ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Ida Nicotra
1. Prof.ssa Nicotra, secondo Lei, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
La lunga stagione contrassegnata dall’emergenza sanitaria ha riportato in auge il tema dei doveri. La persona si è ritrovata d’un tratto con pesanti restrizioni dei diritti fondamentali cui non era abituata. Un fardello di limitazioni imposte dal bisogno di proteggere la vita e la salute pubblica che ci ha costretto a rileggere gli enunciati costituzionali, traendone il significato più genuino.
Finita la stagione dell’ubriacatura dell’individualismo, abbiamo sperimentato sulla nostra pelle come la presunta asimmetria tra diritti e doveri sia fondata su un assunto errato, poiché non ci sono parti deboli e parti forti all’interno dei principi contenuti nella prima parte della Costituzione.
La sussistenza di ogni consociazione umana si basa su interessi complessi per il cui perseguimento occorre la partecipazione di tutti i suoi membri. La pandemia ha reso ancor più evidente che un minimo di solidarietà “conviene” poiché nessuno può bastare a sé stesso, neanche per la salvaguardia dei diritti elementari alla vita e alla sicurezza personale.
L’assetto essenziale dei rapporti tra cittadini e Stato viene descritto in maniera chiara dall’art. 2 della Costituzione italiana. Ricordo che gli enunciati contenuti in tale disposizione costituzionale avrebbero dovuto costituire il preambolo alla Costituzione. La proposta, emersa durante i lavori dell’Assemblea costituente, poi accantonata, consisteva nella elaborazione di una premessa contenente affermazioni di carattere generale e programmatico per facilitare la comprensione dei principi fondamentali, capaci di plasmare l’intera struttura dell’ordinamento statale.
Proprio la duplice natura della relazione che stringe la Repubblica alla comunità di cittadini costituisce la chiave di volta dell’intero ordinamento costituzionale. La Repubblica “riconosce e garantisce” i diritti inviolabili dell’uomo e nello stesso tempo richiede “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale”.
Eppure, il pensiero juspubblicistico si è concentrato soprattutto sullo studio della prima parte della disposizione, tralasciando di occuparsi della seconda. L’attrazione per l’insaziabile bisogno dei diritti ha condotto alla svalutazione del principio solidaristico e della sfera della doverosità, come l’altra faccia dei diritti. Come se le comunità potessero nutrirsi solo di pretese assolute e scollegate da limiti.
La lezione della pandemia ha imposto un ripensamento; la storia, dopo decenni di relativa tranquillità istituzionale, non ha seguito un percorso lineare e il tornante tragico del Covid ha spostato indietro le lancette del tempo, imponendo una riflessione anche sui doveri e sulle responsabilità individuali e collettive.
A ben guardare, la rifondazione politica e giuridica seguita al secondo conflitto mondiale è stata possibile grazie al patto di cittadinanza basato inevitabilmente sul richiamo ai doveri inderogabili e alla solidarietà politica, economica e sociale. Responsabilità e comportamenti doverosi hanno reso possibile la rinascita post – bellica.
I lavori dell’Assemblea costituente ci consegnano un affresco molto dettagliato del significato dei doveri inderogabili di solidarietà, che sembra trarre linfa anche dal pensiero mazziniano. A proposito della legge scrive Mazzini “ma i vostri più importanti doveri sono positivi, non basta il non fare, bisogna fare, non basta limitarsi a non operare contro la legge; bisogna operare a seconda della legge. Non basta il non nuocere bisogna giovare ai vostri fratelli. Purtroppo, la morale si è presentata agli uomini in una forma più negativa che affermativa (…). Pochi o nessuno hanno insegnato gli obblighi che spettano all’uomo, e il come egli debba giovare ai suoi simili e al disegno di Dio nella creazione”.
La solidarietà di cui parla l’art. 2 della Costituzione rappresenta il collante dei principi che coinvolgono la dimensione politica e sociale della persona e sembra riflettere, sotto diversi aspetti, la concezione cara a Giuseppe Mazzini. La solidarietà, infatti, non si declina soltanto con l’osservanza di obblighi giuridici ma ricomprende tutti i comportamenti volontari non dettati da calcolo utilitaristico o da imposizione di legge ma come espressione spontanea dell’aspetto di socialità che caratterizza la persona.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
La lettura dei lavori preparatori testimonia evidenti tracce dell’influenza del saggio “Dei doveri dell’uomo” sulla scrittura della Costituzione. Durante la discussione sull’art. 2 della Costituzione Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75”, sottolineò la fondamentalità di diritti e doveri “come lati inscindibili come due aspetti dei quali l’uno non si può sceverare dall’atro”. Si tratta, continua Ruini, “di un concetto tipicamente mazziniano, che si era affacciato nella Rivoluzione francese, ed è oramai accolto da tutti, è ormai assiomatico”.
L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili della personalità umana e nello stesso tempo ricorda che vi sono doveri altrettanto imprescindibili dei quali lo Stato richiede l’adempimento (AA. VV, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma 1970, 335). La persona quale sintesi di individualità e dimensione relazionale viene descritta nell’art.2 che si poggia proprio sulla constatazione della sua centralità nella vita associata. La corretta interpretazione del dato costituzionale evidenzia come il principio solidaristico risponda, anzitutto, all’esigenza di orientare verso l’altruismo e il reciproco sostegno nel gruppo sociale.
La Costituzione rappresenta un luogo di sintesi in cui trova spazio l’affermazione dei diritti fondamentali e il richiamo della responsabilità individuale che discende dall’essere parte di una vita sociale e che comporta l’assunzione di doveri reciproci per il perseguimento del benessere generale. La tecnica del bilanciamento sperimentata dalla Corte costituzionale proviene dall’esigenza di inverare i precetti costituzionali affinché nessuna situazione soggettiva meritevole di tutela venga sacrificata in assoluto. “Sarebbe erronea la pretesa che i diritti siano insuscettibili di qualunque bilanciamento – afferma la Corte nella sentenza n. 85 del 2013 - dando così vita ad una gerarchia tra valori della quale non vi sarebbe traccia in Costituzione”. Non è previsto l’annientamento di un diritto, bensì limitazioni ragionevoli e proporzionate imposti dall’esigenza di non sacrificare ulteriori diritti che con i primi si trovino in conflitto.
Concetto che la Corte ribadisce nella sentenza n. 6 del 2019, in cui a proposito dei costi derivanti dall’insularità della Regione Sardegna, afferma la necessità che lo Stato ponga in essere una leale collaborazione con le autonomie territoriali nella gestione delle politiche di bilancio. Infatti, secondo il Giudice delle leggi, nelle relazioni finanziarie tra Stato e entità periferiche la “ragione erariale” non può assumere la veste di “principio tiranno”.
Emerge chiaramente in tale ultimo filone giurisprudenziale la rilevanza del principio di solidarietà che si declina nell’adozione di meccanismi di perequazione fiscale ed infrastrutturale volti a realizzare il riequilibrio dei divari territoriali. Il principio unitario costituisce il presupposto per valutare le relazioni finanziarie tra lo Stato e i territori svantaggiati, nell’ottica della individuazione di forme di fiscalità di sviluppo che giovano a dare solidità all’impianto unitario della Repubblica.
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Lei la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Mi pare che l’interrogativo espresso da Mazzini trovi risposta proprio nella esigenza di calibrare diritti e doveri alla luce dell’interesse pubblico prevalente. La normativa introdotta per contrastare l’infezione da Covid - 19 ha previsto pesanti sacrifici ai diritti delle persone finalizzati a proteggere il bene superiore del diritto alla salute pubblica. Mi sembra un esempio evidente di come i diritti del singolo possano essere ristretti in via temporanea per soddisfare un interesse collettivo di fondamentale importanza.
La legislazione emergenziale dimostra altresì che non esistono diritti sganciati dai doveri e viceversa.
La Corte costituzionale costituisce quel giudice dei diritti cui appellarsi al fine di accertare se le restrizioni imposte al loro esercizio effettivo rispondano ai canoni di temporaneità e ragionevolezza.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “ riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Lei questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a suo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
Ritengo che si possa cogliere una stretta correlazione tra la prospettiva offerta da Mazzini e l’elaborazione del Testo costituzionale. La complementarità tra diritti e doveri – come ho già avuto modo di dire – costituisce l’essenza della disposizione contenuta nell’art. 2.
Il collegamento tra diritti e doveri è reso plasticamente dal concetto di solidarietà, che costituisce un correttivo alle teorie dell’individualismo liberale.
Del resto, il significato di solidarietà trova le sue radici nella dottrina sociale della Chiesa; nel 1891 la fratellanza acquista una proiezione giuridica e sociale, con la Rerum Novarum di Leone XIII.
Nella concezione cristiana la solidarietà è espressione di “un’ontologia fondata di tutti gli uomini in Cristo” che rappresenta una risposta concreta alla crisi economico – sociale che ha caratterizzato la fine del XIX secolo.
La solidarietà tradotta in Costituzione è stata concepita in funzione di completamento del disegno di relazioni che conduce al concreto esercizio delle libertà.
Credo che in siffatta architettura costituzionale vi sia molto dell’influenza del patriota genovese.
Al riguardo, mi pare particolarmente significativo il passaggio in cui Egli ammonisce che “La libertà non è che un mezzo; guai a voi e al vostro avvenire se v’avvezzaste mai a guardarla, siccome fine! Il vostro individuo ha doveri e diritti propri che non possono essere abbandonati ad alcuno; ma guai a voi e al vostro avvenire se il rispetto che dovete avere per ciò che costituisce la vostra vita individuale potesse mai degenerare in un fatale egoismo. La vostra libertà non è la negazione d’ogni autorità, è la negazione d’ogni autorità che non rappresenti lo scopo collettivo della Nazione e che presuma impiantarsi e mantenersi sovr’altra base che su quella del libero spontaneo vostro consenso”.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo lei oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
“Se Dio non esistesse, tutto sarebbe permesso” scriveva Dostoevskij.
In realtà, il collegamento tra doveri etici e religione trova spazio anche in una Costituzione che si definisce laica, come quella repubblicana.
La laicità dello stato, infatti, quale emerge dagli artt. 2,3,7,8,19 e 20 della Costituzione, è concetto complesso e implica la non indifferenza dello Stato dinanzi al fenomeno religioso. Quanto piuttosto garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale. La Corte costituzionale riconosce che il genus, valore della cultura religiosa, e la species, principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano, concorrono a delineare la vocazione laica dello Stato – comunità che si pone al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini (sent. n. 203/1989).
La Corte, dunque, asseconda la linea favorevole al fenomeno religioso che emerge dagli enunciati costituzionali. Laicità non è sinonimo di laicismo che implica separatezza e disinteresse dello Stato verso la religione. Viceversa, la laicità quale principio supremo dell’ordinamento, va letto nell’ottica di collaborazione tra sfera temporale e sfera religiosa nell’interesse esclusivo della realizzazione della personalità umana.
La disobbedienza civile trova una traduzione pratica nell’ordinamento giuridico italiano nel particolare istituto dell’obiezione di coscienza, ossia nel diritto della persona a comportarsi in modo coerente e conforme alle proprie convinzioni, rifiutandosi di obbedire ad un comando dell’autorità ritenuto ingiusto.
La situazione, però, diviene complessa allorquando i propri convincimenti entrano in conflitto con gli obblighi imposti dall’ordinamento. Per cui considerando che la tutela della libertà in esame si basa sulla lettura sistematica degli artt.2,3,19 e 21 Cost. si prevede che nessuno possa sottrarsi al compimento dei propri doveri prescritti per legge, richiamandosi alla volontà di obbedire ai dettami della propria coscienza, tranne quando sia il legislatore a consentirne l’esonero, attraverso clausole più o meno ampie (Corte Cost. sent. n. 43/1997).
In proposito un esempio emblematico è quello dell’obiezione di coscienza al servizio militare, la cui normativa risale al 1972, più volte modificata fino alla l. n. 230 del 1998. Oggi il problema sostanzialmente non si pone essendo sospeso l’obbligo del servizio di leva (l.n. 226 del 2004). Si aggiunga l’obiezione di coscienza alla vivisezione che consente agli obiettori del personale sanitario di non prendere parte agli interventi diretti alla sperimentazione animale. Ancora l’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza, alla procreazione assistita e al suicidio assistito.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Lei, come può concretizzarsi questa riflessione?
Credo che ci siano molte tracce delle suggestioni del pensiero di Mazzini nella formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” che trova compiuto svolgimento nell’art. 4 secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
In tali enunciati costituzionali si sintetizza la relazione indissolubile tra diritto e dovere. Nella seduta del 22 marzo 1947, a proposito dell’art. 1, Fanfani osserva “dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche un diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale, quindi (…) affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali”. Per Costantino Mortati nella formula “Repubblica fondata sul lavoro” risiede il legale tra centralità della persona e centralità del lavoro, poiché nel lavoro trova composizione – prosegue l’insigne costituzionalista – la sintesi tra principio personalistico che implica la pretesa ad una attività lavorativa e quello solidaristico che attribuisce a tale attività carattere doveroso. Il fondamento della Repubblica sul lavoro valorizza il progetto costituzionale dei diritti sociali, ove il singolo si avvantaggia del lavoro di tutti e offre all’intera collettività il proprio contributo. Anche con riferimento al voto il Costituente utilizza la duplice qualificazione di diritto e dovere. Il concorso del cittadino all’assunzione di una decisione pubblica si riconnette alla democraticità degli ordinamenti costituzionali contemporanei. La Costituzione configura il voto come dovere civico per evidenziare la funzione pubblica attribuita agli elettori. Dunque, l’esercizio del diritto di voto va considerato doveroso in vista della sua finalità pubblicistica.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritiene dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
I giorni che stiamo vivendo con una guerra che si combatte nel centro dell’Europa ripropone con grande forza l’idea di Patria. La strenua resistenza del popolo ucraino contro l’aggressione unilaterale e indiscriminata da parte delle armate russe dimostra quanto sia attuale l’ideale di difesa della Patria, dei confini territoriali, della sovranità nazionale.
L’immagine di un contesto europeo caratterizzato solo da relazioni pacifiche si è infranta nell’invasione russa della vicina Ucraina.
Il dovere della Patria che la Costituzione italiana, non a caso, definisce “sacro” è fortemente intriso di valori etici che creano nei confronti del cittadino un sentimento di indivisibile appartenenza verso la Patria. In situazioni di massimo pericolo per l’integrità politica, al cittadino è richiesta la massima dedizione per salvare il proprio Paese da attacchi esterni.
L’aggettivo “sacro” mira ad attribuire all’adempimento del dovere di difesa un valore etico tanto forte da esigere persino il rischio per la vita e l’incolumità fisica. Si tratta del dovere più alto previsto nelle Costituzioni perché legato alla sopravvivenza stessa della Nazione e della sua sopravvivenza.
Il termine Patria si presenta come un concetto complesso in cui vi è una componente ideale rappresentata dai valori basilari che trovano ospitalità nella parte dei principi fondamentali della Costituzione e una componente sostanziale che è il territorio sede di sviluppo dei diritti e dei doveri e di esercizio della sovranità nazionale.
Questa idea di Patria si ritrova propria nell’opera di Mazzini: “La Patria è una comunione di liberi e di eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. La Patria non è un aggregato è un’associazione. Non v’è dunque veramente Patria senza un diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi e d’ineguaglianze”. E ancora “non vi sviate dunque dietro speranze di progresso materiale che, nelle vostre condizioni dell’oggi, sono illusioni. La Patria sola, la vasta e ricca Patria italiana che si estende dalle Alpi all’ultima terra di Sicilia, può compiere queste speranze Voi non potete ottenere ciò che è vostro diritto se non obbedendo ciò che vi comanda il Dovere. Meritate ed avrete”.
Similmente, il concetto di Patria quale inseparabile vicinanza tra cittadini e il proprio Paese si ritrova nelle parole di Calamandrei che parla di “Patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra i nati nello stesso Paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria questo senso di vicinanza e intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professioni diverse e che pur si riconosco per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro”.
La stessa Corte costituzionale si è espressa affermando che il dovere di difesa della Patria è “una necessità fondamentale e suprema all’esistenza e difesa dello Stato” ed è condizione prima della conservazione della comunità nazionale.
Ciò include anche la doverosità di una guerra difensiva per la protezione del territorio e dei suoi confini proveniente da un nemico esterno.
Dinanzi alla storia che sembra ripetersi all’infinito, assistiamo ad una mobilitazione dell’Italia e l’Unione europea, nel segno della solidarietà e della cooperazione, per aiutare l’Ucraina a respingere l’invasione russa. Proprio nel segno dell’art. 11 della Costituzione italiana e dei documenti internazionali che impongono di sostenere la resistenza di uno Stato aggredito ingiustamente attraverso le azioni diplomatiche ma anche le sanzioni finanziarie nei confronti degli aggressori e attraverso l’invio di armi per far cessare il conflitto, senza un intervento militare diretto.
L’art. 11 infatti ripudia la guerra come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli e apre ad una logica multilaterale e a limitazioni di sovranità, proprio perché l’idea di sovranità illimitata aveva portato alle guerre mondiali. Ciò implica che si esclude la guerra di aggressione, ma nello stesso tempo è doveroso supportare chi viene aggredito. Altrimenti si rischia di finire in una posizione isolazionista di ripudio della guerra per noi stessi ma di accettazione di un’aggressione perpetrata contro altri popoli.
L’organismo preposto ad operazioni di peacekeeping, consistenti in interventi condotti da forze armate internazionali allo scopo di far cessare, contenere o prevenire l’insorgenza di conflitti aventi carattere interno o internazionale è l’Onu che, come noto, è basato sul potere di veto di uno dei cinque Stati permanenti, tra cui vi è la Russia di Putin.
Da tempo sono state avanzate proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel senso di limitare il diritto di veto, considerato oramai un anacronistico ed ingiustificato vantaggio e di prevedere un’adeguata motivazione a supporto del voto contrario.
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni le suscita, da accademica impegnata su diversi fronti della società civile?
In questa frase con cui chiude la sua opera “Dei doveri dell’uomo”, si trova la modernità dell’opera di Mazzini. La centralità del ruolo della donna nello sviluppo armonioso della società. L’importanza del lavoro femminile trova ampio spazio negli enunciati costituzionali (artt. 3, 37, 51, 117) e oggi anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il Piano dedica una missione apposita al tema dell’inclusione sociale e della emancipazione femminile.
La democrazia paritaria è un cammino, ad ostacoli. Come in un’altalena di eventi. Ancora più frastagliato e pieno di insidie nel nostro Sud. Se ne accorta anche l’Europa che tiene insieme Mezzogiorno e parità di genere come in un abbraccio strettissimo nel Netx Generation Eu.
Nonostante tutte le difficoltà, le donne sono state protagoniste, dall’Unità d’Italia, di importanti mutamenti sociali ed economici. E grazie a loro se oggi l’eguaglianza sia stata sostanzialmente raggiunta.
Ma lo stereotipo che vuole uomini e donne in percorsi professionali differenziati resiste ancora.
Il Piano nazionale di Resilienza accelera proprio sul potenziamento delle competenze Stem per assicurare uguali chances alle studentesse nella formazione di competenze digitali, tecnologiche, ingegneristiche. La crisi sanitaria ha comportato un gravissimo impatto sull’occupazione, specialmente delle donne. Il divario di genere nei tassi occupazionali in Italia è tra i più alti d’Europa. Una disoccupazione selettiva con un forte aumento delle diseguaglianze.
Secondo l’Istat il Meridione è ultimo per lavoro femminile. La Sicilia è la regione con la più bassa percentuale di donne occupate. Con importanti gap salariali nel lavoro privato e un numero scarso di donne in posizioni apicali, anche nel settore pubblico.
La riduzione dei figli per donna è un fenomeno ricollegato storicamente alla crescita dell’occupazione femminile. La riduzione del tasso di natalità e la posticipazione della nascita del primo figlio, sovente destinato a rimanere unico, sono legate alla crescita delle donne nel lavoro e nelle professioni. Il lavoro costituisce una dimensione identitaria fondamentale.
Eppure, negli anni contrassegnati dalla pandemia, il decremento della natalità si accompagna al crollo dell’occupazione delle donne.
I formidabili cambiamenti nella legislazione italiana nel corso dei 75 anni di storia repubblicana hanno sollecitato un’evoluzione qualitativa nei comportamenti sociali e nel rapporto tra uomini e donne. Ma c’è ancora molto da fare.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a suo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
Per prima cosa occorre sottolineare la larghissima maggioranza raggiunta per l’approvazione in via definitiva del disegno di legge di iniziativa parlamentare che ha introdotto la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentale, con 468 voti favorevoli e un solo voto contrario (Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n.1 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.44 del 22 febbraio 2022). Nella quarta e ultima lettura ha trovato conferma il consenso da parte di tutte le forze politiche che aveva caratterizzato l’iter di approvazione anche nelle precedenti fasi. L’ampia convergenza sulla modifica dell’art.9 della Costituzione produce l’entrata in vigore immediata della revisione, subito dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Senza dover ricorrere al referendum confermativo previsto dall’art. 138, quale eventualità, qualora non si raggiunga la maggioranza qualificata.
Ma non è soltanto una questione procedurale: il successo ottenuto dalla legge di revisione dimostra la diffusa consapevolezza di quanto sia urgente e improcrastinabile prendersi cura dell’ambiente e degli ecosistemi anche nell’interesse delle generazioni future. L’affermazione di una solidarietà intergenerazionale delinea un modello in cui le scelte politiche fondamentali devono tener conto dei diritti delle generazioni future.
Uno sguardo al panorama europeo e internazionale dimostra il forte ritardo dell’Italia sulle tematiche ambientali; la Costituzione italiana era tra le pochissime sguarnite di una norma a protezione dell’ambiente. Nel corso degli ultimi decenni, la Corte costituzionale ha sopperito a tale grave carenza normativa attraverso una serie di fondamentali decisioni che hanno ricavato i principi di salvaguardia ambientale dal contesto nazionale ed europeo.
La revisione odierna introduce un nuovo comma nell’art. 9 in base al quale si attribuisce alla Repubblica, accanto al compito di tutelare il paesaggio storico e artistico della Nazione, anche quello di proteggere l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi.
Inoltre, viene inserita una previsione sui diritti degli animali, attraverso una riserva di legge statale che ne disciplini le forme e i modi.
Ulteriormente viene rivisitato l’art.41 che regola l’esercizio della iniziativa economica privata. Si stabilisce che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno alla salute e all’ambiente. Si rimette alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, pubblica e privata, anche ai fini ambientali, oltre che sociali.
Tali previsioni assumono il preciso significato di rafforzare il principio solidaristico per realizzare la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; sicché dinanzi ad altri beni egualmente meritevoli di apprezzamento costituzionale (come, ad esempio, l’iniziativa economica) occorre operare di volta in volta un concreto bilanciamento, per minimizzare i rischi per l’ambiente e la salute.
Il nuovo contenuto dell’art.9 della Costituzione va collegato strettamente con il programma di transizione ecologica contenuto nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’intera seconda missione del PNRR è dedicata alla rivoluzione verde e alla economia circolare. Il Piano prevede il rafforzamento della messa in sicurezza del territorio, per attenuare i rischi idrogeologici e salvaguardare le aree verdi e la biodiversità, con interventi di forestazione urbana e digitalizzazione dei parchi.
La riforma dovrà fare da cornice all’adozione di regole sul clima. L’estate più torrida di sempre costituisce un ammonimento per le società contemporanee: agire subito per frenare i cambiamenti climatici già in atto che avranno gravi ripercussioni sui diritti elementari delle persone; dal diritto all’acqua al diritto a non essere costretti ad abbondonare il luogo in cui si nasce, a causa della siccità, con le migrazioni climatiche.
L’approvazione della norma costituzionale a difesa dell’ambiente segna un passo in avanti sul piano precettivo e su quello pedagogico per azioni reali che consentano di giungere alla neutralità climatica e mitigare le minacce legate agli eventi naturali estremi.
Certamente per rendere davvero effettiva la consacrazione costituzionale occorre che il precetto si faccia regola concreta di comportamento improntato alla solidarietà peri gli attori istituzionali e per i cittadini.
La Costituzione italiana ha dimostrato ancora una volta di saper guardare al futuro, costruendo un ponte tra generazioni, nel segno del principio di solidarietà.
L’affermazione dell’aspettativa da parte delle generazioni future poggia sul c.d. rispetto tra le generazioni, in ossequio al principio di solidarietà ed a quello di eguaglianza sostanziale per preservare una parte equa di risorse naturali a favore di coloro che verranno, ponendo limiti alla loro utilizzazione. In definitiva, la tutela del patrimonio ambientale si lega al valore essenziale della perpetuazione del gruppo sociale contro il serio rischio di “autodistruzione dell’umanità”. Nel significativo valore della continuità ogni generazione assicura l’accesso all’”eredità” delle generazioni precedenti, conservandolo integro per quelle future.
Le ragioni di un’inammissibilità. Il grande equivoco dell’eutanasia
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. Le ragioni di un’inammissibilità - 2. Non configurabilità del diritto ad ottenere la morte per mano di un terzo - 3. Conclusioni.
1. Le ragioni di un’inammissibilità
Molte polemiche ha suscitato la decisione della Corte Costituzionale, resa subito nota con un comunicato stampa, di dichiarare inammissibile il quesito referendario relativo al fine vita: l’insistito richiamo alla libertà’ della persona di disporre della propria esistenza in presenza di situazioni di salute intollerabili, amplificato da una comunicazione mediatica male informata, ha lasciato passare il messaggio di una pronuncia ingiusta e lontana dal comune sentire dei cittadini.
La disinvoltura con la quale spesso si trattano, senza alcuna consapevolezza del loro significato e della intrinseca diversità dei fenomeni evocati, termini ed espressioni come consenso informato, autodeterminazione, accanimento terapeutico, suicidio assistito, omicidio del consenziente, eutanasia ha aumentato la confusione e certo non ha aiutato ad analizzare razionalmente i molti problemi sul tappeto.
Pur dopo il deposito della sentenza n. 50 del 2022, che ha fatto chiarezza sui termini della questione e sulle ragioni della inammissibilità del quesito, si continua a denunciare da alcuni commentatori e da certa stampa l’arbitraria negazione ai cittadini del diritto di esprimersi su un tema così sentito e coinvolgente.
È pertanto necessario, per una seria analisi dei problemi sollevati, esaminare quella motivazione con gli occhiali del giurista laico, scrutinando insieme alla Corte la portata del quesito referendario e gli effetti che sarebbero derivati sul sistema dalla sua ammissione.
La Corte Costituzionale, con la bella penna del professor Modugno, ha osservato che il quesito in discorso, costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia con la richiesta di abrogare frammenti della disposizione attinta producendo la saldatura delle parti residue, avrebbe sortito l’ effetto di riconoscere la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte per mano altrui, così da rendere lecito l’ omicidio del consenziente a prescindere da ogni ragione che possa indurre il soggetto a fornire detto consenso.
La Corte delle leggi ha al riguardo richiamato il proprio costante orientamento volto a ravvisare ulteriori limiti all’ utilizzazione dello strumento referendario, oltre quelli espressamente previsti dall’art. 75, comma 2, Cost., desumendoli dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione e richiamando a tal fine la necessità di verificare se il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’ applicazione di un precetto costituzionale. Più specificamente, ha ricordato che sin dalla sentenza n. 16 del 1978 la giurisprudenza costituzionale ha escluso l’ammissibilità di referendum confliggenti con valori di ordine costituzionale da tutelare ed ha chiarito che tra le disposizioni legislative ordinarie non suscettibili di abrogazione per via referendaria vanno ricomprese quelle la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione.
Nella specie il giudice delle leggi ha appunto ravvisato l’esistenza di un limite siffatto, in quanto la norma oggetto del quesito referendario è posta a tutela di un valore che si colloca in posizione apicale nell’ ambito dei diritti fondamentali della persona: vietando ai terzi di farsi esecutori della morte di soggetti richiedenti o soltanto assenzienti la norma penale assolve allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita non soltanto delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.
Tali argomentazioni appaiono pienamente condivisibili.
Occorre innanzi tutto tener presente che l’ art. 579 c.p. per effetto della parziale soppressione referendaria avrebbe recitato così: Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’ omicidio (575-577) se il fatto è commesso:
1) contro una persona minore degli anni diciotto;
2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
Per contro, secondo l’attuale configurazione dell’art. 579 c.p., mentre in presenza delle circostanze sopra elencate la condotta del terzo che ha determinato la morte integra la fattispecie di omicidio volontario, sanzionato dagli artt. 575 e ss. c.p., l’ ambito di configurabilità dell’omicidio del consenziente è circoscritto a quelle azioni dirette a provocare la morte di altri sostenuta - e per questo intesa come meno grave - da un valido consenso dell’interessato. E’ peraltro noto che l’ art. 579 c.p. non richiede neppure la richiesta, essendo sufficiente il consenso: la non necessità della richiesta preventiva comporta che l’ iniziativa della condotta possa essere assunta dal suo stesso autore.[1]
È dunque evidente che l’esito abrogativo non avrebbe affatto, come da molti si sostiene, escluso l’eutanasia nei casi in cui ricorrano le circostanze di cui ai n. 1, 2 e 3 sopra richiamati, consentendola ove dette circostanze non sussistano, ma avrebbe totalmente soppresso la fattispecie dell’omicidio del consenziente, atteso che la parte residua non incisa dal referendum sarebbe rientrata nell’ambito dell’omicidio volontario. Ciò vale a dire che il risultato così conseguito della totale depenalizzazione dell’art. 579 c.p. avrebbe avuto una portata ben diversa e ben più estesa della mera depenalizzazione di condotte dirette alla soppressione di malati terminali o sottoposti ad indicibili ed intollerabili sofferenze.
Si sarebbe per tale via determinato un regime di piena disponibilità della vita di chiunque sia orientato, anche per i motivi più improbabili o contingenti, a consentire alla fine della sua esistenza per mano di terzi.[2]
È altrettanto certo che la nettezza del quesito e la forza del suo effetto abrogativo escludevano la possibilità di trasferire all’ omicidio del consenziente le condizioni e le limitazioni poste dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 relativamente all’ aiuto al suicidio, così da subordinare l’ esenzione da responsabilità al rispetto di dette condizioni e limitazioni: lo strumento referendario è invero diretto ad abrogare norme che il popolo rifiuta, non a sostituire la disciplina vigente con una nuova e diversa normativa, trasformando l’ abrogazione in legislazione positiva.
Ne sarebbe così derivato il risultato paradossale che mentre in forza della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 l’aiuto al suicidio non è punibile solo ove ricorrano le quattro condizioni enunciate dalla stessa Corte (esistenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), in assenza delle quali l’ autodeterminazione della persona non trova spazi di legittimazione, l’ intervento di terzi diretto a provocare la morte del consenziente sarebbe stato in ogni caso lecito, così da potersi configurare una sorta di licenza di uccidere.
È dunque evidente che nel caso di specie il solo taglio di parole, senza poterne cucire altre, non consentiva di ottenere un testo finale corrispondente al risultato perseguito dai promotori e che nel tentativo di centrare un bersaglio si è fatto fuoco su un obiettivo diverso, senza tener conto delle gravissime conseguenze in termini di razionalità e di tenuta complessiva del sistema, e prima ancora di coerenza costituzionale, che ne sarebbero risultate.
È pertanto del tutto infondata l’accusa rivolta alla Corte di aver spostato la riflessione dall’immensità del dolore di alcune persone causato da una legge ingiusta ad una questione di pura forma, provocando l’effetto perverso di rafforzare sul piano sociale la propensione all’ indifferenza che non si fa carico del dolore degli altri.
Va inoltre rilevato che la motivazione resa a sostegno dell’inammissibilità si pone non in contrasto, ma in stretta continuità con la sentenza della Corte n. 242 del 2019, che aveva richiamato l’esigenza di evitare vuoti di tutela che avrebbero generato il pericolo di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità. La Corte Costituzionale aveva in quella pronunzia osservato che l’ art. 580 c.p. assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare il diritto alla vita delle persone, soprattutto le più deboli e sofferenti, proteggendole da una scelta estrema e irreparabile. Ed è appunto alle persone più fragili che fa riferimento la decisione di inammissibilità del quesito nel punto in cui afferma che le situazioni di vulnerabilità e debolezza non si esauriscono nella minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di diversa natura, anche affettivi, familiari, sociali o economici, ricordando altresì che l’ esigenza di tutela della vita umana da scelte autodistruttive non adeguatamente ponderate va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili.
2. Non configurabilità del diritto ad ottenere la morte per mano di un terzo
Nel censurare la decisione della Corte si continua a sostenere, anche da fonti autorevoli, che ponendosi in discussione il diritto fondamentale di disporre della propria vita - massima espressione del principio di autodeterminazione - la forza primaria di detto diritto avrebbe dovuto prevalere sui limiti dello strumento referendario, così da consentire o imporre una diversa interpretazione del quesito o anche un intervento correttivo su di esso o sugli effetti del suo possibile accoglimento.
Sulla stessa linea i medesimi promotori del referendum si erano lungamente soffermati nelle memorie illustrative presentate alla Corte, verosimilmente consapevoli di aver fatto un uso improprio dello strumento referendario: essi avevano nei loro scritti sostenuto che ben poteva la Corte superare possibili criticità del quesito o profili di illegittimità costituzionale della normativa di risulta, non solo in quanto non pertinenti rispetto al giudizio di ammissibilità a lei spettante, ma anche perché detto quesito mirava ad eliminare, a fronte della perdurante inerzia del legislatore, la punibilità di una condotta che, seppur diversa da quella di aiuto al suicidio, è ad essa molto simile, stante l’ analogia tra la condizione in cui versa la persona che chiede ad un terzo di porre termine alla propria vita e quella di chi chiede ed ottiene solo un aiuto a darsi la morte.
L’assunto è infondato innanzi tutto nelle sue premesse. La Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza Englaro, ha escluso l’esistenza nell’ordinamento di un diritto a morire, ben evidenziando che il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari anche al prezzo di perdere la vita si fonda sull’esistenza non di un diritto generale ed astratto ad accelerare la morte, ma del diritto all’ integrità del proprio corpo. Ed anche la Corte di Strasburgo 29 aprile 2002 nel caso Pretty c. Regno Unito, riguardante appunto un’ipotesi di aiuto al suicidio, ha negato la sussistenza di un diritto siffatto.
Allo stesso modo la legge n. 219 del 2017, fissando il principio del consenso libero e informato che unicamente legittima ogni trattamento sanitario e che comporta la facoltà per il paziente di rifiutare o di interrompere in ogni momento tutte le cure cui è sottoposto, ha inteso il consenso non quale espressione del diritto di morire, ma come manifestazione del diritto di rifiutare tutte le cure, non solo quando non vi è più speranza di guarigione, ma anche se le condizioni del mantenimento in vita sono divenute intollerabili nella percezione del malato. È del tutto evidente che il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari lasciando che la malattia segua il suo corso è cosa diversa da un presunto diritto al suicidio, esprimendo esso piuttosto la possibilità della scelta tra il curarsi o il non curarsi, tra il sottoporsi o non sottoporsi a determinati trattamenti, che il medico ha il dovere giuridico di rispettare.[3]
Ed anche la Corte Costituzionale, prima nell’ordinanza n. 207 del 2018 e poi nella sentenza n. 242 del 2019, ha considerato come punto acquisito che nel sistema normativo italiano ed in quello convenzionale il diritto di vivere non si converte nella banalità del suo contrario, il diritto di morire, atteso che gli artt. 2 Cost. e 2 della CEDU pongono il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello di riconoscere a ciascuno la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Non sembra inutile peraltro ricordare che nel quadro tracciato dalle richiamate pronunce del giudice delle leggi la richiesta di aiuto formulata dal malato in presenza delle condizioni date non pone al medico l’ obbligo, ma solo la facoltà di esaudirla, così risolvendosi il diritto a morire in modo conforme alle proprie scelte individuali tramite aiuto al suicidio in una mera libertà di esprimere una richiesta non vincolante per il sanitario.
Tanto meno è configurabile il diritto ad ottenere la morte per mano di altri.
È d’altro canto evidente che il potere di fatto di ciascuno di porre termine volontariamente alla propria vita nulla ha a che vedere con il diritto di cui si pretende l’esistenza.
In secondo luogo la tesi è infondata nella sua parte propositiva, atteso che i quesiti, una volta formulati e passati al vaglio dell’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di Cassazione, rimangono l’unico testo di riferimento, mentre restano nella sfera dell’irrilevanza l’intenzione e gli obiettivi dei proponenti non consacrati nei quesiti stessi. La Corte Costituzionale ha sul punto correttamente osservato, ribadendo un orientamento assolutamente consolidato, che la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e che l’obiettivo dei sottoscrittori va desunto non dalle loro dichiarazioni o dalle tesi esposte in sede di giudizio di ammissibilità, ma esclusivamente dalla finalità incorporata nel quesito, ossia dalla finalità oggettivamente desumibile dalla sua formulazione e dall’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento. Ciò vale a dire che il quesito deve incorporare l’ evidenza del fine intrinseco dell’atto abrogativo, ossia la puntuale ratio che lo ispira.
3. Conclusioni
Mai come in questa occasione lo strumento referendario ha mostrato i propri limiti, in quanto rivolto ad interferire con temi delicatissimi riguardanti la vita, la morte e le scelte di fine vita, che richiedono di essere trattati con cura, in un attento bilanciamento tra interessi contrapposti.[4]
Al contrario, alla base del quesito referendario è possibile cogliere una cultura individualistica non conforme ai valori personalistici che innervano la Carta fondamentale, che per tale ragione non poteva trovare legittimazione in sede di ammissibilità.
Costituisce certamente una lacuna del sistema la mancanza di una normativa diretta a disciplinare la situazione di chi, trovandosi nelle condizioni richieste dalla Corte Costituzionale per rendere non punibile l’aiuto al suicidio, non è in grado di togliersi la vita da solo, per essere privo anche di quel minimo di autonomia che gli consentirebbe - premendo quel pulsante o iniettandosi quel farmaco - di percorrere l’ultimo tratto del cammino verso la morte. Si tratta indubbiamente di una situazione assai simile a quella di chi può ottenere di essere aiutato a morire secondo i dettami della Corte, ma la sua regolamentazione non poteva essere affidata allo strumento referendario, ontologicamente diretto, come già osservato, a cancellare, e non a creare nuove norme di diritto.
Come ha rilevato il giudice delle leggi nella parte conclusiva della motivazione qui in esame, discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dal legislatore con una diversa normativa, ma non possono essere semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano.
È pertanto ancora una volta nella responsabilità del Parlamento dettare una disciplina volta a regolare le situazioni drammatiche che stanno dietro a quel milione e duecentomila firme che avevano dato il senso di una partecipazione politica collettiva da tempo smarrita: si tratta di un tema che merita un serio dibattito parlamentare, da condurre con coraggio e con autentico spirito laico, lontano da steccati ideologici e da posizioni preconcette.
È tuttavia doveroso rilevare che una regolamentazione siffatta non è neppure ravvisabile nel testo unificato all’ esame del Parlamento, diretto soltanto a disciplinare il suicidio assistito, completando la trama di regole e di requisiti tracciata dalla Corte Costituzionale.[5]
Resta comunque salva la strada, forse più agevole, della proposizione della questione di costituzionalità dell’art. 579 c.c., secondo il percorso già seguito in relazione all’ art. 580 c.p.
[1] Va ricordato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza è configurabile omicidio volontario, e non omicidio del consenziente, in ogni caso in cui il soggetto passivo sia affetto da una patologia che incida sulla piena e consapevole formazione del consenso alla propria eliminazione fisica (v. per tutte Cass. pen. 2008 n. 13410).
[2] Per una diversa valutazione della portata del quesito, da intendere come diretto ad aprire un varco al principio di indisponibilità della vita sulla falsariga dell’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 242, v. RE, Sugli effetti penali e politici del referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 c.p. in tema di eutanasia legale, in Giur. Pen. web, 2022, 2.
[3] Sia consentito il rinvio a LUCCIOLI, Consenso informato, legge n. 219 del 2017 e sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 nella prospettiva del giudice civile, in Giustizia Insieme, 20 gennaio 2021.
[4]Nel senso che il referendum non deve e non può assumere una ennesima funzione di supplenza del Parlamento e che alcune cautele si impongono, come quelle relative alle leggi da sottrarre ad esso, a garanzia dei diritti fondamentali di libertà, v. MARTINES. Diritto Costituzionale, 1992, p. 411.
[5] Sono passati 38 anni da quando Loris Fortuna presentò, nel 1984, la prima proposta di legge per la legalizzazione dell’eutanasia.
Reclamabilità in Corte d’appello dei provvedimenti pronunciati dal Giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno. Nota critica a Cass. S.U. n. 21985/2021 e (in)superabilità della distinzione tra provvedimenti gestori e decisori, anche de iure condendo
di Chiara Ilaria Risolo
Sommario: 1. Il caso che ha portato all’emersione del contrasto: il rimedio avverso il decreto con il quale il Giudice tutelare ha scelto e nominato un amministratore di sostegno - 2. La normativa e i due orientamenti - 3. La motivazione delle S.U. per punti e corrispondenti osservazioni - 4. Ipotesi di riforma che potrebbe superare il principio di diritto enunciato e attualità della distinzione tra provvedimenti decisori e provvedimenti gestori pronunciati da Giudice tutelare.
1. Il caso che ha portato all’emersione del contrasto: il rimedio avverso il decreto con il quale il Giudice tutelare ha scelto e nominato un amministratore di sostegno
La questione portata all’attenzione della Suprema Corte sorge da un reclamo proposto dinanzi al Tribunale di Siracusa, in composizione collegiale, con il quale il figlio una beneficiaria si doleva del provvedimento con cui il Giudice tutelare, nel dichiarare aperta l’amministrazione di sostegno a favore della madre, designava quale amministratore un terzo professionista, stante il contrasto insorto tra i parenti intervenuti in quel procedimento. Il Tribunale di Siracusa dichiarava inammissibile il reclamo, indicando la competenza a pronunciarsi sullo stesso della Corte d’Appello territoriale, sostenendo la specialità della previsione di cui all’art. 720-bis c.p.c. rispetto al combinato disposto di cui agli artt. 739 c.p.c. e 45 disp. att. c.c. La Corte d’Appello di Catania, per contro, chiedeva d’ufficio regolamento di competenza, assumendo l’erronea declaratoria di competenza in capo alla Corte territoriale da parte del Tribunale, evidenziando che il reclamo non investiva l’intero decreto con cui veniva anche disposta l’apertura della misura, ma esclusivamente la designazione dell’amministratore di sostegno, escludendo così l’applicazione dell’art. 720-bis, secondo comma, c.p.c. La Sesta Sezione Civile disponeva la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, atteso che analoga divergenza si era manifestata tra diverse pronunce nomofilattiche, cui si sono attenuti rispettivamente gli uffici giudiziari di merito menzionati[1]. All’esito le Sezioni Unite hanno pronunciato il seguente principio di diritto: “I decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno sono reclamabili ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2 c.p.c. unicamente dinanzi alla corte d’appello, quale che sia il loro contenuto (decisorio ovvero gestorio)”. L’approfondimento dei passaggi salienti della decisione e dei temi processuali e sostanziali connessi, condotto nei paragrafi successivi, consentirà di osservare la persistente problematicità del tema e l’affatto pacifico approdo degli ermellini con la risoluzione del contrasto.
2. La normativa e i due orientamenti
L’art. 720-bis c.p.c. è stato inserito nel capo II del Titolo II del Libro IV del codice di procedura civile, dedicato ai procedimenti in materia di famiglia e di persone, dalla medesima legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno, in particolare dall’art. 17, comma secondo, della legge 9 gennaio 2004, n. 6. La disposizione normativa disciplina il procedimento in materia di amministrazione di sostegno richiamando alcune delle norme già scritte nel codice in materia di rito relativo all’interdizione e all’inabilitazione, salva la clausola della compatibilità.
Al secondo comma, la disposizione stabilisce che contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c.
Il quesito che si è posto sin da subito, in ordine all’interpretazione di tale precetto, è se il riferimento generico al “decreto” del giudice tutelare riguardi tutti i provvedimenti assunti nella forma di decreto oppure se il singolare sia tutt’altro che accidentale e faccia riferimento, invece, al decreto di accoglimento del ricorso (o di rigetto) e solo a quello.
Mentre tra i commenti della dottrina appare essersi affermata la posizione secondo la quale tutti i decreti pronunciati dal giudice tutelare dovrebbero essere reclamati davanti alla Corte d’appello, a meno che non riguardino l’attività istruttoria[2], in giurisprudenza si è invece andato consolidando l’orientamento secondo il quale la reclamabilità in appello del decreto del giudice tutelare era ritenuta limitata ai soli provvedimenti aventi natura decisoria, come ad esempio il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno oppure quello di chiusura o di revoca della stessa. Stando all’interpretazione letterale della norma, il legislatore avrebbe utilizzato il termine “decreto” al singolare e ciò starebbe a significare che soltanto il decreto circa l’an della procedura sarebbe oggetto di reclamo dinanzi alla Corte d’Appello; stando alla ratio della disposizione di legge, le garanzie del reclamo in Corte d’appello (e del ricorso in cassazione) sarebbe riservato ai soli provvedimenti in grado di incidere sui diritti fondamentali e sulla capacità di agire della persona.
Secondo le prime pronunce di legittimità, a una simile conclusione doveva pervenirsi in considerazione della particolare natura del decreto in esame, che, pur essendo adottato all'esito di un procedimento camerale[3], non sarebbe assimilabile a quelli con cui il giudice tutelare provvede in ordine al compimento degli atti di amministrazione o di disposizione dei beni di soggetti incapaci, ma alle sentenze con cui viene dichiarata l'interdizione o l'inabilitazione; esso, infatti, in quanto attinente ad una controversia avente ad oggetto diritti soggettivi o status della persona, avrebbe carattere decisorio e sarebbe destinato ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, essendo revocabile e modificabile solo nel caso in cui vengano meno i relativi presupposti o si modifichi la situazione di fatto posta a fondamento della decisione[4]. La riprova di una simile lettura sarebbe data, sempre secondo questo orientamento, dall'art. 720 bis, comma 3, c.pc., il quale prevede che contro il decreto della corte d'appello pronunciato ai sensi del comma 2, può essere proposto ricorso per cassazione[5], che resta invece escluso dall’art. 739 c.p.c. per i decreti pronunciati dal tribunale in sede di reclamo.
L’orientamento si è praticamente consolidato per un decennio, estendendosi anche a provvedimenti autorizzativi del giudice tutelare che, in virtù della distinzione sopra tracciata, anche se apparentemente pronunciati nell’ambito dell’amministrazione in corso e nella gestione della stessa, hanno tuttavia per oggetto diritti personalissimi del beneficiario, come, per citare alcuni significativi esempi, il divieto di contrarre matrimonio[6] e l’autorizzazione a esprimere consenso o rifiuto di cure mediche[7], con conseguente competenza a conoscere il relativo reclamo alla Corte d’appello. La tesi della distinzione tra carattere decisorio e carattere ordinatorio dei decreti del giudice tutelare è stata ribadita anche in pronunce che si sono espresse circa l’ammissibilità o meno del ricorso per cassazione per i provvedimenti che hanno deciso sui reclami avverso i decreti del giudice tutelare[8].
Più di recente si è palesato un orientamento di segno contrario, secondo il quale in materia di amministrazione di sostegno, ai fini della ricorribilità per cassazione del provvedimento emesso dalla corte d'appello, in sede di reclamo avverso il decreto adottato dal giudice tutelare, non occorre indagarne il carattere decisorio e definitivo, perché l'art. 720 bis, comma 3, c.p.c. ammetterebbe espressamente, e in ogni caso, detta impugnazione[9]. Secondo tale orientamento, la disposizione di cui all’art. 720-bis c.p.c. avrebbe carattere speciale e, come tale, sarebbe prevalente su quella generale risultante dagli artt. 739 c.p.c. e 45 disp. att. c.c. e non suscettibile di diversa interpretazione se non quella di dover ammettere al reclamo dinanzi alla Corte d’appello tutti i decreti del Giudice tutelare, senza alcuna necessità di indagare sulla natura decisoria o ordinatoria dei decreti medesimi.
3. La motivazione delle Sezioni Unite per punti e corrispondenti osservazioni
Così può schematizzarsi la motivazione delle Sezioni Unite:
dell’art. 720-bis c.p.c. deve prediligersi una interpretazione letterale; la lettera della norma è il limite al quale deve arrestarsi anche l’interpretazione costituzionalmente orientata, dovendosi semmai sollevare incidente di costituzionalità;
il legislatore ha espressamente previsto quale rimedio ai decreti del Giudice tutelare pronunciati nell’ambito dell’amministrazione di sostegno il reclamo alla corte d’appello; né potrebbe essere data considerazione dirimente al fatto che il secondo comma dell’art. 720 bis c.p.c. faccia riferimento al “decreto del giudice tutelare”, e non ai “decreti del giudice tutelare”, non potendosi inferire dall’uso del singolare o del plurale una sottintesa volontà di individuare in tal modo solo il decreto con il quale si apra la procedura di amministrazione di sostegno;
viene così soddisfatta l’esigenza di assicurare un controllo del giudice tutelare da parte di un ufficio giudiziario diverso da quello cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, un tanto anche quale conseguenza della riforma del giudice unico, in forza della quale furono trasferite al tribunale le competenze delle preture, tra le quali anche quelle del giudice tutelare;
ne derivano plurimi vantaggi sul piano della semplificazione, giacché tale interpretazione assicura immediata individuazione del giudice cui indirizzare la richiesta di controllo del provvedimento impugnato;
per contro, vi sarebbe l’inconveniente della duplicazione dei mezzi di impugnazione, specialmente nel caso in cui la parte intendesse impugnare diverse parti del decreto, di diversa natura;
rimane salva dall’affermazione del principio di diritto sostenuto dalle S.U. per i provvedimenti reclamati suscettibili di ricorso per cassazione, poiché a tal fine la lettera della legge impone in ogni caso la verifica del carattere della decisorietà, quale tradizionalmente elaborato dalla giurisprudenza della Corte.
Dividendo i punti motivazionali in due gruppi, un primo comprendente le lettere a) e b) e un secondo comprende le rimanenti c), d), e) e f), laddove il primo gruppo attiene all’interpretazione letterale e la ratio della disposizione normativa di cui all’art. 720-bis, secondo comma, c.p.c., mentre il secondo gruppo concerne le ulteriori considerazioni che ne derivano sul piano sistematico, possono muoversi le seguenti osservazioni.
a)- b) Per quanto concerne l’interpretazione letterale e la ratio della disciplina.
Il procedimento per l’amministrazione di sostegno è disciplinato dagli artt. 407 c.c. e 720-bis c.p.c., quest’ultimo, oltre a prevedere la reclamabilità del “decreto” del Giudice tutelare dinanzi alla Corte d’appello, richiama altresì le disposizioni relative procedimento per l’interdizione e l’inabilitazione che si applicano a quello per l’amministrazione di sostegno in quanto compatibili (e cioè gli artt. 712, 713, 716, 719 e 720, c.p.c.). La scelta del singolare da parte del legislatore, nell’indicare il provvedimento reclamabile (“il decreto”) non appare casuale né può considerarsi un refuso; nell’ambito delle norme che disciplinano il procedimento, la menzione del “decreto” all’interno della disposizione che ne disciplina la reclamabilità non può che riferirsi al provvedimento che conclude quel procedimento poco prima disciplinato, e cioè appunto il decreto di apertura o di revoca. Se ne trae conferma esaminando l’altra disciplina, quella di cui all’art. 739, c.p.c., in materia di reclamabilità dei decreti pronunciati dal Giudice tutelare all’esito non di un procedimento speciale in materia di protezione di persone prive in tutto o in parte di autonomia, come quello di cui agli artt. 407 e 720-bis c.p.c., bensì di un procedimento in camera di consiglio, previsto per quanto interessa il giudice tutelare per i procedimenti normalmente unilaterali, cioè destinati ad avere efficacia nei confronti di una sola parte, nei quali non sussiste alcuna situazione di conflitto di interesse e tramite i quali si chiede al giudice di effettuare una valutazione di mera opportunità in ordine ad un affare. L’art. 45 disp. att. c.c., infatti, stabilisce cha la competenza a decidere dei reclami avverso i decreti del giudice tutelare spetta al tribunale ordinario quando si tratta dei provvedimenti indicati negli articoli 320, 321, 372, 373, 374, 376, secondo comma, 386, 394 e 395 del codice. A parte i primi due articoli, che trovano come ambito di applicazione esclusivamente la responsabilità genitoriale e la rappresentanza e amministrazione di minore, e gli ultimi due, che concernono esclusivamente l’inabilitazione, gli altri (cioè gli artt. 372, 373, 374, 376, secondo comma, 386, c.c.) sono disposizioni che, anche se scritte con riferimento alla tutela di minori, sono applicabili anche in materia di tutela di interdetti, in forza del richiamo operato dall’art. 424 c.c., così come gli artt. 374, 376 e 386, c.c., sono applicabili anche in materia di amministrazione di sostegno, per espresso richiamo dell’art. 411, c.c., ove si prevede, tra l'altro, che tutti i provvedimenti autorizzativi (dunque anche quelli di cui all’art. 375, c.c., che nell’ambito della tutela di minori e di interdetti sono di competenza del tribunale), siano invece pronunciati dal giudice tutelare.
Non è dato comprendere, pertanto, per quale ragione per i provvedimenti autorizzativi e gestori nell’ambito di una tutela di interdetto sia prevista la reclamabilità dei decreti del Giudice tutelare dinanzi al tribunale, mentre invece per i provvedimenti autorizzativi o comunque gestori pronuncianti dal Giudice tutelare nell’ambito dell’amministrazione di sostegno in corso non possano leggersi le disposizioni legislative applicabili, come sopra richiamate, nel medesimo senso, ossia nel non ravvisarvi carattere decisorio, in quanto non vi è la risoluzione di controversie relative a diritti e status (come invece lo è il decreto che conclude il procedimento ex art. 407 c.c. e art. 720-bis c.p.c.), ma la mera gestione di interessi dell’amministrato.
Ne deriverebbe evidentemente una minore gravosità in termini procedimentali per i provvedimenti gestori pronunciati in una tutela di interdetto, che saranno reclamabili dinanzi al tribunale ordinario, mentre quelli di amministrazione di sostegno, stando al principio di diritto enunciato dalle S.U. saranno invece sempre reclamabili solo alla corte d’appello.
Considerata la diffusione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e la sua vocazione, pacificamente riconosciuta dalle stessa giurisprudenza di legittimità, di essere uno strumento flessibile ed elastico, modellato a misura delle esigenze del caso concreto e che dovrebbe comportare una limitazione dell’amministrato rispetto a determinate attività espressamente previste, senza che ne derivi l’incapacità totale o parziale, l’ultima interpretazione offerta sull’art. 720-bis, secondo comma, c.p.c. implicherebbe che – ad esempio – qualora si voglia reclamare un provvedimento di diniego autorizzativo/gestorio del Giudice tutelare, vi sia nel caso dell’amministrazione di sostegno il maggior onere di rivolgersi alla Corte d’Appello, mentre nel caso di interdizione rimane la prossimità e la semplificazione derivante dalla competenza del tribunale ordinario.
c), d) e) e f) Altre riflessioni di natura sistematica.
Il procedimento per l’apertura dell’amministrazione di sostegno è peculiare, trattasi cioè di un rito a natura mista, dove prevalgono gli elementi della volontaria giurisdizione con prevalente vocazione ad una efficace gestione di interessi, ma possono innescarsi, a seconda dei casi e dato il sistema di rinvii operato dal legislatore, procedimenti contenziosi con i quali si incide sui diritti soggettivi della persona, motivo per cui la difesa tecnica non è di regola necessaria, a meno che, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, incida sui diritti fondamentali della persona, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio[10]. L’opportunità di una distinzione tra provvedimenti decisori, resi all’esito di procedimento che assume carattere prevalentemente contenzioso con le dovute garanzie, e provvedimenti gestori, pertanto, permane anche a voler individuare come giudice competente la sola Corte d’appello, dal momento che il procedimento con cui si decide sul reclamo assumerà anche in quella sede le caratteristiche del procedimento in camera di consiglio, in caso di affari non contenziosi, oppure i principi generali del processo di cognizione in caso di affari di natura contenziosa, come la delimitazione dell’ambito del riesame alle sole questioni devolute con i motivi di gravame, il principio del contraddittorio, il diritto di difesa. L’immanenza di tale distinzione, ove opportunamente tracciata in favore degli operatori che gravitano attorno all’istituto, anche non professionalizzati, avrebbe consentito di semplificare in termini di costi e tempi del procedimento il riesame dei provvedimenti non decisori, mediante un più semplice accesso alla domanda di riesame e una più efficiente gestione degli interessi del beneficiario.
4. Ipotesi di riforma che potrebbe superare il principio di diritto enunciato e attualità della distinzione tra provvedimenti decisori e provvedimenti gestori pronunciati da Giudice tutelare
L’amministrazione di sostegno di sostegno veniva pensata dal legislatore di alcuni anni fa come misura di protezione volta a valorizzare il concreto grado di autonomia che ciascun soggetto che versasse in una condizione, anche temporanea, di cd. “fragilità”, poteva conservare in misura proporzionale alle proprie difficoltà, con lo scopo di limitare il più possibile la limitazione di capacità. La relativa disciplina processuale ne risulta peculiare, scritta in parte mediante regole appositamente pensate per quell’istituto e in parte mediante un rinvio fisso alle norme processuali in materia di interdizione (rinvio operato anche per le norme sostanziali), cercando, laddove possibile, di conciliare l’efficace gestione di interessi (ambito di applicazione dell’istituto, vedi art. 404 c.c.) con la piena tutela giurisdizionale dei diritti inviolabili della persona umana quando questi siano suscettibili di essere compressi da tale gestione. Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, se può offrire una risposta ad esigenze di semplificazione in un contesto di sempre maggior diffusione della misura, con diverse letture territoriali, e ampliamento delle situazioni in cui, anche nella fase gestoria, possa emergere la necessità di tutelare i diritti della persona, rischia, tuttavia, di trascurare la vocazione originaria dell’amministrazione di sostegno di prevalente gestione e composizione di interessi, con le semplificazioni che ne derivano anche in punto di reclamo (sia per la competenza, sia per il procedimento) ove si tratta di discutere solo di questi e non di diritti.
Non è detto, tuttavia, che il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite sia destinato ad affermarsi nell’ordinamento giuridico, se sarà attuata anche per i decreti del giudice tutelare la delega al Governo sulla riforma del processo civile, in quanto il comma 13, lett. a) dell’art. 1 della relativa legge delega il Governo a modificare i procedimenti in camera di consiglio, prevedendo la riduzione dei casi di competenza del tribunale in composizione collegiale e consentendo sempre il rimedio del reclamo di cui all’art. 739 c.p.c. avverso i decreto emessi dal tribunale in composizione monocratica, ma competente per il giudizio di reclamo sarà in ogni caso il Tribunale in composizione collegiale e non la Corte d’appello. Stabilisce infatti l’art. 1, comma 13, lett. a, legge 26 novembre 2021, n. 206: “Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) ridurre i casi in cui il tribunale provvede in composizione collegiale, limitandoli alle ipotesi in cui è previsto l'intervento del pubblico ministero ovvero ai procedimenti in cui il tribunale è chiamato a pronunciarsi in ordine all'attendibilità di stime effettuate o alla buona amministrazione di cose comuni, operando i conseguenti adattamenti delle disposizioni di cui al capo VI del titolo II del libro IV del codice di procedura civile e consentendo il rimedio del reclamo di cui all'articolo 739 del codice di procedura civile ai decreti emessi dal tribunale in composizione monocratica, individuando per tale rimedio la competenza del tribunale in composizione collegiale”.
Vi è da osservare che, se anche il legislatore intende estendere effettivamente tale delega ai decreti pronunciati dal tribunale monocratico in funzione di giudice tutelare, stabilendo anche per questi ultimi la competenza del tribunale in composizione collegiale per provvedimenti di qualsivoglia natura, si avrebbero indubbi vantaggi, già richiamati sopra, non solo in tema di semplificazione del procedimento, ma anche a garanzia del cd. principio di prossimità della giurisdizione a favore del beneficiario, sia nel caso quest’ultimo richieda il riesame del provvedimento sia nel caso in cui ne rappresenti la parte controinteressata, dovendosi tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste; allo stesso tempo, l’eventuale futura individuazione della competenza per il reclamo del tribunale in composizione collegiale, non implicherebbe il venir meno della distinzione tra provvedimenti decisori e provvedimenti aventi carattere gestorio/amministrativo, dovendo prendere il giudice del reclamo in considerazione, chiunque esso sia, quali siano i principi processuali applicabili e le garanzie imprescindibili a seconda della natura degli interessi in gioco.
[1] Cass. civ., ord. 26.8.2020, n. 17833.
[2] Cfr., tra i tanti contributi, Cipolla, Commento all’art. 720-bis, in Picardi Nicola (a cura di), Codice di Procedura Civile, Milano, 2004; Campese, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. e dir., 2004, p. 137; Chizzini, in Bonilini-Chizzini, L’amministrazione di sostegno, 2007, p. 370; Jannuzzi-Lorefice, La volontaria giurisdizione, Milano, 2006,256; Cozzi, L’amministrazione di sostegno, in Punzi, Il processo civile, Sistema e problematiche, I procedimenti speciali e l’arbitrato, 2010, 121; Pretti, Amministrazione di sostegno e provvedimenti impugnabili con ricorso per cassazione, in Fam e diritto, 2012, X, p. 912; Tommaseo, Amministrazione di sostegno: quale giudice per i reclami?, in Famiglia e diritto, 2017, XII, p. 1099; Bonilini - Tommaseo, Dell'amministrazione di sostegno, II ed., Milano, 2018, 130 ss., 600 ss.; Ficcarelli, Le impugnazioni dei provvedimenti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno, in Il giusto processo civile, 2018, 125 ss.; Nascosi, Amministrazione di sostegno e decreti resi dal giudice tutelare: la parola alle Sezioni Unite, in Nuova Giur. Civ., 2020, VI, p. 1278.
[3] Cass., Sez. lav., 28 ottobre 2003, n. 16223: 22 giugno 2002. n. 9146; 28 novembre 2001, n. 15071.
[4] Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 18634 del 29/10/2012; conforme Sez. 1 - , Sentenza n. 784 del 13/01/2017. In realtà già con la sentenza Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 10187 del 10/05/2011, con nota di Pretti, Amministrazione di sostegno e provvedimenti impugnabili con ricorso per Cassazione, in Famiglia e diritto, 2012, X, p. 912, si è fatto strada questo orientamento, sebbene la questione affrontata in via principale fosse la ricorribilità in cassazione del decreti pronunciati in sede di reclamo avverso provvedimenti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno: “E’ inammissibile il ricorso per cassazione, a norma dell'art. 720-bis, ultimo comma, cod. proc. civ., avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di rimozione e sostituzione ad opera del giudice tutelare di un amministratore di sostegno, avendo tali provvedimenti carattere meramente ordinatorio ed amministrativo e dovendo riferirsi tale norma soltanto ai decreti, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, di contenuto corrispondente alle sentenze pronunciate in materia di interdizione ed inabilitazione, a norma dei precedenti artt. 712 e seguenti, espressamente richiamati dal primo comma dell'art. 720-bis”; conforme Sez. 1 - , Sentenza n. 22693 del 28/09/2017; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 3493 del 13/02/2018; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 9839 del 20/04/2018; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 32071 del 12/12/2018.
[5] Ibidem, “In tale contesto, diversamente da quanto affermato nel decreto impugnato, il richiamo dell'art. 739 contenuto nell'art. 720 bis, comma 2, va correttamente riferito alla disciplina del procedimento dinanzi alla corte d'appello, che si svolge nelle forme e con l'osservanza dei termini previsti per il reclamo avverso i provvedimenti in camera di consiglio: l'impossibilità di estendere al procedimento per la nomina dell'amministratore di sostegno l'intera disciplina dettata per l'impugnazione di tali provvedimenti trova d'altronde conferma nell'art. 739, u.c., il quale esclude l'ulteriore impugnabilità dei decreti pronunciati dal tribunale o dalla corte d'appello in sede di reclamo, salvo il caso in cui la legge disponga diversamente”.
[6] Cassazione civile, sez. VI, 22/02/2021, n. 4733.
[7] “Nei procedimenti in tema di amministrazione di sostegno, avverso il decreto con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda proposta dall’amministratore di sostegno di autorizzazione ad esprimere, in nome e per conto dell’amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, è sempre ammesso il reclamo alla corte d’appello, ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2, c.p.c., trattandosi di provvedimento definitivo avente natura decisoria su diritti soggettivi personalissimi”, Cassazione civile, sez. I, 07/06/2017, n. 14158
[8] “È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto emesso dalla corte d'appello all'esito del reclamo su un provvedimento reso dal giudice tutelare in tema di autorizzazione alla riscossione di somme capitali, ai sensi dell'art. 374, comma 1, n. 2) c.c., da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, assimilabili alle sentenze di interdizione od inabilitazione, senza estensione a quelli aventi carattere gestorio” Cassazione civile, sez. VI, 13/02/2018, n. 3493; È inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di designazione o nomina di un amministratore di sostegno che sono emanati in applicazione dell'art. 384 c.c. (richiamato dal successivo art. 411, comma 1, c.c.) e restano logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio. Cassazione civile, sez. I, 16/02/2016, n. 2985; Cassazione civile, sez. VI, 23/06/2011, n. 13747.
[9] Cass. civ., Sez. 1 - , Sentenza n. 32409 del 11/12/2019, in Famiglia e diritto, 2020, VII, 707, con nota di Tommaseo. Tra la giurisprudenza di merito Corte appello Bologna, sez. I, 21/10/2014; Tribunale Modena, sez. II, 27/04/2012, n. 718; Corte appello Palermo, 10/02/2011
[10] Cass. civ. Sez. 1, Sentenza n. 6861 del 20/03/2013, con nota di Mercuri, Autonomia di scelta del giudice tutelare, anche in relazione alla presenza del difensore, nel procedimento dell'amministrazione di sostegno, Rivista del Notariato, 2013, VI, 1412; conforme, Cass. civ. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 7241 del 13/03/2020.
“Processo mediatico e presunzione di innocenza” è il titolo del secondo convegno organizzato dalla Rivista. Il primo convegno, dal titolo “Migliorare il Csm nella cornice costituzionale”, si è tenuto nell’ottobre del 2019.
Il convegno “Processo mediatico e presunzione di innocenza” si terrà a Roma il 1°aprile 2022 presso la Sala del Primaticcio della sede della società Dante Alighieri in Piazza di Firenze n. 27 e tutti i lettori della rivista sono invitati a partecipare (seguiranno indicazioni per la partecipazione da remoto - per informazioni redazione@giustiziainsieme.it).
Giustizia e comunicazione, un binomio centrale nel dibattito che anima Giustizia Insieme, al quale è già stata dedicata un’apposita rubrica ove sono pubblicati saggi di autori d’eccellenza - giustizia e comunicazione.
Si tratta di un binomio che può essere analizzato sotto un’innumerevole quantità di punti di vista in ragione delle possibili sfaccettature del diritto all’informazione, da un lato, e del diritto alla riservatezza, dall’altro. Assumono particolare interesse questioni quali: la rappresentazione della magistratura nella comunicazione di massa, rappresentazione destinata a cambiare di segno a seconda del gradimento popolare della decisione nonché per gli eccessi di protagonismo di questo o quel magistrato; la questione del diritto di critica e del rispetto della decisione; del rischio dell’ingerenza della comunicazione di massa sulla decisione del giudice; il complesso e multiforme articolarsi del diritto all’informazione e la naturale riservatezza delle situazioni coinvolte nel conflitto che il giudice è chiamato a risolvere; la spettacolarizzazione della giustizia che culmina con il processo mediatico che scalza l’unico vero e giusto processo.
Quali sono i limiti della comunicazione? Qual è il limite entro il quale lo sviluppo argomentativo in cui si articola la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali assume i toni della superfluità lesiva? Chi deve farsi paladino del rispetto dei confini?
Aspetto essenziale è, senz’altro, la modalità della comunicazione È imprescindibile la verità del dato oggetto dell’informazione e l’obiettività descrittiva. Eppure la veridicità e l’obiettività espositiva sono spesso tenute in second’ordine, tanto che si registra, sempre più massiccia, l’illustrazione morbosa di una “verità” soggettiva che è quella, di volta in volta, voluta dal comunicatore per compiacere il lettore nella prospettiva pirandelliana di verità molteplice, o utile a chi comunica e di soddisfazione per chi legge. Ma il fatto di cronaca non è un romanzo, i protagonisti della vicenda non sono personaggi della fantasia bensì sono donne e uomini che esistono nella loro fisicità, emotività e nel loro fascio di relazioni interpersonali. La correttezza della comunicazione dipende dall’etica soggettiva, e purtroppo, spesso la provenienza “ufficiale” della notizia non implementa la correttezza dell’informazione.
La suggestione pone a repentaglio la terzietà del giudice, oltre che l’immagine della giurisdizione.
Tra le molteplici possibili riflessioni in tema di Giustizia e comunicazione, in un’ottica di bilanciamento dei diritti coinvolti nel declinarsi della comunicazione di fatti sub judice, abbiamo scelto tre temi che saranno oggetto di altrettante sessioni del convegno, nella forma del dialogo in linea con la tradizione delle Interviste di Giustizia Insieme.
I discussant delle tre sessioni, in ciascuna delle quali sarà presente anche un giornalista, saranno Giuseppe Amara, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Modena, Donatella Palumbo, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Benevento, e Maria Cristina Amoroso, magistrato addetto all’Ufficio del massimario e del ruolo della corte di cassazione.
La prima sessione dal titolo “La rappresentazione del magistrato nell’immaginario collettivo” sarà incentrata sul magistrato, giudice e pubblico ministero, nella proiezione della sua figura in ambito sociale e quale risolutore dei conflitti. La rappresentazione collettiva del magistrato muta in maniera sinodale in ragione dell’apprezzamento della funzione giurisdizionale, ma muta pure in ragione della rappresentazione del singolo magistrato, ove questi - nel bene o nel male - balzi agli onori della cronaca. Interverranno nel corso della prima sessione Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, e Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e consigliere di Cassazione.
La seconda sessione intitolata “La presunzione di innocenza, sostanza e forma” è un tema quanto mai attuale in ragione dell’entrata in vigore il 14 dicembre del d.lgs. n. 188 del 2021, di adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza indispensabile e improcrastinabile per orientare una comunicazione che sia rispettosa della presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza. Si tratta di un intervento normativo che, seppur diretto alle sole autorità pubbliche, dovrebbe impegnare non solo polizia giudiziaria, pubblici ministeri e giudici ma anche i giornalisti affinché la comunicazione della giustizia si faccia carico, nel bilanciamento dei diritti coinvolti, della tutela dell’intimità delle posizioni coinvolte. La presunzione di innocenza nella comunicazione dei fatti di cronaca dovrebbe costituire, pertanto, la linea da seguire non solo per i giornalisti ma anche per i magistrati affinché sappiano individuare, nel costrutto motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali, ciò che è lesivo della reputazione e dell’intimità individuale e, al tempo stesso, inutile e superfluo. Come ha scritto Federica Resta su questa Rivista in un articolo pubblicato il 14 dicembre dal titolo Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza: “Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura e organi di informazione, interpreteranno il loro ruolo” (sul medesimo tema Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici? di Valentina Angela Stella, Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 di Armando Spataro).
Interverranno alla seconda sessione Valentina Stella, giornalista del Dubbio News e del Riformista, l’On. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario di Stato alla Giustizia e avvocato, e Raffaele Cantone, Procuratore della Repubblica di Perugia.
La terza sessione è intitolata “Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo”. Quest’ultima sessione affronterà il tema della suggestione della comunicazione di massa sull’esercizio del potere giurisdizionale. Il processo mediatico non solo condanna il presunto innocente con decisione inappellabile ma, nel dipanarsi del suo spettacolo, pone a repentaglio e stravolge l’ordinario svolgersi delle dinamiche processuali. Gli effetti emozionali inconsci della comunicazione di massa possono astrattamente influenzare le decisioni in tema di misure cautelari, di affermazione della responsabilità, di determinazione della pena ma anche le decisioni in tema di conflitti, rimessi alla tutela giurisdizionale, che coinvolgono diritti della persona. La domanda è allora: se questi sono i danni (violazione del principio di non colpevolezza) e questi sono i rischi (messa in pericolo del giusto processo), qual è la giustificazione del processo mediatico e quali sono i rimedi ? Interverranno alla terza sessione Rosaria Capacchione, giornalista, Marco Dell’Utri, consigliere della Corte di cassazione, e Alessandra Camassa, Presidente del Tribunale di Marsala.
Sono previsti interventi programmati nel corso del dibattito.
Introdurranno e chiuderanno i lavori i direttori scientifici della Rivista Roberto Conti e Paola Filippi.
Secondo convegno organizzato da Giustizia Insieme
Roma, Piazza di Firenze 27, Società Dante Alighieri,Sala del Primaticcio
Venerdì 1 aprile 2022 ore 14:30/20:00
Processo mediatico e presunzione di innocenza
Ore 14:30 Saluti del Segretario Generale della società Dante Alighieri Prof. Alessandro Masi
Introduzione ai lavori: Roberto Conti e Paola Filippi - Direttori scientifici di Giustizia Insieme
Ore 15:00 prima sessione - Il giudice nell’immaginario collettivo -
Giovanni Bianconi e Giuseppe Santalucia - discussant - Giuseppe Amara
Ore 15:50 seconda sessione - La presunzione di innocenza, sostanza e forma -
Valentina Stella, Francesco Paolo Sisto e Raffaele Cantone - discussant - Donatella Palumbo
Dibattito
17:00 coffee
17:10 terza sessione - Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo -
Rosaria Capacchione, Alessandra Camassa e Marco Dell’Utri - discussant - Maria Cristina Amoroso
18:20 Interventi programmati
Hanno confermato finora Giuseppe Cascini, Luigi Salvato, Ernesto Aghina, Fabio Francario, Edmondo Bruti Liberati, Riccardo Ionta, Andrea Apollonio e Marcello Basilico
20:00 chiusura dei lavori
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA:
Giuseppe Amara, Cristina Amoroso, Donatella Palumbo, Donatella Salari
Cell. 3396381906, 3397265027, 3382139878
Segretaria di redazione: Ilaria Buonaguro Mail:
Per informazioni:
È prevista la partecipazione sia in presenza che da remoto. Per la partecipazione da remoto occorre iscriversi collegandosi al seguente link: https://us02web.zoom.us/webinar/register/WN_rKG2BmQiRfGERPqItpfUmQ. Dopo l’iscrizione sarà trasmessa una e-mail di conferma con le informazioni per entrare nel webinar.
Le cause di incompatibilità a presidio dell’imparzialità del giudice amministrativo (nota a Cons. St., sez. V, 6 aprile 2021, n. 2759)
di Vinicio Brigante
Sommario: 1. La vicenda processuale. Rapporti di parentela, persistenza e decadenza dei profili di incompatibilità. - 2. Il Consiglio di Stato 2759/2021. A presidio dell’imparzialità della giustizia amministrativa. - 3. L’immutabile attualità dei profili di incompatibilità. Brevi note conclusive su obblighi motivazionali (ingiustificatamente) differenziati.
1. La vicenda processuale. Rapporti di parentela, persistenza e decadenza delle cause di incompatibilità
La sentenza in commento si pone quale occasione di riflessione sul regime delle cause di incompatibilità poste a presidio dell’imparzialità[i] del giudice amministrativo[ii], tema che non smarrisce ma accresce il suo fascino con l’evolversi del sistema di giustizia amministrativa[iii].
La compiuta strutturazione del processo amministrativo operata dal codice del processo amministrativo e l’attenuazione della distinzione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa rafforzano l’esigenza di assicurare il rispetto del principio del giusto processo[iv] e sottolineano, come strutturale e coerente corollario, la necessità di garantire e preservare il ‘giudice giusto’.
Nel caso del giudice amministrativo, il profilo si rivela particolarmente problematico se solo si considera che è comune l’osservazione per cui l’indipedenza della giurisdizione intesa in termini di principio fondante, di cui all’art. 104 Cost., deve essere graduata, poiché il modello elaborato dalla Costituente prevede un’indipendenza ‘forte’ per la magistratura ordinaria, e una ‘sufficiente’ per le altre magistrature[v] (amplius, v. infra par. § 3).
Preliminarmente, si rende necessaria la ricostruzione storico-processuale della vicenda, al fine di poter apprezzare le specifiche caratteristiche del caso e, in che modo e con che intensità le stesse incidano sulla fondatezza dell’emergere di cause di incompatibilità del giudice amministrativo.
La vicenda dedotta in giudizio ha ad oggetto un profilo di incompatibilità legato alla sussistenza della relazione familiare di un magistrato - nelle more della sua partecipazione, come istante, a diversi interpelli, tra cui quello a presidente di un ufficio giudiziario mono sezionale - con la figlia, avvocato nello stesso foro in cui è sito l’ufficio giudiziario, titolare di diverse cause pendenti dinanzi all’unica sezione del T.A.R. per la quale è presentata la domanda.
Il magistrato in questione ha partecipato agli interpelli per il conferimento degli incarichi di presidente del T.A.R. Marche, ufficio mono sezionale - circostanza che ha un suo autonomo rilievo operativo rispetto ai profili di incompatibilità, come intuibile - e di presidente della Terza sezione del T.A.R. Lazio, esprimendo preferenza per la prima soluzione di interpello.
La competente Commissione consiliare, dopo aver respinto la proposta del relatore di accertare la causa di incompatibilità[vi], connessa alla circostanza che la figlia dell’appellante svolgesse la professione di avvocato nel foro di pertinenza del T.A.R. Marche - con nove liti pendenti dinanzi allo stesso plesso giurisdizionale - ha proposto in ogni caso al Plenum la nomina, che lo stesso Plenum, tuttavia, respingeva.
In primo grado, si deduceva l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per travisamento dei fatti e vizio della motivazione, poiché, in precedenza, rispetto ad altre vicende, il C.G.P.A. aveva escluso la persistenza dell’incompatibilità, allorquando emergesse in maniera chiara l’impegno a rimuovere la causa di incompatibilità, quindi, nel caso di specie, in presenza dell’impegno della figlia ad astenersi da ogni attività dinanzi al T.A.R. Marche- impegno che era stato formalizzato e reso conoscibile dalla stessa figlia - si sarebbe dovuti giungere alla medesima soluzione. Come si vedrà, la peculiarità ambientale della vicenda non consentiva di percorrere tale strada interpretativa.
Il T.A.R. ha accolto il ricorso, con relativo annullamento, per difetto di motivazione e di istruttoria, del decreto di nomina. Per il giudice di prime cure, il C.G.P.A. ha esaminato il profilo di incompatibilità ambientale, ma con evidenti lacune istruttorie; nello specifico, ha omesso di considerare l’impegno della figlia del ricorrente a non esercitare, in alcuna forma, attività legale o di consulenza, rispetto a liti pendenti dinanzi all’ufficio giudiziario di interesse per la vicenda, ossia il T.A.R. Marche.
Per il giudice di prime cure, il C.G.P.A., a fronte di un impegno di astensione come quello palesato, avrebbe dovuto ritenere rimossa la causa di incompatibilità, fermo restando che qualora lo stesso C.G.P.A. ravvisi la reviviscenza dello stato di incompatibilità, è tenuto ad accertarlo con adeguata istruttoria e a legittimarne la relativa persistenza con specifica motivazione.
Si deve osservare che l’incompatibilità di sede per i rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione legale rinviene il proprio fondamento, in termini di razionalità della previsione, nel carattere di indipendenza[vii] della giurisdizione, che non tollera neppure ‘apparenze di condizionamenti’, poiché si pone quale presidio di carattere preventivo, diretto a preservare il profilo dell’imparzialità in tutti i suoi aspetti, anche solo potenziali.
Inoltre, la circolare adottata dal C.G.P.A. il 12 ottobre 2006 sul tema si propone di operare un bilanciamento tra interessi confliggenti, con una graduazione che si basa su diversi parametri e fattori, tra cui la dimensione dell’ufficio e del foro locale, la funzione esercitata dal magistrato e il settore d’esercizio dell’avvocato; per il T.A.R. emerge il regime di incompatibilità più severo e serrato proprio per i dirigenti degli uffici giudiziari - posizione per la quale è presentato interpello - ma, per mitigare ciò, si impone la necessità di adeguare e graduare tale regime alle dinamiche proprie e peculiari della giurisdizione amministrativa, specie per ciò che riguarda gli uffici mono sezionali.
Il giudice di prime cure ha pertanto escluso che il regime giuridico così delineato si presenti in termini assolutamente ostativi rispetto al conferimento dell’incarico direttivo, poiché si rende necessario indagare concretamente lo stato concreto delle dinamiche relazionali e proprio il C.G.P.A. è obbligato a esprimere, dopo adeguata e motivata istruttoria, la sussistenza nel tempo delle cause di incompatibilità.
Per tale ragione, il T.A.R. ha ritenuto che il C.G.P.A. abbia esaminato il profilo dell’incompatibilità ambientale rispetto alla procedura generata dall’istanza per l’interpello, senza istruire adeguatamente la vicenda e, nello specifico, senza considerare adeguatamente l’impegno del familiare che esercita la professione forense di non esercitare attività di consulenza legale, anche stragiudiziale, così da rifuggire anche dalle apparenze di condizionamenti cui si è fatto cenno.
Rispetto a tale impegno, radicale poiché comprende anche la rinuncia alle cause pendenti, l’incompatibilità non può essere rilevata, se non in casi specifici e eccezionali e, in ogni caso, dopo adeguata istruttoria e motivazione.
Tale dichiarazione di volontà e di intenti da parte del parente del magistrato, anche qualora si tratti di uffici mono sezionali, impone che il C.G.P.A. lo consideri alla stregua della rimozione dello stato di incompatibilità ambientale. La persistenza di un pericolo per l’imparzialità dell’ufficio giudiziario deve essere - a giudizio del T.A.R. - in ogni caso, adeguatamente oggetto di istruttoria e deve essere specificatamente e dettagliatamente motivato, al fine di palesare l’iter logico motivazionale del bilanciamento in concreto operato[viii].
2. Il Consiglio di Stato 2759/2021. A presidio dell’imparzialità della giustizia amministrativa
L’appello presentato avverso la sentenza di primo grado, oltre a porre una interessante questione circa i c.d. effetti demolitori ‘domino’ con conseguente e necessaria distinzione tra conseguenzialità organizzativa e diacronica, si basa sull’asserita erronea e falsa applicazione, da parte del giudice di prime cure, dell’art. 18, 3° e 4° comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, che avrebbe portato ad attribuire un’impropria efficacia ‘scriminante generalizzata’ rispetto al tema dell’incompatibilità parentale, basandosi sulla semplice dichiarazione di astensione rilasciata dal familiare che svolge la professione forense, inoltre in forma individuale.
Proprio questa dichiarazione di impegno comporta l’emergere di una presunzione di compatibilità, che onera, in ogni caso, il C.G.P.A. ad operare un supplemento istruttorio, volto a escludere la persistenza di cause contrarie; si tratta, a ben vedere, di una presunzione che richiede un’istruttoria, non solo supplementare, ma autonoma, che, come tale, non solleva il C.G.P.A. dall’accertamento concreto della vicenda.
La sentenza di primo grado avrebbe, in altri termini, svalutato la portata incondizionata dell’art. 18 citato, rispetto alle ipotesi di applicazione della norma agli uffici mono sezionali e ai ruoli direttivi.
Per il Consiglio di Stato, l’appello è fondato, poiché la dichiarazione di impegno del familiare atipica ed espressa in forma privata, a rinunciare formalmente al mandato in tutti i giudizi pendenti e a non assumere futuri incarichi, anche stragiudiziali, per tutto il lasso di tempo in cui il genitore rimanga in carica nel ruolo di presidente dell’ufficio giudiziario comporta una semplice presunzione di superamento dell’incompatibilità, ma non il superamento in sé, subordinato ad adeguata istruttoria che deve essere condotto dal C.G.P.A., al fine di dimostrare concretamente la sussistenza di profili di incompatibilità ambientale.
La disposizione in tema di incompatibilità di sede, quindi di carattere territoriale, rispetto ai rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense, ha carattere generale e provvede ad indicare i criteri di verifica della ricorrenza delle cause, che tengono in considerazione, tra gli altri, la dimensione dell’ufficio giudiziario - con riguardo ai profili di organizzazione tabellare - la materia trattata dal magistrato e dall’avvocato con cui sussiste il rapporto di parentela e la funzione specialistica dell’ufficio giudiziario.
A corredo di tali criteri, il C.G.P.A, come osservato, rimette la scelta discrezionale all’organo di autogoverno[ix], rispetto a dimensioni di ufficio e foro locale, alle funzioni direttive del magistrato e altri fattori utili alla valutazione.
Le regole più rigorose in tema di incompatibilità, tuttavia, fissate dalla norma - art. 18 cit., 3° comma - ricorrono rispetto agli uffici giudiziari mono sezionali - la cui ratio è evidente, poiché non vi sarebbero opportunità di sostituzione a seguito di astensione[x] - che comporta una riduzione del margine di valutazione discrezionale in capo all’organo di autogoverno, poiché si palesa la presunzione iuris et de jure dell’incompatibilità in tali uffici giudiziari.
Inoltre, il 4° comma dello stesso art. 18 citato comporta la presunzione della sussistenza della situazione di incompatibilità per i magistrati preposti a incarichi direttivi dell’ufficio giudiziario.
Entrambe le situazioni ricorrono nella ipotesi in esame.
Il combinato disposto delle due disposizioni nega, a priori, il carattere di idoneità della soluzione prospettata dal T.A.R., ossia valorizzare l’impegno personale del parente che svolge la professione forense a rinunciare ai carichi pendenti e futuri, anche relativi all’attività stragiudiziale. Tale impegno non è adeguato a rimuovere lo stato di incompatibilità previsto dalle disposizioni, non solo a tutela imparzialità in quanto tale, ma anche rispetto alla ‘semplice apparenza dell’imparzialità e della terzietà del magistrato’.
Emerge un’anticipazione della soglia della tutela, diretta non solo a rimuovere strutturalmente la causa di incompatibilità, ma anche a evitare che permangano dubbi, anche solo apparenti o percepiti, sull’imparzialità dell’ufficio giudiziario. È valorizzato e perseguito il più persistente grado di fiducia che deve intercorrere tra cittadini e potere giudiziario, peraltro rispetto a ipotesi nelle quali i profili che minano l’imparzialità sono percepiti come insuperabili.
Si tratta, in altri termini, di garantire e preservare il necessario rapporto di affidamento che sussiste tra cittadini e plesso giurisdizionale, esigenza che emerge anche dall’analisi di disposizioni sovranazionali, rispetto all’elemento distintivo del c.d. diritto al giudice (art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 6 CEDU)[xi].
Si osserva l’esistenza di un regime di incompatibilità assoluto, legato alle circostanze menzionate dai commi 3° e 4° dell’art. 18, e, come tale, si palesa una preclusione rispetto a eventuali prove contrarie, poiché è un regime che opera per categorie e non sulla base dell’istruttoria, che non può sovvertire tale assetto.
Tale circostanza è assorbente ai fini del decidere, ma appare opportuno svolgere qualche breve riflessione rispetto agli altri motivi di appello, diretti a contestare la configurabilità dei difetti di motivazione e istruttoria della delibera del C.G.P.A.
Il diniego di proposta di nomina è motivato, pur nella forma sintetica che caratterizza strutturalmente le delibere collegiali, poiché sia l’ufficio mono sezionale del T.A.R. Marche, sia il relativo foro, sono di contenute dimensioni e, pertanto, l’incompatibilità è, come notato, anche rispetto all’affidamento ingenerato nei cittadini, tendenzialmente insuperabile.
Un ufficio così piccolo - e un corrispondente foro analogamente piccolo nelle dimensioni - palesa una situazione nella quale la decisione del Plenum non richiede l’assolvimento di un onere motivazionale specifico e dettagliato, poiché non vi è un margine di scelta, di esercizio di ponderazione, da richiedere tale sforzo motivazionale.
Per tali ragioni, il Consiglio di Stato accoglie l’appello delle amministrazioni e riforma la sentenza di primo grado, affermando, in concreto, la sussistenza e la non superabilità delle cause di incompatibilità.
3. L’immutabile attualità dei profili di incompatibilità. Brevi note conclusive su obblighi motivazionali (ingiustificatamente) differenziati
La decisione in commento si lascia apprezzare per diversi aspetti, specie rispetto alla vicenda concretamente dedotta in giudizio, ma si rendono necessarie sintetiche notazioni su alcuni profili critici emersi e, di fatto, irrisolti nella loro complessiva portata problematica.
Le disposizioni a presidio dell’imparzialità della giurisdizione nel suo complesso sono deputate a una funzione ineludibile, ossia salvaguardare il grado di fiducia che intercorre tra cittadini e uno dei tre poteri dello Stato moderno. Si tratta di disposizioni, che hanno ovviamente mutato veste, adattandosi ai tempi, ma che mirano in ogni caso a preservare il tratto che connota la legittimazione del giudice rispetto alle parti in causa, l’equidistanza dagli interessi dedotti in giudizio.
Il tema deve essere calato nel contesto della giustizia amministrativa, in base al relativo, ma sempre discusso[xii], carattere di specialità, come noto, non ritenuto unanimemente necessario e vantaggioso[xiii].
L’elemento maggiormente critico, meritevole pertanto di apposita analisi, riguarda il tema della motivazione e le difformità degli obblighi relativi che incombono, con diverso grado precettivo, su giurisdizione ordinaria[xiv] e amministrativa, rispetto alle cause di incompatibilità, poiché emerge un evidente divario che persiste tra concezioni garantiste e riduzioniste della motivazione[xv].
Rispetto alla vicenda in commento, si osserva una ipotesi di declino di decisione motivata[xvi], poiché le disposizioni concernenti i profili di incompatibilità assorbirebbero in sé la scelta amministrativa e renderebbero superflua una motivazione dettagliata. Su tale profilo occorre svolgere almeno una breve considerazione.
La motivazione, come noto, rappresenta elemento posto a presidio della legittimazione del potere, ma pare che, rispetto a ragioni pratiche di un peculiare modo di interpretare il buon andamento e il principio di efficienza - per quanto di interesse, rispetto alle vicende processuali - anche degli organi di autogoverno della giustizia, la stessa debba avere carattere regressivo.
Corredare con apposita e adeguata motivazione il provvedimento con il quale si attesta l’esistenza o meno delle cause di incompatibilità poste a presidio della legittimazione del potere giudiziario sarebbe auspicabile, in primo luogo, per garantire la certezza nel tempo del provvedimento, e per consentire di valutare, in un secondo momento, la attualità o la necessità di sottoporlo a riesame. Solo un’adeguata motivazione può palesare i singoli elementi di fatto della circostanza concreta, a tutela non solo del destinatario, ma del valore che il provvedimento intende perseguire, l’imparzialità degli uffici giudiziari per quanto di interesse.
In secondo luogo, intuitivamente, la motivazione veicola l’attività amministrativa e consente di attivare un sindacato reale sull’attività svolta[xvii].
Da questo punto di vista non si apprezzano ragioni sufficienti a giustificare tale scollamento tra la motivazione dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa e quello preposto al medesimo ruolo per la giustizia ordinaria, posto che il valore presidiato dal provvedimento è il medesimo[xviii]. Ci si deve, pertanto e in termini preliminari, chiarire rispetto al connotato stesso di specialità del diritto amministrativo e della giurisdizione a presidio della relativa azione; se tale carattere viene meno, devono scongiurarsi deroghe e regimi giuridici differenziati.
Si deve garantire che “la giurisdizione si esplichi con serenità e senza condizionamenti da invincibili pregiudizi[xix]”, ma si deve assicurare, analogamente, che tale obiettivo sia oggetto di adeguata motivazione, per evitare di incorrere in disposizioni che si tramutino in insuperabili petizioni di principio.
L’amministrazione e la giustizia amministrativa moderna dovrebbero tollerare di mal grado tutte le ipotesi di svilimento della motivazione, poiché allo stesso potrebbe associarsi un pericolo che andrebbe in ogni caso a detrimento dell’amministrato[xx].
Il tema è troppo ampio e articolato e richiede analisi accurate che si premurino di analizzare il tema in un contesto di contemporaneità e di consapevole complessità.
La motivazione diretta a palesare la persistenza o il venir meno delle cause di incompatibilità concorre a legittimare la decisione degli organi di autogoverno delle diverse giurisdizioni e si pone, in via mediata, a presidio dello stesso canone di imparzialità, stretto, a sua volta, tra esigenze di legalità e di giustizia sostanziale[xxi].
L’imparzialità non dovrebbe ammettere graduazioni, poiché si pone a presidio dell’ultimo baluardo di tutela avverso il potere pubblico; l’attività giurisdizionale, solo qualora sia scevra da qualsiasi tipo di condizionamento, anche solo apparente e potenziale, può garantire un sindacato deputato alla tutela dell’obiettività dell’attività amministrativa e, di conseguenza, come effetto indiretto, alla difesa degli amministrati.
[i] Sul tema, insuperata è l’analisi di A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia non amministrativa (Sonntagsgedanken), Milano, 2005, 73 ss.; M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., 2010, 143 ss.
[ii] Si v. M. Protto, Le garanzie di indipendenza ed imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata, A, Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, 2012, 95 ss., 98.
[iii] In chiave diacronica su tale evoluzione, cfr. F. Francario, Riflessioni a margine del sistema di giustizia amministrativa di Umberto Borsi, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, IV, Padova, 2007, 167 ss., 170.
[iv] M. Chiaviario, Giusto processo ad vocem, in Enc. giur., XVII, Roma, 2001, 3 ss.
[v] G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in Dir. proc. amm., 2003, 343, 346; di recente, A. Police, Lezioni sul processo amministrativo, Napoli, 2021, 7 ss.
[vi] Le cause di incompatibilità di cui all’art. 18, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, ‘Ordinamento giudiziario’, sono applicabili, in via estensiva, anche ai magistrati amministrativi, in virtù dell’art. 28, l. 27 aprile 1982, n. 186, ‘Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali’, rubricato ‘Incompatibilità di funzioni’, che stabilisce che “Ai magistrati amministrativi si applicano, anche per quanto riguarda l’esercizio di compiti diversi da quelli istituzionali e l'accettazione di incarichi di qualsiasi specie, le cause di incompatibilità e di ineleggibilità previste per i magistrati”; sul tema, di recente, in termini generali, P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. it., 2020, 697 ss.
[vii] Sul profilo della razionalità del requisito in esame nell’ambito delle disposizioni costituzionali, cfr. A. Travi, Rileggendo Orsi Battaglini. Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia ‘non amministrativa’, in Dir. pubbl., 2006, 91 ss., 93., l’A., rispetto alla nota opera di Orsi Battaglini, conferma la necessità di perseguire la tesi, invero radicale ma condivisibile, per la quale la specialità del giudice amministrativo non sia foriera di deroghe di nessun genere che possano minare i principi generali posti a presidio del potere giurisdizionale.
[viii] La soluzione sarebbe coerente con il tema della distribuzione ‘a sorte’ dei fascicoli, come osservato da B. Tonoletti, Il giudice naturale e l’organizzazione della giustizia amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2013, 375 ss., mentre, come nel caso di specie, perde efficacia rispetto agli uffici mono sezionali.
[ix] Cfr., sul punto, F. Francario, Autogoverno della magistratura e tutela giurisdizionale. Brevi cenni sui profili problematici della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, in questa Rivista, 2018, il quale osserva una disarmonia tra giustizia amministrativa e ordinaria che incide sui principi informatori del sistema complessivamente considerato.
[x] Si v. N. Pignatelli, Profili costituzionali dell’astensione e della ricusazione del giudice amministrativo, in Quad. cost., 2013, 635.
[xi] Diffusamente, B. Randazzo, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2002, 1303 ss., 1310 (spec. par. § 1.4).
[xii] Ex multis, G. Berti, La giustizia nell’amministrazione pubblica, in Studi economico-giuridici (Vol. LIX), In memoria di Franco Ledda, I, Torino, 2004, 119, “l’amministrazione non è un ordinamento speciale, secondo le antiche ed ora ripudiate visioni della dottrina, ma l’altra faccia dell’ordinamento generale fondato sui diritti. La giustizia amministrativa si ripresenta dunque come struttura giustiziale appropriata al versante giuridico della responsabilità nell’ambito del generale ordinamento costituzionale”.
[xiii] Emblematicamente, S. Satta, Giurisdizione. Nozioni generali ad vocem, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 226, la giustizia amministrativa svela il suo carattere di specialità - e le relative deviazioni rispetto al modello del processo civile - solo per la presenza della pubblica amministrazione; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2013, 102.
[xiv] Si v. la Circolare del CSM, n. P-12940, 25 maggio 2007, modificata con delibere del 1° aprile 2009 e 9 aprile 2014; si v., con riferimento al tema dell’autovincolo, M.R. Spasiano, Nomina dei componenti togati del Comitato Direttivo della Scuola superiore della magistratura: è l’auto-vincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo, in questa Rivista, 2021, il quale analizza anche il tema del sindacato del g.a. sugli atti del CSM; si v., rispetto al controverso tema della individuazione della apposita giurisdizione, E. Zampetti, Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio del consigliere C.S.M. la decisione spetta al giudice ordinario, in questa Rivista, 2021, il quale analizza la portata discrezionale delle delibere del CSM. In tema v. anche Il Consiglio di Stato (e la) nomina (del) Presidente e (del) Presidente aggiunto della Corte di Cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 01 2022 nn. 267 e 268), in questa Rivista, 15 gennaio 2022.
[xv] Si v. G. Tropea, Conferimento di incarichi del CSM e giudice amministrativo: il lungo addio all’ineffettività della tutela (Nota a Cons. St., sez. V, 15 luglio 2020, n. 4584), in questa Rivista, 2020, sul tema, controverso, del conferimento degli incarichi direttivi o semidirettivi; rispetto a una delle conseguenze plausibili in tema di incompatibilità, ossia il trasferimento, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 5 agosto 2021, n. 9277, l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che giustificano i trasferimenti per incompatibilità ambientale, i quali, proprio per questa ragione, non necessitano nemmeno di una particolare motivazione; ne consegue che il giudice chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti che dispongono questa misura deve limitarsi al riscontro dell'effettiva sussistenza della situazione di incompatibilità venutasi a creare ad avviso dell'amministrazione (e costituente presupposto del provvedimento) nonché della proporzionalità del rimedio adottato per rimuoverla. Infatti, in tali tipi di controversie il sindacato del giudice amministrativo deve limitarsi ad una valutazione di legittimità ab extrinseco, non essendo ammissibile una valutazione sull'opportunità delle scelte dell'amministrazione.
[xvi] Si riprende il titolo dell’analisi svolta da M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 2017, 896, che osserva che si tratta di “un processo generale, in quanto riguarda sia gli atti amministrativi vincolati, sia gli atti amministrativi discrezionali (e in quest’ultimo caso risulta maggiormente criticabile); un processo complesso, in quanto investe la mai risolta dialettica tra legislazione, amministrazione pubblica e giurisprudenza; un processo articolato, in quanto assume manifestazioni concrete diverse, che spaziano da un particolare modo d’intendere la motivazione per relationem al reputato grado di sufficienza della stessa, dall’inquadramento del difetto di motivazione tra i vizi formali all’ammissibilità dell’integrazione della motivazione nel corso del processo; un processo inedito, in quanto va tenuto distinto dalla c.d. dequotazione della motivazione del provvedimento”.
[xvii] R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativoIIed, Torino, 2017, 269 ss.
[xviii] Sul tema, per apprezzare le ragioni di fondo, si condivide l’analisi di L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni. Annotazioni brevi, in Dir. pubbl., 2014, 561 ss.
[xix] M. Chiaviario, Giusto processo, cit., 8.
[xx] Particolarmente puntuali, come sempre, sono le parole di G. Berti, Le trasformazioni della giustizia amministrativa, ora anche in Scritti scelti, Napoli, 2018, 577 ss., 583, la giustizia amministrativa è una faccia necessaria dell’esserci e dell’agire secondo una visione altamente sociale dell’uomo e della collettività.
[xxi] Cfr. F. Pinto, Il giudice amministrativo di fronte ai diritti fondamentali tra legalità e giustizia, in Amministrativamente, 2019, “nel chiuso della camera di consiglio, sollecitato da istanze che, sempre più, cercano di trascinare nelle aule giudiziarie conflitti, che forse andrebbero risolti altrove, il giudice appare oggi sempre più tentato dall’assumere il ruolo di chi fa giustizia, di chi risponde, cioè, a bisogni sostanziali, sentendo di incarnare - e forse è - l’espressione di un potere legittimato direttamente dalla legge”; G. De Giorgi Cezzi, Interessi sostanziali, parti e giudice amministrativo, in Dir. amm., 2013, 401 ss., 422, “ruolo attivo del giudice e centralità del contraddittorio vanno dunque nella stessa direzione e rispondono a un’esigenza logico-pratica del processo che utilizza la dialettica processuale come metodologia della rilevanza e teoria della confutazione secondo il punto di vista di un giudice imparziale”.
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