo alle omissioni in parola riferiscono, di recente, AA.VV., I giudici costituzionali e le omissioni del legislatore. Le tradizioni europee e l’esperienza latino-americana, a cura di L. Cassetti e A.S. Bruno, Giappichelli, Torino 2019.
[8] … per quanto, poi, a conti fatti soggetto ad imprevedibili e non di rado incoerenti apprezzamenti politico-discrezionali del giudice delle leggi, al quale è pur sempre rimasto in ultima istanza demandato di stabilire se esso sussista, o no, nei singoli casi.
[9] … pur, dunque, laddove dovesse aversene il sacrificio del principio della separazione dei poteri e, per ciò, lo smarrimento della tipicità dei ruoli istituzionali, la cui salvaguardia fa però, a mia opinione, tutt’uno con la garanzia dei diritti fondamentali, nei cui riguardi il principio suddetto è disposto in funzione servente.
[10] D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, spec. 101 ss.
[11] F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115.
[12] I non lineari sviluppi della giurisprudenza sul tema possono vedersi puntualmente rilevati in A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; v., inoltre, utilmente, C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss. Più di recente, v., poi, L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 114 ss.
[13] L’esperienza complessivamente maturata in occasione dei giudizi sulle leggi, d’altronde, conferma che la estensione di una previsione legislativa riguardante una data categoria di persone si ha nei riguardi di un’altra dalla prima non dissimile ma non verso l’intera collettività.
[14] … persone pure difficilmente intercettabili, non disponendo di strumenti sicuri per indagini in interiore hominis; e così è pure per la categoria di cui si parla subito appresso nel testo.
[15] Si è, nondimeno, fatto opportunamente notare che dell’immunità in parola “tutti egualmente ne beneficiano se tutti vi contribuiscono” [Q. Camerlengo - L. Rampa, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti Covid-19, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 30 giugno 2021, 210].
[16] Il riferimento – com’è chiaro – è ad O. Guerrini, che l’adoperò nella poesia Agli Eroissimi, inclusa nelle Rime di Argia Sbolenfi, opera data alla luce nel 1897 per i tipi del Premiato stabilimento successori Monti editore di Bologna, con lo pseudonimo di L. Stecchetti, rendendola quindi famosa. L’espressione appare, però, già nel 1891 del Nòvo dizionàrio universale della Lingua Italiana di P. Petrocchi (Fratelli Treves Editori di Milano) sotto il lemma “partire”.
[17] Ovvio il riferimento a M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss.
[18] Il vero è che – come si tentato di mostrare nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss. – si rende necessaria allo scopo un’autentica palingenesi culturale riguardante la struttura stessa del corpo sociale, della quale nondimeno non si vede a tutt’oggi neppure l’inizio.
[19] R. Conti, Il rilievo della CEDU nel “diritto vivente”: in particolare il segno lasciato dalla giurisprudenza “convenzionale” nella giurisprudenza dei giudici comuni, in AA.VV., Crisi dello Stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, a cura di L. D’Andrea - G. Moschella - A. Ruggeri - A. Saitta, Giappichelli, Torino 2015, 87 ss.
[20] … in Omissioni del legislatore e tutela giudiziaria dei diritti fondamentali, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 24 gennaio 2020, 207 e ivi, in nt. 25, altri riferimenti.
[21] V., part., C. Masciotta, Costituzione e CEDU nell’evoluzione giurisprudenziale della sfera familiare, Firenze University Press, Firenze 2019, spec. 156 ss.
[22] Un’articolata riflessione sulle ragioni che hanno, verosimilmente, sconsigliato dal rendere obbligatoria la vaccinazione nel caso nostro può, di recente, vedersi in R. Romboli, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 6 settembre 2021. V., inoltre, utilmente S. Curreri, Sulla costituzionalità dell’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19, in La Cost.info (www.laCostituzione.info), 28 agosto 2021, nonché i contributi al forum Sulla vaccinazione in tempo di Covid-19, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 2/2021, 257 ss.
[23] A quanto riferiscono i grandi mezzi di comunicazione di massa, da noi si sarebbe già raggiunta la soglia dell’80% dei vaccinati, ma non ancora appunto quella della immunità di gregge (che anzi, per alcuni, non sarebbe matematicamente raggiungibile).
Data retention: le questioni aperte*
di Giorgio Spangher
Con il d.l. n. 132 del 2021 il Governo ha dato attuazione alla decisione della Corte di Giustizia riguardante i tabulati telefonici in relazione a un caso riguardante l’Estonia (Corte Giustizia U.E. Grande Sezione, 2.3.2021, H.K. Prokuratuur, C 746/18) nonché all’impegno assunto in sede di approvazione del d.m. relativo ai costi delle intercettazioni telefoniche.
La materia è disciplinata dall’art. 1 attraverso due modifiche al comma 3 dell’art. 132 del dlg n. 196 del 2003, nonché attraverso l’inserimento di un comma 3 ter.
Il contenuto delle nuove previsioni, delle decisioni intervenute nella giurisprudenza prima dell’approvazione del decreto-legge, è già stato esposto nei commenti di Resta (La nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati) e di Gittardi (Sull’utilizzabilità dei dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell’ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021) già pubblicati nella rivista.
Ad memoriam: si prevede che, fermi i termini di conservazione, per i reati indicati nel d.l., la competenza all’autorizzazione all’acquisizione dei data retention spetti al giudice, su richiesta del p.m., ma anche del difensore dell’imputato, della persona offesa e delle altre parti private.
In altri termini, c’è un allargamento della platea dei richiedenti anche in relazione al fatto che l’acquisizione può essere richiesta non solo nella fase delle indagini preliminari.
Le perplessità della nuova previsione si incentrano sul fatto che manca il riferimento, che andrebbe esplicitato, che la violazione delle citate disposizioni va sanzionata con l’inutilizzabilità che risulta espressamente prevista solo dal novellato comma 3 bis. Ancorchè non possa dubitarsi che si tratti di divieto probatorio, una specificazione non appare inopportuna.
Suscita qualche ulteriore riserva l’indicazione dei reati per i quali è possibile l’acquisizione dei tabulati: invero, sembrano largamente superate le indicazioni della Corte di Giustizia che parla di forme gravi di criminalità e di prevenzione a gravi minacce alla sicurezza pubblica.
Peraltro, non è già mancato qualcuno che invece ritiene che restino estranei alla norma reati significativi puniti sotto la soglia indicata.
È già stato segnalato come la norma sconti un difetto di coordinamento con l’art. 254 bis cpp che adeguandosi alla Convenzione di Budapest disciplina le sequenze procedimentali del sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi, stabilendo che questo venga disposto dall’autorità giudiziaria (quindi anche dal p.m., ma non dai difensori).
Sempre in attuazione della decisione della Corte di Giustizia, il comma 3 bis disciplina l’intervento d’urgenza del pubblico ministero e la successiva convalida del giudice.
Non è stato riproposto l’art. 2 (che regolava la disciplina transitoria) innestando la questione sulla retroattività o meno della nuova disciplina rispetto alle acquisizioni disposte – nei procedimenti in corso – da parte del pubblico ministero, in linea con quanto previsto dalla legge (art. 132 cit.) e della giurisprudenza a sezioni unite Amuri, che aveva riformato la precedente sez. u. Gallieri.
Forse non è infondato ritenere che la mancata riproposizione, che avrebbe consentito di porre la questione in tutti i procedimenti in qualsiasi grado si fossero trovati, sia stata determinata dalla diseconomia della procedura legata al ritardo che la richiesta di trasmissione di atti – per la decisione – avrebbe determinato.
Resta naturalmente aperto il problema dell’applicabilità della nuova norma alle acquisizioni effettuate al di fuori delle sue previsioni.
Non appare infondato ritenere che trattandosi di norma a valenza processuale questa sia regolata dal principio del tempus regit actum. Pertanto le acquisizioni, pendente l’art. 132 cit, disposta dal pm senza autorizzazione del giudice, dovrebbero conservare efficacia. Tuttavia, si dovrebbe ritenere che se i fatti per i quali sono state richieste sono estranei all’ambito di operatività della nuova disciplina le risultanze debbano ritenersi inutilizzabili, non potendo il giudice acquisirle, trattandosi di un limite probatorio.
Restano, inevitabilmente, consegnati agli sviluppi processuali le iniziative sviluppate dai difensori dopo la pronuncia europea (trasmissione alla Corte di Giustizia, riproposizione delle questioni rigettate).
Non può escludersi che all’esito del processo, la difesa possa attivare iniziative presso le Corti sopranazionali, lamentando il pregiudizio dei diritti fondamentali.
Sul medesimo argomento si rinvia inoltre in questa Rivista a Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna di Federica Resta - I tabulati: un difficile equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela di diritti fondamentali di Giorgio Spangher e La sentenza CGUE del 2 marzo 2021: i giudici nazionali affrontano le criticità.
Si rinvia altresì a Acquisizione di dati di traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale: il decreto-legge 30 settembre 2021 n. 132.
Diritti delle donne, diritto di essere donna
Intervista di Ilaria Buonaguro a Maura Gancitano
Sabino Cassese, nell’introdurre il numero speciale dedicato ai settant’anni della Rivista trimestrale di diritto pubblico da lui stesso diretta da altrettanti cinquanta, si è interrogato sull’effettivo “stato dell’arte” dell’attuazione della nostra Costituzione, guardandosi indietro come è consuetudine fare in occasione di un traguardo importante. La domanda che si è posto e ci pone provocatoriamente il Giurista ha però il sapore amaro del realismo e tradisce subito la prospettiva critico-negativa adottata: non ripercorrere, quindi, gli obbiettivi raggiunti per appuntare le medaglie sul petto, ma elencare quelli falliti, riconoscere le occasioni perse e mancate, per poi poterne sviscerare ed esaminare le cause. Ricorrendo alla metafora delle “promesse costituzionali”, Cassese parla perciò di promesse “non mantenute o tradite”. E, prima fra tutte, annovera la promozione della parità di genere, la cui causa lucidamente individua in “lentezze culturali”.
Sarebbe stata sufficiente questa premessa per ricordare la cifra di perenne attualità della tematica della parità di genere – che si iscrive nel più ampio spettro dei diritti delle donne e della “questione femminile”. Ma i recentissimi episodi riportati dalle cronache – la cadenza ormai giornaliera delle notizie di femminicidi commessi nel nostro paese, tale da aver fatto parlare di una vera e propria emergenza o di una “strage delle donne”, da una parte; e il dramma umano che stanno vivendo le donne afghane e a cui assistiamo imperterriti, dall’altra – ci riportano ad uno stato emotivo di allarme e di sgomento più impellente, toccando le corde che trascendono la riflessione lucida, maturata a freddo, da cui pur si è inteso partire, del puro irrazionale dolore.
La tragica condizione delle donne afghane, in particolare, ci ricorda come il solo fatto di nascere ed essere donna in una parte “sbagliata” del mondo possa ancora segnare irreparabilmente il destino di una vita umana. E tutte le storie di donne interrotte per mano violenta ci ricordano, ancora, di come i diritti delle donne, lungi dall’aver raggiunto una meta (ideale) stabile, meritino una attenzione costante ed un fronte unito.
Dei macro-temi dei diritti delle donne, della parità di genere e di tutte le loro sfaccettature conversiamo oggi con Maura Gancitano, giovane filosofa del panorama culturale italiano, co-fondatrice assieme al marito e filosofo Andrea Colamedici della casa editrice, blog e scuola di filosofia Tlon. Un progetto culturale ambizioso e coraggioso (e indubbiamente riuscito) che Maura e Andrea hanno coltivato perseguendo uno scopo preciso: restituire alla filosofia la sua primigenia ed essenziale funzione di stimolo incessante alla riflessione, in grado di raggiungere – in un certo qual modo, democraticamente – tutti e di fungere da strumento universalmente valido nel comune vivere quotidiano. Attraverso una comunicazione diretta e di immediata comprensione e sfruttando le potenzialità della fluidità del web, Maura Gancitano e Andrea Colamedici hanno così riportato la filosofia nelle piazze, seppur non più solo fisiche, ma anche virtuali, rendendosi artefici di una filosofia che potremmo definire 2.0. o, come pure è già stata efficacemente denominata, “pop”.
Tra le riflessioni che accompagnano la ricca attività di promozione filosofico-culturale di Maura Gancitano, un posto di prim’ordine è stato sempre occupato dalle donne e dalla parità di genere.
Il libro Liberati dalla brava bambina scritto a quattro mani con Andrea Colamedici, edito da Harper Collins e pubblicato nel 2019 – che pure è richiamato nel corso dell’intervista – costituisce solo un esempio di questa sensibilità verso l’universo femminile.
Tentando di ricostruire un quadro che, seppur variamente articolato, non è certo completo, l’intervista intende affrontare le ombre, ma anche le luci del nostro tempo, tanto analizzando le storture sistemiche, i punti di arresto e i passi falsi sul cammino della parità di genere, quanto riconoscendo i progressi che sono stati compiuti – in particolare nell’ultimo anno – grazie allo sforzo unanime e corale delle istituzioni e della società civile. A partire dal riscontro di un dato, dal quale speriamo non si possa più tornare indietro: la maggiore consapevolezza del “problema” e il crescente interesse verso le sue possibili soluzioni.
1) Il lessico di genere è certamente una tematica verso la quale negli ultimi anni si è manifestata un’attenzione crescente, che al tempo stesso non ha tardato a divenire terreno di conflitti e diversità di vedute, soprattutto con specifico riguardo all’ambito delle professioni e degli incarichi politico-istituzionali (sull’argomento già in questa Rivista, l’intervista a più voci curata da Marco Dell’Utri, Lessico di genere).
Se infatti l’accostamento lessico di genere/parità di genere può essere letto come un climax ascendente in cui il raggiungimento della parità passa attraverso il riconoscimento della diversità di genere espressa attraverso la declinazione al femminile di tutti i termini che esprimono una qualifica, l’imprinting della diversità che consegue al ricorso al femminile è da taluni letto come una contraddizione in termini e di risultato.
Peraltro, nella maggior parte dei casi, si registra una certa resistenza proprio da parte delle donne, le quali – come Lei stesso ha già avuto modo di rilevare – riconoscono in “selettivi” titoli al femminile una perdita di autorevolezza, che temono si possa riflettere sulla loro immagine.
Quanto ancora – incrociando così un tema di più ampio respiro – il potere è avvertito dalle donne e dalla società esclusivamente in termini maschili? Come si può interrompere questo cortocircuito che conduce le donne a mimetizzarsi nel “maschile inclusivo”?
In questo momento coesistono molteplici sensibilità, ed è difficile quantificare con esattezza quanto il potere sia ancora avvertito come un fatto maschile a cui, spesso in modo inconsapevole, bisogna adeguarsi. Ci sono senza dubbio ancora molte donne che lo sentono e che si sentono addirittura attaccate da chi invita a usare il femminile, eppure voltandoci indietro possiamo riconoscere quanto sia cambiata la consapevolezza nella società civile, quanto la riflessione sul linguaggio abbia uno spazio in ogni ambito della vita - nell’editoria scolastica, nelle comunicazioni aziendali, nella pubblicità, nella pubblica amministrazione, solo per fare alcuni esempi - laddove fino a pochi anni fa non rappresentava neppure una questione da affrontare. Le cose, seppur lentamente, stanno cambiando.
2) Le donne e il loro corpo. Un argomento vastissimo e dalle implicazioni caleidoscopiche, che tuttavia condividono la medesima origine: parlare delle donne rimanda in maniera diretta, a tratti automatica, all’esteriorità e alla dimensione della corporeità. Un legame, questo, reso ancor più stretto dal rilievo che l’estetica assume nella società contemporanea.
A proposito di questo riflesso condizionato, troppo spesso oggi accade che il giudizio, tanto negativo quanto positivo, sulla fisicità di una donna sia utilizzato per screditare il suo pensiero, instaurando un vero e proprio rapporto di proporzionalità tra corpo e valore dell’argomentazione.
Quanto influisce ancora la componente fisica nella libertà di espressione di una donna e, di converso, nella percezione di credibilità delle proprie opinioni?
Influisce ancora molto, e in ogni ambito. Condiziona la stessa vita di noi donne, ci porta sempre a chiederci come appariremo in una situazione pubblica, come verremo giudicate, e di conseguenza assorbe tempo, energie economiche e pensieri. Non siamo libere di dedicare tutto il nostro tempo a cosa diremo e a cosa lo diremo, come accade agli uomini. In effetti in ogni situazione pubblica il corpo della donna viene giudicato, centimetro per centimetro, indipendentemente dalle sue forme, dalle sue dimensioni e dalle scelte di abbigliamento e trucco. È importante sottolineare che il problema non è essere belle o brutte, con un corpo conforme o no: è il fatto stesso di essere riconosciute donne a rappresentare un problema, e questo è un fatto culturale. Il corpo femminile è ancora visto come non civilizzato e disturbante, per questa ragione in molti settori lavorativi le donne tendono a nasconderlo sotto abiti “maschili”, in modo che non dia fastidio.
3) Nel Suo libro “Liberati della brava bambina”, uscito nel 2019 ed edito da Harper Collins, scritto assieme a Suo marito Andrea Colamedici, analizzate, da un punto di vista filosofico, otto storie di donne tratte dalle più antiche alle più moderne forme di narrazione. Fornendone una lettura diversa, seppur basata sui testi originali, compite una vera e propria opera di decostruzione di stereotipi che hanno storicamente accompagnato determinate figure femminili e che hanno contribuito ad alimentare una visione monolitica della donna, incastrata in ruoli rigidi e precostituiti che ancora oggi condizionano il libero percorso di “fioritura” – per usare la vostra terminologia – di ogni donna. Attraverso questo percorso di disvelamento, al tempo stesso, tentate di ricucire quella ferita atavica e profonda che è comune a tutte le donne.
C’è, come si usa dire con espressione anglofona, un problema di storytelling? Abbiamo cioè conosciuto determinate versioni di figure femminili, e con esse introiettato certi condizionamenti, perché ci è stata tramandata una interpretazione fondata su un univoco punto di vista maschile?
Le storie hanno un potere, veicolano valori, visioni del mondo, giudizi e pregiudizi. È sempre stato così nella storia, a qualunque latitudine, ed è così ancora adesso. I miti omerici hanno influenzato profondamente il nostro sguardo sul mondo, che è poi la ragione per cui Platone ha scelto di sostituirli con i propri, e la mitologia greca ci ha trasmesso una certa visione del rapporto uomo-donna. Abbiamo considerato Zeus e Hera la coppia monogamica fondata della cultura occidentale, e oggi possiamo riconoscere - senza gettare via quel patrimonio, ma al contrario recuperando le storie apocrife - quanto fosse problematico. Ecco perché la psicologia nell’ultimo secolo ha iniziato a indagare questi significati, occupandosi di fiabe, racconti popolari e storie che sembravano solo intrattenimento, ma che invece cementavano una certa cartografia dei rapporti umani. Anche il modo di dare la notizia di un femminicidio sui giornali ha una componente narrativa importante, che ci aiuta a capire quanto la prospettiva con cui si racconta una storia abbia a che fare con la vita e la morte.
4) L’11 febbraio la Corte Costituzionale ha sollevato dinanzi a sé questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma primo, del codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.
La Corte, nel ripercorre le tappe della propria giurisprudenza, si sofferma in particolare su quanto riconosciuto già dall’ordinanza n. 61 del 2006, ovvero che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Successiva a tale fondamentale pronuncia è la sentenza n. 286 del 2016, con la quale, ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, Cost., la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che non consentiva di trasmettere di comune accordo ai figli al momento della nascita anche il cognome materno, e riconoscendo al tempo stesso la necessità di pervenire ad un ristabilimento del principio della parità dei genitori attraverso un intervento del legislatore che disciplinasse organicamente la materia. A tale invito è seguita la consueta inerzia del decisore politico, che ha portato la Corte a tornare, seppur in termini diversi, sulla medesima questione.
In attesa che la Consulta si pronunci, ponendo nuovamente allo scoperto le deficienze e i ritardi del nostro consesso parlamentare e parimenti gettando luce sui punti ancora bui del nostro impianto legislativo, ritiene sia un segnale importante in vista del superamento, anche ideologico, del sistema patriarcale?
È un segnale importantissimo, e negli ultimi decenni ne sono arrivati molti, per fortuna. Stiamo progressivamente abbandonando, con lentezza ma con costanza, una serie di retaggi culturali che ponevano la donna in una condizione di subordinazione, o addirittura di assoggettamento, rispetto all’uomo. In questa prospettiva anche la questione del cognome è importante, perché se è vero che la famiglia e la relazione genitore-figlio dovrebbero fondarsi sull’amore, come ogni rapporto umano rappresentano una dinamica di potere. Se il potere di dare il cognome è solo di un genitore, ne segue che ci sarà uno squilibrio, se non altro nella dimensione pubblica. Quella verso cui stiamo andando in questi anni è, al contrario, una società in cui i genitori possano avere parità di potere, possano davvero cooperare senza che uno prevalga sull’altro, e questo ci porta a mettere in dubbio anche degli aspetti che di primo acchito potrebbero apparire superflui.
5) La ancora oscura vicenda della diciottenne pakistana Saman Abbas ha riportato all’attenzione dei media il fenomeno dei matrimoni combinati (e di quello, in qualche modo affine, delle cc.dd. “spose bambine”). Il Viminale ha da poco pubblicato il primo report statistico sulla costrizione e induzione a nozze in Italia, con molta probabilità sottostimato rispetto al numero reale, a circa due anni dall’introduzione del relativo delitto di cui all’art. 558bis c.p. Sebbene vada certamente ascritto merito all’iniziativa del legislatore di criminalizzare i matrimoni forzati (i quali nella maggior parte dei casi coinvolgono giovani o addirittura minorenni), va altresì considerato come nei reati culturalmente orientati - o comunque connotati da motivi di matrice ideologico-culturale nonché religiosa - l’intervento penale assuma carattere eminentemente sanzionatorio. Difatti, gli auspicati meccanismi di coazione psicologica che la parte precettizia del divieto dovrebbe attivare secondo la funzione di prevenzione generale integratrice che le è propria, sono in questi contesti largamente inefficaci.
Crede pertanto che, così come nel caso del più vasto problema della violenza sulle donne, lo Stato debba farsi carico di intervenire in un’altra direzione, che miri a potenziare la prospettiva della prevenzione rispetto a fenomeni così strutturalmente complessi e, appunto, espressivi di identità culturale?
È un tema molto complesso e difficile da riassumere. Credo prima di tutto che, nonostante la comunità musulmana in Italia conti milioni di persone, sia l’opinione pubblica sia le istituzioni ne sappiano ancora molto poco, e questo rischia di favorire l’islamofobia, specie di fronte a un caso come quello di Saman Abbas. È importante, per questa ragione, dare voce a tutte le attiviste femministe musulmane che possono fare chiarezza e permettere di orientarsi nella complessità delle questioni religiose. La religione musulmana non è in contraddizione con i principi democratici, prova ne è proprio l’espressione del femminismo musulmano, ma perché si possa fare prevenzione di certi fenomeni è urgente che lo Stato abbia prima di tutto conoscenza e consapevolezza della cultura di cui si sta parlando. Spesso non si capisce quanto, oltre all’aspetto repressivo, sia necessario un lavoro culturale. Non accade solo in casi come questi, ma anche in tutto quello che ha a che fare con la violenza di genere.
6) Affacciandoci ora sul panorama internazionale, il primo luglio la Turchia è ufficialmente uscita dalla Convenzione di Istanbul, a seguito della decisione del Consiglio di Stato turco di respingere il ricorso con cui l’opposizione aveva chiesto che la decisione del presidente Erdogan fosse annullata.
Non erano mancate reazioni, sia di aperta protesta delle donne turche, scese in piazza ad Istanbul, come ad Ankara e a Smirne; sia di denuncia delle istituzioni ed autorità europee ed extraeuropee.
E se la motivazione ufficiale di tale volontà di recesso è stata indicata nel (presunto) raggiungimento di un adeguato standard di tutela delle donne attraverso strumenti di protezione interni allo Stato turco, – il che fa amaramente sorridere, guardando ai numeri dei femminicidi e delle violenze sulle donne perpetrate in Turchia solo tra il 2020 e questa prima metà di 2021, senza considerare un certa cifra “oscura” di morti di donne dubbie –; è fin troppo evidente che si tratti di una calcolata scelta politica, da collegare all’intento di Erdogan di avvicinare a sé quella consistente parte dell’elettorato conservatore che vede nella libertà delle donne un nemico della famiglia tradizionale.
Sorvolando sulle sabbie mobili su cui si pretenderebbe di reggere la motivazione ufficiale, e scomodando il secondo imperativo categorico di Kant, sono le donne ancora una volta trattate solo come mezzo, e mai come fine, come bieco strumento di consenso politico?
La Turchia è sempre di più l’ago della bilancia di molte questioni geopolitiche, quindi quello che accade lì è da osservare con attenzione e con estrema serietà. L’uscita dalla Convenzione di Istanbul rientra in un progetto internazionale di smantellamento dei diritti riproduttivi e sessuali delle donne, che si scontra invece con quello che l’Unione Europea sta cercando di fare, ponendo la violenza di genere come eurocrimine. Io credo che il progetto di sottrazione dei diritti delle donne sia prima di tutto un fatto ideologico, più che una questione di consenso politico. Le donne fanno paura, se sono libere diventano pericolose e mettono in dubbio i ruoli di genere, quindi devono perdere dei diritti acquisiti, a cominciare da quello all’aborto. Questo è pericolosissimo, ma dagli Stati Uniti, all’Ungheria, alla Polonia e anche a certe regioni italiane, accade sempre più di frequente.
7) Il tema degli stereotipi di genere è stato in questa Rivista acutamente sviscerato da Marco Dell’Utri entro la cornice specifica del linguaggio giuridico, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico.
L’analisi – che si iscrive all’interno di un più ampio ciclo di riflessioni allo stesso dedicato – prende le mosse dal Programma di Gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione, predisposto dal Primo Presidente Pietro Curzio.
Dalla ricostruzione di significative decisioni giudiziarie – talune più lontane altre più vicine nel tempo – si evincono due aspetti: il primo è indubbiamente la tenace pervasività e diffusività del fenomeno finanche nelle trame motivazionali dei provvedimenti giudiziari (oltre che, ancora, nelle modalità di conduzione di interrogatori e contro-esami, specie nell’ambito di reati a sfondo sessuale); il secondo, che vi è, allo stesso tempo, una consapevolezza crescente e una maggiore sensibilità rispetto al problema, che si traduce nella attivazione di politiche settoriali di contrasto.
Intravede, anche nell’ambito di tale contesto, che è espressione di uno dei poteri fondamentali dello Stato e ha diretta incidenza sulla vita delle persone, un momento di significativa apertura e propulsione al cambiamento?
Credo proprio di sì. Fino anche solo a due anni fa questo tipo di decisioni sarebbero state quasi impossibili e sarebbero state ritenute superflue o addirittura incomprensibili. Oggi ci troviamo al centro del dibattito, di fronte a posizioni inconciliabili e a tantissime resistenze, ma finalmente il dibattito è aperto. È una rivoluzione, nonostante tutto.
8) Lo scorso 4 marzo il quotidiano la Repubblica ha pubblicato una lettera aperta indirizzata all’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, su iniziativa di Maria Beatrice Giovanardi - l’italiana che ha già ottenuto la modifica in chiave non sessista della definizione di “woman” dell’Oxford Dictionary - e firmata da cento personalità del mondo della politica e della cultura. Con questa lettera si reiterava, rendendola di dominio pubblico, la richiesta (già fatta pervenire direttamente alla Treccani) di procedere ad un aggiornamento delle definizioni sinonimiche del termine donna, da operare in due direzioni: la rimozione dei “vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera di riferimento”; l’inserimento di “espressioni che rappresentino, in modo completo ed aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società”.
Ne è dapprima seguita una replica pubblicata sia sul sito della Treccani che su la Repubblica, a firma della direttrice del Vocabolario Valeria Della Valle, ove si precisava come l’intento dell’Istituto fosse quello di registrare tutte le espressioni che, nel corso della storia della lingua italiana, sono state riferite alla parola “donna”, comprese, dunque, quelle che ne dipingono una visione esclusivamente dispregiativa.
Il successivo 14 maggio la Repubblica ha informato i propri lettori dell’avvenuta espunzione di tutte le espressioni denigratorie in precedenza contenute nella definizione di “donna” del vocabolario online della Treccani, alla quale seguirà a breve un più completo aggiornamento del lemma.
È concorde nel ritenere che le istituzioni della cultura, qual è indubbiamente l’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, debbano essere a pieno titolo partecipi del processo di cambiamento di un habitus mentale che, seppur non ancora del tutto smantellato, rivela una sempre maggiore inadeguatezza a rappresentare la società contemporanea?
Rispetto a questa vicenda ho letto pareri molto discordanti, e in effetti credo che rappresenti una domanda aperta, che è poi legata a due differenti approcci della linguistica: quello descrittivo e quello normativo. Un vocabolario deve descrivere un termine o prescrivere come andrebbe usato? Molte persone pioniere del linguaggio inclusivo in Italia (penso a Vera Gheno e Federico Faloppa) hanno espresso disaccordo rispetto alla cancellazione, proprio perché i vocabolari registrano tutto quello che la comunità dei parlanti usa, quindi anche le espressioni dispregiative e offensive. È piuttosto la comunità dei parlanti a dover cambiare il giudizio di valore che esprime rispetto a un termine o scegliere di non usarlo più, così da espellerlo dal vocabolario. Io sono abbastanza d’accordo, anche perché questo non solleva le istituzioni che osservano e descrivono la nostra lingua dal partecipare al processo. Purtroppo, a differenza di Treccani, ci sono molte altre istituzioni che hanno paura di questo cambiamento.
9) Ancora in ambito di istituzioni culturali. L’Università di Bari ha di recente comunicato di aver previsto, a partire dal prossimo anno accademico, una riduzione del 30% delle tasse universitarie in favore delle studentesse (con reddito ISEE inferiore a 30mila euro) che sceglieranno di iscriversi a corsi di laurea (puntualmente elencati) che registrano storicamente una percentuale molto bassa di “presenza” femminile.
L’iniziativa ha suscitato reazioni di diverso segno: la più eclatante, tra le contrarie, è certamente quella del senatore Pillon, che ha sostenuto la inopportunità di tali politiche, difettando – a suo dire – nelle donne una predisposizione naturale all’apprendimento delle materie “tecniche”, essendo viceversa più portate per “materie legate all’accudimento”.
Di poco successiva è la notizia del bando per quindici borse di studio stanziate dal Politecnico di Milano e finanziate da privati, destinate esclusivamente a diplomande che intendano iscriversi alle facoltà di ingegneria.
Al di là di qualsivoglia preconcetto, Lei che attraverso il progetto Tlon e la sua Scuola di filosofia si occupa in particolare di “fioritura personale” e che ha esperienza di formatrice nelle più affermate aziende, crede sia possibile sostenere una correlazione tra genere e inclinazione?
O è anch’essa il frutto di un’operazione subdola di “etichettamento”?
È senza dubbio un condizionamento culturale, non c’è alcuna ragione biologica per credere che ci sia una correlazione. Come esseri umani, al di là del nostro genere possiamo avere inclinazioni per certe discipline e non per altre. Del resto, le donne hanno iniziato a frequentare l’università poco più di un secolo fa, per millenni è stato detto loro che studiare non fosse “femminile” e che leggere rendesse sterili. Parlare di discriminazione di genere, infatti, non significa dire che le donne siano migliori degli uomini o che debbano voler fare tutto, ma significa valutare le proprie capacità e quelle delle altre persone senza i pregiudizi legati al genere, senza pensare che ci siano cose per donne e cose per uomini. Purtroppo in Italia ci sono ancora questi pregiudizi diffusi.
10) Altro tema controverso che ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico è quello delle quote rosa. Le critiche che le stesse donne muovono al c.d. quotismo si fondano sulla convinzione che riservare dei posti sulla base della mera appartenenza al genere femminile offuscherebbe il ricorso ai canoni del merito e della competenza quali univoci criteri del processo di selezione, disegnando una corsia privilegiata.
Di contro, chi si professa a favore delle quote rosa, vi riconosce una funzione di “cura necessaria” rispetto ad uno stato di cose malsano, costituito da un dislivello di potere incapace di riassestarsi da solo. Chi infatti detiene un privilegio non è disposto a cederlo sua sponte.
Secondo Lei è questo il modo in cui devono essere intese le quote rosa? Ritiene che possano svolgere una funzione simil-pedagogica, che le renderà addirittura superflue in un prossimo futuro?
Secondo me bisogna partire dal fatto che ci siano donne e uomini capaci e competenti in ogni campo, ma che per i cosiddetti gender bias le donne vengano sistematicamente escluse (perché ritenute poco autorevoli o perché si pensa che non siano adatte a ricoprire una certa carica perché madri, per fare due esempi). Le quote, in questo senso, non sono uno strumento premiale, ma hanno lo scopo di smantellare i bias. Se pensiamo che le quote siano un premio, siamo in sostanza dicendo che stiamo dando una posizione a una persona che non la merita, quindi che non è competente. La legge Golfo Mosca ha dimostrato, al contrario, che le donne in grado di partecipare ai CdA c’erano eccome, ma non venivano viste. Sarebbe augurabile, come sta accadendo in altri paesi, che le quote diventino superflue a un certo punto, ma in Italia la discriminazione è talmente grande che purtroppo sono ancora essenziali.
11) Le cc.dd. audizione cieche – da Lei ricordate in una recente intervista – sperimentate a partire dagli anni ’50 dalla New York Philharmonic hanno avuto l’esito di un aumento fino al del 30% delle orchestrali assunte.
Non si tratta della prima forma di “occultamento” dell’identità di genere – rectius genere femminile – che ha ottenuto riscontri di favore per le donne: si pensi, ad esempio, all’utilizzo di pseudonimi, nomi maschili o addirittura all’anonimato da parte di tante scrittrici nella storia della letteratura, resosi funzionale se non addirittura necessario in alcuni casi per essere ritenute meritevoli di pubblicazione, in altri per incrementare il numero delle vendite.
Da qui il seguente quesito: è opportuno incentivare simili prassi di oscuramento del proprio genere come metodi più imparziali di selezione, privilegiando il dato pratico favorevole alle donne, o invece valorizzare l’aspetto della conduzione, riconoscendo l’inganno di un sistema che non affronta l’ostacolo ma semplicemente lo aggira?
Le audizioni cieche dimostrano che la ragione per cui le orchestrali non venivano scelte era il genere, e rappresentano un caso di studio interessante per smontare l’idea che la discriminazione non esista. Ovviamente doversi nascondere perché emerga il proprio talento è svilente e dimostra quanto lo sguardo sui corpi e sulle identità sia pervasivo. Serve come caso limite, ma dovrebbe portare a una riflessione sui gender bias nei processi di selezione. Ogni persona dovrebbe essere libera di mostrarsi in pubblico senza dover nascondere una parte di sé per essere considerata adatta a un ruolo.
12) Il c.d. Family Act – riforma che si colloca nel quadro del PNRR – realizza per la prima volta un approccio “integrato” nelle politiche di sostegno alle famiglie, prevedendo l’adozione di misure che operano in direzioni diverse ma convergono su un medesimo fronte. Tra queste meritano di essere menzionate gli incentivi al lavoro femminile, l’estensione del congedo obbligatorio di paternità, la revisione dei congedi parentali (per una ricostruzione dei due istituti e delle relative differenze si rimanda in questa Rivista all’articolo di Francesco Bordonali, La tutela delle pari opportunità: un primo (mezzo) importante passo in avanti).
Ritiene che, anche su impulso della normativa europea (si guardi in ultimo la diretttiva UE n. 2019/1158 del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza) nonché delle sfide lanciate dall’Unione per far fronte alle “questioni sociali” acuite dalla pandemia, il Family Act testimoni una maggiore coscienza del sempre più necessario ricorso alla logica della condivisione, che deve partire dalle famiglie, per poi permeare tutti i contesti lavorativi e infine i piani più alti del potere?
Credo che la sensibilità stia cambiando, e che in questo l’Unione Europea abbia un ruolo centrale, così come lo hanno - sebbene in modo diverso - altre realtà sovra-nazionali. L’agenda 2030 dell’ONU, per esempio. è un documento fondamentale per il cambiamento di una serie di processi sociali, economici, ambientali, ma anche di stereotipi e dinamiche relazionali. L’obiettivo di sviluppo sostenibile relativo alla parità di genere (SDG 5) parla sia della salute riproduttiva, della contraccezione, delle mutilazioni genitali femminili, ma anche della divisione dei carichi domestici, della distruzione degli stereotipi e di un’altra serie di comportamenti culturali che sono ovviamente meno gravi di altri, ma che rientrano nella stessa visione dei rapporti tra i generi.
13) Grazia Deledda, scrittrice premio Nobel per la letteratura 1926, e Hannah Arendt, filosofa politica collocata tra i pensatori più influenti del Novecento. Due donne, tra le tante, che si sono distinte in diversi campi della cultura. Allo stesso tempo due donne spesso ignorate dai programmi scolastici e di conseguenza poco conosciute dagli studenti.
Inserire stabilmente nei programmi, per lo meno delle scuole superiori, figure di donne come la Deledda per la letteratura e la Arendt per la filosofia, aiuterebbe a comunicare agli studenti un messaggio duplice: fornire un esempio e un modello di ispirazione per le giovani donne e di inclusione nei campi artistici, culturali e latu sensu politici per chi è in una fase cruciale della propria formazione.
Esiste anche in questo caso un difetto di rappresentazione, da imputare ai nostri programmi scolastici, che sarebbe opportuno correggere?
Le donne vengono ancora sistematicamente dimenticate e cancellate, anche se - come Deledda - hanno vinto il premio Nobel per la Letteratura, finendo per essere lette più all’estero che nel proprio paese. Ancora una volta, rappresentare l’opera delle donne non è un premio o un contentino, ma il riconoscimento giusto di un valore. Se prima dell’Ottocento le donne non potevano, salvo davvero pochissime eccezioni, occuparsi di letteratura e filosofia, da un secolo e mezzo questo accade, dunque come è possibile che nei manuali scolastici siano ancora assenti?
14) “La prima donna che…” La prima donna a…” o “Per la prima volta una donna…” sono frasi che – complici i mass media – sentiamo in maniera sempre più ricorrente.
Eppure, nella positività del messaggio che questi “annunci mediatici” intendono trasmettere, essi testimoniano anche l’eccezionalità di vedere una donna ricoprire determinati ruoli.
Non a caso, nella bellissima intervista di Paola Filippi a Margherita Cassano, La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, pubblicata in questa Rivista, la Dott.ssa Cassano ha ribadito quanto già significativamente detto poco dopo la sua nomina, e cioè che “potremmo ritenere raggiunta la parità solo quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna” in un ruolo apicale della magistratura.
Questo, in effetti, è l’obiettivo che tutti noi, non solo le donne, ci dovremmo prefiggere.
Ma nel frattempo che ciò accada, potrebbe suggerirsi una riflessione: se le notizie di donne che hanno raggiunto i vertici nella loro professione, che si sono distinte in un determinato settore, che hanno scalato con successo il cursus honorum, realmente comunicano messaggi ambivalenti, nel lungo frangente di questo percorso tutto in salita probabilmente dovremmo continuare a privilegiare la faccia della medaglia che ci sorride. Per offrire l’idea della possibilità a chi è cresciuta invece nella cultura della impossibilità e della negazione delle opportunità; per offrire un messaggio di speranza a chi stava lottando ma stava per cedere…
Io non credo che sottolineare queste situazioni sia del tutto sbagliato, specie perché sono frequenti e danno l’idea che un altro muro sia crollato, e che dunque sia possibile anche per altre donne fare lo stesso. Il problema è quando la donna che raggiunge un certo ruolo per la prima volta viene raccontata solo in quanto donna, e spesso in quanto madre, oscurando così il suo nome, la sua individualità, le sue competenze. È importante raccontare cosa sta cambiando in tutti i settori, ma soprattutto raccontare le storie di queste donne, che spesso sono potenti, particolari, uniche, e che rischiano di essere appiattite sullo stereotipo de “la prima donna che…” Abbiamo bisogno di sapere che il soffitto di cristallo si può infrangere, ma abbiamo bisogno di ascoltare la storia di chi l’ha fatto.
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