ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte Costituzionale ridisegna l’architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, sanando le fratture tra il volto iniquo della stessa e la società civile. (Nota a Corte Cost. Sent. n. 28/2022) Parte I
di Elena Quarta
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale n. 28/2022: volano per la riqualificazione del sistema delle pene pecuniarie - 2. Le questioni di legittimità Costituzionale per ridisegnare in modo più vitale ed umano il volto dell'art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 - 3. Il contesto normativo: 3.1. Art. 53 secondo comma e art. 58 della legge 24 novembre 1981 n. 689 - 3.2. Il criterio di ragguaglio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 cod. pen. - 4. La sentenza ridisegna in modo vitruviano la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, tassello centrale dell' Ordinamento che è il luogo dell'identità del nostro tempo - 4.1. Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 si ispira al modello dei tassi giornalieri: Significato dell’intervento della Corte costituzionale.
1. La sentenza della Corte costituzionale n. 28/2022\: volano per la riqualificazione del sistema delle pene pecuniarie
Con la sentenza n. 28 depositata il 1 febbraio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale»[1]. La Corte Costituzionale ha perciò ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna (articolo 459, co. l-bis c.p.p), fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il Governo a modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha sottolineato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza[2]. Si tratta di un intervento che ridisegnando l'architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, di fatto, ha sanato le fratture tra il volto iniquo della stessa e la società civile, in quanto il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasformava di fatto la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti.
Per comprendere al meglio i termini della pronuncia, occorre partire dalle questioni di legittimità Costituzionale sollevate dal Tribunale di Taranto e dal Tribunale di Ravenna che hanno sollecitato l'intervento della Corte Costituzionale.
2. Le questioni di legittimità Costituzionale volte a ridisegnare in modo più vitale ed umano il volto dell'art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689
Nello specifico, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Ravenna, con ordinanza del 5 ottobre 2020, iscritta al n. 177 del r.o. 2020, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale), «nella parte in cui […] prevede che, nel determinare l’ammontare della pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva di durata sino a sei mesi, il giudice individui il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato, da moltiplicare per i giorni di pena detentiva, in un valore […] che non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 c.p., pari a euro 250,00, anziché fare applicazione dei criteri di ragguaglio di cui all’art. 459, co. 1 bis, c.p.c., ovvero poter fare applicazione dei meccanismi di adeguamento di cui all’art. 133 bis del codice penale», denunziandone il contrasto con gli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione[3]. Nel giudizio a quo era accaduto che l'imputato, attinto da decreto penale di condanna, aveva proposto opposizione chiedendo il patteggiamento ex art. 444 c.p.p., con sostituzione della pena detentiva di mesi due e giorni venti di reclusione con quella pecuniaria corrispondente (che, in virtù del ragguaglio ex articoli 53 legge n. 689/81 e 135 del codice penale, veniva ad essere computata in 20.000,00 euro: prodotto della moltiplicazione del valore minimo giornaliero di 250,00 euro per la pena da convertire pari a 80 giorni) e con l'applicazione di una pena finale, senza sospensione condizionale, di euro 22.222,00 (derivante dalla somma della pena detentiva convertita e della multa di euro 2.222,22, già risultante dall'accordo sulla pena ex art. 444 c.p.p. per la fattispecie contestata). Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Ravenna ha riscontrato l’irrazionalità della vigente disciplina normativa dei criteri di sostituzione delle pene detentive brevi in pene pecuniarie posto che, in ragione della sostituzione del valore giornaliero originariamente previsto dall'art. 135 c.p. (38 euro) con quello attuale (250 euro) anche una pena detentiva breve deve essere sostituita dal giudice con una pena pecuniaria di importo considerevole. Il meccanismo in questione risulta pertanto assai oneroso, in contrasto con gli articoli 3, comma 2 (principio di uguaglianza sostanziale) e 27, comma 3 (finalità rieducativa della pena), della Costituzione, sia in quanto costituisce un privilegio per i soli condannati abbienti sia in quanto il ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria era stato previsto come “prezioso strumento destinato a evitare, a chi fosse stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità, di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce” mentre, di fatto si è trasformato nel privilegio di cui sopra. Ha quindi evidenziato come l'art. 53 comma 2, della Legge n. 689/81 rinviando al solo art. 133 ter(in materia di rateizzazione della pena pecuniaria) e non anche all'art. 133 bis non consenta al giudice, di adeguare, nel caso concreto, l’ammontare della pena pecuniaria applicata in sostituzione di quella detentiva alle condizioni economiche effettive del reo, aumentandola o riducendola sino ad un terzo, nel rispetto dei criteri di uguaglianza sostanziale e ragionevolezza, nonché di finalismo rieducativo della pena irrogata[4].
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, con ordinanza del 14 aprile 2021, iscritta al n. 129 del r.o. 2021, ha parimenti sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, «nella parte in cui detta disposizione prevede che, nel determinare il quantum della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, il Giudice individui il valore minimo giornaliero di un giorno di reclusione nella misura della somma indicata dall’articolo 135 c.p., pari a 250,00 euro, anziché nella minor somma di 75,00 € prevista dall’articolo 459, co. l-bis c.p.p.», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). In via subordinata, la stessa disposizione è denunciata, in riferimento ai medesimi parametri, nella parte in cui «non prevede che il Giudice, nel determinare la pena pecuniaria sostitutiva di pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, […] possa fare applicazione del criterio di adeguamento della pena pecuniaria minima previsto dall’articolo 133-bis c.p.»[5]. Nel giudizio a quo, era accaduto che l’imputato, attinto da decreto penale di condanna, aveva proposto opposizione; contestualmente l’imputato, il suo difensore ed il pubblico ministero hanno formulato istanza di applicazione della pena ex art. 444 del codice di procedura penale. Le parti hanno chiesto applicarsi nei confronti dell'odierno imputato la pena di 6.750,00 euro, in sostituzione della pena detentiva da loro stabilita in relazione al delitto di cui all'art. 610 del codice penale. Detta sanzione è stata calcolata come segue: pena base pari a quattro mesi e quindici giorni di reclusione, diminuita ex art. 444, comma 1, del codice di procedura penale sino a tre mesi di reclusione, convertita nella corrispondente pena pecuniaria ex art. 53 della legge n. 689/1981; il valore giornaliero attribuito a ciascun giorno di reclusione è individuato nella somma di 75,00 euro, dunque in misura inferiore al valore minimo di 250,00 euro previsto dal combinato disposto di cui al comma 2 dell'art. 53 della legge n. 689/1981 e all'art. 135 del codice penale[6]. Come evidenziato dalla dottrina (V. Aiuti) la comminatoria di una sanzione sostitutiva presuppone la formulazione di un ragionamento di questo tipo:
“se reato x, allora pena y”
ma “se pena y, allora sanzione sostitutiva z”
Provata la colpevolezza dell’imputato, il giudice è incaricato dalla norma penale di produrre certe conseguenze sanzionatorie, normalmente commisurate a norma dell’art. 132 e ss. Cp Se però si verificano determinati presupposti, la l. n. 689/1981 lo autorizza a non applicare le conseguenze sanzionatorie previste dal codice penale, ma quelle previste dalla legge sulle sanzioni sostitutive. Se poi la sanzione sostitutiva da applicare è pecuniaria, la commisurazione non avviene ai sensi dell’art. 133-bis Cp, ma ai sensi dell’art. 53 comma secondo l. n. 689/1981. L’applicazione di una sanzione sostitutiva, insomma, si manifesta a tutti gli effetti come un mutamento del “tipo” di conseguenza sanzionatoria previsto dal codice penale [7].
Com’è noto, nel processo penale la produzione degli effetti giuridici previsti dalle norme non è affare delle parti: nel rito ordinario, le parti possono “applicare” l’art. 133 Cp nel formulare le richieste sanzionatorie, ma da queste il giudice non è comunque mai vincolato. Nel patteggiamento, invece, le richieste delle parti «immettono nel quadro una norma speciale» [8]: il giudice non è più chiamato a valutare quale possibile sanzione deve essere applicata ad un determinato fatto, ma se ad un determinato fatto è possibile applicare una particolare norma sanzionatoria, analiticamente congegnata dalle parti. Si tratta, è evidente, di una disciplina retta dal consenso anticipato di entrambi i contraddittòri, la cui eccezionalità non ne permette l’estensione ad altri riti speciali pur dotati di elementi consensuali. La dinamica del decreto penale si presenta infatti in maniera diversa, perché in questo caso i veri “contraddittòri” sono p.m. e giudice, cui l’imputato si aggiunge solo in un secondo momento [9]. Nel caso del decreto, insomma, le parti non immettono alcuna norma speciale nel quadro decisorio, e il vincolo tra chiesto e pronunciato andrebbe riletto secondo le scansioni ordinarie: il p.m. dovrebbe limitarsi ad esplicitare gli elementi in base ai quali ritiene che, nel caso concreto (dal combinato disposto di una norma penale e dell’art. 459 co. 1-bis Cpp) vadano prodotte certe conseguenze sanzionatorie; il giudice, pur vincolato per legge a poter “applicare” solo una sanzione pecuniaria, potrebbe sempre “irrogarla” – ossia quantificarla – in misura diversa, nei limiti che il nuovo comma 1-bis gli concede. Nel caso del decreto penale di condanna ad una sanzione sostitutiva la corrispondenza tra chiesto e pronunciato sembrerebbe insomma confinata al quantum di pena detentiva richiesta e all’an della sua monetizzazione. La somma giornaliera che, in base alle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare, determina il costo del singolo giorno di detenzione, resta nella discrezionalità del giudice [10]. Le due ordinanze ponendo questioni analoghe sono state riunite per la trattazione e decise con unica sentenza In quanto entrambi i giudici rimettenti si dolgono in sostanza dell’eccessività del tasso giornaliero di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, che – in forza del rinvio compiuto dal censurato art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 all’art. 135 del codice penale – è attualmente pari a 250 euro. I Giudici delle Leggi hanno sostenuto l’inammissibilità delle questioni poste dall’ordinanza iscritta al n. 177 del r.o. 2020, sollevate dal GIP del Tribunale di Ravenna. La Consulta, infatti, ha ritenuto fondata l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato che aveva in proposito, eccepito l’insufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni. In sostanza ha fondato questa valutazione, sulla scorta del fatto “che il giudice rimettente aveva omesso di illustrare per quale ragione una pena pecuniaria sostitutiva di 20.000 euro in aggiunta alla multa di 2.222,22 euro – oggetto di specifica richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato, in sede di opposizione al decreto penale di condanna per il delitto di assunzione di lavoratori privi di valido permesso di soggiorno – debba ritenersi sproporzionata rispetto alle sue condizioni economiche, sulle quali lo stesso giudice a quo non fornisce alcuna informazione. Tale insufficiente descrizione della fattispecie concreta non consente a questa Corte di apprezzare la rilevanza delle questioni prospettate (sentenze n. 114 del 2021 e n. 254 del 2020; ordinanze n. 136 del 2021 e n. 147 del 2020).
La Corte Costituzionale ha poi proceduto allo scrutinio di ammissibilità delle questioni sollevate dal GIP del Tribunale di Taranto.
Nello specifico la Corte, in primis, ha ritenuto non fondata l'eccezione dell'Avvocatura generale dello Stato che aveva eccepito l’inammissibilità di tali questioni, in difetto di una soluzione costituzionalmente obbligata ai vulnera denunciati.
A sostegno della valutazione di infondatezza la Corte analizza proprio la sentenza n. 214 del 2014, invocata dall’interveniente. In particolare nella suddetta sentenza la Consulta aveva invero ritenuto l’inammissibilità di una questione sollevata sulla stessa disposizione, con la quale il rimettente chiedeva a questa Corte di fissare a 97 euro, anziché a 250, il tasso di conversione giornaliero della pena detentiva in pena pecuniaria. La Corte aveva allora rilevato come la soluzione proposta non fosse «costituzionalmente obbligata», ritenendo necessario un intervento da parte del legislatore in una materia riservata alla sua discrezionalità.
La Consulta partendo da quella sentenza individua come punto di arrivo e di snodo i successivi sviluppi della Giurisprudenza Costitutuzionale. A tal riguardo una ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte, successiva a quella sentenza, non ritiene più che l’impossibilità di individuare un’unica soluzione costituzionalmente obbligata al vulnus denunciato costituisca un ostacolo insuperabile all’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale, ben potendo questa Corte reperire essa stessa soluzioni costituzionalmente adeguate, già esistenti nel sistema e idonee a colmare temporaneamente la lacuna creata dalla stessa pronuncia di accoglimento della questione; ferma restando poi la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, una diversa soluzione nel rispetto dei principi enunciati da questa Corte. E ciò tanto in materia di dosimetria sanzionatoria (sentenze n. 185 del 2021, n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018, n. 236 del 2016), quanto altrove (ex multis, sentenze n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 242 del 2019 e n. 99 del 2019)[11].
In tal senso, il GIP del Tribunale di Taranto aveva indicato in rapporto di subordinazione, due possibili soluzioni a suo avviso costituzionalmente adeguate:
1) la prima consiste nella sostituzione del tasso di 250 euro giornalieri, previsto dall’art. 135 cod. pen., con quello minimo di 75 euro già previsto dall’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale in materia di decreto penale di condanna;
2) la seconda, dall’addizione alla disposizione denunciata della possibilità per il giudice di diminuire sino a un terzo il valore giornaliero di 250 euro in relazione alle condizioni economiche del reo, sulla base di quanto già previsto dall’art. 133-bis cod. pen.
La Corte ha ritenuto altresì non fondata l'eccezione dell'Avvocatura generale dello Stato che aveva eccepito l’aberratio ictus nella quale sarebbe incorso il giudice a quo, il quale erroneamente non avrebbe esteso le proprie censure all’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti): e dunque proprio alla disposizione che ha espunto dal testo della disposizione censurata il riferimento all’art. 133-bis cod. pen., che lo stesso giudice mirerebbe ora a ripristinare mediante la propria domanda formulata in via subordinata.
La Corte ha evidenziato infatti come il Gip del Tribunale di Taranto ha correttamente individuato la disposizione che stabilisce – attraverso il richiamo all’art. 135 cod. pen. – il meccanismo di conversione oggetto delle proprie censure.
D’altra parte, con il petitum formulato in via subordinata il rimettente non mira ad ottenere una – problematica – reviviscenza del frammento normativo che richiamava l’art. 133-bis cod. pen., abrogato dalla legge n. 134 del 2003, come sembrerebbe implicare l’eccezione formulata dalla difesa statale[12]
La Corte altresì in tema di reviviscenza di disposizioni a seguito di sentenze di illegittimità costituzionale, richiama la sentenza n. 7 del 2020 e ivi ulteriori riferimenti. Specificamente nella sentenza n. 7 del 2020 si evidenzia che: “Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate «non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate» (sentenza n. 13 del 2012) ….. In particolare, l’ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che sia meramente abrogativa di una norma precedente, la quale torna per ciò stesso a rivivere (sentenze n. 255 del 2019; n. 10 del 2018; n. 218 del 2015),[13] Nella sentenza n. 255 del 2019 si precisa che rientra l’abrogazione di «disposizioni meramente abrogatrici, perché l’unica finalità di tali norme consisterebbe nel rimuovere il precedente effetto abrogativo» e così facendo, in sostanza, il legislatore assume «per relationem il contenuto normativo della legge precedentemente abrogata» (sentenza n. 13 del 2012).[14] Nella sentenza n. 13 del 2012 si specifica altresì che: “l’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé non solo nella giurisprudenza di questa Corte (peraltro, in alcune pronunce, in termini di «dubbia ammissibilità»: sentenze n. 294 del 2011, n. 74 del 1996 e n. 310 del 1993; ordinanza n. 306 del 2000) e in quella ordinaria e amministrativa, ma anche in altri ordinamenti (come quello austriaco e spagnolo). Tale annullamento, del resto, ha «effetti diversi» rispetto alla abrogazione – legislativa o referendaria – il cui «campo […] è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale» (sentenza n. 1 del 1956)”. [15]
Come evidenziato dalla Corte Costituzionale, infatti, il Gip del Tribunale di Taranto individua chiaramente nella facoltà di diminuire sino a un terzo la pena pecuniaria minima prevista dall’art. 133-bis cod. pen. una soluzione normativa già esistente nel sistema, la quale – una volta estesa anche all’istituto della sostituzione della pena detentiva – sarebbe in grado di ricondurre a legalità costituzionale la disposizione censurata.
Dunque si configura una richiesta che la Corte ritiene pienamente ammissibile, alla luce delle considerazioni poc’anzi svolte.
Differentemente invece la Corte dichiara d’ufficio inammissibile la sola questione formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, non avendo il rimettente chiarito per quali ragioni la disciplina censurata ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea: ciò che condiziona in via generale, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, l’operatività dei diritti riconosciuti dalla Carta, e di conseguenza la stessa possibilità di invocarli quali parametri interposti nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 213, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021). Il che naturalmente non esclude la possibilità che i diritti della Carta possano essere utilizzati come strumenti interpretativi nella lettura delle stesse disposizioni costituzionali corrispondenti (come, ad esempio, nelle sentenze n. 33 del 2021, n. 102 del 2020, n. 272 del 2017 e n. 236 del 2016) [16].
3. Il contesto normativo:
3.1. Art. 53 secondo comma e art. 58 della legge 24 novembre 1981 n. 689
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 28 del 2022 si sofferma sul contesto normativo in particolare parte dal ribadire il contenuto della norma che è motivo di doglianza in punto di legittimità e specificamente afferma che “l’art. 53 della legge n. 689 del 1981 prevede che le pene detentive brevi possano essere sostituite dal giudice con le pene sostitutive della semidetenzione, della libertà controllata e della pena pecuniaria entro i limiti massimi, rispettivamente, di due anni, un anno e sei mesi”. Non dimentica tuttavia di evidenziare la collocazione della suddetta norma a livello sistematico facendo riferimento al successivo art. 58 che “disciplina l’esercizio di tale potere discrezionale da parte del giudice. Sulla base dei generali criteri per la commisurazione della pena indicati dall’art. 133 cod. pen., il giudice valuta anzitutto se sostituire la pena, essendo tenuto a non farlo allorché presuma che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato, oltre che in presenza delle cause ostative enumerate dall’art. 59 della stessa legge n. 689 del 1981; nel caso poi in cui opti per la sostituzione, «sceglie quella più idonea al reinserimento sociale del condannato»”[17].
Nel prosieguo la Consulta si sofferma sull'ultima modifica dell'art. 53 ad opera dell’art. 4 della legge n. 134 del 2003, che ha fatto sì che la disposizione preveda, in particolare, un sistema di determinazione della pena pecuniaria sostitutiva per tassi giornalieri, la lettera della norma infatti recita: il giudice «individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva», tenendo conto – ai fini della determinazione di tale valore giornaliero – «della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare». Tale valore giornaliero non può peraltro «essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare». La pena pecuniaria complessiva risultante può, infine, essere soggetta al beneficio della rateizzazione previsto dall’art. 133-ter cod. pen., pure richiamato dalla disposizione in esame[18].
3.2. Il criterio di ragguaglio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 cod. pen.
Le censure del GIP del Tribunale di Taranto si appuntano sul limite minimo del tasso di conversione giornaliero che il giudice è tenuto a stabilire: limite minimo determinato mediante il rinvio, pacificamente considerato come “mobile”, all’art. 135 cod. pen. [19].
La Consulta ha poi richiamato la sentenzache ha ben individuato la genesi del problema, ossia la sentenza n. 214 del 2014 da cui emerge che “ il criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen. – il quale consente di impostare in termini matematici una proporzione fra entità, in sé, palesemente eterogenee – nella versione originaria del codice penale, era contenuto in in cinquanta lire di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva”, ha dovuto assumere le forme della contemporaneità, soprattutto a seguito del passaggio dalla Lira all'Euro. Il risutato è stato, come emerge nero su bianco dalla sentenza n. 214 del 2014 che “il criterio di ragguaglio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 cod. pen. – e, con esso, l’importo minimo delle pene pecuniarie applicabili dal giudice in sostituzione delle pene detentive brevi – è stato, come detto, quasi quintuplicato, con un aumento in termini reali stimabile nel 349,64% e, quindi, enormemente superiore” [20].
La Consulta specifica altresì che, l'importo di “cinquanta lire di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. “ è stato oggetto di reiterati interventi di adeguamento, sollecitati dalla progressiva perdita del potere di acquisto della moneta, cui ha fatto da contraltare un contemporaneo aumento delle pene pecuniarie previste dalle singole norme incriminatrici, sulla base di un moltiplicatore talora identico (artt. 3 e 6 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 679, recante «Modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale»; artt. 101 e 113 della legge n. 689 del 1981), talaltra più o meno significativamente differenziato (artt. 5 e 7 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 21 ottobre 1947, n. 1250, recante «Aumento delle sanzioni pecuniarie in materia penale»; artt. 1 e 3 della legge 12 luglio 1961, n. 603, recante «Modificazioni agli articoli 24, 26, 66, 78, 135 e 237 del Codice penale e agli articoli 19 e 20 del regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935 n. 835») [21].
La sentenza n. 214 del 2014 richiama inoltre le molteplici modifiche che hanno ridisegnato la norma in modo disarmonico, nello specifico afferma che “...in particolare, l’art. 101 della legge n. 689 del 1981 innalzò da 5.000 a 25.000 lire per ogni giorno di pena detentiva tale coefficiente, che fu ulteriormente elevato a 75.000 lire dalla legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135 del codice penale: ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive); somma poi arrotondata a 38 euro in seguito all’introduzione della moneta unica.
Infine, la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha drasticamente innalzato il criterio di ragguaglio alla misura oggi oggetto delle censure del rimettente, pari a 250 euro giornalieri: con una modifica che, come sottolineato ancora nella sentenza n. 214 del 2014, «torna a vantaggio dell’imputato, allorché sia la pena pecuniaria a dover essere ragguagliata alla pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della fruibilità dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale); mentre va a suo discapito nell’ipotesi inversa, così come tipicamente avviene quando si discuta dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 53 della legge n. 689 del 1981»” [21].
A seguito di questa attenta disamina la Corte Costituzionale nella sentenza n. 28 del 2022 dichiara la fondatezza delle questioni sollevate dal GIP del Tribunale di Taranto sull’eccessività di tale limite minimo, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., sono fondate [22].
4. La sentenza ridisegna l'architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, tassello centrale dell'Ordinamento che è il luogo d'identità del nostro tempo
La sentenza n. 28 del 2022 ribadisce altresì che “ Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (per una più estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019), ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012, n. 409 del 1989, n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 136 e 73 del 2020, n. 284 e 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 341 del 1994). Il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità.Il limite costituzionale in parola non può non valere anche per la pena pecuniaria, che è una sanzione criminale a tutti gli effetti, seppur con una precisazione imposta dalla sua stessa natura”. [23].
Emerge dunque da questo passaggio che la parola Proporzione, una parola che, nella Grecia Classica era segno di perfezione.
Si ricordi infatti che Vitruvio, architetto e scrittore romano, autore del De architectura, unico Trattato di Architettura dell'antichità pervenutoci, nel libro terzo scrive che «La composizione del tempio è una simmetria; il cui calcolo gli architetti debbono scrupolosamente conoscere e applicare. La simmetria nasce dalla proporzione, in greco ἀναλογία. E la proporzione è la commisurabilità di ogni singolo memebo dell'opea e di tutti i memebri nell'insieme dell'opera, per mezzo di una determinata unità di misura o modulo; questa commisurabilità costituisce il calcolo o sistema delle simmetrie. È infatti chiaro che nessun tempio potrebbe presentare un sistema di costruzione senza simmetria e senza proporzione; se cioè non abbia avuto un esatto calcolo delle sue memebra, come nel caso di un uomo ben formato.» [24]
Dunque la parola Proporzione continua nella modernità a preservare il significato di perfezione divenendo anche la parola chiave del sistema sanzionatorio.
Per sottolineare l'importanza del binomio proporzione e pena pecuniaria la Corte richiama la sentenza n. 131 del 1979 in cui si ribadisce che “ la pena detentiva comprime la libertà personale, che è «bene primario posseduto da ogni essere vivente», mentre la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che «non inerisce naturalmente alla persona umana»; di talché la pena pecuniaria naturalmente «comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati». Dunque, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato. Di qui, aveva proseguito questa Corte, la ricerca da parte di molti legislatori contemporanei «di rimedi, atti a salvaguardare l’efficacia e la concreta uguaglianza dell’effetto della pena pecuniaria, mediante meccanismi d’adeguamento alle diverse condizioni economiche dei condannati».
Un tale adeguamento, come rileva l’odierno rimettente, deve ritenersi imposto dal principio di eguaglianza, da cui discende il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3, secondo comma, Cost.).
Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, il vaglio che questa Corte è chiamata a compiere sulla manifesta sproporzione della pena pecuniaria non potrà che confrontarsi con il dato di realtà del diverso impatto del medesimo quantum di una tale pena rispetto a ciascun destinatario. Tale diverso impatto esige di essere “compensato” attraverso uno di quei rimedi cui aveva fatto cenno la sentenza n. 131 del 1979, in modo che il giudice sia posto nella condizione di tenere debito conto – nella commisurazione della pena pecuniaria – delle condizioni economiche del reo, oltre che della gravità oggettiva e soggettiva del reato [25]. La Corte Costituzionale conscia delle necessità di considerare il diritto comparato ossia storie ed esperienze sedimentate degli altri ordinamenti, ricorda - in riferimento alla illegittimità costituzionale di pene pecuniarie suscettibili di risultare gravemente sproporzionate rispetto alle concrete condizioni economiche dei singoli condannati -, la sentenza della Corte Suprema del Canada del 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault, 3 SCR 599)” [26].
La sentenza Corte Suprema del Canada del 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault,infatti nel caso di specie ha dichiarato incostituzionale la sovrattassa obbligatoria per le vittime prevista a carico di tutti i condannati per un crimine. La suddetta pratica, trasformatasi da opzionale ad obbligatoria per il Magistrato a partire dal 2013, aveva sì uno scopo nobile ma veniva attuata senza considerare che la maggior parte del tessuto sociale inquinato dalla criminalità vive in condizioni di indigenza [27].
Questo passaggio fa capire l'enorme importanza della sentenza n.28 del 2022 che ridisegna in modo vitruviano la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, ossia un aspetto importantissimo del sistema sanzionatorio. La scrivente, in tal senso evidenzia che il sistema sanzionatorio è il cuore dell'ordinamento giuridico che è il luogo della nostra identità ed oggi più che mai è luogo per eccellenza del nostro tempo. Non occorre dimenticare, infatti che il codice è molto di più di un luogo di conservazione ed esposizione di norme. È importante staccarsi dal concepire il sistema normativo come se fosse un Museo. Appunto, come poc'anzi affermato, è un luogo di identità, un luogo che rispecchia la civiltà della nostra Nazione. Come affermato da autorevole dottrina (VG. Severini, P. Carpentieri) l'ordinamento è specchio di una società e del suo sistema di valori, nel diritto non esiste bene giuridico, materiale o immateriale, che non sia preso in considerazione come tale e dunque regolato per un “valore” che lato sensu è comunque culturale: ossia per quanto questo esprime, e merita di essere disciplinato, nelle relazioni intersoggettive, che di loro sono “culturali” perchè espressione di una data Kutur [28].
Preso atto della inadeguatezza del sistema carcero-centrico, la scrivente è convinta che è possibile ripensare il sistema carcerario attraverso dei piccoli correttivi al sistema delle pene pecuniarie. Lo studioso Bosch affermava: “il legislatore Rocco non utilizzando le potenzialità politico-criminali della pena pecuniaria, ha fatto invecchiare di mezzo secolo il codice penale in uno dei suoi punti decisivi” [29].
Solo riformando le pene pecuniarie è possibile restituire al carcere la sua originaria funzione che è quella di custodire gli uomini, non punitiva. Un aspetto ben descritto da Ulpiano che sulla scia dei precetti della normazione Imperiale, biasimava l'abitudine di alcuni governatori di erogare condanne a pene detentive:
I governatori delle province sono soliti condannare al carcere o ai ceppi: ma non è opportuno che infligga non simili punizioni, poiché è fatto divieto di erogare pene di questo tipo. Il carcere, infatti, è destinato a custodire gli uomini, non a punirli (Dig 48.19.8.9) [30].
4.1. Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 si ispira al modello dei tassi giornalieri: significato dell’intervento della Corte costituzionale
La Corte Costituzionale altresì richiama la famosa sentenza n. 131 del 1979, attraverso la quale “il diritto comparato mostra poi che numerosi ordinamenti hanno adottato in via generale – proprio per meglio assicurare l’eguaglianza “sostanziale” – il sistema cosiddetto dei tassi giornalieri, caratterizzato dalla scomposizione del processo di commisurazione della pena pecuniaria in due fasi distinte: una prima fase, nella quale si stabilisce, sulla base della gravità oggettiva e soggettiva del reato, il numero delle quote giornaliere che il condannato è tenuto a pagare; e una seconda fase, in cui viene fissato il valore di ciascuna quota, sulla base delle condizioni economiche del condannato stesso – e in particolare della quota di reddito giornaliero che si presume egli possa ragionevolmente impiegare per il pagamento della pena pecuniaria, tenuto conto anche dell’ammontare del patrimonio di cui risulti disporre [31].
Secondo Boaventura de Sousa Santos, sociologo e antropologo del diritto portoghese, il pluralismo giuridico è il concetto chiave della concezione post – moderna del diritto. Non si tratta , secondo lo studioso, del pluralismo giuridico inteso come esistenza di diversi ordinamenti giuridici “ concepiti come entità separate presenti nel medesimo spazio politico-sociale”, ma di una concezione secondo la quale “ spazi giuridici sono imposti, e intrecciati nella nostra mente e nelle nostre azioni giuridiche”. ( B. de Sousa Santos, “Law. A Map of Misreading. Toward a Postmodern Conception of Law” in Journal of Law and Society, 1989) Sousa Santos mette in luce la molteplicità e insieme l’intreccio di norme di origine diversa- statale, transnazionale, consuetudinaria, religiosa , familiareche influenzano le azioni e le scelte delle persone, dando luogo a ciò che egli definisce interlegalità. Sostiene lo studioso che “ Forse più di ogni altra epoca , viviamo in un tempo di porosità e, pertanto anche di porosità giuridica, di diritto poroso costituito da molteplici reti di giuridicità che ci obbligano a costanti transizioni e trasgressioni. La vita socio-giuridica di fine secolo è, così, costituita dalla interazione di differenti linee di frontiera giuridiche, frontiere porose e, come tali, simultaneamente aperte e chiuse. Questa intersezione io la chiamerei interlegalità, dimensione fenomenologica del pluralismo giuridico”. (B. de Sousa Santos, “Stato e diritto nella transizione post-moderna, Per un nuovo senso comune giuridico” in Sociologia del diritto, 3, 1990). Il pluralismo giuridico non è dunque , secondo Sousa Santos, una realtà , ma una teoria, la rappresentazione fenomenica della quale è l’interlegalità, ove il soggetto opera continuamente scelte tra norme prodotte da ordini diversi [32].
La stessa Corte nella sentenza n. 22 del 2022, in riferimento al sistema dei tassi giornalieri, tenendo ben presente questo concetto suggestivo degli “ spazi giuridici...intrecciati nella nostra mente e nelle nostre azioni giuridiche”. elaborato dal sociologo Boaventura de Sousa Santos, cita a livello esemplificativo immagini estemporanee di altri ordinamenti europei contemporanei l’art. 131-5 del codice penale francese” [33], il § 40 del codice penale tedesco, il § 19 del codice penale austriaco, l’art. 50 del codice penale spagnolo, l’art. 47 del codice penale portoghese[34] )” [35] .
La Consulta partendo da questa premessa sulla disposizione oggetto di doglianza (Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689) specifica che “si ispira, in effetti, al modello dei tassi giornalieri, stabilendo che per ogni giorno di pena detentiva sostituita il giudice debba individuare il «valore giornaliero cui può essere assoggettato l’imputato», tenendo conto «della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare»”. Nel prosieguo evidenzia il relativo punto debole ossia che la norma scrutinata “prevede altresì che tale valore giornaliero non possa essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 cod. pen., che, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 94 del 2009, è oggi pari a 250 euro. E tale limite minimo è attualmente da intendersi come inderogabile, non essendo più possibile la diminuzione sino a un terzo che in precedenza era consentita dal richiamo all’art. 133-bis cod. pen., ora eliminato dal testo della disposizione censurata per effetto delle modifiche introdotte dalla legge n. 134 del 2003” [36]. La Corte Costituzionale in questa lucida analisi ci restituisce un'immagine non astratta, ma molto concreta e della società contemporanea affermando che “ Una quota giornaliera di 250 euro è, all’evidenza, ben superiore a quella che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare, in relazione alle proprie disponibilità reddituali e patrimoniali. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone, sol che si consideri ad esempio – come già osservato nella sentenza n. 15 del 2020 – che «il minimo legale della reclusione, fissato dall’art. 23 cod. pen. in quindici giorni, deve oggi essere sostituito in una multa di almeno 3.750 euro, mentre la sostituzione di sei mesi di reclusione (pari al limite massimo entro il quale può operare il meccanismo previsto dall’art. 53, comma 2, della legge n. 689 del 1981) dà luogo a una multa non inferiore a 45.000 euro»” [37].
D’altronde nello stesso comunicato del 1 febbraio 2022 la Corte Costituzionale pone in evidenza quello che è l'emblematico caso esaminato dal Tribunale di Taranto, ossia “una persona condannata per violenza privata, per il parcheggio dell’auto davanti a un passo carraio, aveva patteggiato la sostituzione della pena di tre mesi di reclusione e quindi, in base alla norma censurata, avrebbe dovuto pagare ben 22.500 euro, molto più dei suoi redditi annui.”[38]. Nel prosieguo ribadisce il drammatico quadro già emerso nella sentenza n. 15 del 2020, ossia una presa d'atto che una quota giornaliera di conversione così elevata «ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce». Al tempo stesso, la disposizione censurata ha finito per «trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti», in contrasto con l’art. 3 Cost [39]. Come evidenziato dalla Corte infatti, è proprio in risposta a queste invisibili escussioni continue che, rompendo la dicotomia tra preservamento ed avanguardia è stato posto il “criterio stabilito dall’art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), con cui si delega il Governo a prevedere che il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato il condannato in caso di sostituzione della pena detentiva, debba essere individuato, nel minimo, «in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale», così da «evitare che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del condannato»”[40]. La Corte dunque prende atto del cortocircuito che si pone nel sistema sanzionatorio ed a due anni dal monito contenuto nella sentenza n. 15 del 2020 pone in essere un intervento commentativo. Un intervento che da commentativo diventa operativo e conscio delle ricadute a livello sociale, vuole evitare gli effetti nocivi che potrebbe avere “la semplice ablazione della disposizione censurata renderebbe impossibile la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria”, in quanto ciò avrebbe come diretta conseguenza il pregiudizio della “ funzionalità di uno strumento importante, anche se oggi sottoutilizzato proprio in ragione dell’incongruità della disciplina censurata, per «contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria» (sentenza n. 179 del 2017): ciò che determinerebbe un «insostenibile vuoto di tutela» per interessi costituzionalmente rilevanti (sentenza n. 185 del 2021, nonché sentenza n. 222 del 2018)”[41]. Ed è questo punto che la Corte prendendo atto della vulnerabilità dell'ordinamento che non riesce a dare tutte le risposte, offre una narrazione che ridisegna l'architettura dell'ordinamento. Nello specifico ridisegna l'architettura dell'ordinamento adeguandola alle richieste di giustizia della società civile, affermando in tal senso la necessità di “reperire nel sistema soluzioni normative già esistenti, che consentano di porre almeno provvisoriamente rimedio agli accertati vizi di legittimità costituzionale, assicurando al contempo la perdurante operatività della sostituzione della pena detentiva. Al riguardo, questa Corte non può allo stato che ricorrere alla soluzione – suggerita dal petitum formulato in via principale dal giudice rimettente – consistente nella sostituzione del minimo di 250 euro con quello di 75 euro per ogni giorno di pena detentiva sostituita, stabilito dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in relazione al decreto penale di condanna; soluzione che peraltro poco si discosta, nell’esito pratico, da quella – prospettata attraverso il petitum formulato in via subordinata – di ripristinare la possibilità per il giudice di diminuire sino a un terzo la pena pecuniaria minima, prevista in via generale dall’art. 133-bis, secondo comma, cod. pen. (ciò che condurrebbe a fissare a circa 83 euro il minimo del valore giornaliero))Non è invece necessaria – né è richiesta dal rimettente – alcuna modifica relativa al massimo del valore giornaliero, che deve pertanto rimanere ancorato alla misura – fissata dal legislatore – pari a dieci volte l’ammontare stabilito dall’art. 135 cod. pen., e dunque, oggi, a 2.500 euro; ciò che consente di mantenere una differenza di regime tra l’ordinaria sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, disciplinata dalla disposizione censurata, e quella speciale prevista dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in materia di decreto penale di condanna, che prevede un valore giornaliero massimo pari a tre volte la somma di 75 euro (e cioè pari a 225 euro)”[42].
In definitiva la Corte restituisce centralità all'individuo ed alla società civile tutta affermando che , “la disposizione censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui, al quarto periodo, prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale»”[43]. In sostanza la Corte restituisce vivibilità al sistema sanzionatorio che, nel momento in cui l'individuo sbaglia, altri non è che un luogo dell'incontro tra lo stesso individuo e lo Stato.
Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689
(…) La sostituzione della pena detentiva ha luogo secondo i criteri indicati dall'articolo 57. Per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale puo' essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell'ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condi-zione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non puo' essere inferiore alla somma indicata dall'articolo 135 del codice penale e non puo' superare di dieci volte tale ammontare. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l'articolo 133-ter del codice penale.
| (…) La sostituzione della pena detentiva ha luogo secondo i criteri indicati dall'articolo 57. Per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale puo' essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell'ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condi-zione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non puo' essere inferiore a 75 euro e non puo' superare di dieci volte tale ammontare*. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l'articolo 133-ter del codice penale.
|
*Art. 459. Casi di procedimento per decreto. Codice di procedura penale
1-bis. Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell’ammontare di cui al periodo precedente il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma di euro 75 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non può superare di tre volte tale ammontare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del codice penale. () Comma inserito dall’art. 1, comma 53, L. 23 giugno 2017, n. 103.
[1] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[1] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[2] Comunicato del 1 febbraio 2022 dell'Ufficio stampa della Corte Costituzionale, Troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria, consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20220201123330.pdf
[3] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[4] A. LARUSSA, Pena detentiva breve sostituita con pena pecuniaria,Altalex , 10/02/2021 consultabile al seguente indirizzo url https://www.altalex.com/documents/news/2021/01/07/sostituzione-di-pena-detentiva-in-pena-pecuniaria-questione-rimessa-alla-consulta
[5] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[6] Ordinanza del 14 aprile 2021 del G.I.P. del Tribunale di Taranto consultabile al seguente indirizzo url https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-09-15&atto.codiceRedazionale=21C00188
[7] V. Aiuti, Condanna per decreto alla pena pecuniaria sostitutiva, La legislazione penale, 16.12.2017, consultabile al seguente indirizzo url http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/12/V-Aiuti-Condanna-per-decreto-alla-pena-pecuniaria-sostitutiva.pdf ; L’Autore cita G. Giostra, Formalità e garanzie nell’applicazione delle «nuove» sanzioni sostitutive, in PD 1982, 279; G. Paolozzi, Il procedimento alternativo, cit., 208 – 211; L. Marafioti, In tema, cit., 201; G. Piziali, Il procedimento, cit., 522. La “traccia” di questo percorso logico è contenuta nel dispositivo della sentenza, che deve menzionare (art. 61 l. n. 689/1981) sia la sanzione che avrebbe dovuto essere applicata a norma del codice, sia quella che viene applicata in concreto grazie alla disciplina sulle sanzioni sostitutive.
[8] V. Aiuti cita F. Cordero, Procedura penale Milano 2012
[9] V. Aiuti, Condanna per decreto alla pena pecuniaria sostitutiva, La legislazione penale, 16.12.2017 evidenzia che: “«Nel nuovo codice l’emissione del decreto penale è frutto di un confronto dialettico tra chi il provvedimento ha chiesto e chi il provvedimento deve emettere» (E. Selvaggi, sub art. 460 Cpp, in Commento Chiavario, cit., 873, corsivi nostri). Questo ritardo è però compensato sul piano degli effetti, visto che le scelte dell’imputato possono ricusare del tutto la soluzione monitoria della vicenda (è la memoria difensiva sulla Natura giuridica dell’opposizione al decreto penale di condanna di G. Vassalli di fronte a C. cost. 18.3.1957 n. 46 a definire l’opposizione, sulla scia di G. Delitala [Il divieto della reformatio in pejus nel processo penale, Milano 1927, 11], come un modo dell’imputato per «ricusare una forma di procedimento che per il suo carattere di sommarietà ha portato al sacrificio dei suoi diritti di difesa» [in GCos 1957, 587, corsivo nostro]))”
[10] V. Aiuti, Condanna per decreto alla pena pecuniaria sostitutiva, La legislazione penale, 16.12.2017, consultabile al seguente indirizzo url http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/12/V-Aiuti-Condanna-per-decreto-alla-pena-pecuniaria-sostitutiva.pdf
[11] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[12] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[13] Corte Cost. n. 7 del 2020 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[14] Corte Cost. n. 255 del 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[15] Corte Cost. n. 13 del 2012 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[16] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[17] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[18] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[19] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[20] Corte Cost. 09 luglio 2014 n. 214 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[21] Corte Cost. n. 214 del 2014
[22] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[23] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[24] Vitruvio, Architettura, Introduzione di Stefano Maggi, testo critico traduzione e commento di Silvio Ferri, BUR, 2002
[25] La Corte nella sentenza n. 28 del 2022 evidenzia altresì che “ A questa esigenza è ispirato, nell’ordinamento italiano, l’art. 133-bis cod. pen., che, al primo comma, impone al giudice di tenere conto delle condizioni economiche del reo nella determinazione dell’ammontare della multa e dell’ammenda e, al secondo comma, prevede la possibilità di un aumento sino al triplo del massimo stabilito dalla legge, nonché di una diminuzione sino a un terzo del minimo, allorché il giudice ritenga «che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa». Analogamente, in materia di sanzioni amministrative pecuniarie, l’art. 11 della legge n. 689 del 1981 dispone che, in sede di determinazione di tali sanzioni, si debba tenere conto, oltre che della gravità della violazione e di eventuali condotte compiute dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle sue conseguenze, anche della personalità e delle condizioni economiche dell’agente medesimo; mentre, nel settore specifico delle violazioni in materia di tutela dei mercati finanziari – caratterizzato da sanzioni pecuniarie amministrative di natura punitiva e di impatto potenzialmente assai significativo – l’art. 194-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) parimenti dispone che nella determinazione dell’ammontare delle sanzioni debba tenersi conto, tra l’altro, della «capacità finanziaria del responsabile della violazione» (comma 1, lettera c).”
[26] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[27] Corte Suprema del Canada, sentenza del 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault,consultabile al seguente indirizzo url https://scc-csc.lexum.com/scc-csc/scc-csc/en/item/17416/index.do
[28] VG. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convezione di Faro “ sul valore del patrimonio culturale per la società”: : politically correct vs. tutela dei beni culturali? In AAVV Scritti in onore di Bruno Cavallo, Giappichelli, Torino, 2021 pag. 320
[29] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[30] B. SANTALUCIA, La giustizia penale in Roma antica, Il Mulino, Bologna, 2013, pag. 110
[31] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[32] L. MANCINI, Introduzione all’antropologia giuridica, Giappichelli, Torino 2015 pag. 41-42
[33] La studiosa L. Goisis Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it specifica in tal senso che ”Ferma restando la tradizionale tripartizione dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni, rimane immutata anche la distinzione fra peines criminelles (per i crimini), peines correctionnelles (per i delitti) e peines contraventionnelles (PONCELA 2001). Nell’ambito di tale tripartizione, trova ampio spazio la pena pecuniaria (amende), la quale viene innovativamente prevista anche quale pena criminale, oltre che come pena per le persone giuridiche (personnes morales). Oltre all’amende, è previsto altresì l’istituto della jours-amende (pena per tassi giornalieri) (ROURE 1996) . L’amende resta tuttavia la principale pena in materia correzionale (e contravvenzionale) (art. 131-3 c. pén.). Il catalogo delle pene correzionali – ampliato ad opera del nuovo codice penale proprio con il fine di far sì che la pena dell’arresto in materia correzionale non sia che una delle sanzioni possibili – prevede quali pene alternative all’arresto (emprisonnement) e all’ammenda (amende), oltre alle importanti pene privative o restrittive di diritti e al lavoro socialmente utile (travail d’intérêt général), anche la jours-amende, ossia la pena pecuniaria commisurata secondo il sistema dei tassi giornalieri, anche detta ammenda giornaliera. Si tratta di una pena pecuniaria a tempo, sul modello della Laufzeitgeldstrafe tedesca: essa dura per il tempo determinato dal numero dei tassi giornalieri e l’esigibilità dell’ammontare globale dell’ammenda è possibile solo allo scadere del termine corrispondente al numero dei jours-amende inflitti. Ciò al fine di rendere maggiormente afflittiva la sanzione, mantenendo vivo nel tempo l’effetto intimidativo della pena (GOISIS 2008). L’ordinamento francese dal punto di vista della prassi della pena pecuniaria, a dispetto della ampia previsione legislativa della pena pecuniaria, si segnala (anche se i dati sono scarni) per un ruolo marginale (36%, INSEE 2017) svolto dalla pena pecuniaria e un tasso di riscossione della pena contenuto (25%) (BERNARDI 1990), ma la ragione di ciò sembra da ricondurre alla negativa convivenza fra i due sistemi di commisurazione, a somma complessiva e per tassi giornalieri”.
[34] La studiosa L. Goisis Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it specifica in tal senso che "In definitiva, l’archetipo scandinavo del modello per tassi giornalieri è oggi accolto con successo, soprattutto in termini di effettività della sanzione, in numerosi Paesi europei – Germania, Austria, Polonia, Ungheria, Spagna, Portogallo, Francia, Italia (solo sul terreno della pena pecuniaria sostitutiva), Slovenia, Croazia e Svizzera, cosicché, sotto questo aspetto, la disciplina dell’istituto a livello europeo si presenta maggiormente uniforme. Con ciò non si intende affatto ignorare che il modello per tassi giornalieri presenta nella legislazione dei diversi Paesi considerati significative divergenze di disciplina – basti pensare alla diversità e alla varietà dei criteri per la valutazione delle condizioni economiche e personali del reo e per la determinazione dell’ammontare del tasso giornaliero in Germania (reddito netto), in Spagna (capacità media giornaliera di consumo del reo, che dovrà essere ridotta fino al minimo necessario per il suo sostentamento), in Francia (quanto il reo possa risparmiare in un giorno, tenendo conto degli oneri familiari e del suo tenore di vita), in Polonia (le entrate che residuano dopo la soddisfazione dei bisogni primari quale base del calcolo) – e che esso non è stato accolto ovunque in via esclusiva, poiché in molti Paesi il sistema per tassi giornalieri convive ancora con il sistema a somma complessiva (si pensi alla Spagna e all’Italia) con esiti sanzionatori contraddittori e irrazionali, e in altri (la Francia e ancora l’Italia) esso è accolto nella sola commisurazione della pena pecuniaria quale sanzione sostitutiva della pena detentiva breve. Tali divergenze non sono tuttavia in grado di inficiare una linea tendenziale di adeguamento della disciplina relativa alla commisurazione della pena pecuniaria verso il modello commisurativo che più ha dato buona prova di sé e che la unanime dottrina europea ed internazionale addita da lungo tempo ormai quale modello, perfettibile, eppure ideale, capace di garantire sia la cd. opfergleicheit, ossia l’uguaglianza nella sofferenza, sia l’effettiva riscossione della pena in denaro (GOISIS 2008).
[35] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[36] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[37] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[38] Comunicato del 1 febbraio 2022 dell'Ufficio stampa della Corte Costituzionale, Troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria, consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20220201123330.pdf
[39] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28; Corte Cost. del 2020 n. 15 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[40] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28;
[41] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28;
[42] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28;
[43] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28.
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto - Editoriale
Perché andare a ricercare, oggi, all’interno delle biblioteche, la verosimilmente impolverata opera Dei Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini?
Quale il senso di riportare, ai nostri tempi, al centro della riflessione una categoria, quella dei doveri, decisamente scomoda, a fronte di quella decisamente più accattivante e friendly dei diritti?
La pandemia che ha sconvolto il mondo nel 2020 ha sicuramente fatto la sua parte ed i tragici eventi che stiamo vivendo con l’invasione dell’Ucraina hanno anch’essi, ancora una volta inaspettatamente, stimolato una riflessione sempre più forte sui fondamenti delle democrazie contemporanee, sui limiti che occorre necessariamente porre all’espansione dei diritti quando se ne intenda salvaguardare in via esclusiva e prevalente la dimensione egoistica e solitaria, perdendo di vista la dimensione sociale delle persone e, con essa, l’esistenza della comunità e del benessere collettivo che, con fatica, merita di essere considerato e protetto proprio per consentire l’espansione massima delle persone e dei loro diritti.
Le restrizioni subite nei periodi di lockdown hanno forse prodotto qualche fiore inaspettato e, molto più banalmente, hanno dato il via a questa riflessione a più voci con studiosi e giuristi del nostro tempo di diversa estrazione e di generazioni diverse.
La ricorrenza del 150° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini è allora solo l’occasione per riportare al centro della riflessione un lavoro affatto recente verso il quale, tuttavia, molte generazioni del dopoguerra dovrebbero nutrire un sentimento di riconoscenza se solo si ponga mente a quanto alcune delle prospettive coltivate nell’Opera ebbero a trovare ampio risalto nella Costituzione.
Ma, ed il punto che la Rivista ha inteso focalizzare è proprio questo, alla lettura pur accorta dell’operatore sembra utile affiancare, in quest’idea di rivitalizzazione ed attualizzazione dello scritto mazziniano la voce di giuristi di notevole spessore, tutti testimoni del nostro tempo e capaci di offrire una visione più approfondita, più “culturale” e meno epidermica che appunto possa accompagnare delicatamente i lettori.
Per questo si è pensato di rivolgere ad Ida Nicotra, Lara Trucco, Alessandro Morelli, Renato Rordorf e Luigi Salvato alcune domande, affidando ad Antonio Ruggeri il compito di svolgere una riflessione finale, tirando le fila del forum.
Le interviste saranno pubblicate a partire dal 10 marzo 2022.
Apertura di borse senza l’autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente: la soluzione delle Sezioni Unite (Cass. Civ., Sezioni Unite, sentenza n. 3182 del 2022)
di Ginevra Iacobelli
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a pronunciarsi sulla legittimità delle prove acquisite dai verificatori, in sede di verifica fiscale, hanno statuito che “… il consenso libero, reso in assenza di alcuna costrizione, né diretta né indiretta perché correlata alla prospettazione di conseguenze sfavorevoli, del contribuente alla consegna della borsa sia idoneo a soddisfare le ragioni che il legislatore ha inteso tutelare nel richiedere il provvedimento autorizzativo” specificando che “ai fini della valida espressione del consenso alla apertura della borsa non è necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica”.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a risolvere i seguenti principi di diritto: “se, in caso di apertura della valigetta reperita in sede di accesso, la mancanza di autorizzazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3, possa essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto; se, nel caso in cui si dia risposta positiva alla prima questione, il consenso può dirsi libero ed informato anche qualora l'amministrazione finanziaria non abbia informato il titolare del diritto della facoltà, di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 2, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria; se, infine, l'eventuale inosservanza del suddetto obbligo di informazione ed il conseguente vizio del consenso del titolare del diritto comporti l'inutilizzabilità della documentazione acquisita in mancanza della prescritta autorizzazione”.
Il Supremo Consesso, richiamando le questioni poste dall’ordinanza di rimessione (per il commento si rinvia a https://www.giustiziainsieme.it/it/news/126-main/diritto-tributario/1742-apertura-di-borse-senza-autorizzazione-della-procura-della-repubblica-ma-con-il-consenso-del-contribuente-la-questione-al-vaglio-delle-sezioni-unite?hitcount=0) muove dall’individuazione del quadro normativo, richiamando l’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 e l’art. 12 della legge n. 212 del 2000 (d’ora innanzi, Statuto del contribuente) .
In particolare, la prima norma richiamata prevede che “Gli uffici possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. In ogni caso, l’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato. 2. L’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni. 3. È in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità Giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’articolo 103 del codice di procedura penale”.
La previsione normativa, come osservano le Sezioni Unite, contiene una disciplina composita che riguarda gli accessi, le ispezioni e le verifiche dell’amministrazione fiscale: i primi due commi dell’art. 52 riguardano la possibilità di accesso nei locali destinati all’esercizio dell’attività, o dell’abitazione promiscuamente adibita anche a tale attività o presso l’abitazione stessa del contribuente; il terzo comma, invece, disciplina il compimento di atti istruttori tra loro non omogenei, tra cui perquisizioni personali, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, ecc.
Il comma 3, nel dettaglio, con riguardo all’autorizzazione del P.M. o dell’autorità giudiziaria per il compimento di atti diversi, contempera l’esigenza dell’amministrazione di esercitare proficuamente i poteri necessari a garantire la pretesa impositiva con l’esigenza del contribuente un pregiudizio alle libertà costituzionali che vengono di volta in volta in rilievo.
Nel dettaglio, le Sezioni Unite tratteggiano i diritti che entrano in gioco in caso di acquisizione coattiva di borse durante l’accesso nel corso della verifica fiscale e non concordano con quella parte della dottrina, richiamata dall’ordinanza di rimessione, che individua il parametro costituzionale di riferimento nell’art. 15 Cost. che tutela la segretezza delle comunicazioni.
La segretezza delle comunicazioni, infatti, presuppone l’esistenza di uno scambio della corrispondenza che non viene in rilievo in caso di apertura di borse. Quel che entra in gioco è, piuttosto, un’esigenza di “segretezza” insita nella libertà della persona o del domicilio.
In tal senso, la sentenza in commento distingue il caso in cui la borsa costituisca elemento intrinsecamente collegato ed a stretto contatto con l’individuo che la indossa, in modo da costituire parte della persona stessa, da quella della borsa rinvenuta nei locali oggetto di accesso e, dunque, all’interno di essi. Nel primo caso, il Supremo Consesso ritiene applicabile l’art. 13 Cost. a tutela della libertà personale; nel secondo caso viene in gioco la protezione che l’ordinamento appresta al domicilio, nel senso ampio del termine che si desume dal comma 3 dell’art.14 Cost., costituendo la tutela apprestata dall’ordinamento alla borsa diretta espressione e proiezione di quella riconosciuta al domicilio.
Tirando le fila, i parametri costituzionali di riferimento, a fronte dell’esercizio di poteri istruttori in materia di acquisizione coattiva di borse, sono gli articoli 13 e 14. L’art. 14 Cost., che viene in rilievo in casi, come quello all’esame delle Sezioni Unite, in cui la borsa non è rinvenuta sulla persona, ma nei locali adibiti a sede dell’attività, dopo aver dichiarato inviolabile il domicilio, al comma 2 dispone che “(nel domicilio) non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale" e al comma 3 specifica che "gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali".
Il comma terzo dell’art. 14 Cost., allora, demanda al legislatore di settore l’individuazione di un corretto bilanciamento tra i valori in gioco. In tal senso, l’art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 richiede l’autorizzazione del P.M. per i soli casi di “apertura coattiva” di borse, plichi e documenti.
Così tratteggiato l’ambito di riferimento, le Sezioni Unite hanno definito compiutamente il rilievo del consenso espresso del contribuente all’apertura di borse, nel corso della verifica fiscale, e le modalità di espressione dello stesso.
Preliminarmente, la sentenza chiarisce che “la disciplina normativa introdotta dall’art.52, c.3, d.P.R. 633/1972 e quelle ad essa sovrapponibili- nel prevedere che l’autorizzazione del P.M. del giudice sia richiesta solo per i casi di apertura coattiva- vada risolta nel senso secondo cui il consenso libero, reso in assenza di alcuna costrizione, né diretta né indiretta perché correlata alla prospettazione di conseguenze sfavorevoli, del contribuente alla consegna della borsa sia idoneo a soddisfare le ragioni che il legislatore ha inteso tutelare nel richiedere il provvedimento autorizzativo”.
In caso di opposizione del contribuente, l’accesso al contenuto della borsa richiede l’autorizzazione del P.M., ma, in caso di assenza di opposizione, viene meno la coattività, presupposto richiesto dalla norma per la necessità dell’autorizzazione.
L’assenza di opposizione è certamente desumibile dal consenso, quale atto di autonoma collaborazione del privato, espresso da quest’ultimo consapevolmente e liberamente.
Ma, sottolineano le Sezioni Unite, che il consenso debba considerarsi mancante non solo nelle ipotesi di costrizione materiale, ma anche nel caso di minaccia o coazioni implicite e ambientali. In tal caso, spetta al giudice di merito, nell’esercizio dei suoi poteri valutativi, accertare la sussistenza o meno di un consenso all’apertura di borse libero e spontaneo.
Gli orientamenti opposti, richiamati dall’ordinanza di rimessione, a ben vedere, si occupano di fattispecie varie e diversamente disciplinate dal legislatore, riferendosi ad ipotesi di perquisizioni presso il domicilio del contribuente senza autorizzazione del P.M. o a perquisizioni personali eseguite anch’esse senza autorizzazione del P.M., per le quali è comunque richieste l’autorizzazione del P.M. dall’art. 52 del d.P.R. 633/72.
In definitiva, condividendo, il passaggio espresso nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui “il diritto alla segretezza, quale declinazione del diritto alla libertà personale, abbia natura di diritto disponibile, sicché se l’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e simili, avvenga con il valido consenso del titolare del diritto di libertà oggetto di compressione, pur in assenza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, non dovrebbe derivare alcuna sanzione di inutilizzabilità dei documenti”, le Sezioni Unite definiscono il principio per cui “il contegno del contribuente che presta volontariamente il consenso all’apertura della borsa rinvenuta nei locali rende possibile l’acquisizione del suo contenuto da parte dell’Ufficio in assenza dell’autorizzazione di cui al c.3 dell’art.52 d.P.R. n.633/1972”, considerandosi, in tal caso, l’acquisizione ex se legittima.
È poi specificato che, diversamente da quanto prospettato dall’ordinanza di rimessione, non esiste alcun indice normativo dal quale desumere che il consenso del contribuente, in tema di apertura di borse, sia condizionato all’adempimento di un obbligo informativo.
Più chiaramente, “la circostanza che il consenso prestato in sede di rinvenimento della borsa debba esser preceduto, per poter essere considerato valido, dall’assolvimento dell’obbligo di informazione da parte degli accertatori, vuoi della possibilità di rifiutare la consegna, vuoi della necessità dell’autorizzazione del P.M. in caso di assenza di consenso, non è affatto menzionata nel dettato vigente della norma in esame, né può desumersi aliunde, attingendo a parametri costituzionali o normativi altri rispetto al ricordato art.52, c. 3.”. Tale obbligo, secondo le Sezioni Unite, non è desumibile nemmeno dall’art. 12 dello Statuto del contribuente che dispone “Quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche”, non apparendo plausibile un’immediata relazione tra l’informazione circa la facoltà di farsi assistere da un professionista in sede di verifica da una parte, e la validità del consenso prestato all’apertura della borsa, dall’altra e nemmeno rilevando l’obbligo di informare il contribuente dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche che pure compare nell’art.12, c.2, dello statuto del contribuente.
La mancata informazione circa gli aspetti di cui sopra potrà eventualmente assumere solo valenza indiziaria al fine della verifica giudiziale in ordine alla condizione di piena libertà del contribuente al momento di esprimere il consenso all’acquisizione non coattiva della borsa sollecitata dai verificatori.
In definitiva “In tema di accertamento delle imposte, con riguardo all'apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prevista in materia di IVA dall'art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, ai fini della valida espressione del consenso alla apertura della borsa non è necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, non rinvenendosi un obbligo in tal senso nell’art. 52 cit. e neanche nell’art. 12, comma 2, della legge 212/2000”.
46 anni fa, il golpe argentino
di Francesco Caporale
Sommario: I. 24 marzo 1976: il golpe - II. La “dottrina della sicurezza nazionale” - II. La “scoperta” di quella tragedia - IV. L’art. 8 c.p. – Il delitto politico - V. Maggio 1999. Il rinvio a giudizio - VI. Il Processo ESMA - VII. La “missione” in Argentina - VIII. Le “simboliche” condanne, e i loro effetti in Argentina.
I. 24 marzo 1976: il golpe
Il 24 marzo 1976, ormai quarantasei anni fa, un golpe militare avrebbe per sette anni, fino al dicembre del 1983, seminato il terrore in Argentina, dando vita ad una dittatura che si sarebbe rivelata una delle più grandi tragedie del Novecento.
I vertici delle Forze Armate -Jorge Rafael Videla, per l’Esercito; Emilio Eduardo Massera, per la Marina; Orlando Ramòn Agosti, per l’Aeronautica- intendevano porre fine, con quel golpe, ad un decennio particolarmente tormentato, iniziato nel 1966 con le manifestazioni operaie e studentesche contro il regime militare di Juan Carlos Onganìa, proseguite sotto i governi anch’essi militari prima di Levingston e poi di Lanusse, e, in buona parte, anche dopo il rientro in Argentina, nel giugno del ’73, di Juan Domingo Peròn.
L’Argentina – come del resto gli Stati Uniti ed un po’ tutti i paesi europei (con le uniche eccezioni, almeno in parte, dei regimi militari della Spagna del generalissimo Francisco Franco, del Portogallo di Salazar, e della Grecia dei colonnelli) – stava conoscendo, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il forte vento della contestazione giovanile, solo vagamente imbevuta di utopie socialiste dal momento che l’invasione sovietica dell’Ungheria del ‘56, e, più ancora, l’invasione della Cecoslovacchia che nel ’68 stava vivendo, con Dubcek, la sua brevissima “primavera”, avevano di fatto già reso evidenti i limiti, gli equivoci ed il fallimento del socialismo reale, allontanando così, nei sogni giovanili, l’idea di un’Unione Sovietica da considerarsi modello di una società che mettesse al primo posto i valori della giustizia sociale, dell’uguaglianza e della solidarietà. E la distanza dalla ambigua utopia del cosiddetto “socialismo reale” si avvertiva, in particolare, proprio in Argentina, e nell’America Latina in generale, e non è un caso che i movimenti giovanili fossero nati, in quei paesi, in buona parte in ambienti di cultura cattolica: erano gli anni dei cosiddetti “preti terzomondisti” e della Teologia della Liberazione, che intendeva privilegiare, anche sulla scorta del Concilio Vaticano II°, la dottrina sociale del cristianesimo. Ed i giovani argentini videro in Peròn, rovesciato a sua volta da un golpe nel ’55, la loro speranza di una “patria socialista” del tutto svincolata, da una parte, dall’influenza nordamericana, e, dall’ altra, diversa e completamente autonoma dall’imperialismo sovietico: “ni yankees, ni marxistas: peronistas”, era infatti il loro orgoglioso slogan politico.
II. La “dottrina della sicurezza nazionale”
Quegli aneliti di cambiamento attraversarono, in quegli anni, tutta l’America Latina, da sempre considerata una sorta di “cortile di casa” degli Stati Uniti d’America. E in un’epoca ancora di “guerra fredda” -in un mondo rigidamente diviso in due blocchi: quello occidentale, ispirato ad una peraltro incompiuta democrazia, che vedeva negli Stati Uniti in qualche modo il proprio modello; e, dall’altro, quello orientale, rappresentato dall’Unione Sovietica e dai vari paesi dell’Est, all’epoca tutti più o meno orbitanti nell’altrettanto ambiguo “socialismo reale”- la reazione militare fu quella di intervenire con la forza delle armi, dando vita, tra la metà degli anni Sessanta e poi nei Settanta, a colpi di Stato che avevano via via interessato il Brasile, l’Uruguay, il Perù, la Bolivia, il Paraguay, il Cile, ed appunto, nel ‘76, l’Argentina. Erano i paesi latinoamericani del Cono Sur e del tristemente famoso “Plan Condor”, un piano che prevedeva la collaborazione dei rispettivi regimi militari nel dare la caccia, oltre i propri confini, agli oppositori politici che avessero cercato riparo in uno di quei paesi limitrofi.
Si era fatta strada, già dai primi anni Sessanta, in chiave dichiaratamente anticomunista, la farneticante “dottrina della sicurezza nazionale”, propugnata dagli Stati Uniti e dalla CIA, e che aveva trovato nella “Scuola delle Americhe”, la scuola interamericana di guerra con sede, allora, a Panama, il proprio fertile terreno di coltura, dove si erano non a caso forgiati tutti gli ufficiali latinoamericani poi protagonisti dei vari colpi di Stato che hanno insanguinato il Sudamerica: una “scuola di guerra” in cui figuravano come “docenti” ex ufficiali francesi che si erano tristemente distinti nelle torture praticate in Algeria, e non sorprende che addirittura un film, “La battaglia di Algeri” del nostro Gillo Pontecorvo, venisse utilizzato come “materiale didattico” per insegnare come e quali torture praticare nei confronti del “nemico”.
Il “nemico” non era più, secondo la tradizione un po’ romantica del conflitto bellico, il “paese altro” che attentasse ai propri confini, alla propria indipendenza; bensì un “nemico interno”, in realtà semplici giovani prevalentemente tra i venti e i venticinque anni, oppositori dei vari regimi militari latinoamericani, che si limitavano magari, come appunto accaduto in Argentina, ad esprimere le proprie utopie “socialiste” semplicemente insegnando a leggere e scrivere ai disperati abitanti delle cosiddette villas miserias, le degradate bidonvilles della periferia bonaerense.
A fronte di non più di due o tremila giovani che avevano in effetti abbracciato la lotta armata – chi tra le file dei Montoneros, di dichiarata fede peronista; chi nell’ERP, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo, di ispirazione guevarista –, la quasi totalità dei trentamila desaparecidos vittime della feroce repressione militare era in realtà costituita niente più che da inermi oppositori politici, come nei miei tre processi per i desaparecidos italo-argentini ho cercato di dimostrare.
III. La “scoperta” di quella tragedia
Avevo venticinque anni, quel 24 marzo del ’76. Mi ero un anno prima laureato alla “Sapienza”, ed il ricordo che ho della reazione comune alla notizia del golpe argentino è quello di una certa perplessità, se non indifferenza: niente di paragonabile alla forte emozione provata invece, solo due anni e mezzo prima, l’11 settembre del ’73, alla notizia del golpe di Pinochet in Cile, e della tragica fine di Salvador Allende nel palazzo presidenziale della Moneda.
Certo dovette influire, su questa diversa reazione collettiva, la tragica spettacolarità mediatica del golpe cileno rispetto a quello argentino: una sorta, quest’ultimo, di “golpe annunciato”, che rovesciava peraltro un governo oggettivamente di destra, quello presieduto dalla sprovveduta Isabelita, vedova di Juan Domingo Peròn che aveva fatto trionfalmente ritorno in Argentina, come ho prima ricordato, nel giugno del ’73, dopo un quasi ventennale esilio prevalentemente vissuto nella Spagna franchista, riprendendo la guida del suo paese fino al 1° luglio del ’74, data della sua morte.
L’immagine, quasi ostentata, e trasmessa in tutto il mondo, delle migliaia di prigionieri stipati nell’Estadio Nacional di Santiago del Cile, aveva indubbiamente suscitato forti emozioni, a fronte del basso profilo e dell’apparente “normalità” del golpe argentino.
Cosa fosse in realtà accaduto in Argentina, in quei drammatici sette anni tra il ’76 e l’83, l’avrei scoperto nella sua pienezza solo nel 1998, quando, da pubblico ministero a Roma, mi è toccato occuparmi di un procedimento iniziato già dal 1983, e che stava in quel momento languendo tra richieste di archiviazione e supplementi di indagine invece invocati dai difensori di parte civile.
Mi sono così imbattuto, tra le migliaia di pagine contenute in quella trentina di faldoni accumulatisi nell’arco di quindici anni, in dichiarazioni di miei coetanei, poco più che ventenni all’epoca del golpe, miracolosamente sopravvissuti dopo essere stati internati e torturati nei veri e propri lager di nazista memoria allestiti dal regime militare, di cui avevano sulla propria pelle conosciuto la ferocia.
Andavo così scoprendo l’esistenza di circa 350 “centri clandestini di detenzione” messi in piedi, in maniera occulta, dalla dittatura militare; delle torture con la picana, uno strumento utilizzato nella Pampa per il controllo del bestiame: scariche elettriche su ogni parte del corpo dei giovani internati, fino alla soglia dell’arresto cardiaco; dei “voli della morte”, la pratica decisamente più orribile: giovani scaraventati, vivi, dopo essere stati intontiti con un’iniezione di Pentothal, nelle acque del Rio de la Plata o dell’Atlantico Sur.
E ancora: il sequestro di circa 500 neonati, sottratti alle loro madri sequestrate in stato di gravidanza, uccise dopo il parto. Creature affidate “in adozione” a militari o famiglie a loro vicine, perché non crescessero con le “idee sovversive” dei loro genitori desaparecidos. Di questi bambini, grazie all’instancabile ricerca delle Abuelas de Plaza de Mayo ed agli esami del DNA, ne sono stati finora recuperati 130, oggi giovani uomini e donne tra i quaranta ed i quarantacinque anni, restituiti alla loro vera identità ed a ciò che rimane delle loro famiglie biologiche.
Ce n’era abbastanza per farmi capire quanto approssimativa fosse stata, fino a quel momento, la conoscenza, da parte mia e della quasi totalità degli italiani, sulla reale natura di quel regime militare.
IV. L’art. 8 c.p. – Il delitto politico
Il primo procedimento, come ho già prima accennato, era stato avviato fin dal gennaio del 1983, quando ancora era in piedi la dittatura militare in Argentina, che avrebbe solo a dicembre di quell’anno ceduto il passo – dopo la disfatta, nel giugno ’82, nella improvvida guerra con il Regno Unito per le Falkland/Malvinas – ad un governo democratico, quello del radicale Raùl Alfonsìn, dopo libere elezioni che avrebbero segnato il rientro dei militari nelle loro caserme.
Lo strumento normativo che aveva permesso l’apertura, in Italia, di quel procedimento – così come dei successivi due processi da me istruiti, il processo ESMA ed il processo Massera – è stato rappresentato dall’art.8 del nostro codice penale, che, nel disciplinare il cosiddetto delitto politico, prevede la punibilità, previa richiesta del Ministro della Giustizia, “del cittadino o dello straniero” che commettano, all’estero, un delitto politico, precisando poi, al terzo comma, che deve intendersi per delitto politico “ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino”, e che “è altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”.
Il limite dei giudizi in Italia su queste tragiche vicende era ed è comunque rappresentato dal fatto di poter procedere solo per quei casi che vedessero come vittime cittadini italiani, sia pure in possesso di “doppio passaporto”, come previsto dalla legislazione argentina: figli o nipoti, per lo più, di italiani emigrati fin dai primi del Novecento, o tra le due guerre, in quel paese del Sud America che, su circa quarantacinque milioni di abitanti, conta più di un terzo di cittadini di origini italiane.
Non vi era, in ogni caso, alcun dubbio che “delitti politici” dovessero considerarsi le barbare uccisioni, tra il 1976 ed il 1983, dei trentamila desaparecidos, eliminati semplicemente perché oppositori del regime militare, peraltro presente in Argentina fin dal 1966, a seguito della presa del potere da parte del generale Onganìa, e poi proseguito (prima con Levingston e poi con Lanusse) fino al 1973, a ridosso del rientro, come avanti detto, di Juan Domingo Peròn.
Di più: quanto avvenuto in quei sette anni di terrore in Argentina poteva in effetti considerarsi un vero e proprio “genocidio politico”, intendendo questo termine non già nella sua accezione tradizionale, di sterminio di un popolo per ragioni etniche, razziali o religiose, ma come annientamento, o tentativo di annientamento, di un’intera generazione, per ragioni esclusivamente politiche. Questo lasciava ragionevolmente intendere quella sorta di geografia del terrore rappresentata dalla capillare diffusione, sul territorio, di oltre 350 centri clandestini di detenzione: 350 Auschwitz, Mauthausen, Buchenwald, Dachau, messe in piedi dai generali golpisti trent’anni dopo la Shoah.
V. Maggio 1999. Il rinvio a giudizio
A maggio del 1999 il gup Claudio D’Angelo disponeva, dopo l’ennesima udienza preliminare, il rinvio a giudizio dei generali Carlos Guillermo Suàrez Mason e Santiago Omàr Riveros, rispettivamente comandanti della Zona 1 (Buenos Aires - Capital Federal, e cosiddetto “Gran Buenos Aires”) e della Zona 4 (Tigre – Campo de Mayo), nella suddivisione dell’Argentina in cinque Zone Militari, praticata con il golpe del 24 marzo ’76, ed incidentalmente entrambi affiliati, come del resto l’ammiraglio Massera, alla loggia massonica P2 di Licio Gelli.
Suàrez Mason era chiamato a rispondere dei sequestri e degli omicidi dei cittadini italo-argentini Laura Carlotto -figlia di Estela Barnes de Carlotto, presidenta delle Abuelas de Plaza de Mayo-, Norberto Morresi, Pedro Luìs Mazzocchi, Luìs Alberto Fabbri e Daniel Jesus Ciuffo, e per il sequestro del piccolo Guido, figlio di Laura Carlotto, nato in cattività quando la madre era internata nel centro clandestino di La Cacha.
E Riveros, invece, in concorso con il Prefetto Navale di Tigre, Juan Carlos Gerardi, e con quattro sottufficiali (Porchetto, Rossìn, Puertas e Maldonado), del sequestro e degli omicidi di Martino Mastinu e Mario Marras, entrambi emigrati in Argentina ancora in tenera età dalla Sardegna, con le rispettive famiglie, nei primi anni Cinquanta.
Il relativo dibattimento sarebbe iniziato nell’ottobre del ’99, dinanzi alla 2^ Corte di Assise, presieduta da Mario D’Andria.
Confesso che, assieme alla soddisfazione di aver almeno superato, con il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, quella prima importante tappa processuale, un diverso ed opposto sentimento cominciava a farsi strada dentro di me: il timore di non disporre, al momento, di un numero di testi sufficiente, da un lato, a far comprendere ad una Corte d’Assise composta, oltre che da due giudici togati, da sei giudici popolari, tutti verosimilmente poco edotti su queste tragiche vicende, cosa avesse realmente significato il golpe del 24 marzo del ’76; e, dall’altro, di testi più specificamente in grado di riferire sui singoli casi su cui la Corte era chiamata a giudicare.
Provvidenzialmente, devo dire, l’iniezione di fiducia rappresentata da quel rinvio a giudizio fece sì che un’anziana signora, Inocencia Luca, si portasse qualche giorno dopo, dall’Argentina, personalmente nel mio ufficio, presentando una denuncia per la scomparsa di suo marito, Giovanni Pegoraro, imprenditore edile di Mar del Plata, nato in Italia ed in possesso di doppia cittadinanza, e di sua figlia Susanna, entrambi sequestrati a Buenos Aires il 18 giugno del ’77, e da allora desaparecidos, facendosi altresì latrice di una denuncia sporta presso il Consolato italiano a Buenos Aires da Dante Gullo, leader nei primi anni Settanta della Juventud Peronista, in relazione alla scomparsa della madre, Angela Aieta, nativa di Fuscaldo, in provincia di Cosenza, ed emigrata giovanissima in Argentina.
Tanto Giovanni e Susanna Pegoraro che Angela Aieta, sequestrata nell’agosto del ’76, erano stati internati all’ESMA, la Scuola di Meccanica della Marina trasformata nel maggior centro clandestino di detenzione, in cui furono ristretti tra il marzo del ’76 e la fine della dittatura militare non meno di cinquemila giovani e meno giovani.
VI. Il Processo ESMA
L’apertura di questo secondo procedimento, riguardante l’ESMA, anche questo a me assegnato dall’allora procuratore capo Salvatore Vecchione, mi portava a considerare necessaria una mia “missione” in Argentina, che mi consentisse di avvicinare, con l’aiuto delle Madres e delle Abuelas de Plaza de Mayo, i non molti sopravvissuti dell’ESMA che vi erano stati internati nel ’76 e ’77, e che avevano quindi avuto modo di conoscere Giovanni e Susanna Pegoraro ed Angela Aieta, e, più in generale, sopravvissuti degli altri centri clandestini di detenzione (La Cacha ed El Vesubio) in cui erano stati ristretti Laura Carlotto, Pedro Luìs Mazzocchi, Luìs Alberto Fabbri e Daniel Jesus Ciuffo, la cui scomparsa era oggetto del dibattimento in Assise nei confronti di Suàrez Mason, Riveros e gli altri, che sarebbe iniziato ad ottobre del ’99, e per il quale era indispensabile che fossi in grado di presentare una adeguata lista testimoniale.
Ventilai, con qualche titubanza per il timore potesse essere interpretata come becero pretesto di “turismo giudiziario”, questa ipotesi al mio procuratore capo, che la prospettò all’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, che aveva tra l’altro ricevuto poco tempo prima, in via Arenula, una delegazione di Madres ed Abuelas.
Il Ministro, persona particolarmente sensibile a questi temi, autorizzò una mia “missione” in Argentina “alla ricerca di fonti di prova”.
Non una rogatoria in senso stretto, dunque, che potesse tradursi in verbali redatti, su richiesta dell’autorità giudiziaria italiana, dai giudici argentini, né, tantomeno, in verbali di sommarie informazioni testimoniali da me redatti: il governo e l’autorità giudiziaria argentina erano infatti all’epoca decisamente restii – dopo la promulgazione delle leggi del “Punto Final” e di “Obediencia debìda”, emanate tra l’86 e l’87 in Argentina per chiudere la dolorosa vicenda dei desaparecidos- a concedere rogatorie su questo spinoso argomento, ed era tra l’altro in quel momento ancora presidente – si era nell’agosto del ’99 – Carlos Menem, che aveva già concesso una discutibilissima grazia a Videla, Massera ed agli altri componenti delle Giunte Militari condannati nel “Juicio a la Juntas” svoltosi nell’85 in Argentina, e che palesemente inseguiva un proprio decisamente improbabile disegno di “riconciliazione nazionale”, che intendeva sostanzialmente coprire con un velo pietoso, attraverso l’olvìdo, l’oblìo, i sette anni di terrore vissuti dal paese.
VII. La “missione” in Argentina
La mia “missione” in Argentina durò una decina di giorni, in quell’agosto del ’99. Lasciai un’Italia immersa in una torrida estate per passare ad un peraltro abbastanza mite inverno australe, incontrando decine e decine di persone che avrebbero finalmente arricchito la mia lista testi, sia per il dibattimento ormai alle porte che per il successivo “processo ESMA”.
Quel viaggio mi consentì di conoscere Ernesto Sàbato, grande figura di scrittore ed intellettuale che era stato presidente della CONADEP, la Comisiòn Nacionàl sobre la Desapariciòn de Personas istituita da Alfonsìn subito dopo la sua elezione, a dicembre dell’83, e che aveva a fondo indagato sulle aberrazioni della dittatura militare, poi trasfuse nel “Nunca Mas”, l’informe che dava conto della ferocia di quel regime, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti a quell’immane tragedia.
Ebbi la possibilità di confrontarmi con Julio César Strassera, “fiscal”, pubblico ministero, nel “Juicio a las Juntas” dell’85, e con il suo vice Luìs Moreno Ocampo (che sarebbe poi diventato, nel 2003, il primo procuratore capo del Tribunale Internazionale dell’Aia); di conoscere Horacio Verbitsky, autore del libro “Il volo”, nato dalle confessioni dell’ex capitano dell’ESMA Adolfo Scilingo, ed Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace 1980, anch’egli sequestrato e torturato durante la dittatura militare; e poi ancora Magdalena Ruìz Guinazù, editorialista del quotidiano La Naciòn, che aveva fatto parte della CONADEP, occupandosi, al suo interno, proprio dell’ESMA; di incontrare ex militari, come Luìs D’Andrea Mohr, che avevano lasciato l’Esercito prima del golpe, non condividendone metodi e finalità; di approfondire la conoscenza di Madres ed Abuelas de Plaza de Mayo, come Lita Boitano, Vera Vigevani, Estela Carlotto, Laura Bonaparte e Taty Almeida; ma, soprattutto, di incontrare ed ascoltare sopravvissuti dei vari centri clandestini di detenzione, la cui testimonianza si sarebbe rivelata poi particolarmente preziosa per il buon esito dei miei processi.
VIII. Le “simboliche” condanne, e i loro effetti in Argentina
Il processo Suàrez Mason+altri, ed il processo ESMA, si sono poi conclusi, il primo a dicembre del 2000 ed il secondo a marzo del 2007, con la condanna di tutti gli imputati; il processo Massera ha invece dovuto arrestarsi, nel febbraio del 2011, con una declaratoria di proscioglimento per morte del reo, essendo l’ex ammiraglio deceduto nel novembre del 2010.
Si è trattato di condanne, quasi tutte all’ergastolo, rimaste soltanto simboliche, dal momento che nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione, ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro paese.
E tuttavia, la prima di queste sentenze, nel dicembre del 2000, ha avuto un effetto deflagrante in Argentina, tant’è che nel giugno del 2005, sotto il governo del presidente Néstor Kirchner, si è poi arrivati in quel paese al giudizio di incostituzionalità della legge di Obediencia debìda, con conseguente riapertura di decine di processi che hanno consentito la condanna di centinaia e centinaia di responsabili, ancora in vita, delle atrocità commesse nei sette anni di dittatura militare.
Ma, a distanza di ormai quarantasei anni da quel 24 marzo 1976, sconfortanti segnali ancora ci giungono, da varie parti del mondo, sull’attuale stato dei diritti umani, a dispetto del “Nunca Mas”, Mai più, invocato nel rapporto della CONADEP.
E le continue sparizioni, sempre per motivi politici, che ancora oggi ci tocca registrare, dal Messico alla Turchia di Erdogan, dall’Ungheria di Orbàn all’Egitto di Al Sisi, come testimoniato dalla terribile fine di Giulio Regeni, ci dicono che certe atrocità sono ancora ben lontane dall’essere solo un triste ricordo del passato.
I nuovi artt. 9 e 41 Cost.: centralità dell’uomo e limiti di revisione costituzionale
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. I nuovi artt. 9 e 41 della Costituzione - 2. La revisione della Costituzione nel dibattito in Assemblea costituente - 3. La revisione della Costituzione nella dottrina e nella Corte costituzionale - 4. È legittima la revisione costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.? - 5. La centralità dell’uomo quale valore supremo della nostra Costituzione e della nostra tradizione umanista - 6. Le riforme possibili (ma illegittime) che potrebbero discendere dalla contrapposta idea di una tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi che vada oltre la centralità dell’uomo - 7. Conclusioni.
“Sous l’amour de la nature, la haine des hommes”.
Marcel GAUCHET, La democratie contre elle-meme, Gallimard, 2002, 204
1. Premessa. I nuovi artt. 9 e 41 della Costituzione
L’8 febbraio 2022 si giungeva all’approvazione definitiva della proposta di riforma costituzionale A.C. 3156-B recante: “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”.
Votazione: 468 voti favorevoli, 1 contrario, 6 astenuti; una maggioranza talmente qualificata da non consentire il referendum confermativo ai sensi dell’art. 138, 3° comma Cost., e tale, così, da fare entrare indiscutibilmente le novità nel nuovo testo costituzionale.
A questo punto l’art. 9 Cost. aggiunge due comma che recitano: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
Parimenti l’art. 41 Cost., al primo comma, dopo aver recitato che l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, aggiunge: “alla salute e all’ambiente”; parimenti il comma successivo, dopo aver previsto il coordinamento dell’iniziativa economica privata ai fini sociali, aggiunge: “e ambientali”.
Le ragioni della riforma sono quelle di considerare l’ambiente e la natura non più come delle res ma come dei valori primari costituzionalmente protetti.
Si dirà che non v’è niente di riprovevole a tutelare l’ambiente e la biodiversità, e certamente è vera una simile affermazione[1]; il problema, però, è che la questione non è stata affatto dibattuta (almeno per quanto mi risulta) dalla politica, dai giuristi e dall’opinione pubblica prima di arrivare a questa sua concretizzazione in Parlamento, cosicché la revisione di queste norme costituzionali appare ora come una novità della quale niente i più sapevano fino al giorno prima.
Nessuno, poi, dal 1948 ad oggi, aveva pensato di poter modificare la parte prima della Costituzione, ovvero quella parte relativa ai principi fondamentali e ai diritti e doveri dei cittadini; nessuno aveva pensato di poter intervenire su quel costrutto che i nostri costituenti, usciti dall’esperienza del fascismo, avevano faticosamente e meritevolmente messo insieme dopo la guerra.
Oggi, al contrario, abbiamo scoperto che tutto questo è invece possibile; e soprattutto abbiamo scoperto che una modifica della costituzione può avvenire, anche sui principi fondamentali, senza anteporla ad un previo, adeguato dibattito.
Credo, allora, si imponga una preliminare riflessione su quelli che sono i limiti alla revisione costituzionale, poiché alla luce di questa novità il tema non appare più una diatriba dottrinale bensì una esigenza pratica e concreta, atteso che nessuno credo voglia svegliarsi una mattina e trovarsi a vivere in uno Stato che non è più quello che aveva avuto fino alla notte precedente.
2. La revisione della Costituzione nel dibattito in Assemblea costituente
Spero dunque non si consideri una divagazione spendere qualche parola sui limiti di revisione costituzionale.
Se stiamo al dato testuale, l’unica cosa che non può essere modificata è la forma repubblicana, ai sensi dell’art. 139 Cost., perché su ciò la costituzione è stata chiara: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
Sul resto, niente dice la carta costituzionale; e tuttavia nessun costituzionalista ha mai pensato che fuori da questo limite tutto il resto possa essere modificato.
E’ evidente che in Assemblea costituente, appena usciti dalla guerra e dal fascismo, la paura del ritorno alla monarchia era forte, e questo giustificava la disposizione di cui all’art. 139 Cost., voluta tanto dalle sinistre (Togliatti)[2], quanto dai cattolici (Dossetti, Moro)[3].
Ma già in Assemblea giuristi di primo piano quali Piero Calamandrei sottolineavano come la rigidità della Costituzione non potesse ridursi al solo impedire il ritorno della monarchia, e doveva invece necessariamente estendersi alla immutabilità dei valori fondamentali della Repubblica e delle disposizioni relative ai diritti di libertà[4].
Ed così, facendo seguito alla presa di posizione di Piero Calamandrei, Lodovico Sforza Benvenuti sottoponeva all’Assemblea plenaria del 3 dicembre 1947, un art. 130 bis, che recitava: “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono e garantiscono diritti di libertà, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”[5].
L’articolo, seppur condiviso nella sostanza da tutti[6], non trovava tuttavia approvazione per ragioni formali, atteso che taluni sostenevano che la norma potesse essere fonte di dispute e dubbi interpretativi[7].
Ad ogni modo nessuno in Assemblea costituente metteva in dubbio che i diritti di libertà della persona e i principi fondamentali della Repubblica potessero essere oggetto di revisione costituzionale; ed in particolare ciò veniva sottolineato con forza in un importante intervento da Rossi[8].
3. La revisione della Costituzione nella dottrina e nella Corte costituzionale
Il tema della revisione costituzionale si rendeva poi, evidentemente, materia di dibattito dottrinale, nonché oggetto di decisione da parte della Corte Costituzionale.
Già Costantino Mortati poneva la differenza tra limiti espressi e limiti impliciti[9], e altri giuristi sostenevano parimenti che il limite di revisione della forma repubblicana implicasse inevitabilmente l’interpretazione del valore da dare al termine “repubblica”, dovendo esso essere necessariamente comprensivo dell’intero impianto fondamentale del sistema costituzionale[10].
Si sosteneva, inoltre, che questi limiti impliciti potessero poi dividersi tra limiti impliciti materiali, se ricavabili dal testo formale di altre disposizioni della carta costituzionale, e limiti impliciti sistematici, se non ricavabili direttamente da specifiche norma ma desumibili dai principi fondamentali irrinunciabili della nostra organizzazione statuale libera e democratica, ovvero ancora da “quei diritti i quali, pur non essendo esplicitamente menzionati nella costituzione, risultano implicitamente tutelati sulla base del sistema di valori che essa fa proprio”[11].
D’altronde, sarà poi questa la posizione della Corte costituzionale, per la quale: “La costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”[12].
Ovviamente, si tratta di stabilire quali siano questi “valori supremi” ai quali la Corte costituzionale fa riferimento; e tuttavia l’operazione esegetica non sembra difficile, poiché questi valori supremi sono esattamente quelli che già erano stati rilevati in Assemblea costituente da Piero Calamandrei e Lodovico Sforza Benvenuti, e che attengono alla sovranità popolare, all’ordinamento democratico, ai diritti d’eguaglianza, alla separazione dei poteri, al rispetto della dignità della persona umana, alle libertà personali ed economiche, e a tutti i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.
E spetta, se del caso, sempre alla Corte costituzionale, valutare se una revisione della costituzione sia fatta nel rispetto di questi limiti oppure oltre questi limiti, e quindi, di nuovo, in modo incostituzionale[13].
Credo che oggi questo orientamento debba essere da tutti noi condiviso con forza e piena convinzione, poiché ogni altra interpretazione dell’art. 139 Cost. porterebbe al contrario a concludere che possiamo svegliarsi una mattina e apprendere che sono stati modificati, ad esempio, i diritti di libertà della persona (art. 13 Cost.) o del domicilio (art. 14 Cost.), oppure soppresso il diritto di riunione (art. 17 Cost.), o quello di libertà nella manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), o ancora quello del lavoro (art. 4 Cost.) o della iniziativa economica (art. 41 Cost.); o ancora (perché no?) quello del diritto di voto (art. 48 Cost.), o del diritto ad agire in giudizio (art. 24 Cost.) dinanzi a giudici indipendenti e terzi (art. 101 e 104 Cost.), o del diritto di accesso alle cariche pubbliche (art. 51 Cost.), ecc……..non rientrando, da un punto di vista meramente formale, alcuno di questi diritti tra quelli non soggetti a revisione ex art. 139 Cost.
Se riteniamo, dunque, che queste modifiche siano impossibili, siano solo una barzelletta che ci raccontiamo per fugare ogni paura, allora va da sé che i limiti alla revisione della Costituzione vanno ben oltre la mera forma repubblicana dello Stato, e coinvolgono invece, come sottolineato, tutti i valori supremi che la nostra repubblica ha.
4. È legittima la revisione costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.?
Ciò premesso, la domanda è evidente: questa riforma rientra tra le revisioni possibili?
Qui io credo si debba preliminarmente chiarire la portata della riforma.
Precisamente, anche prima di essa, la Corte Costituzionale aveva riconosciuto la tutela della salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona[14], e le stesse Sezioni unite della Corte di Cassazione avevano parimenti riconosciuto il diritto di tutti a vivere in un ambiente salubre[15]. La tutela dell’ambiente si trovava poi già nell’art, 117 Cost., lettera g), che prevede infatti la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
Così, se qualcuno sostiene che la revisione costituzionale nient’altro è se non la trasformazione in legge di quello che precedentemente era un indirizzo di giurisprudenza, e quindi non introduca niente di nuovo, allora è chiaro, nulla quaestio, la revisione è senz’altro lecita.
Però, io credo che per tutelare l’ambiente e la biodiversità, per fare leggi che limitino l’inquinamento, per proteggere gli animali, non v’era bisogno di modificare la costituzione, poiché a nessuno sarebbe mai venuto in mente di ritenere incostituzionali norme o leggi ordinarie finalizzate alla tutela di questi valori, stati, appunto, anche gli orientamenti giurisprudenziali ora ricordati.
E allora penso che questa interpretazione così riduttiva della riforma lasci un po’ perplessi, poiché il sospetto, per tutti, credo sia invece quello che questa revisione sia stata portata a termine per ben altre riforme.
E potrebbe così affacciarsi l’ipotesi che la revisione fissi invece nuovi diritti e nuovi ordini di valori, e soprattutto aderisca ai costumi dell’ora attuale, che chiedono di adeguare la nostra società alla nuova filosofia ecologica.
L’uomo e la sua economia, in questi termini, non potrebbero più anteporsi all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi; l’uomo, esattamente, in quanto essere vivente e in quanto parte integrante della natura, non varrebbe più di ogni altro essere animato, pianta o animale che sia, secondo la regola per la quale “L’umain n’est supérieur a rien”[16].
Conseguentemente, gli interessi economici dell’uomo non potrebbero certo anteporsi al valore della natura e dell’ambiente, ma anzi dovrebbero sempre esercitarsi nei limiti del rispetto di essi.
È così?
Perché, se questa fosse la reale riforma, allora, par evidente, la trasformazione dell’uomo da essere umano a essere vivente, e la centralizzazione delle esigenze dell’ambiente sugli altri interessi del convivere sociale, potrebbero certo porre problemi di limiti alla revisione costituzionale, e, direi tutto assieme, suscitare forti preoccupazioni.
5. La centralità dell’uomo quale valore supremo della nostra Costituzione e della nostra tradizione umanista
Ed infatti, se c’è una cosa che non credo possa esser messa in discussione, questa è quella che la nostra Costituzione ha voluto mettere al centro di tutto proprio e solo l’uomo.
Diceva Pico Della Mirandola nella celeberrima Oratio de hominis dignitate, del 1486: “Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu potessi scorgere tutto quello che è nel mondo, perché di te stesso, libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”.
E questa tradizione, che mette, appunto, al centro del mondo l’uomo, e che dall’umanesimo al rinascimento, e poi dall’illuminismo fino all’età contemporanea, è arrivata a noi, veniva infatti presentata in modo solenne da Giorgio La Pira in seno alla discussione sui principi fondamentali della nostra repubblica.
La Pira dichiarava in Assemblea costituente che: “È necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”[17].
Si chiedeva poi La Pira: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”[18].
Premesso questo, La Pira: “illustra l’articolazione proposta, facendo presente che nel primo articolo viene determinato il fine della Costituzione: tutela dei diritti originari ed imprescrittibili della persona e delle comunità naturali…..diritto alla libertà personale, ai giudici naturali, alla libertà di circolazione, alla libera espressione del proprio pensiero, ecc……..”[19].
Il discorso era chiarissimo: la filosofia dei diritti riflessi dovuti alla centralità dello Stato non poteva essere accolta; al centro doveva stare l’uomo, con i diritti originari ed imprescrittibili della persona, non altro.
E l’Assemblea, dopo ampie discussioni, approvava la linea dell’onorevole Giorgio La Pira, seppur liberandola dagli aspetti più strettamente religiosi nei quali La Pira l’aveva configurata, e arrivava in tal modo ad approvare l’ordine del giorno discusso da Dossetti: “Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona di fronte allo Stato? Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”[20].
La linea veniva infatti accolta anche dalle sinistre, ed in particolare da Palmiro Togliatti, il quale tuttavia chiedeva che il testo avesse forma laica, concreta e accessibile: “dal professore di diritto e in pari tempo dal pastore sardo”[21]; e fondamentale in questo contesto resterà l’intervento di Moro: “Uno Stato non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”[22].
Dunque, non v’è dubbio, al centro del nostro sistema sta l’uomo e la sua umanità[23], l’uomo con la sua specificità e la sua anteriorità rispetto ad ogni altra cosa.
6. Le riforme possibili (ma illegittime) che potrebbero discendere dalla contrapposta idea di una tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi che vada oltre la centralità dell’uomo
Se, invece, noi facciamo venir meno questo costrutto, e diciamo che non è l’uomo che sta al vertice dei valori, bensì l’ambiente e la natura, allora, si comprende, torniamo alla teoria dei diritti riflessi, e l’uomo avrebbe in questo modo solo diritti condizionati e indiretti.
Con questo, non si nega certo il dovere di tutti di tutelare l’ambiente, di non inquinare, di protegge la natura, e di fare tutto quanto è possibile per difendere il nostro pianeta; si evidenzia solo il rischio che può esservi nell’inversione di una priorità, ove si arrivasse a sostenere, a seguito di questa riforma costituzionale, che la bontà della tutela dell’ambiente non trova più la sua ragion d’essere nell’interesse dell’uomo a vivere in un ambiente salubre, bensì la trova in sé stessa, e quindi anche contro l’interesse dell’uomo, e/o anche in contrasto con i suoi diritti e la sua libertà.
Si capisce che, se le cose in futuro dovessero davvero essere lette e interpretate così, tutto allora si potrebbe rendere possibile e costituzionalmente lecito.
Si potrebbe imporre la riduzione dei consumi, e stabilire che a tutela dell’ambiente solo certi consumi sono ammessi e non altri; si potrebbe ridurre la produzione industriale e il libero commercio, e stabilire che solo alcune cose possono essere prodotte e vendute e non altre, e magari, con ciò, favorendo taluni e danneggiando altri[24]; si potrebbe impedire l’accesso a taluni luoghi, o limitare fortemente, e in modo stabile, il diritto di circolazione, sostenendo che tutto questo va a vantaggio dell’ambiente e della biodiversità, poiché al contrario la libertà di circolazione dell’uomo, con i suoi egoismi e le sue disattenzioni, danneggia il pianeta; si potrebbe imporre regole comportamentali per ragioni ecologiche, impedendo ad esempio di mangiare certe cose, oppure imponendo la nutrizione con altre, se non addirittura imponendo ulteriori trattamenti sanitari; si potrebbe vietare il fumo anche all’aperto, stabilire un certo abbigliamento, imporre degli orari nei quali è possibile tenere certi comportamenti, che sarebbero invece vietati in altri momenti; si potrebbe limitare o escludere l’uso di taluni mezzi di trasporto, auto, aerei, ecc…., sempre a tutela dell’ambiente e al fine di limitare l’inquinamento; si potrebbe dividere tutti i beni in essenziali e non essenziali, ed escludere questi ultimi, o tutto ciò che venisse giudicato superfluo, o lussuoso, o eccessivo; si potrebbe imporre grossi oneri alla proprietà privata, facendola venir meno ove questa non si conformi ai dettati dell’ecologia e del risparmio energetico, consentendo così nuove forme di espropriazioni per ragioni ambientali; si potrebbe danneggiare la cultura e l’informazione impedendo o fortemente limitando l’uso della carta; sempre nell’ottica dell’abolizione dell’uso della carta, si potrebbe poi abolire ogni forma di pagamento in contanti, anche di piccolissima misura; si potrebbe ancora limitare i mezzi di comunicazione come internet o telefoni portatili, sostenendo che il loro uso contribuisce all’inquinamento del pianeta; si potrebbe imporre la riduzione drastica di beni quali l’elettricità, il gas, i carburanti, costringendo le persone a cambiare fortemente le loro abitudini e le loro attività lavorative; si potrebbe in ogni momento prevedere decadenze giuridiche in grado di incidere sui diritti contrattuali delle parti per ragioni di tutela dell’ambiente, compromettendo in questo modo il concetto stesso di “certezza del diritto”, e creando in tal misura un danno alle relazioni commerciali ed economiche; si potrebbe fortemente aumentare le imposte sui commerci e sulla proprietà privata, sostenendo che entrambe costituiscono ostacolo all’ambiente e all’igiene del pianeta; e così di seguito.
In breve, si potrebbe sostanzialmente abolire la vita dell’uomo occidentale, sostenendo che quella vita, dunque, e finalmente, non è conforme all’esigenze dell’ambiente e della natura.
Soprattutto, il tutto verrebbe sempre e unilateralmente deciso dal Governo, cosicché, di fatto, noi avremmo una nuova, ulteriore, e assai significativa, modifica costituzionale, poiché il Governo non sarebbe più, a questo punto, secondo i criteri di Montesquieu, mero potere esecutivo, ma si trasformerebbe a tutti gli effetti in un organo che decide la nostra vita e la determinazione della nostra persona.
7. Conclusioni
Dunque, in estrema sintesi, va ribadito che se c’è un valore supremo, questo è proprio quello della centralità dell’uomo.
Questa centralità dell’uomo non può essere oggetto di revisione costituzionale; essa è il pernio intorno al quale girano tutti gli altri diritti e si forma l’organizzazione della nostra società, secondo le stesse parole della Corte costituzionale[25].
Dal che, invito tutti a riflettere su questi aspetti, sperando vi sia ampio accordo nel ritenere che la revisione costituzionale che si è avuta lo scorso 8 febbraio 2022 ha sole due chiavi di lettura:
a) o si sostiene che la revisione nient’altro sia stata se non la trasformazione in legge di quello che precedentemente era un indirizzo di giurisprudenza, e allora nulla quaestio;
b) oppure, se vogliamo andare oltre ciò, non possiamo tuttavia farlo fino al punto di sottomettere l’uomo all’ambiente, poiché ciò contrasterebbe con valore opposto della centralità dell’uomo.
Fermo il dovere di tutti noi di proteggere l’ambiente, la tutela della natura deve tuttavia sempre pensarsi nel rispetto primo degli esseri umani; e l’ambiente non può trasformarsi in uno strumento da utilizzare per limitare o negare oltre misura i diritti, ne’ può costituire una ragione (se non, in taluni casi, un pretesto) per punire e/o cancellare le libertà della persona; e deve così rimanere integro il principio secondo il quale la tutela dell’ambiente si dà perché è interesse dell’uomo vivere in un ambiente salubre, non altro.
E tutti gli uomini di buona fede, al di là di questa riforma, conoscono bene questi limiti e questi equilibri, e rispetteranno la natura senza rimanerne intrappolati.
[1] V., in questa stessa rivista AMENDOLA, L’inserimento dell’ambiente in Costituzione non è ne’ inutile ne’ pericoloso, febbraio 2022.
[2] V. infatti Palmiro Togliatti nella seduta del 29 novembre 1946, in La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1976, VI, 738.
[3] V. infatti l’intervento di Giuseppe Dossetti, ivi, cit., 741, e di Aldo Moro, ivi, cit., 743.
[4] Asseriva espressamente Piero Calamandrei che: “Se si è adottato questo sistema per le norme che riguardano la forma repubblicana, dichiarando queste norme immutabili, non credete che questo sistema si sarebbe dovuto adoperare a fortiori per quelle norme che consacrano diritti di libertà? Era tradizione, nelle costituzioni nate alla fine del secolo XVIII che i diritti di libertà, i diritti dell’uomo e del cittadino, venissero affermati come una realtà preesistente alla stessa Costituzione, come esigenze basate sul diritto naturale; diritti, cioè, che nemmeno la costituzione poteva negare, diritti che nessuna volontà umana, neanche la maggioranza e neanche l’unanimità dei consociati poteva sopprimere, perché si ritenevano derivanti da una ragione profonda che è inerente alla natura spirituale dell’uomo. Ora, se la Costituzione ha adottato questa misura di immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura anche per le norme relative ai diritti di libertà” (v. infatti Piero Calamandrei, nella seduta del 4 marzo 1947, ivi, cit., I, 166).
[5] V. infatti Lodovico Sforza Benvenuti, ivi, cit., V, 4328.
[6] Fondamentale, a mio parere, sono le ragioni in forza delle quali Lodovico Sforza Benvenuti chiedeva l’approvazione di quell’articolo. Ammoniva lo stesso: “Gli Stati assoluti, anche nel loro sviluppo parlamentare, erano sempre legittimi, quale che fosse l’apporto dato dalla volontà popolare alla vita dello Stato. La legittimità c’era sempre, il consenso si presumeva anche in mancanza di un istituto che permettesse a tale consenso di manifestarsi liberamente, coscientemente, volontariamente. Lo Stato era sempre legittimo, avesse un Parlamento o no, ammettesse il suffragio universale o no, partecipasse il popolo all’attività politica o no. In regime democratico invece la volontà sovrana dello Stato si manifesta solo per mezzo della partecipazione libera e cosciente dei cittadini. Onde, ogni revisione costituzionale dei diritti di libertà, ossia della libertà personale, della libertà di coscienza, della libertà di riunione, della libertà di espressione, della libertà di voto, colpirebbe alla radice il concetto di libertà democratica e non solo farebbe cadere l’istituto, ma distruggerebbe fondamentalmente i concetti di democrazia e di libertà costituzionale. Dovrà venir proclamata l’intangibilità, e quindi la non revisionabilità, dei diritti fondamentali senza dei quali non vi è ne’ repubblica ne’ libertà” (v. infatti Lodovico Sforza Benvenuti, ivi, cit., V, 4329).
[7] Tra queste eccezioni di tipo formale ricordo l’intervento di Russo Perez: “è assurda una legge che dichiara immutabile ed eterna un’altra legge” (v. infatti Guido Russo Perez, ivi, cit., V, 4330); e quello di Moro, per il quale nessun dubbio doveva darsi circa la salvaguardia dei diritti naturali, che: “noi poniamo al di sopra delle mutevoli esigenze della vita politica…..ma la norma così come formulata può essere pericolosa” (v. infatti Aldo Moro, ivi, cit., V, 4330).
[8] Paolo Rossi precisamente asseriva: “I diritti di libertà, fra i quali il diritto del lavoro, è compreso come primissimo, sono contenuti in una categoria più vasta: il diritto naturale. L’onorevole Benvenuti e l’onorevole Laconi rivendicano qui, dopo tante discussioni, il vecchio e maltrattato diritto naturale e hanno ragione. La preoccupazione che i diritti della persona umana, i diritti della dignità umana, i diritti del lavoro umano siano validamente tutelati è la preoccupazione essenziale dell'Assemblea. Per difendere questi diritti ci vuole qualcosa di più che una disposizione di carattere costituzionale, ci vuole il permanere costante e fino al sacrificio, in tutti noi, della stessa ardente volontà di essere liberi che in questo momento ha manifestato con eloquenza l’onorevole Benvenuti” (v. infatti Paolo Rossi, ivi, cit., V, 4329).
[9] MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1967, II, 974, 975.
Sui limiti impliciti Mortati asseriva che v’è da: “rispettare i principi essenziali del tipo di Stato quale risulta dall’ordinamento in atto”; e che “Altri limiti assoluti alla revisione, deducibili in via implicita dal sistema, sono quelli inerenti ai diritti fondamentali della persona, singola o associata, qualificati dall’art. 2 come inviolabili, proprio per affermare l’intangibilità, da parte di qualunque istanza costituita, del loro nucleo fondamentale”.
[10] Per questo dibattitto v. per tutti S.M. CICCONETTI, Revisione costituzionale, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1989, XL, 134.
[11] Così, espressamente, PIZZORUSSO, Commento costituzione diretto da Branca, Bologna-Roma, 1981, 72.
[12] Così Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146.
[13] Asserisce ancora la Corte costituzionale: “Non si può pertanto negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore (v. ancora Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146).
[14] V. Corte Cost. 1 aprile 1985 n. 94; Corte Cost. 27 giugno 1986 n. 151; Corte Cost. 28 maggio 1987 n. 210; Corte Cost., 20 dicembre 2002 n. 536, per la quale l’ambiente si configura: “come bene unitario, che va pertanto salvaguardato nella sua interezza”; Corte Cost. 1 giugno 2016 n. 126.
[15] V. Cass. sez. un. 6 ottobre 1979 n. 5172.
[16] B. LEVET, l’Écologie ou l’ivresse de la table rase, L’Observatoire, 2022, 145.
[17] V. infatti Giorgio La Pira, in La Costituzione, ivi, seduta del 9 settembre 1946, cit., VI, 316
[18] Giorgio La Pira, cit., 316.
[19] Giorgio La Pira, cit., 317.
[20] Giuseppe Dossetti, cit., 323.
[21] Palmiro Togliatti, cit., 319.
[22] Aldo Moro, ivi, seduta del 13 marzo 1947, cit., I, 372.
[23] Sul principio personalista v. anche TOSATO, Rapporti tra persona, società intermedie e Stato, in AA.VV., I diritti umani. Dottrina e prassi, Roma, 1982, 695.
[24] E’ vero, e non può essere messo seriamente in discussione, che l’iniziativa economica privata conosceva già dei limiti quali l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Tuttavia credo si possa affermare che, in questi anni, dal 1948 ad oggi, questi limiti sono stati piuttosto principi del diritto del lavoro, ovvero valori costituzionali ai quali gli imprenditori e i lavoratori autonomi si dovevano attenere nei confronti del personale dipendente; ma non costituivano, e non hanno mai costituito, dei veri e propri limiti all’iniziativa economica privata in senso stretto.
E credo si possa altresì dire che la Corte Costituzionale, quando si è dovuta pronunciare sui bilanciamenti tra libertà economica e limiti di diritto pubblico, ha solo prudenzialmente ribadito che il nostro è un sistema misto, così come lo si ricava dalla lettura degli artt. 41 e 42 Cost., e così come ci perviene dalla nostra storia e dalla scelta che fecero a suoi tempo i nostri costituenti (faccio, senza alcuna pretesa di completezza, riferimento alle pronunce Corte Cost. 1 aprile 1985 n. 94; Corte Cost. 27 giugno 1986 n. 151; Corte Cost. 26 luglio 1993 n. 365; Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85). E di nuovo valgono al riguardo i lavori fatti in Assemblea costituente. Ruini: “Il comunismo puro ed il liberismo puro sono due ipotesi e schemi astratti, che non si riscontrano mai concretamente nella realtà…….La realtà è sempre una sintesi”. E sull’idea di piani statuali di regolamento dell’attività economica osservava: “Piano non significa piano integrale, coattivo, alla russa, che sopprima l’iniziativa privata. Nella nostra costituzione abbiamo messo che l’iniziativa economica privata è libera. Evidentemente un piano che sopprimesse l’iniziativa privata non è ammissibile (Così Meuccio Ruini nella seduta del 13 maggio 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, cit., II, 1664).
[25] Né si può ripetere, in questo caso, la frase abusata secondo la quale “Ce lo chiede l’Europa”, poiché non è vero che l’Europa ha chiesto all’Italia, o ad altri paesi europei, una revisione costituzionale in detta materia, né esistono leggi e/o direttive europee per le quali era necessario modificare la Costituzione. V. su ciò anche G. SEVERINI – P. CARPENTIERI, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’art. 9 della Costituzione, in questa rivista, settembre 2021.
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