ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La tentazione tirannica dei valori assoluti[1]
di Alessio Lo Giudice
Sommario: 1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica. – 2. La strada dei valori assoluti. – 3. Etica dei valori ed etica dei principi. – 4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione.
1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica
L’odierno e diffuso utilizzo del termine crisi nelle letture della (e sulla) pandemia acquista un significato preciso nella misura in cui lo associamo proprio alla necessità di assumere decisioni, politiche e giuridiche, in presenza di un conflitto tra principi fondamentali, talvolta rappresentati come espressione di veri e propri valori assoluti. Nella misura, cioè, in cui interpretiamo la nostra condizione come quella di un sistema sociale che, a più livelli, si è trovato, e si trova, sistematicamente di fronte alla necessità di giudicare e decidere con il tempo che stringe tra istanze configgenti e parimenti tutelate non solo dall’ordinamento giuridico ma anche dal tessuto valoriale ampiamente condiviso nel contesto socio-culturale di riferimento. È questa la situazione che hanno dovuto gestire i medici dei reparti di rianimazione quando, a corto di posti disponibili in terapia intensiva e a fronte di una serie di motivate richieste di ricovero, sono stati chiamati a giudicare chi meritava, più degli altri, di essere curato. Ma è analoga, al netto di tutte le differenze specifiche, la situazione che il decisore politico ha dovuto affrontare di fronte al dilagare dell’epidemia, prima di procedere alla chiusura delle attività sociali e produttive. Oggi, lo stesso decisore politico si trova ancora a decidere, con urgenza, tra alternative che comunque si escludono, quando è chiamato a procedere alla riapertura o alla richiusura delle attività a fronte dei risultati del contenimento del contagio; quando è chiamato a decidere sull’opportunità o meno di prevedere l’obbligo vaccinale; quando è chiamato ad adottare misure, come nel caso del Green pass, che comunque incidono sull’esercizio di alcuni diritti fondamentali. Per non parlare, poi, di tutte le ulteriori scelte quotidiane che molti hanno dovuto compiere in tale contesto, posti di fronte ad alternative quali quelle tra affetto e salute, o tra lavoro e salute. In altre parole, il conflitto tra principi, spesso riconfigurato quale espressione del conflitto tra valori assoluti, indica l’esperienza diffusa che, con una maggiore frequenza a livello istituzionale e socio-culturale, stiamo vivendo a causa della pandemia, sebbene rappresenti una situazione ricorrente nelle società tardo-moderne caratterizzate da un sempre crescente pluralismo etico[2].
Ciò che la crisi pone in risalto, del resto, è l’urgenza della scelta in assenza di criteri generali certi, indiscutibili e stabili, nonostante l’esistenza di norme di vario rango, di linee guida, principi deontologici, pareri scientifici e tecnici. Scelte che implicano la necessità di optare tra alternative in ogni caso riconducibili a istanze profondamente umane, legate alla natura dell’uomo e agli interessi che storicamente prevalgono. Questa è la situazione dei medici di fronte al dilemma etico, alla scelta tragica da compiere nel triage. Bisogna seguire a tutti i costi il principio della parità di trattamento? Occorre seguire il criterio della maggiore probabilità di successo clinico, con l’annessa valutazione sul discutibile parametro dell’aspettativa di vita? O invece basterebbe attenersi al criterio cronologico: chi prima arriva viene curato fino ad esaurimento posti? Ma simile è anche la situazione che il decisore politico deve affrontare di fronte alla necessità di aprire o chiudere lo spazio sociale ed economico-produttivo. Lo è perché si tratta di bilanciare, in concreto, principi e interessi costituzionalmente protetti che, nel loro insieme, esprimono la trama complessa di una società. Mettere in discussione uno qualsiasi di questi principi, dalle libertà alla salute, dall’uguaglianza all’iniziativa economica, comporta comunque una ferita nel tessuto sociale con tempi di recupero assolutamente non prevedibili. Una ferita, soprattutto, che rischia di ampliarsi a dismisura, senza che sia possibile immaginare di rimarginarla, se il conflitto in questione assume sempre più le caratteristiche di una lotta tra valori assoluti che si mostrano resistenti di fronte a qualsiasi ipotesi di mediazione.
2. La strada dei valori assoluti
Ebbene, la strada dei valori, se questi ultimi, occorre precisare, vengono intesi come ideali e assoluti, rischia di condurre a conflitti sempre più irrisolvibili[3]. Per essere più precisi, tale strada equivale alla pretesa e alla prassi di ricorrere a valori assoluti nel momento in cui sorge il problema di giustificare o contestare, a diversi livelli, una decisione politica e giuridica. Intendo, in particolare, sostenere come siffatta forma di giustificazione, concepita come attuazione materiale di valori ritenuti assoluti, sia intrinsecamente conflittuale.
A prescindere dalla caratterizzazione morale di molti conflitti contemporanei, specie in epoca pandemica, può in proposito considerarsi anche un’analisi concettuale frutto di una tradizione consolidata. Ci sono certo riflessioni che puntano proprio a sottolineare la conflittualità strutturale della prassi politico-giuridica fondata sui valori assoluti. Ma è significativo potersi riferire anche agli studi di coloro che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX hanno fondato filosoficamente un’etica materiale dei valori. Si pensi a Max Scheler o a Nicolai Hartmann. In particolare, quest’ultimo individua nel tendenziale aspetto tirannico del valore un tratto tipico dei rapporti di opposizione tra i valori stessi: «Ogni valore – una volta che ha acquistato potere su di una persona – ha la tendenza di erigersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, ed invero alle spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono materialmente contrapposti»[4].
In realtà, come anticipato in precedenza, la conflittualità è una componente strutturale di un certo modo di intendere i valori. Se intesi come assoluti, tali cioè da ordinare in maniera onnicomprensiva e totalizzante una forma di vita, non possono che comportare l’esclusione di valori alternativi che si presentano come altrettanto assoluti. A questo proposito Carl Schmitt, ragionando proprio sulla tirannia dei valori indicata da Hartmann, afferma: «I valori per quanto alti e santi, come valori, valgono sempre e soltanto per qualcosa e per qualcuno»[5].
Riferimento classico, nel riflettere sull’ontologia del conflitto di valori, è l’idea della pluralità di valori come centri normativi avanzata da Max Weber, espressione del fallimento dei progetti di neutralizzazione etica che si sono susseguiti nella modernità. Il politeismo dei valori, così concepito, è più il riflesso dell’insufficienza regolativa e integrativa del modello di razionalità autoreferenziale, che il residuo dell’implosione di una precedente omogeneità culturale: «Gli antichi dèi, spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta»[6].
Una tale contesa è in realtà lo scontro tra posizioni comunque situate storicamente che pretendono di imporre concezioni del mondo assolutizzanti. Posizioni cioè che divinizzano il dato valoriale promuovendone la supremazia gerarchica che ne consegue. Da questo punto di vista, le riflessioni di Schmitt indicano quella che oggi potrebbe appunto essere definita la logica di chi incarna un’ingenua, quanto improbabile, concezione assoluta della libertà individuale: “Per la logica del valore deve sempre valere che per il valore supremo il prezzo più alto non è troppo alto, e deve essere pagato”[7].
Questo discorso trova un importante riscontro in un contesto filosoficamente distante da quello schmittiano. Jürgen Habermas, infatti, indicando nella mancata distinzione tra norme e valori un vizio metodologico, frutto dell’errata auto-interpretazione del proprio ruolo da parte della Corte Costituzionale tedesca, ha reiteratamente criticato la cosiddetta “giurisprudenza dei valori”. E ancora una volta sottolinea la conflittualità intrinseca rispetto a qualsiasi ordine di valori assoluti: “Valori differenti lottano per la prevalenza: nella misura in cui trovano riconoscimento intersoggettivo nell’ambito d’una cultura o d’una forma di vita, essi generano configurazioni flessibili e ricche di tensione”[8].
3. Etica dei valori ed etica dei principi
L’ispirazione per una prassi politico-giuridica valoriale in senso assoluto, e inevitabilmente conflittuale, nasce probabilmente dalla necessità di una legittimità sostanziale che rafforzi, o superi, il presunto debole fondamento del legalismo e del positivismo giuridico, nonostante la cornice del costituzionalismo del secondo novecento abbia condotto alla positivizzazione di una pluralità di valori attraverso principi normativi di chiara matrice morale. Secondo l’impostazione ispirata dall’etica dei valori di cui qui si sta discutendo, non basterebbe una teoria formale dei valori di stampo neokantiano. Sarebbe invece necessaria un’etica materiale che neutralizzi il pluralismo dei valori e dia vita a una filosofia dei valori assoluti, a una gerarchia di valori che quindi, in una certa misura, detti la forma e gli obiettivi delle decisioni politiche e giuridiche e delle corrispondenti contestazioni.
L’asserzione di un valore assoluto, se concepito come fondamento escludente che non ammette la possibilità di fondamenti “altri”, è però sostanzialmente un’asserzione negativa, legandosi alla simultanea affermazione di un disvalore. Secondo una tale visione, infatti, il valore vale nella misura in cui svaluta ciò che ad esso si contrappone, e che diviene quindi un non-valore o un valore negativo. A questo proposito basti pensare all’etica assiomatica di Scheler, in cui il rapporto con la negazione è costitutivo del valore stesso: “La non esistenza di un valore positivo è in sé un valore negativo; […] la non esistenza di un valore negativo è in sé un valore positivo”[9].
Di conseguenza, un agire politico o una prassi giurisdizionale che si autogiustifichino sulla base di un’etica materiale dei valori assoluti non potrebbe pretendere di colmare in questo modo la presunta carenza di legittimità sostanziale di decisioni guidate esclusivamente dalle norme di rango costituzionale. In realtà, l’aggressività di ogni decisione volta ad attuare un valore assoluto che esclude la legittimità di percezioni valoriali alternative è sintomo di parzialità: affermo il valore negando un non-valore. Ciò spesso equivale a dire: affermo una forma di vita negandone un’altra. Ma ciò che è buono per noi non è detto che sia buono per tutti. Occorrerebbe infatti chiedersi se l’universale, quale fondamento assoluto, divida o unisca, nel momento in cui se ne pretende la concretizzazione storica.
Proprio a partire da questo interrogativo si comprende la differenza tra l’etica dei valori assoluti e l’etica dei principi. Sebbene, infatti, entrambe le impostazioni possano avere per oggetto i medesimi beni (libertà, sicurezza, salute, vita etc.), i presupposti filosofici e gli esiti deliberativi sono prevalentemente antitetici. Ciò si comprende se si tiene a mente la natura tendenzialmente tirannica dei valori assoluti, per come è stata descritta nelle pagine precedenti. Non a caso, Gustavo Zagrebelsky riconfigura l’idea di valore come valore-fine: «Il valore, nel senso che qui interessa, è un bene finale, fine a se stesso, che sta innanzi a noi come una meta che chiede di essere perseguita attraverso attività teleologicamente orientate»[10]. Ciò comporta che l’etica derivante da una tale concezione dei valori sia un’etica dei fini. L’obiettivo etico è l’attuazione materiale del valore a prescindere dai mezzi o dalla procedura seguiti. Il criterio di legittimità della decisione assunta è la sua efficienza rispetto alla concretizzazione del valore in oggetto. Perde quindi di rilevanza la valutazione sul mezzo utilizzato e, di conseguenza, la possibile compresenza di altri valori confliggenti: «Tra l’inizio e la fine dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé qualsiasi azione che possa essere messa in rapporto di strumentalità efficiente rispetto al valore stesso»[11]. Siamo quindi di fronte non ad un’etica deontologica bensì ad un’etica del risultato.
L’etica dei principi, al contrario, ha una natura intrinsecamente deontologica, quindi normativa, e quindi giuridica. I principi, infatti, nella chiara distinzione proposta da Zagrebelsky, sono beni iniziali che, in quanto espressione di valori non assoluti, pretendono di realizzarsi attraverso mezzi determinati, coerenti con la natura del principio stesso: «L’agire “per principi” è intrinsecamente regolato e delimitato dal principio medesimo e dalle sue implicazioni: ex principiis derivationes»[12]. Si tratta dunque di un’etica dei mezzi e, conseguentemente, dei doveri. Ciò che conta è la strada seguita, ispirata dal principio e coerente con le implicazioni normative comprese nel principio stesso. Ebbene, proprio perché non regolata dall’efficienza e dal risultato, l’etica dei principi è, a differenza di quella materiale dei valori assoluti, non solo compatibile con i fondamenti teorico-istituzionali dello Stato di diritto, ma anche costitutiva della prassi giuridica nell’ambito di contesti sociali che tutelano il pluralismo etico e culturale. L’etica materiale dei valori assoluti, infatti, data la prospettiva dogmatica e gerarchica che la ispira, non ammette la logica del bilanciamento bensì quella della sopraffazione o contrapposizione irriducibile. Al contrario, l’etica dei principi, in quanto fondata su istanze valoriali che sono volte non all’efficienza e alla potenza del risultato ma a determinare la coerenza delle azioni ispirate dai principi stessi, senza che sia postulata una gerarchia statica tra di essi, contempla e alimenta la compresenza di più valori e il necessario bilanciamento tra principi quando alcuni di essi sono rilevanti rispetto alla situazione concreta oggetto di valutazione. Si comprende dunque quanto possa essere benefico un agire etico-giuridico fondato sui principi nei frangenti, come è quello attuale, di crisi emergenziale, e quanto, al contrario, possa essere deleterio, un agire per valori materiali ritenuti assoluti inevitabilmente volto a generare conflitti laceranti.
4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione
L’etica dei principi pare dunque non solo più coerente, rispetto all’etica materiale dei valori assoluti, con l’impianto istituzionale dello Stato di diritto democratico di matrice costituzionale, ma anche più confacente alle esigenze che si pongono in una situazione di emergenza come è quella causata dalla pandemia da Covid-19. In realtà, la portata della questione si estende al fondamento da dare alla regolazione sociale. A una prima possibilità, che come si è visto comporta un’attuazione immediata e diretta di valori assoluti, può opporsi un’alternativa strategica, ispirata dall’etica dei principi, e fondata sull’applicazione di norme che regolino la coesistenza di prospettive morali differenti, tanto fondamentali quanto legittime, predeterminando proceduralmente anche il percorso da seguire nel processo di deliberazione. La prescrizione normativa, seguendo questa strategia, si configura concettualmente come rivolta a tutti. Allora, come sostiene Habermas, si tratta ancora una volta di apprezzare la differenza, nell’ottica della regolazione, tra un agire deontologico (guidato da norme) e uno teleologico (guidato da valori): «La domanda “che devo fare?” […] avrà nei due casi formulazioni e risposte diverse. Alla luce delle norme si può decidere cosa sia doveroso fare, nell’orizzonte dei valori cosa sia raccomandabile»[13].
Sulla base di queste premesse si possono pensare diversi modelli regolativi interni al paradigma dell’applicazione di norme. Due, in particolare, meritano attenzione in quanto pretendono, nel primo caso, di neutralizzare il dato valoriale, con tutti gli effetti controfattuali che ne conseguono, nel secondo caso, invece, di mutarne semplicemente l’auto-percezione.
Seguendo anzitutto la visione proceduralista, per uscire dal conflitto tra valori assoluti sarebbe necessario porre l’attenzione su elementi comunicativi e procedurali in grado di stabilire le condizioni di possibilità per una cooperazione tra forme di vita diverse. Ciò, allo stesso tempo, rispettando il progetto etico di ogni forma di vita nella misura in cui soddisfi i requisiti procedurali di comunicabilità che la convivenza tra differenti universi morali impone. A quest’esito giunge, ad esempio, la critica di Habermas alla filosofia dei valori: «Le etiche dei beni e le etiche dei valori isolano dei particolari contenuti normativi: ma le loro premesse normative – in una società moderna caratterizzata dal “pluralismo degli idoli” (Weber) – sono in realtà troppo “forti” per servire da base a decisioni universalmente vincolanti. Solo teorie morali e giuridiche impostate in senso procedurale possono promettere un procedimento imparziale per la fondazione e il confronto critico di principi diversi»[14].
Ma una tale impostazione riposa su una fiducia incondizionata negli effetti conciliativi di un dialogo proceduralmente regolato. Come se la prassi deliberativa, in sé, possa neutralizzare il conflitto di valori. In realtà, si tratta in questo caso di affidarsi ad assunti non dimostrati, e in una certa misura indimostrabili. Come la presunzione stessa della capacità innata degli individui di farsi guidare da un agire comunicativo regolato da una procedura. O come la credenza nell’attitudine degli individui a “mettersi nei panni degli altri” in virtù della semplice comunicazione reciproca.
Occorrerebbe allora individuare un’altra strada, attraverso cui pensare la regolazione sociale come applicazione di norme e decisioni. Potrebbe essere, a ben vedere, quella che in questa sede si propone di associare al concetto di mediazione. Non la mediazione garantita da una procedura, e neanche quella prodotta da una politica fondata sul mero calcolo delle convenienze. Mi riferisco invece alla mediazione tra portatori di valori che, se da una parte interpretano i propri valori come riferimenti identitari indispensabili, dall’altra non escludono la legittima capacità dei diversi soggetti di riconoscersi in valori fondamentali alternativi.
Un valore fondamentale, in sé, nella misura in cui venga inteso come dato assolutizzante, non può essere oggetto di mediazione; è concettualmente immediato. Richiedendo attuazione ad ogni costo, si impone. Al contrario, un valore che possiamo definire complementare a priori (nel senso che è in attesa di ricevere e fornire complemento senza essere il fondamento assoluto di un ordine ideale onnicomprensivo) è sostanzialmente un punto di vista degno del più alto riconoscimento. Dichiara la sua natura non assoluta e si mostra quindi disponibile alla mediazione. La complementarità di un valore, in questo senso, da una parte ne garantisce la rilevanza politica e giuridica quale punto di vista che esprime una forma di vita, dall’altra ne esclude l’aggressività quale centro onnicomprensivo di regolazione.
Non si tratta però di affidarsi agli effetti misteriosamente conciliativi di un dialogo potenziale tra portatori di punti di vista reciprocamente riconosciuti. Occorre invece riflettere sulla strutturale relazionalità dei valori: per cui ogni valore “vale” proprio in quanto strutturalmente in relazione – qualsiasi tipo di relazione, come abbiamo visto – con altri valori. Nella misura in cui il portatore del punto di vista acquista la consapevolezza della non esclusività della propria posizione, si profila l’esigenza di una visione panoramica dei contesti oggetto di regolazione. Cioè di una visione che cerchi di tener conto di tutti i punti di vista, in quanto di pari rango, poiché riconosciuti in un quadro metaetico condiviso[15].
La mediazione quindi non sorge come scelta etica, ma come esigenza regolativa fondata su una reinterpretazione della prospettiva da cui si agisce e del modo di autorappresentare la propria posizione. Se tanto le norme quanto le decisioni giudiziarie e gli atteggiamenti individuali fossero il prodotto di un tale capovolgimento prospettico, allora potrebbe delinearsi una via di uscita al conflitto di valori ritenuti assoluti che non riposi sulla presunzione neutralizzante, e in realtà concettualmente viziata, della mera prospettiva proceduralista.
[1] Si segnala che questo testo è destinato altresì alla pubblicazione in un volume collettaneo in corso di stampa presso Edizioni Scientifiche Italiane, dal titolo I diritti fondamentali al tempo della pandemia, curato da C. Ingratoci, A. Madera e F. Pellegrino.
[2] Sulla accresciuta rilevanza giuridica di tali conflitti cfr., tra gli altri, V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Giappichelli, Torino 2017; D. Canale, Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale, Laterza, Roma-Bari 2017.
[3] A questo risultato non giungono invece quelle solide, quanto condivisibili, concezioni del diritto assiologicamente orientate in senso realistico. A tal proposito, nella eminente concezione di Angelo Falzea, il diritto viene inteso come realtà assiologica attraverso una lettura critica delle anguste visioni formalistiche ed astratte del fenomeno giuridico. La scienza giuridica, secondo tale concezione, deve quindi fondarsi sulla realtà fattuale complessa, sulle combinazioni valoriali che pragmaticamente si realizzano in contesti pluralisti, proprio attaverso la prassi sociale che si consolida grazie all’emergere degli interessi e all’esperienza dei valori che così si affermano. Il diritto è quindi concepito come un sistema di valori associati ai fatti. La norma stessa consente di associare un valore ai fatti che contempla. In particolare, è nell’effetto giuridico che è possible rinvenire il valore attribuito al fatto. Ma l’esperienza dei valori, in quanto prodotto della pratica sociale, è antitetica all’assolutizzazione idealistica dei valori stessi in chiave metafisica, trascendente, o comunque fondamentalisticamente dogmatica. L’esperienza dei valori coincide con una realtà assiologica, e non con un’idealità assoluta e irrelata. Essa, dunque, comprende lo spazio della convivenza sociale assiologicamente determinata in senso plurale e in grado di mediare tra interessi confliggenti (Cfr., in particolare, A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Parte I: Il concetto di diritto, VI edizione ampliata, Giuffrè, Milano 2008, pp. 259-502. Si veda, inoltre, per una fondamentale riflessione sul rapporto tra l’etica sociale e i bisogni materiali della vita umana, l’opera di R. De Stefano, Per un’etica sociale della cultura, I, Le basi filosofiche dell’umanismo moderno, Giuffrè, Milano 1954).
[4] N. Hartmann, Etica. Assiologia dei costumi, trad. it., Guida editori, Napoli 1970, p. 408.
[5] C. Schmitt, “La tirannia dei valori”, trad. it., Rassegna di diritto pubblico, n. 1, 1970, p. 19.
[6] M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. it., Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 30. Per un’interpretazione in senso analogo dell’idea weberiana del politeismo dei valori, si veda G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 379 ss.
[7] C. Schmitt, “La tirannia dei valori” cit., p. 25.
[8] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 304.
[9] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1996, p. 48.
[10] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna 2008, p. 206.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 208.
[13] J. Habermas, Fatti e norme cit., p. 304.
[14] J. Habermas, Morale, diritto, politica, trad. it., Einaudi, Torino 1992, p. 30.
[15] All’affermazione dell’immanenza giuridica di una tavola assiologica condivisa, chiaramente coerente con il pluralismo valoriale tutelato dalle cornici costituzionali del secondo Novecento, possono ricondursi, tra le altre, le riflessioni di G. Silvestri, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino 2005, e di A. Ruggeri, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Giuffrè, Milano 1977; Id., Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Giappichelli, Torino 2009.
SCRITTI IN ONORE DI ANTONIO RUGGERI
Giustizia Insieme segnala la presentazione degli “Scritti in onore di Antonio Ruggeri”, che si terrà mercoledì 20 ottobre alle ore 15:30 presso l'Aula Magna Rettorato dell'Università di Messina e che potrà essere seguita simultaneamente via Teams.
Per poter partecipare in via telematica all'evento sarà sufficiente cliccare sull'icona di Microsoft Teams presente in fondo alla locandina.
L’accesso defensionale a materiali e contenuti informativi in possesso della RAI (il caso Report).
(nota a TAR Lazio, Sez. III, 18 giugno 2021, n. 7333)[1]
di Martina Sinisi
Sommario: 1. Il perimetro dell’accesso delineato dalla sentenza. – 1.1. La perimetrazione soggettiva: gli obblighi ostensivi di RAI con riferimento all’accesso procedimentale e l’esclusione degli stessi in relazione all’accesso civico generalizzato. – 1.2. La perimetrazione oggettiva: l’accesso a materiali e contenuti informativi dell’attività giornalistica. – 2. Le conclusioni cui giunge la sentenza: il superamento della potenziale conflittualità con gli interessi contrapposti e la preminenza dell’interesse defensionale – 2.1. L’adesione all’orientamento maggioritario sulla valutazione in astratto delle esigenze difensive ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso. – 3. Brevi considerazioni conclusive.
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1. ll perimetro dell’accesso delineato dalla sentenza.
La tematica dell’accesso, come noto, negli ultimi anni è stata costantemente sotto la lente di ingrandimento della giurisprudenza (oltre che della dottrina, che ne aveva attenzionato le criticità fin dall’introduzione del c.d. decreto trasparenza - d.lgs. n. 33/2013 s.m.i.), tanto da richiedere, in assenza di una chiara e univoca indicazione normativa e nel perdurare delle incertezze interpretative, l’intervento nomofilattico dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con una serie di pronunce[2], si è preoccupata di delineare i rapporti tra l’accesso civico generalizzato e il preesistente accesso procedimentale di cui alla l. n. 241/90 s.m.i. in termini di complementarietà e, al contempo, di autonomia, chiarendone così anche la dimensione dell’uno in rapporto all’altro, più volte descritta dalla giurisprudenza come “più ampia e meno profonda” con riferimento all’accesso civico generalizzato per la maggiore ampiezza dell’oggetto della pretesa conoscitiva e per l’assenza di un collegamento con una posizione giuridica qualificata, a differenza dell’accesso procedimentale in cui la pretesa conoscitiva vanta un oggetto meno ampio, ma risulta essere maggiormente profonda perché collegata a un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
In questa cornice si pone la pronuncia del TAR Lazio, resa all’esito di una controversia che, nasceva dal diniego opposto a una istanza di accesso agli atti presentata, come spesso accade soprattutto nella diffusa incertezza sui presupposti per l’accesso e sull’ampiezza del potere valutativo rimesso all’amministrazione nell’accogliere o nel rigettare la relativa istanza, sia ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990 s.m.i. che ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013 nei confronti della Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A. in ragione di esigenze difensive (“l’esigenza .. di tutelare la propria reputazione nelle sedi competenti”) in riferimento a un servizio mandato in onda dall’emittente televisiva in cui sarebbero state riportate “notizie false e fuorvianti” sull’istante e sull’attività professionale dallo stesso esercitata.
Veniva pertanto richiesta l’ostensione dei materiale e dei contenuti informativi in possesso della RAI e, più precisamente, costituivano oggetto di istanza di ostensione: “a) tutte le richieste rivolte dai giornalisti e/o dalla redazione di “Report”, tramite e-mail o con qualsiasi mezzo scritto o orale, a persone fisiche ed enti pubblici (Comuni, Province, ecc.) o privati (fondazioni, società, ecc.), per ottenere informazioni e/o documenti riguardanti il ricorrente e la sua attività professionale; b) tutti i documenti e/o le informazioni fornite ai giornalisti e/o alla redazione di “Report” a seguito delle richieste sub a), e in particolare la corrispondenza personale intercorsa tra lo scrivente e soggetti terzi illustrata nella parte finale del servizio; c) ogni altra corrispondenza non ricompresa sub a) o b) che sia intervenuta tra i giornalisti e/o la redazione di “Report”; d) file video integrali della trasmissione e in particolare delle interviste poi confluite nel servizio mostrato al pubblico; e) dati integrali degli ascolti della trasmissione su base nazionale e regionale; f) dati integrali relativi alla pubblicizzazione del servizio sui canali Rai, quotidiani, periodici o altri mezzi di informazione”.
Riconosciuta fondata, nei limiti di cui si dirà, l’istanza di accesso procedimentale (e non anche quella di accesso civico generalizzato per cui, con riferimento alla RAI, opera la causa di esclusione di cui al comma 2-bis, lett. b) del d. lgs. n. 33/2013, come si vedrà meglio infra), in quanto ricorrenti nel caso di specie i relativi presupposti e cioè la sussistenza di un interesse ‘diretto’ (“in ragione dell’obiettiva riferibilità della documentazione richiesta alla sua persona trattandosi di materiale inerente al servizio televisivo che lo aveva specificamente riguardato”), ‘concreto’ (in quanto funzionale a promuovere iniziative a tutela del suo buon nome e di un interesse) e ‘attuale’ (“dal momento che il servizio giornalistico lesivo della sua reputazione continuava ad essere visionabile sul sito internet della RAI”), nonché una situazione giuridicamente tutelata in collegamento alla documentazione oggetto dell’istanza di accesso (“dal momento che i documenti concernenti l’attività espletata dai giornalisti incaricati del pubblico servizio radiotelevisivo così come i dati degli ascolti risulterebbero strettamente collegati alla situazione legittimante integrata dall’esigenza di tutela dei diritti – di rilievo costituzionale – all’onore a al buon nome, in quanto preordinati alla piena conoscenza di ciò che avrebbe preceduto la messa in onda del servizio e la diffusione dei contenuti lesivi, in vista dell’eventuale proposizione di iniziative risarcitorie”), il TAR, coerentemente con la riconosciuta prevalenza della pretesa conoscitiva supportata da necessità difensive, ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. n. 241/90 s.m.i., ma suscitando qualche perplessità per la peculiarità della fattispecie in esame, ha condannato la RAI all’ostensione dei documenti in suo possesso, ivi comprese la corrispondenza giornalistica dell’autore del servizio e la documentazione proveniente da interlocuzione con la pubblica amministrazione, tra cui quella formata dalla stessa pubblica amministrazione e successivamente acquisita dalla RAI. Ciò sul presupposto implicito del rinvio operato dall’art. 22 comma 1, lett. d) agli atti “detenuti” (e non dunque a quelli “formati”) dalla p.a., così superando le eccezioni relative al segreto professionale, almeno con riferimento a fonti pubbliche, e all’autonomia giornalistica, in ragione dell’impiego del giornalista presso emittente televisiva pubblica (con ciò implicitamente differenziando quanto a regime applicabile l’analoga posizione di coloro che svolgono attività giornalistica presso emittenti private non esercenti attività di pubblico interesse)[3].
Sgombrato il campo dalla possibilità di esercitare l’accesso civico generalizzato e ristretto lo stesso alla sola ipotesi di accesso procedimentale, si vanno delineando più nettamente i profili da attenzionare e le correlate implicazioni.
In primo luogo viene in rilievo rispetto agli obblighi di trasparenza – intesa in senso lato, rimanendo nel più circoscritto perimetro dell’accesso procedimentale, come si è detto in premessa – la posizione del giornalista che svolga la propria attività: se cioè corra l’obbligo di distinguere tra lo svolgimento dell’attività in forma autonoma o piuttosto subordinata in favore di una emittente pubblica o privata che svolga un servizio pubblico, o se piuttosto le due posizioni, che si differenziano sotto il profilo contrattuale, tendano a sovrapporsi quanto agli obblighi di carattere pubblico inerenti allo svolgimento di un servizio di pubblico interesse. In altri termini: se lo svolgimento formalmente autonomo o piuttosto subordinato dell’attività giornalistica incida o meno sugli obblighi ostensivi del materiale informativo e se dunque tali obblighi nascano per il solo fatto di aver prestato la propria attività giornalistica in favore di una emittente che svolga un servizio pubblico o di pubblico interesse e quindi determini sempre e comunque un obbligo di ostensione del materiale informativo raccolto in vista del servizio giornalistico successivamente trasmesso in quanto attività prodromica e come tale inclusa nel servizio stesso, con l’effetto che la distinzione rimarrebbe nella sfera “interna” e rileverebbe ai soli fini civili (contrattuali), come pare essere. A ciò si aggiunga che la giurisprudenza civile ha in più occasioni sottolineato che in tale ambito il carattere della subordinazione risulta generalmente attenuato proprio per la creatività e la particolare autonomia che qualificano la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell’attività stessa[4].
La questione, non posta espressamente dalla sentenza ma inevitabilmente sottesa ad un più ampio esame quantomeno in termini di riflessione generale con riferimento all’intero ventaglio delle ipotesi di accesso prospettabili, pare con buona probabilità da ritenere implicitamente superata dalla lettura offerta e dal principio di diritto enunciato.
Collegato a tale profilo vi è poi quello più specificamente inerente all’oggetto dell’istanza di accesso – fonte di maggiori dubbi – e, in particolare, agli atti provenienti da interlocuzioni con pubbliche amministrazioni, cui tale oggetto risulta essere circoscritto nella prospettazione resa dal TAR. La generica legittimazione passiva degli enti pubblici, cui i soggetti possono rivolgersi direttamente, ricorrendo i presupposti dell’interesse diretto, concreto e attuale e del collegamento con una situazione giuridica legittimante, sembra scontrarsi nel caso di specie con l’obbligo di mantenere la segretezza sulla fonte di acquisizione delle notizie divulgate e rimarrebbe quindi, a voler ammettere la conoscibilità di tali atti con debita oscurazione della fonte, in qualche modo assorbita dalla riconosciuta legittimazione passiva in capo alla RAI nel più ampio quadro sopra descritto e che si specificherà ulteriormente in prosieguo. La conclusione a cui giunge il TAR relativamente all’obbligo di RAI di esibire gli atti richiesti viene motivata in ragione dello svolgimento di un pubblico servizio; circostanza, questa, che, a detta del TAR, renderebbe la RAI soggetta agli obblighi di trasparenza sottesi alla l. n. 241/90 e consentirebbe di superare la prospettazione difensiva fondata sulla prevalenza che si sarebbe dovuta riconoscere al segreto giornalistico sulle fonti informative per “sostenere l’esclusione ovvero la limitazione dell’accesso nel caso di specie”. Secondo il TAR, in buona sostanza, l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione; tanto più se si tratta di documenti ed atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio.
La questione non è di poco conto: si afferma l’accessibilità di atti formati da enti pubblici e solo successivamente acquisiti dalla RAI tramite il giornalista, legittimando l’oggetto della pretesa conoscitiva in virtù del collegamento tra il servizio messo in onda e l’attività preparatoria volta all’acquisizione della documentazione e delle informazioni.
1.1. La perimetrazione soggettiva: gli obblighi ostensivi di RAI con riferimento all’accesso procedimentale e l’esclusione degli stessi in relazione all’ accesso civico generalizzato.
Il riconoscimento della legittimazione passiva in capo alla RAI nel caso di accesso procedimentale e la ricorrenza di una specifica causa di esclusione nel caso di accesso civico generalizzato, come rilevato dalle precedenti pronunce della medesima sezione[5], ha determinato l’accoglimento dell’una istanza (sia pure limitata sotto il profilo oggettivo) e il rigetto dell’altra da parte del TAR.
Se infatti l’art. 22, comma 1, chiarisce, nell’ambito di disciplina dell’accesso procedimentale, che per “pubblica amministrazione” si devono intendere “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”, così includendo tra i destinatari delle istanze di accesso anche i gestori di pubblico servizio, ai fini dell’accesso civico generalizzato ricorre nel caso di RAI un’ipotesi di esclusione soggettiva in quanto società emittente di strumenti quotati in mercati regolamentati, ai sensi dell’art. 2-bis, comma 2, lett. b) del d.lgs. n. 33/2013, in combinato disposto con l’art. 2, comma 1, lett. p) del d.lgs. n. 175/2016[6].
Al contrario, per quanto riguarda l’accesso procedimentale ex l. n. 241/90 s.m.i., non vi è dubbio che la RAI, in quanto soggetto esercente un pubblico servizio, rientri nella più ampia nozione di pubblica amministrazione di cui al richiamato art. 22, comma 1, lett. e), comprensiva – come ricordato – di tutti i soggetti di diritto pubblico e quelli di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse e, in quanto tale, l’attività da essa svolta rimane soggetta al diritto di accesso.
Già in precedenti pronunce[7] il TAR aveva avuto occasione di affermare la soggezione della RAI agli obblighi ostensivi di cui agli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990 in forza del riferimento normativo anche ai “gestori di pubblici servizi”.
Pur nella sua veste formalmente privatistica di società per azioni e pur agendo mediante atti di diritto privato, la RAI “conserva indubbiamente significativi elementi di natura pubblicistica”, come ricorda il TAR, ravvisabili in particolare “a) nella prevista nomina di numerosi componenti del C.d.A. non già da parte del socio pubblico, ma da un organo ad essa esterno quale la Commissione parlamentare di vigilanza; b) nell’indisponibilità dello scopo da perseguire e cioè il servizio pubblico radiotelevisivo, prefissato a livello normativo; c) nella destinazione di un canone, avente natura di imposta, alla copertura dei costi del servizio da essa gestito”. L’azienda, inoltre, essendo di proprietà pubblica e rappresenta la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo, è “pienamente riconducibile all’ambito di applicazione della normativa sul diritto di accesso”.
Non è valsa a orientare in senso contrario il TAR neanche l’eccezione opposta dalla RAI circa la pretesa estraneità dell’attività oggetto dell’istanza ostensiva, all’ambito del servizio pubblico radiotelevisivo gestito dalla medesima. Il punto non appare affatto trascurabile, anche perché proprio l’oggetto dell’istanza ostensiva, almeno in parte, può ingenerare alcuni dubbi come si vedrà meglio nel paragrafo seguente.
Da un lato, precisa il TAR, “la rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica in onda su una rete RAI non può configurarsi come attività distinta da quella di ‘informazione pubblica’ riconducibile nell’ambito della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo affidato in gestione alla medesima Società, del quale sono ritenuti caratteri essenziali il pluralismo, la democraticità e l’imparzialità dell’informazione.. Dall’altro, l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione”.
Da questo punto di vista emerge il diverso regime ai fini dell’accesso agli atti cui sarebbero sottoposti i giornalisti che svolgono la propria attività presso una emittente pubblica o equiparata – qual è l’emittente privata che svolga attività di servizio pubblico o di pubblico interesse e come tale rientrerebbe nella nozione di pubblica amministrazione richiamata in precedenza – rispetto a quelli che svolgono l’attività giornalistica al di fuori di tale perimetro. Ciò si giustificherebbe in virtù della peculiare finalizzazione dell’attività svolta dal giornalista – non è del tutto chiaro, ma sembra di poter così affermare anche in virtù del silenzio serbato dal TAR sulla specifica distinzione, se in virtù di qualunque tipo di collaborazione contrattuale, tanto subordinata quanto caratterizzata da autonomia perché indipendente dal vincolo di subordinazione e quindi dall’assoggettamento del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, ad esempio nei casi in cui la collaborazione avvenga da libero professionista a partita iva, oppure come lavoratore autonomo occasionale ovvero sotto forma di cessione del diritto d’autore etc.[8] – che ne impone la soggezione agli obblighi pubblici.
1.2. La perimetrazione oggettiva: l’accesso a materiali e contenuti informativi dell’attività giornalistica
Il precedente paragrafo introduce alla perimetrazione oggettiva operata dal TAR circa i materiali e i contenuti informativi accessibili.
Condivisibili, almeno in linea di principio, appaiono le precisazioni svolte dal TAR sul fatto che “la rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica in onda su una rete RAI non può configurarsi come attività distinta da quella di “informazione pubblica” riconducibile nell’ambito della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo affidato in gestione alla medesima Società, del quale sono ritenuti caratteri essenziali il pluralismo, la democraticità e l’imparzialità dell’informazione (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 112/1993; in senso analogo, cfr. TAR Lazio, sede di Roma, sez. I, sent. 14 giugno 2019, n. 7761)”, e che “l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione".
Con riferimento alla delimitazione operata dal TAR della documentazione ostensibile va però precisato quanto segue.
Non è valorizzata in sentenza – almeno non in via espressa – la formale riconducibilità di alcuni degli atti che formavano oggetto dell’ampia istanza di accesso alla nozione di “documento amministrativo” ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d, della L. n. 241/90 s.m.i. (v. supra, par. 1, spec. lett. a, b e c del passaggio della sentenza richiamato), in cui invece rientra a pieno titolo “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica”; nell’iter argomentativo esposto l’oggetto dell’istanza di accesso viene ridimensionato piuttosto in virtù della correlazione tra “l’interesse prospettato” e “la situazione giuridicamente tutelata collegata ai documenti oggetto della richiesta di accesso” (così implicitamente comprendendo nella nozione di documento amministrativo quanto in tal modo perimetrato).
Muovendo da questo presupposto, il TAR svolge le seguenti considerazioni.
Il servizio di inchiesta giornalistica in discussione aveva ad oggetto la gestione dei fondi regionali e la complessa rete di rapporti che avrebbero visto coinvolta l’amministrazione locale e i professionisti attivi sul territorio regionale e che in tale contesto l’istante/ricorrente veniva indicato come professionista di riferimento per le attività di consulenza e per altri incarichi affidati dalla Regione e da alcune amministrazioni comunali ovvero da altri enti pubblici a carattere locale “in una rappresentazione connotata in senso negativo fondata su informazioni false e fuorvianti, in quanto sarebbe stato indicato come riferimento soggettivo di un intreccio di rapporti quantomeno opachi”. In questa prospettiva – e cioè sotto il profilo dell’interesse difensivo – il TAR ha ritenuto suscettibile di ostensione la documentazione “connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni riguardanti le prestazioni di carattere professionale svolte dal ricorrente in favore di soggetti pubblici, confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio di inchiesta giornalistica mandato in onda”, come detto, nello specifico avente ad oggetto la rete di rapporti di consulenza professionale instaurati su incarico di enti territoriali e locali.
Tale documentazione risultava costituita in particolare, dalle “richieste informative rivolte in via scritta dalla redazione del programma ad enti di natura pubblica in merito all’eventuale conferimento di incarichi ovvero di consulenze in favore di parte ricorrente, unitamente ai riscontri forniti dai suddetti enti, in quanto rientranti nel novero dei documenti e degli atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio”.
È in questi termini che il TAR delimita la documentazione ostensibile.
Il passaggio tuttavia appare di peculiare importanza anche per la conseguente considerazione espressa dal TAR secondo cui “la delimitazione in siffatti termini della documentazione ostensibile, coinvolgendo l’interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica, rende priva di rilievo nel caso concreto la prospettazione difensiva articolata dalla Società resistente circa la prevalenza che dovrebbe riconoscersi al segreto giornalistico sulle ‘fonti’ informative per sostenere l’esclusione ovvero la limitazione dell’accesso nel caso di specie”. Nulla si dice invece con riferimento al motivo dell’esclusione, sia pure implicita, dal perimetro degli atti ostensibili degli altri atti (richieste rivolte dai giornalisti a privati quali società o fondazioni e, più genericamente, alla corrispondenza personale intercorsa).
Con riferimento alla perimetrazione oggettiva così come effettuata in sentenza non possono sottacersi alcune perplessità legate principalmente a due circostanze, tra loro connesse, e specificamente: l’affermazione della legittimazione passiva della RAI all’accesso nel caso di atti formalmente provenienti da enti pubblici, considerati tout court ostensibili dal TAR proprio in ragione della natura pubblica dell’ente che ha formato l’atto e le implicazioni in termini di segretezza della fonte, che potrebbe risultare pregiudicata soprattutto nel caso di atti acquisiti in via confidenziale (pur in assenza di espresse indicazioni al riguardo in sentenza, sembra lecito chiedersi ad esempio nel caso di specie con quali modalità si sia appresa la notizia del conferimento di incarichi da parte di enti pubblici e se gli atti in discussione rivelino tale fonte).
Se infatti è vero che l’art. 22, comma 1, lett. d) l. n. 241/90 s.m.i. si riferisce a atti “detenuti” da una pubblica amministrazione e quindi implicitamente include tra gli atti ostensibili anche quelli non formati dalla medesima amministrazione cui è rivolta l’istanza, il limite generale di buon senso sembra da ravvisare nel legame con l’utilizzazione di detti atti, spesso prodromici rispetto all’atto conclusivo adottato dall’amministrazione procedente e che costituisce il più diretto oggetto dell’istanza di accesso. Ciò in virtù nel nesso funzionale e allo scopo di non gravare il privato istante dell’onere di richieste ostensive “frazionate” da rivolgere di volta in volta all’amministrazione che ha materialmente formato l’atto utilizzato.
Quello degli eventuali limiti all’accesso nel caso di documento formato da altra amministrazione è un tema che, in assenza di una più specifica formulazione normativa, non è stato tuttavia espressamente affrontato dalla giurisprudenza, ma vi è stato fatto cenno sotto il profilo dell’onere probatorio con affermazioni di principio di carattere generale: trattandosi di fatto costitutivo della pretesa, l’onere di fornire la prova che i documenti siano in possesso della p.a. grava, ai sensi dell’art. 2697 c.c. sul privato istante (ricorrente in giudizio). Sotto il profilo sostanziale e, dunque nel merito della questione, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che “solo qualora sia fornita la dimostrazione che la documentazione di cui è chiesta l’ostensione effettivamente esiste e avrebbe dovuto essere detenuta dall’Amministrazione medesima destinataria della richiesta di accesso, questo deve essere concesso pur laddove l’Amministrazione medesima ne abbia perso la disponibilità; ciò per la ragione che non è opponibile al cittadino la circostanza (meramente contingente e fattuale) dell’assenza di documenti presso l’Amministrazione interpellata tutte le volte che – in ragione della riconducibilità del procedimento amministrativo cui i documenti ineriscono, alle competenze proprie di quest’ultima – i predetti documenti devono essere detenuti dall’Amministrazione medesima”[9].
Dunque l’unica indicazione più esplicita che si ricava è quella del collegamento tra il procedimento amministrativo cui ineriscono i documenti dei quali viene richiesta l’ostensione e le “competenze” dell’Amministrazione alla quale è rivolta l’istanza.
Da questo punto di vista, pur in assenza di un vero e proprio “procedimento amministrativo”, in virtù di quanto espressamente previsto dal richiamato comma 1, lett. d) dell’art. 22, l. n. 241/90 s.m.i., che include tra i documenti amministrativi ostensibili “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti”, ivi espressamente includendo quelli “interni o non relativi a uno specifico procedimento” (“..detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse..”) e in ragione della espressa considerazione degli atti in questione come attività “preparatoria” e pertanto inscindibile rispetto al servizio giornalistico, nel caso di specie, estendendo le maglie dell’interpretazione, potrebbe trovare supporto, almeno in astratto, la considerazione dell’ostensibilità di gli atti formati da altre amministrazioni e successivamente utilizzati per l’elaborazione della rappresentazione fotocinematografica – cioè il servizio giornalistico – che costituisce l’oggetto più diretto di accesso ed è legato alla “competenza” della RAI (sia pure solo in quanto atti presupposti). Ciò fatta salva l’individuazione dei giusti limiti entro i quali tale richiesta risulti caso per caso giustificata e dunque gli atti siano concretamente esigibili dalla RAI e non piuttosto dall’amministrazione stessa che li ha formati[10].
Indubbiamente, parlando di limiti, nel caso di specie non può non tenersi conto dell’obbligo di segretezza della fonte giornalistica: in altri termini, laddove l’esibizione di tali atti da parte della RAI non può avvenire se non fornendo chiare indicazioni sulla fonte delle notizie e, dunque, svelando la stessa, non si può neanche ravvisare un obbligo in tal senso se non ammettendo implicitamente la possibilità di fatto di incidere sull’autonomia giornalistica. Né si può in alcun modo avallare un uso distorto dell’accesso che determini come fine ultimo quello di indagare indebitamente sulla fonte della notizia in discussione, specie se il documento che si vuole conoscere, di per sé, può essere chiesto all’amministrazione che lo detiene perché lo ha anche formato. Una cosa è proteggere l’interesse a conoscere l’esistenza e il contenuto di un certo atto o documento, altra ritenere meritevole di protezione l’interesse a entrare in possesso dell’atto o documento concretamente detenuto dall’amministrazione per eventualmente appurare come e in che modo ne abbia ottenuto la disponibilità.
Il tema è invero complesso. Ferma restando la possibilità di oscurare alcuni dati, è evidente che l’accesso non può spingersi fino a comprimere l’obbligo professionale di segretezza cui sono tenuti i giornalisti facendo emergere la fonte delle proprie notizie, in quanto tale obbligo è posto proprio a presidio della libertà di informazione e dell’autonomia giornalistica.
L’esigenza di garantire il diritto di accesso deve perciò trovare il giusto contemperamento con la necessità di evitare che la “maggiore profondità” ascritta all’accesso ex l. 241/90 s.m.i., collegata all’esistenza di una posizione legittimante, possa, per il tramite della breccia aperta dall’impossibilità di ritenere l’attività di rappresentazione delle notizie disgiunta da quella preparatoria di acquisizione, raccolta ed elaborazione delle notizie che hanno formato oggetto di rappresentazione, creare indeterminatezza sugli atti ostensibili o finanche un indebito e generalizzato ampliamento dei contenuti accessibili (ancor più facilmente per il tramite della “porta d’accesso” dell’interesse defensionale, su cui v. infra).
L’informazione è certamente un momento essenziale della vita di uno Stato democratico e deve essere garantita nella sua piena libertà perché, come ci insegna la tradizione del costituzionalismo, la libertà di cronaca corrisponde anche a un interesse della collettività a una informazione obiettiva[11].
2. Le conclusioni cui giunge la sentenza: il superamento della potenziale conflittualità con gli interessi contrapposti e la preminenza dell’interesse defensionale.
Le considerazioni svolte dal TAR e riportate nel precedente paragrafo, segnando il passaggio dall’oggetto dell’istanza alla fondatezza della stessa, introducono il più ampio tema del bilanciamento in via amministrativa degli interessi confliggenti nel caso di accesso procedimentale e la “deroga” sancita dall’art. 24, comma 7 con riferimento all’accesso difensivo in cui tale bilanciamento è operato a monte dal legislatore.
Come noto, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/90 s.m.i. attribuisce preminenza assoluta alle esigenze difensive, non subordinando a valutazione discrezionale la pretesa ostensiva ma facendone piuttosto derivare dalle relative esigenze conoscitive un vero e proprio obbligo ostensivo: la legge in proposito afferma che deve essere “comunque” garantito ai richiedenti “l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici..” (con la previsione del criterio maggiormente restrittivo della “stretta indispensabilità” nel caso di dati sensibili e giudiziari).
L’aver ancorato ai fini dell’obbligo ostensivo l’attività di rappresentazione delle notizie a quella preparatoria della medesima, volta – si ricorda – alla “acquisizione”, “raccolta” ed “elaborazione” delle notizie oggetto di rappresentazione, ha portato il TAR rigettare la separazione tra la figura della concessionaria del pubblico servizio e gli aspetti più strettamente inerenti all’espletamento della prestazione resa dal giornalista incaricato nell’elaborazione dei contenuti del singolo servizio nell’ambito della libera esplicazione dell’opera creativa e intellettuale del giornalista stesso.
All’opera del giornalista è applicabile l’obbligo di segreto professionale in base alla normativa che disciplina la relativa attività. A ben vedere però, l’art. 2, comma 3, L. n. 69/1963, connesso alla libertà di stampa, afferma che “Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie” – con ciò riferendosi non solo a chi racconta un fatto, ma a “ogni realtà in grado di documentarne l’accadimento in modo quanto più diretto possibile” – “quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse.”.
Ebbene nell’interpretazione del TAR l’eventuale violazione del segreto professionale sarebbe esclusa dal fatto che “l’interlocuzione [sarebbe] intercorsa con soggetti di natura pubblica”; non viene invece dato atto del fatto che l’unico dato legittimamente “secretato” dal richiamato articolo 2 della l. 69 cit., sarebbe la fonte di acquisizione delle informazioni e della documentazione e non anche la documentazione e le informazioni stesse (e comunque è noto che il diritto di accesso può essere garantito ricorrendo agli accorgimenti necessari, ad esempio oscurando alcuni dati dal documento oggetto dell’istanza). È evidente però che la considerazione – nei termini indicati – circa la possibilità che la natura pubblica della fonte di acquisizione delle notizie escluda ex se la ricorrenza di un interesse opponibile qual è il segreto professionale porterebbe in linea di principio a orientare anche la possibilità di accedere a documenti e informazioni, pur nel più ampio spazio valutativo riservato alla pubblica amministrazione, al di fuori dei casi di accesso defensionale (e sempre a non voler considerare che nessuna menzione è stata espressamente fatta degli altri atti, non riconducibili a interlocuzioni intercorsi con le p.a., esclusi implicitamente dal perimetro oggettivo dell’accesso). Tali considerazioni lasciano però aperta la porta ai dubbi in precedenza espressi.
In altre parole, il TAR compie tre passaggi: (i) afferma la legittimazione passiva in capo alla RAI rispetto all’obbligo ostensivo in presenza di interlocuzioni con pubbliche amministrazioni e circoscrive a queste ultime l’oggetto accessibile; (ii) afferma implicitamente che l’attività del giornalista – tutta, senza operare distinzioni neanche in linea di principio con riferimento al ventaglio di situazioni prospettabili – è “assorbita” dall’attività di pubblico interesse svolta dalla RAI in quanto attività preparatoria e quindi prodromica rispetto al contenuto del servizio giornalistico mandato in onda dall’emittente televisiva e pertanto la fa rientrare nel perimetro di applicazione del diritto di accesso; (iii) supera, in virtù della natura pubblica della fonte di acquisizione, le obiezioni relative alla lesione degli interessi contrapposti (segreto professionale e autonomia giornalistica) e accorda preminenza alle esigenze difensive, pur “delimitando” la documentazione ostensibile nei termini anzidetti.
L’iter argomentativo seguito ha portato alla condanna all’ostensione degli atti effettivamente formati e/o detenuti dalla RAI, con onere per la stessa RAI di fare menzione di eventuali atti che non fossero stati oggetto di documentazione, secondo il principio più volte affermato in giurisprudenza per cui spetta all'amministrazione destinataria dell'istanza di accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che non è in grado di esibire[12].
2.1. La preminenza dell’interesse defensionale e l’adesione all’orientamento maggioritario sulla valutazione in astratto delle esigenze difensive ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso.
Con riferimento alla valutazione delle esigenze difensive, la sentenza conferma quell’orientamento che circoscrive il potere amministrativo a una mera valutazione in astratto e non in concreto di dette esigenze, con la conseguenza di stabilire una corrispondenza tra pretesa conoscitiva e obbligo ostensivo a fronte del collegamento tra l’istanza ostensiva e una astratta esigenza difensiva.
Ciò pone un preciso limite al potere discrezionale della pubblica amministrazione: si esclude ogni margine di apprezzamento da parte della stessa che non potrà sindacare la necessarietà della conoscenza a fini difensivi nel caso concreto, dal momento che l’utilità effettiva può essere valutata solo in giudizio e che l’accesso difensivo prescinde dalla pendenza di un giudizio[13].
Opportunamente, dunque, il TAR prende posizione, sulla scia dell’indirizzo maggioritario, su un punto rispetto al quale la giurisprudenza non ha sempre manifestato uniformità di indirizzo, dividendosi tra un orientamento che ha mostrato di propendere per una valutazione ampia dell’istanza di accesso difensivo, secondo cui sarebbe sufficiente che la documentazione richiesta avesse “attinenza” con il processo[14] e un altro indirizzo che invece ha avallato una valutazione più rigorosa dell’interesse defensionale[15].
Il primo degli indicati indirizzi appare maggiormente condivisibile e più coerente con la lettera della legge ed è stato confermato dall’Adunanza Plenaria n. 19/2020 nell’ambito di una più ampia pronuncia che ha fatto chiarezza sulla complementarietà tra l’accesso difensivo e i metodi di acquisizione probatoria previsti dal c.p.c. e che significativamente ha ricordato che sul piano della logica difensiva – “costruita intorno al principio dell’accessibilità dei documenti amministrativi per esigenze di tutela e che si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario (o, addirittura, strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari) per la cura o la difesa dei propri interessi” – il legislatore ha inserito all’interno di una norma di natura sostanziale uno strumento di valenza tipicamente processuale, fornendo ‘azione’ alla ‘pretesa’ e che “la necessità (o la stretta indispensabilità) della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica ‘finale’, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, come il tramite per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti (principali e secondari) integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica ‘finale’ controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio”.
Non è tuttavia sufficiente addurre un generico riferimento a esigenze probatorie o difensive poiché, come ricordato anche da una più recente decisione dell’Adunanza Plenaria (n. 4/2021), l’ostensione “passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare”, ma né la p.a., né il giudice adito “devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”.
Dunque, ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso difensivo si richiede unicamente l’esistenza del nesso di strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici.
Più precisamente, la giurisprudenza ha chiarito che occorre “circoscrivere le qualità dell’interesse legittimante a quelle ipotesi che - sole - garantiscono la piena corrispondenza tra la situazione (sostanziale) giuridicamente tutelata ed i fatti (principali e secondari) di cui la stessa fattispecie si compone, atteso il necessario raffronto che l’interprete deve operare, in termini di pratica sussunzione, tra la fattispecie concreta di cui la parte domanda la tutela in giudizio e l’astratto paradigma legale che ne costituisce la base legale” e che “siffatto giudizio di sussunzione, che costituisce la base fondante dell’accesso difensivo, è regolato in ogni suo aspetto dalla legge (e dal rispettivo regolamento di attuazione), mostrandosi privo di tratti “liberi” lasciati alla interpretazione discrezionale dell’autorità amministrativa ovvero alla prudente interpretazione del giudice”[16].
Nel caso di accesso difensivo, dunque, l’unico interesse legittimante è quello che corrisponde in modo diretto, concreto e attuale alla cura o anche difesa in giudizio di tali fattispecie predeterminate, in chiave strettamente difensiva. Ciò coerentemente con la ratio dalla legge, secondo cui le finalità dell’accesso devono essere dedotte e rappresentate in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione e devono essere suffragate con idonea documentazione, così da permettere all’amministrazione detentrice del documento il vaglio sul nesso di strumentalità necessaria della documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione finale controversa.
Nella valutazione della strumentalità defensionale, anche in rapporto alla tutela della riservatezza, secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, trova applicazione il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico (e quello più stringente della “stretta indispensabilità” per i dati sensibili e giudiziari), che di per sé segna la prevalenza del primo interesse rispetto al secondo, ovviamente a condizione che venga riscontrata la sussistenza dei presupposti generali.
Dunque la “strumentalità” dell’accesso, richiesta dall’art. 22, comma 1, lett. b, l. n. 241/1990 come finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale (e non meramente emulativo o potenziale) connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l'accesso, viene correttamente intesa in senso ampio, in termini di “utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante”[17].
La sentenza valorizza quell’orientamento – dominante – secondo cui la legittimazione all'accesso non può essere valutata facendo riferimento alla legittimazione della pretesa sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma (“indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata”), sicché, una volta accertato il collegamento tra l'interesse e il documento, ogni ulteriore indagine sull'utilità e sull’efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale ovvero sull'esistenza di altri strumenti di tutela eventualmente utilizzabili risulta del tutto ultronea[18].
In conclusione il riscontro, ai fini dell’accoglimento dell’istanza, del legame tra la finalità dichiarata e il documento richiesto, più che la forma della valutazione nello specifico acquista quella dell’accertamento della generica utilità del documento del quale viene chiesta l’ostensione per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, non dovendo e non potendo assumere tale riscontro i tratti dello strumento di prova diretta della lesione di tale interesse, dal momento che una valutazione di rilevanza o di irrilevanza dell’istanza ostensiva rispetto alla finalità difensiva prospettata non spetta né all’ente cui è chiesta l’ostensione dei documenti, né al giudice in sede di tutela giurisdizionale avverso il diniego opposto[19].
3. Considerazioni conclusive.
Come noto, il diritto di accesso procedimentale è un istituto volto a garantire la conoscenza degli atti amministrativi al privato che sia coinvolto nell’esercizio della funzione amministrativa (il cui interesse sia “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”), ciò in ossequio ai principi di partecipazione, imparzialità e trasparenza amministrativa che guidano l’azione amministrativa e attribuiscono quindi all’istituto dell’accesso procedimentale anche “rilevanti finalità di pubblico interesse” (art. 22, l. 241/90 s.m.i.).
Si tutela in via diretta al “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (art. 22, cit.), ove per documento amministrativo si intende espressamente ogni atto (o rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti), anche interni o non relativi a uno specifico procedimento “detenuti” da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse nell’ambito del più ampio indirizzo volto alla realizzazione di una amministrazione trasparente che, in virtù del più saldo legame stabilito dal d.lgs n. 33/2013 s.m.i. tra l’efficacia della trasparenza amministrativa e la tutela dei diritti individuali, viene delineata attraverso il riferimento ad una “accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti... allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
Oggetto di protezione è pertanto il diritto del singolo alla conoscenza del contenuto dei documenti formati e/o detenuti dalla p.a. e dai soggetti ad essa equiparati collegati alla propria situazione giuridica, cui l’ordinamento – per l’appunto – riconosce tutela (esclusa nel caso di accesso procedimentale volto a esercitare un controllo generalizzato), rafforzata nel caso in cui tale conoscenza sia preordinata alla cura o difesa dei propri interessi giuridici. In quest’ultimo caso è accordata prevalenza alla pretesa conoscitiva rispetto alle ragioni della riservatezza e anche la valutazione che l’amministrazione è chiamata a operare con riferimento alle esigenze difensive non potrà spingersi fino a sindacare la “necessarietà” della conoscenza ai fini difensivi nel caso concreto, dovendosi piuttosto arrestare a un riscontro meramente astratto in virtù della pacifica circostanza per cui la richiesta di accesso si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso a una immediata tutela in via giurisdizionale.
In linea di principio, ciò vale tanto per gli atti formati dalla pubblica amministrazione cui è rivolta l’istanza, quanto per quelli da essa “detenuti”, in quanto atti pubblici e ricollegabili al procedimento amministrativo di competenza dell’amministrazione stessa, a garanzia della loro conoscibilità in concreto, tanto più se le ragioni di tale conoscenza trovano giustificazione nell’esigenza di cura e tutela dei propri interessi (nel caso di specie: la propria reputazione da notizie asseritamente false).
Altra cosa è però ritenere meritevole di protezione l’interesse a entrare in possesso dell’atto o del documento (non formato ma semplicemente) detenuto dall’amministrazione con l’eventuale intento di trarre informazioni sulla fonte della notizia. Una cosa è garantire la conoscenza del contenuto del documento, altro la conoscenza della fonte.
Tale distinzione sembra confondersi nell’iter argomentativo su cui il TAR fonda il proprio decisum, motivando l’obbligo posto in capo a RAI di ostendere gli atti recanti gli affidamenti di incarichi conferiti al ricorrente da parte della Regione e da alcune amministrazioni comunali con riferimento alla circostanza per cui, essendo l’interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica, proprio in virtù di questa circostanza si ritiene “priva di rilievo nel caso concreto..la prospettazione difensiva circa la prevalenza che dovrebbe essere accordata al segreto giornalistico sulle ‘fonti’ informative”.
Il carattere pubblico degli atti rende gli stessi accessibili, ivi compresi – come detto – quelli semplicemente detenuti dalla RAI in ragione della loro connessione con l’attività preparatoria del servizio giornalistico, ma non può arrivare a determinare la conoscenza della fonte dell’informazione ricevuta. In altri termini, laddove la conoscenza del documento sia idonea a svelarne la fonte, o addirittura l’accesso appaia a tal fine meramente strumentale, non si può non riconoscere una legittima causa di limitazione e/o esclusione dell’accesso al documento stesso, anche in virtù della previsione all’art. 2, comma 3, L. n. 69/1963. Ancor più tale limite rileva con riferimento a documenti (pubblici), la cui accessibilità sarebbe garantita anche eventualmente rivolgendo l’istanza all’ente pubblico che li ha formati, dal momento che tale possibilità è comunque in grado di garantire la protezione dell’interesse alla conoscenza del contenuto del documento, e cioè il “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”; ovvero a soddisfare pienamente quel bisogno di conoscere strumentale a una situazione giuridica pregressa che è l’interesse tutelato in via esclusiva dal più volte richiamato art. 22, l. 241/90 s.m.i. (che lascia invece sullo sfondo la generica tutela della trasparenza come interesse pubblico solo “occasionalmente protetto”).
[1] Avverso la sentenza è stato proposto appello con il numero 202106876, attualmente pendente.
[2] Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10; Id., 25 settembre 2020, nn. 19, 20 e 21; Id., 18 marzo 2021 n. 4.
[3] Viceversa, la giurisprudenza ha precisato – con riferimento all’accesso ex L. n. 241/90 s.m.i. – che il diritto di accesso agli atti non è automatico per i giornalisti che invocano una pretesa libertà di informarsi per informare, dal momento che contenuto e limiti dell’accesso sono fissati dalla legge e la stessa non prevede che il diritto a essere informati possa “accrescere” il diritto di accesso di chi informa, né nei contenuti, né nel risultato, pena l’introduzione di una “inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa che la normativa sull’accesso non conosce” (in questi termini: Cons. Stato, Sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631, in una controversia in cui il redattore di una testata specializzata invocava il diritto di cronaca per ottenere dal Ministero dell’economia copia dei contratti derivati stipulati dallo Stato con alcuni istituti di credito stranieri). In dottrina per profili generali e spunti ricostruttivi, tra i contributi più significativi sul tema, si veda M.A. Sandulli, Note in tema di diritto all’informazione radiotelevisiva, in Giur. It., 1978. Più recentemente, sempre per profili generali, si veda anche B. Ponti, La mediazione informativa nel regime giuridico della trasparenza: spunti ricostruttivi, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, fasc. 2, 1 aprile 2019, p. 383 ss.; Id., La trasparenza e i mediatori dell’informazione, in G. Gardini, M. Magri, Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, Maggioli, 2019.
[4] In termini si vedano, tra i più recenti: Trib. Roma, Sez. lav., 25 febbraio 2019, n. 1844; Corte app. Roma, 8 aprile 2020, nn. 493 e 494. Anche la giurisprudenza civile più risalente era approdata a un orientamento interpretativo che teneva conto della singolarità della professione, tanto da indurre a parlare di subordinazione “affievolita” o “attenuata”. Premesso che i caratteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato, costituiti “dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale” e dal suo assoggettamento “ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro”, sono i “medesimi per qualunque tipo di lavoro”, essi possono connotarsi per “intensità diverse” a seconda del livello delle mansioni esercitate o del contenuto della prestazione pattuita, dunque “fermo restando il carattere della creatività”, può costituire l’una o l’altra forma “a seconda delle modalità della collaborazione tra il datore di lavoro e il giornalista” (Cass. n. 3705/1999).
[5] TAR Lazio, Sez. III, 3 marzo 2021, n. 2607. La sentenza richiamata, come ricordato dal Collegio, evidenzia che la soluzione accolta dal Legislatore trova altresì conferma nelle considerazioni espresse nell’ambito del parere n. 1257/2017 reso dal Consiglio di Stato sullo schema di Linee guida dell’ANAC elaborato per aggiornare quelle già emesse per l’applicazione del D.lgs. n. 33/2013 all’esito delle modifiche intervenute con il D.lgs. n. 97/2016. Nel parere richiamato si osserva infatti che “Le società quotate, sono sottoposte ad un sistema di obblighi, di controlli e di sanzioni autonomo, in ragione dell’esigenza di contemperare gli interessi pubblici sottesi alla normativa anticorruzione e trasparenza con la tutela degli investitori e dei mercati finanziari, e questa circostanza ben potrebbe giustificare l’esonero dagli obblighi di trasparenza in questione”.
[6] L’art. 2 bis del D.lgs. n. 33/2013 s.m.i., nell’individuare il campo di applicazione della disciplina dell’accesso civico, al comma 2 lett. b), come successivamente modificato, dispone che essa si applica “… alle società in controllo pubblico come definite dall'articolo 2, comma 1, lettera m), del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175. Sono escluse le società quotate come definite dall'articolo 2, comma 1, lettera p), dello stesso decreto legislativo”. L’articolo 2, comma 1, lettera p), D.lgs. n. 175/2016 definisce società quotate come “le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati”.
[7] Ex multis, si vedano le seguenti decisioni: TAR Lazio, Roma, Sez. III, 16 novembre 2020, n. 1197 (verso la quale è stato proposto appello tutt’ora pendente); Id., 15 luglio 2019, n. 9347 (confermata in appello con decisione del Cons. Stato del 24 maggio 2021, n. 4004); Id., 2 febbraio 2018, n. 1354 (decisione annullata in appello e rinviata al primo giudice ma per questioni di rito e, precisamente, mancata integrazione del contraddittorio). In questi tre casi l’applicabilità della disciplina dell’accesso di cui alla l. n. 241/90 s.m.i. fu affermata con riferimento a controversie aventi ad oggetto l’accesso ai documenti esercitato da parte di giornalisti professionisti non dipendenti della RAI alle procedure di reclutamento indetta dalla RAI stessa per verificare la corretta applicazione nei loro confronti delle regole che disciplinano a monte la formazione delle graduatorie.
[8] Da questo punto di vista neppure il carattere “creativo” dell’opera resa potrebbe portare a conclusioni diverse se si ha riguardo a quella giurisprudenza che, sia pure in altri ambiti, ha affermato che, “in linea di principio, la natura di opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore dell’atto cui si chiede l’accesso non esclude quest’ultimo dato che la disciplina dettata a tutela del diritto di autore e della proprietà intellettuale garantisce gli interessi economici dell'autore ovvero del titolare dell'opera intellettuale, mentre la normativa sull'accesso agli atti è funzionale a garantire altri interessi e, in questi limiti, deve essere consentita la visione e anche l'estrazione di copia” (in questo senso, si veda per tutti TAR Lazio, Roma, Sez. III, 21 marzo 2017, n. 3742).
[9] TAR Trento, Sez. I, 16 settembre 2020, n. 158.
[10] Ciò troverebbe conferma – e allo stesso tempo esplicitazione dei limiti – nella giurisprudenza che in materia di accesso agli atti e ai documenti amministrativi espressamente nega che possa rappresentare una circostanza escludente dell’obbligo ostensivo la materiale assenza dei documenti presso l’amministrazione interpellata “tutte le volte che – in ragione della riconducibilità del procedimento amministrativo cui i documenti richiesti ineriscono alle competenze proprie dell’amministrazione interpellata – i predetti documenti debbano essere detenuti dell’amministrazione medesima” (in questi termini, TAR Cagliari, Sez. II, 11 novembre 2020, n. 612), non essendo opponibile al cittadino la circostanza contingente e fattuale dell’assenza dei documenti presso l’amministrazione interpellata. Dunque, secondo l’orientamento consolidato, laddove sia fornita la dimostrazione (da parte dell’istante) che la documentazione di cui viene chiesta l’ostensione effettivamente esiste e “avrebbe dovuto essere detenuta dall’amministrazione destinataria della richiesta di accesso, questo deve essere concesso pur laddove l’amministrazione ne abbia perso la disponibilità” (TAR Trento, Sez. I, 16 settembre 2020, n. 158).
[11] Sul tema in generale si rinvia per tutti a V. Crisafulli, Problematica della “libertà di informazione”, in Il Politico, 1962, p. 285 ss.; A. Loiodice, Informazione (diritto alla), in Enc. Dir., 1971, XXI. Con le peculiarità di ciascun approccio si vedano anche: C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958; A. Pace, Informazione: valori e situazioni giuridiche soggettive, in Dir. soc., 2014 e in Id., Per la Costituzione. Scritti scelti, vol. II, Napoli, 2019, 576. In alcune costruzioni dottrinarie è stato sottolineato che la libertà di informazione, diversamente dalla generale libertà di manifestazione del proprio pensiero, identificherebbe un diritto di natura funzionale, volto al soddisfacimento dell'interesse della collettività ad essere informata, sino a divenire, negli approcci più radicali, elemento costitutivo di un rapporto giuridico di tipo obbligatorio, caratterizzato non già o non solo in funzione del diritto (di informare) di chi trasmette le informazioni, ma soprattutto del diritto di chi le riceve ad essere obiettivamente informato. È nota anche la posizione per cui «i diritti di libertà e i diritti politici si pongono di fatto come reciprocamente serventi, in una rete di situazioni giuridiche soggettive anche strutturalmente diverse tra loro, ma tutte di fatto convergenti alla più piena realizzazione, nel nostro Paese, di una democrazia liberale» (A. Pace, cit.).
[12] Ex multis: TAR Lazio, sez. III-bis, 2 novembre 2018, n. 10553.
[13] Già la più attenta dottrina aveva sottolineato che il diritto di accesso defensionale non poteva essere oggetto di valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante, stante la chiara formulazione della norma (art. 24, L. n. 241/90 s.m.i.), che delinea una sovraordinazione dell’ipotesi dell’accesso c.d. defensionale di cui al comma 7 (in virtù del quale deve “comunque” essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”), rispetto alle possibili limitazioni contemplate dal comma 6 del medesimo art. 24; il che significa che se la pretesa conoscitiva non è strumentale alla difesa dei propri interessi, ma è espressione di un puro e semplice interesse alla conoscenza, la norma applicabile sarà il comma 6, che rimette all’amministrazione il bilanciamento dell’interesse alla conoscenza con gli altri interessi previsti dal medesimo comma, viceversa, in presenza di una pretesa conoscitiva fondata sull’esigenza di protezione di una situazione giuridica soggettiva individuale, la norma applicabile sarà il comma 7, in cui il bilanciamento è effettuato a monte dal legislatore. In questi termini: F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019.
[14] Ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 15 novembre 2018, n. 6444; Id., sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 461.
[15] Ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2472; Id., sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1568.
[16] Cons. Stato, Ad. Plen., 18 marzo 2021, n. 4, cit.
[17] In termini cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 2017 n. 2269; Id., Sez. III, 16 maggio 2016 n. 1978; Id., Sez. IV, 6 agosto 2014 n. 4209.
[18]In questi termini: Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 2020, n. 1664.
[19] Sul punto sia consentito rinviare a M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Cacucci Editore, 2020.
Brevi osservazioni su una pronuncia cautelare della Supreme Court of the United States in tema di effetti della pandemia da Covid 19
di Mario Serio
Sommario: 1. Comparazione giuridica e formante giurisprudenziale - 2. La corte Suprema USA di fronte agli effetti della pandemia nei rapporti tra proprietari ed inquilini - 3. Gli elementi della fattispecie in esame - 4. La decisione della corte distrettuale della Columbia - 5. La ratio decidendi di primo grado - 6. La sospensione degli effetti della sentenza di primo grado - 7. La conferma della sospensione degli effetti della sentenza di primo grado da parte della stessa corte distrettuale - 8. Il ricorso alla Supreme Court federale - 9. L'opinione di maggioranza della Supreme Court - 10. L'opinione di minoranza della Supreme Court - 11. Spunti finali.
1. Comparazione giuridica e formante giurisprudenziale
La comparazione giuridica, intesa nella sua più schietta declinazione di criterio di osservazione di realtà distinte e talvolta distanti da quelle cui lo studioso è “iure loci” aduso e di conseguente selettrice di affinità e divergenze tra le stesse, ben può essere impiegata per scorgere, nelle pieghe degli ordinamenti stranieri, elementi sintomatici di concezioni profonde della vita sociale e di quelle individuali e del sistema di valori che le ispirano. A fungere da strumento rivelatore di questi, talvolta nascosti, caratteri spesso valgono, per la vastità delle implicazioni che ne derivano e per il necessario dispiegamento di un apparato argomentativo che attinge a livelli meta od extra giuridici, le fonti giurisprudenziali. In esse, infatti, più esattamente nelle menti e nelle parole delle persone-giudici che le incarnano, si annida quel complesso sostrato di idee, principii, sentimenti, visioni ideologiche di cui è necessariamente intessuta una società organizzata in forme e secondo strutture giuridiche. Perché i soggetti costitutivi dell'ordinamento che si esprime attraverso le rispettive pronunce mai e per nessuna ragione possono o debbono, nel momento di svolgimento dell'ufficio istituzionale, dissociarsi dalla propria concreta identità culturale, morale, politica che, espressamente o tacitamente, beneficamente traluce dai loro atti. E così la lettura in senso critico di un documento giudiziario contribuisce a schiarire il contesto territoriale ed ideale nel quale esso si colloca, donando al lettore il vantaggio della penetrazione per la via del diritto in un territorio conoscitivo che può abbracciare l'intero complesso di relazioni sociali ed umane che vi si svolge. E se a questo ricco risultato si giunge quando lo sguardo è rivolto verso mondi stranieri è giocoforza chiamare la comparazione giuridica a testimone ed artefice della conquista culturale così ottenuta.
2. La corte Suprema USA di fronte agli effetti della pandemia nei rapporti tra proprietari ed inquilini
Il preambolo appena enunciato, di larga ed essenziale applicazione ad ogni seria ricerca comparatistica, in special modo se incentrata sul versante giurisprudenziale, trova una propria specifica legittimazione metodologica con riguardo ad una recente pronuncia interlocutoria e con fini cautelari della Supreme Court of the United States resa il 26 agosto 2021 nel caso Alabama Association of realtors et al. v Department of health and human services et al. ( 594 U.S. 2021).
Se si cercasse, più o meno fruttuosamente, di condensare i termini della controversia, ravvisati nella sfera di interessi, collettivi ed individuali, implicati si potrebbe indicare gli antagonisti rispettivamente nella difesa della proprietà immobiliare privata e delle correlate utilità e nella protezione ordinamentale dell'ampia schiera dei non proprietari affetti da circostanze economiche e sanitarie di intensissima avversità. Si potrà vedere nel corso di queste notazioni sparse che le due categorie contrapposte sono perfettamente in grado di contemplare al proprio interno ulteriori profili di contrasto, o meglio ancora, di ospitare concezioni della complessità sociale più articolate e taglienti.
3. Gli elementi della fattispecie in esame
La fattispecie sottoposta all'esame della Supreme Court in via di urgenza, che portò ad una decisione adottata con il voto favorevole di 6 giudici e quello contrario degli altri 3 (Sotomayor e Kagan che dichiararono di convergere nell'opinione dissenziente redatta dal loro collega Breyer) ,onusta di passaggi procedurali di cui in questa sede vanno colti e descritti solo i salienti, si inscrive drammaticamente tra i gravi effetti collaterali globalmente causati dalla diffusione pandemica negli Stati Uniti d'America del virus induttivo del Covid 19.
È dato di comune esperienza mondiale che all'incontrollabile dominio assunto dalla malattia abbia in misura corrispondente fatto riscontro una pari flessione della circolazione e produzione di ricchezza e l'inevitabile raggiungimento di alte vette di impoverimento generatrici di drammatici mutamenti deteriori nelle generali condizioni di vita.
In questo scenario non poteva non irrompere con tempestività il ramo congressuale del Parlamento statunitense che, nel marzo 2020,approvò il Coronavirus Aid,Relief and Economic Security Act diretto ad allevia re i gravi pesi determinati dalla patologia. Tra le varie ed estese misure adottate con lo scopo di mitigare gli effetti sociali ed economici del coronavirus fu introdotta quella, di carattere temporaneo, con cui fu sospese per 120 giorni l'esecuzione degli sfratti riferiti ad immobili aventi particolari caratteristiche, quali l'inclusione in programmi federali di assistenza o il godimento di mutui agevolati di origine anch'essa federale. Tale misura non fu rinnovata né prorogata alla sua scadenza dal Congresso. A colmare la lacuna, prolungando fino all'ultimo giorno del 2020 l'efficacia delle disposizioni agevolative ormai scadute, intervenne un'agenzia governativa il Center for Disease Control and Prevention (d'ora in poi CDC) nella persona del suo direttore che impose una moratoria in quell'ambito temporale agli sfratti nei confronti di inquilini abitanti in contee nelle quali fosse particolarmente elevato il rischio di propagazione del virus e che versassero in gravi situazioni di difficoltà economica. Allo spirare del nuovo termine il Congresso votò per una proroga di un mese del provvedimento del CDC. Quest'ultimo, in assenza di nuovi provvedimenti legislativi, adottò due successive proroghe trimestrali, seguite da altra estensione fino al luglio 2021.Le progressive deliberazioni del CDC assunsero come base giustificativa dell'esercizio del relativo potere il paragrafo 361 (a) del Public Health Service Act del 1944 e delle successive modifiche ed integrazioni che attribuisce al Surgeon General (autorità federale in posizione apicale in materia di igiene e salute pubblica, le cui funzioni sono state nel 2020 delegate proprio al CDC) il potere di emanare i provvedimenti più opportuni (sanificazioni, disinfestazioni, divieti di importazione, abbattimento di animali infetti, etc.) al fine di prevenire la trasmissione o la diffusione di malattie contagiose di origine straniera. Le ultime due proroghe della sospensione dell'esecuzione degli sfratti immobiliari ricadenti nelle aree prima indicate sono state in tempi diversi impugnate davanti la corte distrettuale della Columbia da più associazioni di proprietari che ne hanno chiesto la dichiarazione di illegittimità in via di urgenza con connessa concessione dell'inibitoria alla sua protratta vigenza. La ragione addotta per il promuovimento dell'azione fu quella dell'assoluta carenza di potere da parte del CDC di disciplinare materia ,quella della regolamentazione degli sfratti quali strumenti volti ad assicurare il pieno godimento della proprietà immobiliare, rientrante esclusivamente nelle attribuzioni del Congresso.
4. La decisione della corte distrettuale della Columbia
La tesi fu accolta dalla corte, che in tal senso emise una pronuncia di natura sommaria legata alla urgenza dedotta dagli attori. Tuttavia, la stessa Corte, resa edotta dell'intendimento dell'agenzia resistente di proporre impugnazione, sospese gli effetti della propria pronuncia.
5. La ratio decidendi di primo grado
Di particolare interesse si dimostra il ragionamento compiuto dalla District Court for the District of Columbia nel maggio 2021 a sostegno della propria. decisione soprassessoria. Essa non fu, infatti, dettata dalla ragionevole previsione di successo dell'appello della CDC, quanto, piuttosto, dal vincolo da cui i Giudici si sentirono avvinti di rispettare il tradizionale ,quadruplice ordine di fattori destinati ad assicurare il successo alla domanda inibitoria degli effetti di una decisione di merito di per sé esecutiva. Ed invero, attorno alla loro ricorrenza nel caso in esame sarebbe poi ruotato il dissenso registratosi nel collegio della Supreme Court. La quadripartizione trova da ultimo una chiara illustrazione nel caso Nken v. Holder del 2009 ed è così riassumibile: la delibazione sull'istanza di sospensione dell'esecuzione della sentenza deve tener conto dei seguenti elementi: a) della dichiarata volontà della parte soccombente di impugnarla; b) della sussistenza di un pregiudizio irreparabile per la parte richiedente in caso di diniego della tutela cautelare; c) delle eventuali conseguenze dannose per le altre parti del giudizio discendenti dall'accoglimento della domanda; d) dell'individuazione del pubblico interesse riconducibile alla pronuncia. Sulla base del soppesamento di questi elementi la corte distrettuale di primo grado ha ritenuto che militassero ragioni prevalenti per l'accoglimento della domanda cautelare di sospensione degli effetti di una pronuncia sfavorevole all'agenzia istante.
6. La sospensione degli effetti della sentenza di primo grado
La stessa corte distrettuale fu di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di revoca della propria ordinanza di sospensione dell'efficacia della precedente sentenza agli inizi di agosto 2021 a seguito di apposita richiesta formulata dalle associazioni di proprietari immobiliari che avevano originariamente reagito ai precedenti provvedimenti della CDC. Quest'ultima, infatti, sopraggiunto il termine del 31 luglio 2021 dell'ultima proroga della sospensione degli sfratti, ribadì ultrattivamente il proprio provvedimento.
7. La conferma della sospensione degli effetti della sentenza di primo grado da parte della stessa corte distrettuale
La Corte distrettuale nuovamente adita in via cautelare ha mantenuto fermo il proprio anteriore provvedimento moratorio dell'esecuzione della sentenza favorevole agli attori per non contraddire l'orientamento prima citato in tema di condizioni per la concessione della tutela cautelare: ma questa volta la Corte non si è trattenuta dal manifestare il proprio rammarico per questo esito, sottolineando che la situazione rispetto alla previa occasione era mutata nel senso che, accanto alla mantenuta prognosi sfavorevole all'accoglimento dell'impugnazione della CDC, si aggiungeva la considerazione equitativa secondo cui mentre la categoria degli inquilini era più prospera in conseguenza di cospicui aiuti governativi in termini di contributi economici e di incremento del numero dei vaccini somministrati che preservava da contagi incontrollati, la situazione dei proprietari era rimasta immutata, al pari della loro impossibilità di ottenere alternativamente la corresponsione dei canoni arretrati o la disponibilità dell'immobile.
8. Il ricorso alla Supreme Court federale
Contro questo provvedimento di rigetto della domanda tendente alla dichiarazione di immediata ed incondizionata esecutività della sentenza favorevole hanno proposto ricorso in via d'urgenza le associazioni di proprietari davanti la Supreme Court, riunitasi in camera di consiglio e non in udienza pubblica.
Il tema essenzialmente controverso in quella sede discusso dalle parti con semplice trattazione scritta fu congiunto, essendosi nell'opinione “per curiam” (fermamente contestata da quella dissenziente) sostanzialmente cumulato l'aspetto di merito dell'azione e, quindi, della legittimità dei provvedimenti della CDC e quello riguardante la effettiva presenza delle condizioni giustificative dell'inibitoria. Proprio in questo reticolo motivazionale risiede, come si potrà in seguito constatare, la divergente impostazione, non solo tecnico-giuridica ma di forte connotazione socio-economico-culturale, che ha diviso e visto contrapposte le due anime, conservatrice e progressista (tali anche in relazione alle rispettive provenienze politiche delle nomine),della Supreme Court, rendendo in certo modo esemplare la sentenza.
9. L'opinione di maggioranza della Supreme Court
La Corte a maggioranza ha ritenuto fondata ed ha accolto la domanda delle associazioni proprietarie ,revocando l'ordine di sospensione dell'esecuzione della sentenza di primo grado.
A differenza della corte distrettuale quella suprema ha accordato ampio e decisivo credito alla prognosi circa l'esito dell'impugnazione eventualmente proposta dall'amministrazione soccombente, giudicando molto esigue le probabilità di successo, sotto il profilo che l'ambito delle misure che in periodi di contagio di malattie infettive la legge del 1944 come successivamente modificata ,molto esteso per quel che attiene a disposizioni di genuina natura sanitaria, non sembrava comprenderne altre ramificate in settori del tutto diversi, quali quello degli sfratti. A tal proposito la Supreme Court ha enunciato un principio interpretativo di portata costituzionale secondo il quale è auspicabile che il Congresso si esprima con chiarezza allorché autorizzi un'agenzia governativa ad esercitare poteri di grande significato economico e politico (“We expect Congress to speak clearly when authorising an agency to exercise powers of vast economic and political significance”). Il ragionamento ha preso un'ulteriore piega sul piano inclinato dei rapporti tra legislazione federale e legislazione statale, tracciando una netta linea di confine, all'esterno della quale ha collocato la sola competenza di quest'ultima a regolare i rapporti tra proprietari immobiliari ed inquilini. A questa stregua, particolare rigore va posto nella delimitazione delle attribuzioni dell'agenzia per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive (la CDC, appunto),insuscettibili di indebita espansione oltre gli stretti sentieri legislativamente fissati.
La Corte suprema non si è accontentata però di mantenersi lungo la strada del controllo di legittimità costituzionale dei provvedimenti devoluti al suo esame: essa ha inteso inerpicarsi nell'aspro sentiero delle considerazioni puramente equitative (per stare al suo linguaggio),in sostanza occupando l'area del dibattito in ordine alla qualificazione del contenuto delle posizioni soggettive, proprietarie e locatarie, in conflitto tra loro. Ed in quel momento traspare - come specularmente è accaduto nell'opinione minoritaria - l'anima di politica giudiziaria della pronuncia. Essa si è manifestata sotto una doppia luce, di accecante caratura ideologica. In primo luogo, la maggioranza della Corte ha svelato il proprio orientamento, espresso secondo il parametro della giustizia del caso concreto che comunque obbedisce a principii generali, in termini di scelta di campo tra posizioni e pretese contrapposte, dichiarando l'insussistenza di ragioni appunto equitative che giustificassero la privazione in danno dei proprietari dei benefici scaturenti dalla pronuncia di primo grado che li aveva visti vittoriosi. Ben più sintomatico del generale atteggiamento della Corte si palesa lo sviluppo del precedente discorso condotto alle sue conseguenze ultime, quelle per le quali la categoria proprietaria, potendo contare nel proprio seno anche persone di modesti mezzi finanziari, non doveva essere tenuta a sopportare un significativo onere economico collegato alla pandemia e consistente nella privazione della più basilare delle facoltà connesse al diritto di proprietà, ossia l'esclusione di chiunque altro dal godimento della cosa propria, in ciò in pratica risolvendosi l'esercizio dell'azione di sfratto. All'argomento socio-economico la Supreme Court ha, tuttavia, avuto cura di far seguire quello nomofilattico in senso costituzionale: solo il potere legislativo, nella fattispecie il Congresso, può dirsi dotato della legittima scelta di assecondare l'interesse pubblico a scongiurare gli effetti perniciosi della pandemia anche sacrificando temporaneamente alcune della facoltà proprietarie ed incidendo sull'assetto dei rapporti locativi. E tale compito il Congresso aveva assolto solo parzialmente, circoscrivendolo ad un periodo determinato e non rinnovandolo nel tempo successivo. Non poteva, pertanto, identificarsi in un'agenzia governativa l'organo titolare di una così incisiva potestà, non rientrante tra quelle tipicamente riconosciute per far fronte a situazioni di emergenza sanitaria dal Public Health Service Act. E tale carenza di competenza non poteva trovare utile spiegazione legittimante nemmeno nell' (insindacabile, tanto più se si fosse prestata al dubbio, concepibile nella fattispecie, della piena consapevolezza degli effetti nascentine) inerzia legislativa. Alla luce di questa articolata riflessione la Supreme Court ha ritenuto improseguibile, in difetto di un' espressa autorizzazione Congressuale, la moratoria all'esecuzione degli sfratti imposta dalla CDC.
Prima di guardare all'altra faccia della medaglia decisoria, costituita dall'opinione di minoranza del giudice Breyer, confortata, come già ricordato, dall'adesione dei giudici Sotomayor e Kagan, una concisa osservazione su quella “per curiam” avvalora l'impressione che nel suo impianto possa riscontrarsi un'equa ripartizione tra argomenti riferibili alla predicata preservazione della demarcazione delle attribuzioni tra poteri dello Stato e concezione rigida ed invalicabile del contenuto delle facoltà in cui si articola il diritto di proprietà, prima tra esse lo “ius excludendi omnes alios”.L'impressione stessa si accresce di un tratto constatativo che induce a credere che non di argomenti parallelamente e cumulativamente spesi si sia in effetti trattato ,quanto di una meditata e conforme al pensiero della maggioranza preordinazione dei primi, di indiscutibile persuasività e robustezza giuridica, a conforto della affermata preminenza, in una logica di opzione bilanciata tra situazioni antagoniste, di quella dominicale.
10. L'opinione di minoranza della Supreme Court
Solo all'apparenza distinta può valutarsi la tecnica redazionale e logica cui ha aderito l'opinione di minoranza, nel preciso senso che l'opposta scelta valoriale-tendente a mantenere l'ago della bilancia saldamente puntato verso il binomio tutela della salute pubblica in combinazione con la protezione delle categorie contrattuali più esposte ai negativi precipitati economici della crisi sanitaria- è stata sostanzialmente scandita all'insegna di altrettanto recise posizioni collocabili nel perimetro propriamente tecnico-giuridico. Più in particolare, la minoranza ha indirizzato le proprie attente considerazioni sul terreno-evidentemente reputato come l'unico esplorabile data la natura sommaria ed interlocutoria del procedimento- della presenza delle condizioni concretamente ravvisabili allo scopo di rimuovere l'originaria sospensione degli effetti della decisione di primo grado, attraendo in esse l'analisi circa la gamma di prerogative legislativamente riservate alla CDC in fattispecie del tipo di quella in esame, così tacitamente aggirando il tema di decisione riflettente la lamentata violazione della sovranità parlamentare.
In sintesi, l'opinione del giudice Breyer, ha preso le mosse dalla ferma e dichiarata convinzione, difficilmente contestabile, che in via di principio la revoca, da parte di una corte superiore, in questo caso posta addirittura al vertice dell'organizzazione giurisdizionale federale, possa solo trovare adeguato fondamento nel chiaro e dimostrabile errore nell'applicazione dei criteri comunemente accettati per giungere a tale risultato. Il suffragio di questa premessa è stato opportunamente scorso nel precedente della Supreme Court nel caso del 2013 Planned Parenthood of Greater Tex. Surgical Health Servs v Abbott (con una punta di malizia vien fatto notare che la decisione fu adottata con l'opinione concorrente del giudice Scalia ,che fu in vita l'epitome del conservatorismo circolante nella corte di vertice, favorevole al diniego della revoca dell'ordine di sospensione dell'efficacia della pronuncia di grado inferiore). L'orientamento stabile della giurisprudenza federale si innesta nella salvaguardia del quadruplice criterio di cui si è detto nei paragrafi precedenti (intenzione della parte soccombente di impugnare la pronuncia a sé sfavorevole, esistenza di un pregiudizio irreparabile per essa nel caso di mancata concessione dell'inibitoria, comparazione dell'interesse del soccombente con quello delle altre parti processuali, soppesamento dell'interesse pubblico ad una pronuncia in un senso o nell'altro tra quelli a confronto). I giudici dissenzienti hanno espresso, sulla base di una triplice ragione, il punto di vista che nessun apprezzabile errore fosse imputabile alla corte distrettuale che aveva mantenuto fermo l'ordine di sospensione degli effetti della propria sentenza. Sommariamente esposte le ragioni, esse possono condensarsi nei termini che seguono. La prima di esse, la più direttamente implicante una risposta di stampo costituzionale alle contrarie conclusioni della maggioranza, risiede nella confutazione della tesi che all'agenzia potesse chiaramente rimproverarsi una chiara mancanza di potere di emanare i provvedimenti di moratoria degli sfratti successivi al primo, in quanto limitati alle sole zone nelle quali ancora alto ed insuperato apparisse il pericolo pandemico e sottoposti a severe restrizioni che ,tenendo conto di una serie di parametri attuativi sia soggettivi sia oggettivi, sensibilmente attenuavano e diminuivano quantità e qualità degli interventi ricadenti nella sfera dei proprietari immobiliari. Del resto, tali interventi trovavano la loro sufficiente base giustificativa primaria nelle disposizioni della legge del 1944 e delle sue sopravvenute modificazioni prevedente un cospicuo ventaglio di misure affidate alla CDC nell'adempimento dei propri compiti di governo e controllo delle malattie infettive diffusibili. Né sarebbero stati offerti elementi utili a smentire l'affermazione secondo cui la lettera della legge debba ritenersi ostativa al varo delle misure in questione ,anche in ragione della mancata censura da parte del Congresso delle politiche utilizzate dalla CDC nel campo degli sfratti. Il secondo ordine di ragioni illustrato nell'opinione di minoranza per discostarsi da quella di maggioranza acquista un sapore più rimarchevole dal punto di vista della costruzione socialmente orientata del sistema dei rapporti nel mercato delle locazioni immobiliari. In particolare, è stato respinta la tesi della preponderanza dell'esigenza di porre un freno alla perdita di somme cospicue da parte dei proprietari immobiliari a causa della mancata percezione dei canoni locativi da parte di incolpevoli inquilini rimasti privi per la crisi sanitaria di idonei mezzi economici rispetto alla necessità, nascente dal perseguimento di obiettivi igienico-sanitari ,di evitare nelle aree ad accertata, elevata densità di morbilità gli spostamenti di massa conseguenti all'esecuzione degli sfratti. Anche la terza delle ragioni cui la minoranza ha prestato adesione esibisce una affatto celata propensione all'accoglimento nell'orbita decisoria e di opzioni accreditabili alla Supreme Court di valutazioni di netta caratterizzazione in termini di politica giudiziaria ispirata ad un particolare e ben contrassegnato ordine valoriale. Ed infatti, è forte ed alta l'affermazione dei dissenzienti nell'affrontare la questioni riguardante l'impatto del fattore descritto come quello dell'interesse pubblico “al fine di dirimere la “res litigiosa”. Essi senza reticenze hanno, da un canto, ribadito l'ovvio concetto che mai ed in nessun caso l'interesse pubblico può dirsi essere favorito dall'accrescimento del numero dei contagi e che, d'altra parte ed analogamente, a questa causa non potrebbe giovare la caducazione dei provvedimenti della CDC, tenuto conto dell'ancora altissima percentuale della malattia virale nelle varie contee dell'intera federazione: dato statistico del tutto atto a controbattere ottimistiche previsioni circa l'acquisito dominio sull'infezione, in passato rivelatesi tragicamente inveritiere. Tirando le somme del nugolo di osservazioni compiute la minoranza ha concluso nel senso che allo stato del giudizio i vari profili in esso dibattuti non fossero stati ancora, a causa del carattere sommario della fase procedimentale, sufficientemente esplorati e non consentissero la formazione di una incontrovertibile e certa opinione circa l'insostenibilità della pronuncia inibitoria dell'esecuzione della propria sentenza di merito emessa dalla medesima corte distrettuale: l'obbligata conclusione è stata, pertanto, secondo il parere della minoranza, che tale pronuncia non fosse meritevole di riforma.
11. Spunti finali
Come il titolo di questo scritto preannuncia, la decisione oggetto di commento si presta ad alcune, brevi e sparse considerazioni più orientate verso i criteri e gli stili argomentativi circolanti in ordinamenti di common law, e nella fattispecie in quello nord-americano, che verso il merito della fattispecie, in cui è appariscente la plausibile convivenza di posizioni diverse, tutte egualmente sostenibili ed opinabili a seconda del punto di osservazione ideale e socio-economico, oltre che strettamente giuridico, nel quale ci si voglia collocare.
Si può convenientemente partire dal giusto credito che va tributato all'ammissibilità dell'esternazione di tutte le opinioni manifestate dai giudici del collegio decidente ed alla sublimazione della rispettiva raccolta nel salutare manicheismo della formula maggioranza-minoranza - dissenziente ,appena temperata dalla riconosciuta presenza di quelle concorrenti con la posizione “per curiam” del diritto statunitense. E ciò si dice non solo per sposare il dato tecnico, particolarmente esaltato nel sistema delle fonti del common law inglese, del possibile affievolimento del grado di vincolatività (addirittura capace di sfumare al rango della semplice “persuasività”) del precedente non unanime ma, soprattutto, per far risaltare il benefico apporto che sul piano del democratico controllo esterno dell'affidabilità delle decisioni giudiziarie può dare la conoscenza del dibattito interno all'organo giurisdizionale. La positività dell'apporto non va solo calcolata sul terreno della chiara identificabilità delle personalità dei singoli giudici e del correlato bagaglio ideale, ma va piuttosto colta nell'arricchimento della piattaforma critica alla cui stregua porsi per valutare in modo informato e maturo un dato provvedimento giurisdizionale, eventualmente scavando le radici per un suo possibile, evoluto superamento o emendamento. Auspicabili evenienze, queste, precluse dalla pubblicazione di una monolitica pronuncia che non lasci in alcun modo sprigionare l'aria salubre della serrata discussione che non può non circondare il momento dell'effettuazione della camera di consiglio. In questa sede non si può che tornare ,per percorrerli nuovamente, sui passi, finora battuti senza apprezzabili successi, diretti alla formulazione della finora inedita regola della divulgabilità anche nell'ordinamento italiano di tutte le opinioni espresse dai componenti tutti gli organi giurisdizionali di vertice. E travolgere il fascinoso quanto pericoloso mito dell'esigenza di non indebolire la portata nomofilattica ed esemplare delle relative pronunce non può né deve apparire eversivo o velleitario ma strumento di crescita della conoscenza diffusa e di affinamento del rispettoso senso critico verso la giurisprudenza, così sbarrando la strada alla scorciatoia che si invera attraverso il dileggio e la generica delegittimazione.
Un altro livello di osservazioni appare facilitato dall'esame della fattispecie qui trattata: esso attiene allo scottante, ma ineludibile, problema della legittimità, o quanto meno della opportunità, del disvelamento, attraverso la propria opinione, dell'identità culturale, sociale, in senso lato politica del relativo autore. È materia quotidianamente ricorrente nel dibattito giudiziario italiano, sovente contaminato dall'incursione, non di rado maldestra, della dimensione soggettivamente ed oggettivamente politica, quella che con crescenti gradi di malignità tende ad identificare ipostaticamente nei tratti in senso lato biografici dell'autore del provvedimento il suo movente o la recondita chiave di spiegazione, additiva se non alternativa rispetto a quella risultante dal testo della motivazione. Il più grave rischio rinvenibile in siffatta maniera di venire in contatto con i frutti dell'attività giurisdizionale sta forse ,ancor prima che nello spesso e non irragionevolmente paventato discredito dell'intero ordine, nel diniego assoluto di accreditare al singolo giudice la libertà di esercizio dell'alto compito sociale di non segregare da sé nell'atto di amministrazione della giustizia la propria complessa umanità, mai scomponibile o valutabile solo nei suoi singoli atomi (etici, socio-economici, di sentire politico-istituzionale) costitutivi. La diversa visione si rivelerebbe incompatibile con l'aspirazione che tutti i cittadini hanno il diritto di fondamento costituzionale di coltivare di trovarsi di fronte ad una/o donna-uomo giudice meritevole di fiducia, in virtù della sua competenza, solerzia, insensibilità alle sirene dell'ambizione professionale e politica, dirittura morale, solida formazione valoriale: presidi, tutti, dell'autonomia e della ripulsa dei condizionamenti di qualsiasi, perniciosa provenienza.
Brevi riflessioni sulla ‘riforma Cartabia’ in materia di prescrizione e di improcedibilità (legge 27 settembre 2021, n.134)
di Ercole Aprile
Sommario: 1. Premessa. - 2. I principi contenuti nelle norme di legge delega. - 3. Le novità normative di immediata efficacia: quelle in materia di prescrizione dei reati. - 4. (segue): e quelle in materia di improcedibilità. - 5. (segue): le ulteriori novità in materia di identificazione dell’imputato, garanzie di difesa e tutela delle vittime del reato.
1. Premessa.
La legge 27 settembre 2021 n. 134 (detta ‘riforma Cartabia’) – pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 237 del 4 ottobre 2021, che entrerà in vigore il 19 ottobre 2021 – nasce da una duplice esigenza ed è espressione, soprattutto con riferimento alla disciplina degli istituti della prescrizione del reato e della improcedibilità, di contingenti scelte frutto di un compromesso, operate per cercare di superare l’impasse dovuto alla contrapposizione tra forze politiche e per varare in tempi rapidi questo provvedimento legislativo.
Bisogna, infatti, ricordare come fosse pendente in Parlamento un disegno di legge governativo (d.d.l. A.C. 2435: c.d. ‘Bonafede’), di ‘accompagnamento’ della riforma delle norme sulla prescrizione attuata con la legge n. 3/19 (c.d. legge ‘spazzacorrotti’), dal contenuto molto ‘divisivo’, nella misura in cui dava concretezza alla regola della definitiva interruzione della decorrenza del termine di prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado: vi era, dunque, l’esigenza di superare questa situazione di stallo con una disciplina definitiva.
D’altro canto, alla necessità di definire il contesto normativo nella materia della prescrizione del reato, si è unito il bisogno di adottare un provvedimento legislativo che, attraverso ‘ritocchi’ mirati del codice di rito, potesse assicurare una riduzione dei tempi di durata del processo penale (analoga iniziativa è stata adottata per il processo civile e per quello tributario): e ciò perché tra i progetti da realizzare con il finanziamento dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.), licenziato dal Parlamento con risoluzioni del 13 ottobre 2020, e del connesso Recovery Fund (Next Generation EU, varato, come noto, dalle istituzioni dell’Unione europea per favorire il rilancio dell’economia degli Stati membri colpita dalla crisi sanitaria dovuta alla diffusione epidemiologica da Covid-19), vi era anche quello di riforma della giustizia penale per assicurare una migliore efficacia della risposta statuale in questo settore: in particolare con la previsione della riduzione in cinque anni del 25% della durata media dei giudizi penali.
In tale contesto, nel quale un significativo apporto di riflessioni e di proposte è stato fornito dalla Commissione ministeriale di studio presieduta da Giorgio Lattanzi, che il 24 maggio 2021 aveva licenziato una relazione finale contenente una serie di ipotesi di possibile riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale (proposte finalizzate anche a dare attuazione a talune direttive dell’Unione europea rimaste ancora senza seguito, come per quella 2012/29/UE relativa ai diritti, assistenza e protezione della vittima da reato o per la raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/REC(2018)8 relativa alla giustizia riparativa in materia penale; oppure finalizzate a codificare soluzioni interpretative proposte dalla giurisprudenza di legittimità o accreditate da pronunce della Corte costituzionale o della Corte di Strasburgo), nonché in materia di prescrizione del reato. Buona parte di tali proposte sono state trasfuse in emendamenti governativi al disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello.
2. I principi contenuti nelle norme di legge delega.
La legge n. 134/21 è composta da due articoli.
Nell’art. 1 sono contenuti i principi della legge delega ai quali il Governo, in sede di esercizio del potere legislativo delegato, dovrà uniformarsi con l’adozione di uno o più decreti legislativi da emanare entro un anno. Tali decreti riguarderanno varie materie e ‘spazieranno’ dalle modifiche del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale, a quelle di disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, alla revisione del regime sanzionatorio dei reati e all’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e dell’ufficio per il processo penale.
Gli scopi dichiarati da realizzare sono quelli della semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, dell’incremento delle garanzie difensive. In attesa di conoscere il testo specifico di tali decreti, va qui rammentato come i principi della legge delega, che delineano in maniera molto netta le linee della futura riforma del codice di procedura penale e delle relative disposizioni di coordinamento, riguardano l’attuazione del processo penale telematico; una riscrittura della disciplina codicistica in materia di notificazioni, di processo in absentia, di atti del procedimento, di indagini preliminari e di udienza preliminare, di procedimenti speciali, di giudizio, di procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, di appello, di ricorso per cassazione e di impugnazioni straordinarie; una rivisitazione delle norme di attuazione in tema di amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e di esecuzione della confisca; una nuova modulazione delle norme del codice penale, di quello di procedura penale o di leggi speciali in materia di condizioni di procedibilità, di pena pecuniaria, di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, di giustizia riparativa, di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, di disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni, di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione, nonché di comunicazione della sentenza.
Trattandosi di tematiche di cui sono state fissate in maniera molto precisa le linee di tendenza della riforma, ma che necessitano di una concreta traduzione in nuove disposizioni, si fa rinvio al commento che verrà riservato in futuro a quei decreti legislativi.
3. Le novità normative di immediata efficacia: quelle in materia di prescrizione dei reati.
Nell’art. 2 della legge n. 134/21 sono contenute le norme di immediata applicazione riguardanti modifiche alla disciplina della prescrizione, dell’arresto in flagranza, delle garanzie difensive e ad altre norme riferibile all’imputato apolide o appartenente a Stati diversi da quelli aderenti all’Unione europea; e, soprattutto, quelle con le quali è stata introdotta la disciplina del nuovo istituto della improcedibilità per superamento dei termini di svolgimento del giudizio di impugnazione. Con l’art. 2 si è inoltre prevista la costituzione di due appositi organismi ministeriali: il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, con l’incarico di valutare periodicamente il raggiungimento degli obiettivi della riforma; e il Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo, con funzioni di consulenza e supporto per le decisioni tecniche connesse alla digitalizzazione del processo.
Modificando l’impostazione dell’originario disegno di legge in materia di prescrizione, la ratio della legge n. 134/21 è stata quella di mantenere ferma la previsione della cessazione della decorrenza del termine di prescrizione del reato dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e, nel contempo, di introdurre un nuovo ‘meccanismo’ finalizzato a favorire l’accelerazione della definizione dei processi nei successivi gradi di impugnazione mediante la previsione di termini entro i quali, a pena di declaratoria di una improcedibilità definitiva, va adottata la decisione del grado successivo.
Restano dei dubbi sulla compatibilità di tale impianto normativo con i parametri degli artt. 24 e 101 Cost, tenuto conto che, pur in presenza di una sentenza penale di primo grado e in assenza del decorso della prescrizione del reato (altrimenti giustificativo del venir meno della pretesa punitiva statuale), il mero decorso del tempo determina una sorta di estinzione del processo: così potendo finire per frustrare le esigenze connesse all’avvenuto esercizio dell’azione penale e alla tutela della vittima (in special modo se la sentenza gravata con l’impugnazione è di assoluzione), meno le esigenze connesse al diritto di difesa dell’imputato, che potrebbe avere un interesse concreto ad una pronuncia sull’impugnazione avverso ad una sentenza di condanna, potendo questi (come si avrà modo di evidenziare) rinunciare alla operatività dell’istituto della improcedibilità.
Più in dettaglio, l’art. 2, comma 1, della legge n. 134/21 elimina i commi 2 e 4 dell’art. 159; inserisce il riferimento al decreto di condanna nel comma 1 dell’art. 160 a proposito delle cause di sospensione della prescrizione, e introduce nel codice penale il nuovo art. 161-bis relativo alla cessazione del corso della prescrizione. In pratica, la sentenza di primo grado, che in precedenza costituiva una causa di sospensione del corso della prescrizione, ora determina la cessazione di tale corso; è escluso tale effetto nel caso di emissione di decreto penale di condanna, trattandosi di decisione a contraddittorio eventuale, che ora rappresenta una causa di interruzione del corso della prescrizione. Inoltre, a mente del citato art. 161-bis, il corso della prescrizione riprende il suo corso laddove la sentenza di primo grado venga annullata e il procedimento regredisca alla fase del giudizio o ad una fase anteriore: nel senso che il periodo che va dalla data della sentenza annullata alla data della sentenza rescindente vale come sospensione della prescrizione.
È appena il caso di sottolineare che l’annullamento può essere pronunciato dalla corte di appello ai sensi dell’art. 604 c.p.p. o dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p.; l’effetto ‘ripristinatorio’ del decorso del termine di prescrizione, dunque, non si determina laddove la Cassazione si limiti ad annullare la sentenza di secondo grado, poiché in questo caso resta ferma la cessazione del corso della prescrizione ed opera, invece, il meccanismo della improcedibilità, di cui si dirà in seguito.
4. (segue): e quelle in materia di improcedibilità.
Dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di proscioglimento, laddove venga presentata una impugnazione tanto dalla parte pubblica quanto da una delle parti private, inizia a decorrere un termine entro il quale il relativo giudizio di impugnazione deve concludersi, a pena di improcedibilità dell’azione penale: in pratica, come si legge nella relazione finale della già richiamata Commissione Lattanzi, “se il processo non si definisce entro il termine di fase, si determina una improcedibilità dell’azione penale. La definizione del giudizio entro il termine di fase è cioè una condizione di procedibilità”. È questo il nuovo istituto che caratterizza la riforma ‘Cartabia’, con il quale si è inteso conciliare la previsione dell’originario disegno di legge governativo, che stabiliva tucur la cessazione del corso della prescrizione nel caso di sentenza di primo grado di condanna, con l’esigenza di evitare una pendenza sine die dei giudizi di impugnazione che avrebbe finito per entrare in insanabile contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.
In generale, e a regime, i termini sono di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.). In via transitoria, l’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21, stabilisce che nei procedimenti nei quali l’impugnazione venga proposta entro la data del 31 dicembre 2024 (nel caso di più impugnazioni, si tiene conto della data di presentazione del primo atto di impugnazione) o nei quali l’annullamento con rinvio venga pronunciato prima di tale data, i termini anzidetti sono, rispettivamente, di tre anni per il giudizio di appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. Tali termini operano in tutti i procedimenti, ad esclusione di quelli aventi ad oggetto “i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti” (art. 344-bis, comma 9).
Quanto alla decorrenza dei già menzionati termini, l’art. 344-bis, comma 3, c.p.p., stabilisce che essi decorrano “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’articolo 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, per il deposito della motivazione della sentenza.” In buona sostanza, il ‘meccanismo’ di decorrenza opera in maniera fissa e predeterminata, prescindendo dal fatto che la motivazione della sentenza sia stata depositata nel termine, in anticipo o in ritardo; che la gestione dei tempi di presentazione delle impugnazioni subisca un qualche slittamento; e, soprattutto, che la cancelleria del giudice a quo tardi la materiale trasmissione del fascicolo al giudice dell’impugnazione.
Benché la norma in esame usi il singolare (“termine previsto dall’art. 544”), è ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso fa riferimento a tutti i termini previsti da tale articolo del codice per il deposito della motivazione della sentenza: quindi, sia a quello di quindici e a quello di trenta indicati dalla legge, sia a quello più lungo, fino a novanta giorni, indicato dal giudice nel dispositivo della sentenza, che può essere raddoppiato fino a 180 giorni nel caso di pronuncia relativa a reati di particolare gravità, che sia suscettibile di separazione a mente del comma 3-bis dello stesso art. 544.
Il richiamo espresso dell’art. 154 disp. att. c.p.p., impone di tenere conto anche del ‘meccanismo’ ivi disciplinato, non cumulabile con quello del predetto art. 544, comma 3-bis, che regola l’ipotesi del maggiore termine prorogato dal presidente della corte di appello su richiesta motivata del giudice interessato alla redazione della motivazione. Per il giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Cassazione, fermi restando gli effetti della formazione del giudicato parziale ex art. 624 c.p.p., il termine di improcedibilità ricomincia a decorrere “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 617”, dunque dopo 120 giorni dalla deliberazione della sentenza del Supremo Collegio.
A norma dell’art. 344-bis, comma 4, c.p.p., il termine di due anni per il giudizio di appello e quello di un anno per il giudizio di cassazione possono essere prorogati laddove il giudizio sia “particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare” (i parametri di riferimento paiono in parte analoghi, ma invero più precisi e stringenti, a quelli elaborati dalla giurisprudenza per l’applicazione dell’art. 304, comma 2, c.p.p. per la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare). L’ordinanza di proroga va adottata dal “giudice che procede”, formula ambigua che, tuttavia, è fondato ritenere sia riferibile al giudice dell’impugnazione e non anche a quello che ha emesso la sentenza impugnata, che potrebbe non disporre di tutti i dati necessari per poter esprimere una valutazione sulla complessità del giudizio di impugnazione. Non è indicata la necessità di una richiesta di parte, sicché parrebbe che il provvedimento possa essere adottato anche ex officio.
In generale è possibile l’emissione di una ordinanza di proroga per una sola volta e per un periodo non superiore a un anno per l’appello (che, dunque, può durare fino a tre anni) o a sei mesi per la cassazione (con termine massimo di un anno e sei mesi): i termini massimi sono di quattro anni per l’appello e di due anni per la cassazione per i soli procedimenti per i quali si applica la già esaminata disciplina transitoria dell’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21.
La norma in esame permette, però, l’adozione di ulteriori provvedimenti di proroga del termine “quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609- bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, del codice penale e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” In buona sostanza, per i procedimenti riguardanti tali gravi delitti, non è stabilito un limite numerico ovvero un tetto cronologico alle proroghe che possono essere adottate dal giudice. Ciò fatta eccezione per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, c.p., per i quali sono possibili più proroghe, ma con il tetto massimo di tre anni per l’appello e di sei mesi per la legittimità: sicché per i procedimenti relativi a tali delitti, il termine massimo di durata del giudizio di appello è di cinque anni (due + tre), mentre quello del giudizio di cassazione è di due anni (uno + uno). Nei procedimenti per i quali si applica la già considerata disciplina transitoria dell’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21, il termine massimo può essere, dunque, di sei anni per il giudizio di appello e di due anni e sei mesi per il giudizio di cassazione.
L’ordinanza che dispone la proroga è impugnabile con ricorso per cassazione dall’imputato o dal difensore (sempre nel rispetto della prescrizione generale dell’art. 613, comma 1, c.p.p.) che va presentato, “a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione” e che non ha effetti sospensivi. Stranamente non è prevista la legittimazione ad impugnare del pubblico ministero e delle altre parti private. “La Corte di cassazione decide entro trenta giorni dalla ricezione degli atti osservando le forme previste dall’articolo 611”, dunque nelle forme della camera di consiglio non partecipata. “Quando la Corte di cassazione rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza”: il che significa che in assenza di una siffatta iniziativa, le questioni sulla legittimità della o delle proroghe possono essere eventualmente poste con l’impugnazione avverso la sentenza emessa dalla corte di appello.
A norma dell’art. 344-bis, comma 6, c.p.p., “I termini di cui ai commi 1 e 2 sono sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale” (vale a dire laddove si verifichi una situazione processuale che, nel giudizio di primo grado, avrebbe comportato la sospensione del decorso del termine di prescrizione del reato”); “e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con la puntualizzazione che, in tale seconda ipotesi, il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni.
I termini di improcedibilità sono, altresì, sospesi nel caso di irreperibilità di un imputato, “quando è necessario procedere a nuove ricerche dell’imputato, ai sensi dell’articolo 159 del presente codice, per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi di cui all’articolo 613, comma 4, (…) con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, tra la data in cui l’autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche e la data in cui la notificazione è effettuata.”
Come già accennato, ai sensi dell’art. 344-bis, comma 7, c.p.p. “La declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo.” Si tratta di un diritto personale esercitabile dall’imputato o da un suo procuratore speciale. Applicando i criteri interpretativi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di rinuncia alla prescrizione (Cass., sez. un., n. 18953/16, Piergotti), è ragionevole ritenere che la rinuncia alla operatività dell’istituto della improcedibilità debba essere espressa, formulata prima che il termine sia spirato e che il giudice abbia adottato la sentenza di improcedibilità, e non sia revocabile dall’imputato con una successiva dichiarazione di segno contrario.
Quanto ai rapporti tra improcedibilità e azione civile esercitata nel processo penale, l’art. 2, comma 2, lett. b), della legge n. 134/21 ha modificato l’art. 578 c.p.p., con la riscrittura della rubrica e l’introduzione del comma 1-bis. Così oggi, in presenza di una già pronunciata sentenza di condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati da reato, mentre la corte di appello o la Corte di cassazione che accerti che il reato si sia estinto per amnistia o per prescrizione (a regime, stante la previsione del nuovo art. 161-bis c.p., la prescrizione che potrà essere rilevata sarà solo quella già verificatasi nel corso del giudizio di primo grado) deve decidere sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (secondo i canoni operativi indicati dalla Corte cost. nella sentenza n. 182 del 2021), la stessa corte, “nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale”. Norma, questa, con la quale si è inteso precludere del tutto la possibilità che il procedimento possa proseguire dinanzi al giudice penale anche solo per decidere sulle statuizioni civili. È appena il caso di osservare che qualche problema potrà porre il riferimento alla decisione che il giudice civile deve adottare “valutando le prove acquisite nel processo penale”, considerato che nella prassi applicativa dell’art. 622 c.p.p. i giudici civili assumono le prove e le valutano secondo le regole proprie del rito civile.
Peraltro, va notato che la modifica dell’art. 578 c.p.p. avrà immediata efficacia, a differenza di quanto accadrà per la complementare disposizione dell’art. 578-bis c.p.p. che, come noto, stabilisce ora i rapporti tra la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione o amnistia e la decisione sulla confisca: norma che in futuro dovrà essere ‘riscritta’, con una apposita disciplina dei rapporti tra confisca e declaratoria di improcedibilità, con uno dei decreti legislativi che saranno adottati in attuazione dei principi fissati dall’art. 1, comma 13, lett. d), della stessa legge delega n. 134/21.
Resta quale dubbio in ordine ai rapporti tra l’ammissibilità dell’impugnazione e la nuova forma di improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. In generale, sembrerebbe opinabile la possibilità per il giudice dell’impugnazione di dichiarare la improcedibilità laddove il relativo giudizio sia stato instaurato con un atto di impugnazione originariamente inammissibile: tuttavia, si potrebbe replicare che il giudice dell’impugnazione che dovesse tardare a definire il proprio giudizio con una declaratoria di quella causa di inammissibilità del gravame, sarebbe tenuto a far prevalere la intervenuta causa di improcedibilità, che determina l’immediata estinzione del rapporto processuale ed osta al compimento di qualsiasi altra attività processuale. Diverso è il discorso nel caso in cui la causa di improcedibilità per decorso del termine, verificatasi nel giudizio di appello, non sia stata rilevata dal giudice di secondo grado e venga proposto ricorso per cassazione: in tale ipotesi, ben potrebbero essere applicati i principi della sentenza delle Sezioni Unite del 2016 in materia di rapporti tra prescrizione del reato e inammissibilità (Cass., sez. un., n. 12602/16, Ricci): per cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovrebbe precludere la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, c.p.p., la improcedibilità maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso; al contrario, il ricorso per cassazione sarebbe ammissibile laddove con lo stesso dovesse dedursi, anche con un unico motivo, l'intervenuta improcedibilità maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.
I commi 3 e 4 dell’art. 2 della legge n. 134/21 contengono la disciplina transitoria, stabilendo, per un verso, che le disposizioni in materia di improcedibilità “si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020”; per altro verso, che per i procedimenti che, alla data del 19 ottobre 2021 “di entrata in vigore della presente legge, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590 del codice di procedura penale, i termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale decorrono dalla quella stessa data di entrata in vigore della… legge”. Resta qualche perplessità sulla compatibilità con il principio dell’art. 25 Cost. della norma che limita l’applicabilità della disciplina della improcedibilità solo ai procedimenti aventi ad oggetto i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020, in quanto la dottrina e la giurisprudenza (v., ad esempio, Cass., sez. II, n. 40399/08) sono orientate nel senso di sostenere che rientrino nel concetto di legge più favorevole al reato, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p., tutti gli elementi in grado di incidere sulla posizione processuale dell’imputato, comprese le condizioni di procedibilità. D’altro canto, nell’applicare l’art. 129 c.p.p. che impone l’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, tra le quali viene indicata anche la mancanza di una condizione di procedibilità, la Cassazione ha sostenuto che la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, impone la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass., sez. V, n. 22143/19).
5. (segue): le ulteriori novità in materia di identificazione dell’imputato, garanzie di difesa e tutela delle vittime del reato.
Nell’ambito delle procedure amministrative di polizia finalizzate alla identificazione degli stranieri, in particolare materia di contrasto dei fenomeni di immigrazione irregolare e di protezione internazionale, la pubblica amministrazione ha adottato il sistema CUI, codice identificativo unico della persona basato sull’acquisizione di dati biometrici (impronte digitali, foto, segni particolari e dati anagrafici: elementi che, attraverso appositi sistemi informatici, vengono raccolti in banche dati delle forze di polizia; di tale sistema vi è cenno normativo negli artt. 4 e 43 del d.P.R. 313/02, contenente il testo unico del casellario giudiziario). In tale ottica, allo scopo di garantire una maggiore tutela e, nel contempo, di favorire la corretta identificazione dell’indagato o dell’imputato apolide o di cui sia ignota la cittadinanza, oppure che sia cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea privo del codice fiscale o che è attualmente, o è stato in passato, titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea, l’art. 2, commi 7, 8, 9 e 10, della legge n. 134/21, modificano taluni articoli del codice di rito e del d.lgs. n. 271/89.
In particolare, risultano modificati l’art. 66 c.p.p., con la previsione che nei confronti di tali soggetti “nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale è riportato il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti il provvedimento è emesso”; l’art. 349, relativo al compimento da parte della polizia giudiziaria di atti finalizzati alla identificazione dell’indagato o di altre persone, con l’aggiunta nel comma 2 del periodo per cui “la polizia giudiziaria trasmette al pubblico ministero copia del cartellino fotodattiloscopico e comunica il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti sono svolte le indagini”; l’art. 431, comma 1, in materia di formazione del fascicolo per il dibattimento, con l’inserimento di una aggiunta nella lett. g), per cui in quel fascicolo viene aggiunta anche “una copia del cartellino fotodattiloscopico con indicazione del codice univoco identificativo”; e l’art. 10, comma 1, disp. att. c.p.p., con l’aggiunta del comma 1-bis, per cui nei confronti dell’indagato rientrante in una delle indicate categorie la segreteria della procura della Repubblica debba acquisire “ove necessario, una copia del cartellino fotodattiloscopico e provvede(re), in ogni caso, ad annotare il codice univoco identificativo della persona nel registro di cui all’articolo 335 del codice”.
Allo scopo superare il dubbio sull’applicazione di una serie di disposizioni del codice di rito finalizzate ad assicurare una più efficace tutela delle vittime di specifici gravi delitti commessi con violenza alla persona, con l’art. 2, comma 11, della legge n. 134/21, sono stati modificati alcuni articoli con la sostituzione delle parole “per i delitti” con quelle “per il delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati”. In tal modo si è chiarito che tali disposizioni sono applicabili anche in favore delle vittime di tentato omicidio ovvero di qualsiasi altro dei delitti commessi con violenza alla persona ivi elencati, siano essi stati consumati o rimasti allo stadio del tentativo (in precedenza, per la mancata applicazione ad un reato tentato di una norma prevista solo per il reato consumato, v. Cass., sez. un., n. 40985/18, Di Maro). Tale modifica ha riguardato l’art. 90-ter, comma 1-bis, in tema di comunicazione obbligatoria dell’evasione o della scarcerazione dell’indagato o dell’imputato; l’art. 362, comma 1-ter, c.p.p., in materia di tempestività delle assunzioni di informazioni dalle persone offese o dai denuncianti (secondo le regole del c.d. ‘codice rosso’, di cui alla legge n. 69/19 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere; l’art. 370, comma 2-bis, c.p.p., relativamente al compimento senza ritardo da parte della polizia giudiziaria degli atti delegati dal pubblico ministero; l’art. 659, comma 1-bis, c.p.p. in materia di comunicazione dei provvedimenti di scarcerazione dei condannati; l’art. 64-bis, comma 1, disp. att., in tema di trasmissione obbligatoria di provvedimenti al giudice civile; ed ancora, l’art. 165, quinto comma, c.p., in materia di sospensione condizionale della pena.
Sempre allo scopo di garantire una più efficace tutela dei diritti di difesa dell’imputato detenuto, allo scopo di superare le incertezze dovute al silenzio normativo (v., da ultimo, Cass., sez. VI, n. 27711/21, che ha escluso che la direzione del carcere, dove l’imputato si trovi detenuto, sia obbligata a dare comunicazione al difensore di fiducia dell’avvenuta presentazione di dichiarazione di nomina da parte del recluso), con l’art. 2, comma 14, della legge n. 134/21 è stato inserito nell’art. 123 c.p.p. il comma 2-bis, secondo il quale “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”.
Infine, nell’ottica di assicurare una più ampia protezione alle vittime vulnerabili, con l’art. 2, comma 15, della legge n. 134/21, è stata inserita nel comma 2 dell’art. 380 c.p.p. una nuova lett. l-ter), per cui l’arresto obbligatorio in flagranza è oggi previsto anche l’autore dei “delitti di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dagli articoli 387-bis, 572 e 612-bis del codice penale”. È bene rammentare che la lett. l-ter), introdotta dal decreto-legge n. 93/13, conv. dalla legge n. 119/13, già prevedeva il riferimento ai reati di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p.: dunque, la novità è costituita dall’inserimento nel novero dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, anche del delitto di cui all’art. 387-bis c.p., introdotto dalla legge n. 69/19 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere (c.d. legge del ‘codice rosso’).
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