ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La stizza della Corte dinanzi al giudice irrispettoso
(nota a Corte cost. n. 127/2021)[1]
di Francesco Dal Canto
1. C’è un passaggio nella sentenza in commento che lascia stupiti.
Si tratta del punto 2 del dispositivo, ove può leggersi, testualmente, che la Corte “ordina la trasmissione degli atti del presente giudizio al Procuratore generale presso la Corte di cassazione per gli eventuali provvedimenti di competenza”.
La misura è più unica che rara. Prospettando l’avvio di un possibile procedimento disciplinare, essa è chiaramente volta a stigmatizzare la singolare condotta del giudice rimettente che, dapprima, promuove la questione di costituzionalità di alcune disposizioni contenute nel codice di procedura penale e, successivamente, riassume e decide il giudizio a quo senza attendere la conclusione del processo costituzionale. Si noti che il giudice rimettente non si pone il problema di revocare l’ordinanza di rimessione, come pure eccezionalmente e altrettanto problematicamente era accaduto in passato, bensì, più semplicemente, riavvia il giudizio sospeso, sganciando il suo esito da quello del processo celebrato dinanzi alla Corte costituzionale.
Esclusivamente a tale profilo è dedicata questa breve nota.
2. È utile ripercorrere sinteticamente i fatti. Con ordinanza del 9 settembre 2020 il Tribunale di Lecce promuove le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438, comma 6, e 458, comma 2, c.p.p., in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui essi non consentivano all’imputato, in caso di rigetto da parte del g.i.p. della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, di riproporre la richiesta di rito alternativo al giudice del dibattimento.
Nella specie, il giudice rimettente stava procedendo nei confronti di un imputato il quale, dopo essere stato rinviato a giudizio, aveva tempestivamente proposto al g.i.p. richiesta di giudizio abbreviato condizionata all’acquisizione delle indagini difensive e all’audizione di un testimone; tale richiesta, tuttavia, era stata respinta dal giudice, che aveva ritenuto tale integrazione probatoria incompatibile con le caratteristiche del rito.
Il Tribunale, cui l’imputato si rivolge rinnovando la medesima istanza, ritiene che la stessa debba essere rigettata in quanto la possibilità di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato non era stata contemplata nel nuovo testo dell’art. 438, comma 6, c.p.p., recentemente modificato dalla legge n. 33/2019; e ciò a differenza di quanto era invece previsto nel regime precedente, nel quale tale la possibilità era stata introdotta proprio da una pronuncia additiva della Corte costituzionale (sent. n. 169 del 2003). Sulla base di tali argomenti il collegio ritiene alfine necessario promuovere la questione di costituzionalità, atteso che la suddetta mancata previsione aveva determinato un vulnus al diritto di difesa dell’imputato.
Di lì a pochi mesi (15 febbraio 2021) avviene un fatto nuovo, piuttosto anomalo. Il giudice rimettente, infatti, cambia radicalmente idea e, con una nota del Presidente della sezione procedente, comunica alla Corte, affinché essa “assuma le determinazioni del caso, anche in punto di rilevanza della sollevata questione”, di avere disposto la prosecuzione della trattazione del processo, “attesa l’esigenza di anticipare la trattazione del giudizio a quo, anche in considerazione dello stato cautelare cui è attualmente sottoposto l’imputato e considerato che la sollevata questione di legittimità costituzionale può ritenersi superata dalla già intervenuta pronuncia sulla medesima questione della Corte cost., sent. n. 169/2003, sulla cui portata non ha inciso la novella relativa all’art. 438 c.p.p. recata dalla legge n. 33/2019”. E poco dopo (27 maggio 2021), in effetti, il Tribunale rimettente invia una seconda nota alla Corte, comunicando di avere pronunciato il 28 aprile 2021, in esito a giudizio abbreviato, sentenza di condanna dell’imputato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione.
Dinanzi a tale tortuoso iter, la Corte osserva, innanzi tutto, che la decisione di dare prosecuzione al giudizio a quo, nonostante la pendenza dell’incidente di costituzionalità, “non elide la perdurante rilevanza delle questioni prospettate” in forza del principio di autonomia del processo costituzionale che, come tale, non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione. Si tratta, com’è noto, di un consolidato indirizzo giurisprudenziale in forza del quale l’accertamento della rilevanza ha carattere istantaneo, ovvero esso fotografa il legame oggettivo tra i due giudizi nel momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato.
Sulla base di tali presupposti, la Corte entra nel merito dei dubbi di costituzionalità prospettati, giungendo, peraltro, a dichiarare l’inammissibilità della questione in ragione dell’erroneità delle premesse interpretative dalle quali muoveva l’ordinanza di rimessione. In particolare, la Corte sottolinea che la questione sollevata era in realtà priva di oggetto, in quanto il giudice rimettente aveva erroneamente ipotizzato l’esistenza di una lacuna in effetti insussistente, stante la perdurante operatività dell’addizione operata dalla richiamata pronuncia n. 169 del 2003, non messa in discussione dalla novella intervenuta nel 2019, sebbene da quest’ultima non riprodotta espressamente.
3. Così ricostruita la vicenda, la prima osservazione che può essere svolta conduce a evidenziare il paradosso che la caratterizza.
In buona sostanza la Corte, riconoscendo che la disciplina introdotta con la pronuncia additiva del 2003 doveva ritenersi ancora operante nell’ordinamento, sottolinea la circostanza che il giudice non avrebbe potuto promuovere la questione di costituzionalità; egli, al contrario, avrebbe dovuto far buon uso dei suoi poteri interpretativi consentendo da subito all’imputato di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato. Si tratta -appunto, paradossalmente - della stessa conclusione cui giunge, in seconda battuta, anche il giudice rimettente, quando, rendendosi conto dell’errore commesso, torna sui propri passi e dispone la prosecuzione del processo. Un ravvedimento tardivo, tuttavia, che fa compiere al giudice un’operazione non in armonia con le regole che governano il processo costituzionale incidentale.
Una volta che quest’ultimo è stato innescato, infatti, la parola passa alla Corte e, fin quando essa non si è pronunciata, il giudizio rimane sospeso. E’ lo stesso Giudice del leggi, nella sentenza in commento, a ricordare che tale conclusione si ricava, in particolare, dall’art. 23, comma 2, della legge n. 87 del 1953: “l’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso” (c.vi aggiunti).
Ne consegue che non rientra nella discrezionalità del giudice rimettente cambiare idea sulle decisioni assunte quando ormai il percorso che ha investito il Giudice costituzionale è stato attivato. E del resto, nello stesso senso - per quanto si tratti di argomento piuttosto formalistico e probabilmente non del tutto aderente alla prassi - depone anche la circostanza che il giudice a quo, una volta trasmessi gli atti processuali alla Corte, non ha più la materiale disponibilità degli stessi; e dunque, anche volendo, non dovrebbe poter riassumere il giudizio se non chiedendo formalmente la restituzione del fascicolo al Giudice delle leggi.
Si tratta di capire, peraltro, se la conclusione appena riferita vada accolta come un principio inderogabile, come sembra ritenere la Corte, o possa ammettere eccezioni. A tale proposito può in effetti essere richiamato l’orientamento non monolitico della dottrina: se la stessa, infatti, si è mostrata generalmente contraria all’ipotesi che possa essere revocata l’ordinanza di rimessione, al fine di non compromettere l’interesse generale alla legalità costituzionale, essa ha invece mostrato delle posizioni meno perentorie con riguardo all’ipotesi di revoca della sola sospensione del giudizio a quo, evidenziandosi da parte di alcuni l’opportunità, appunto come eccezione alla regola, ovvero di fronte a taluni specifici fatti sopravvenuti, di distinguere tra situazione e situazione, al fine di contemperare interessi di volta in volta eventualmente concorrenti (cfr., tra gli altri, A. Cerri e R. Romboli).
Ciò detto, dalla pronuncia in esame traspare chiaramente la stizza del Giudice delle leggi, che stigmatizza con inusuale durezza la decisione del giudice a quo, qualificandola espressamente come “ipotesi patologica” e, come anticipato, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura generale presso la Corte di cassazione.
4. La Corte costituzionale, dunque, ravvede nel comportamento del giudice rimettente gli estremi di un illecito disciplinare.
Non mi pare vi siano precedenti in termini. Per un caso simile, quanto meno con riguardo ai rapporti tra Corte e giudici rimettenti, può richiamarsi un episodio di cui fu protagonista il Presidente della Corte costituzionale Francesco Saja alla fine degli anni Ottanta, il quale, infastidito dai gravi ritardi con cui numerosi giudici a quibus trasmettevano alla cancelleria gli atti del processo principale, effettuò una segnalazione di censura al C.S.M. Quest’ultimo, nell’emanare a stretto giro una circolare per sollecitare i giudici rimettenti a una maggiore attenzione, inoltrò a propria volta la segnalazione ai vertici della Corte di cassazione.
Ma il caso in commento è decisamente più grave, in quanto è la stessa Corte costituzionale, con sentenza, impegnando dunque al massimo livello la sua autorevolezza, che sollecita un intervento della Procura generale.
Tale durezza è comprensibile soprattutto come reazione a un comportamento percepito come un atto di lesa maestà dal Giudice costituzionale, prima interpellato e poi completamente ignorato, con l’abbandono della questione di costituzionalità al proprio destino. La stessa, invece, appare eccessiva se intesa quale misura volta a garantire la coerenza complessiva del carattere incidentale del processo costituzionale: da questo secondo punto di vista, infatti, come detto, la questione avrebbe probabilmente meritato una risposta più articolata; e ciò anche tenendo conto della forza di precedente che, a prescindere dal caso specifico, essa rivestirà in futuro.
Ciò segnalato, ci possiamo da ultimo domandare, a fronte della tipizzazione degli illeciti disciplinari intervenuta all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, a quale fattispecie disciplinare possa essere ricondotto il comportamento del giudice a quo, tra quelle elencate dal legislatore.
La risposta sembra obbligata, stante la rigidità dell’attuale sistema sanzionatorio. Può venire in gioco, tra gli illeciti disciplinari “nell’esercizio delle funzioni”, esclusivamente la “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile” (cfr. art. 2, lett. g), d.lgs. n. 109 del 2006).
Ma non è scontato che il singolare comportamento del giudice rimettente, certamente poco rispettoso nei confronti della Corte costituzionale, possa integrare il presupposto della gravità. E ciò, anche a prescindere dalle osservazioni più generali poc’anzi svolte, a fronte soprattutto della circostanza che il dovere di non proseguire il processo prima della pronuncia della Corte, pur rintracciabile nella natura del giudizio incidentale, non è espressamente sancito in alcuna disposizione di legge. Lo stesso art. 23 della legge n. 87/1953, opportunamente richiamato nella pronuncia in commento, se impone certamente la sospensione del processo principale, non stabilisce in senso stretto un divieto, formale e assoluto, di revocare la stessa in un secondo momento.
Si tratta, dunque, di attendere come si muoverà la Procura generale della Cassazione, investita di una responsabilità inconsueta e particolarmente pesante.
[1] La presente nota, comprensiva di note a piè di pagina, è in corso di pubblicazione anche sulla rivista Giurisprudenza costituzionale.
La lenta erosione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Prime note ai “criteri di priorità” indicati dal Parlamento
di Stefano Civardi
Come noto, la L. 134/2021 (c.d. “Riforma Cartabia”) si compone di due articoli: il primo, articolato in commi e sottocommi, contenente “delega al Governo per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale”; il secondo, recante novelle al codice penale e di rito, immediatamente precettive (la legge è stata pubblicata sulla gazzetta ufficiale n. 237 del 4.10.2021).
In questi essenziali appunti ci si occupa del contenuto dell’art. 1, comma 9, lett. i). La legge delega recita: “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti” .
Non è questa la sede per positivamente commentare la “svolta legislativa” conseguente all’ “allineamento” della procedura di approvazione dei progetti organizzativi degli uffici requirenti a quella relativa alle tabelle degli uffici giudicanti. Se alla legge delega sul punto seguiranno tempestivi decreti delegati di attuazione nel termine annuale previsto, si realizzerà la prima robusta inversione di rotta rispetto all’indiscutibile assetto gerarchico delle Procure della Repubblica consegnatoci dal decreto l.vo 106/2006.
Ciò che vorrebbe, invece, essere messo a fuoco da queste embrionali note è la prima parte della disposizione.
Apparentemente la norma non sembrerebbe così innovativa in quanto, ricalcando il noto “mantra” del fine di garantire l’ ”efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, prevede semplicemente che gli uffici del Pubblico Ministero indichino nei progetti organizzativi i criteri di priorità nella “selezione” delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. La qual cosa è già espressamente prevista nella circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 16.11.2017, sull’organizzazione degli uffici requirenti: l’art. 3, comma 2 già contempla infatti che il procuratore della Repubblica possa “elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti”. Si badi bene che l’organo di governo autonomo facoltizzava l’indicazione di trasparenti criteri di priorità nei progetti organizzativi, ma non ne rende in alcun modo obbligatoria l’elaborazione. Del resto, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2017 si era già spinto fino all’estremo limite consentito in sede di normazione secondaria, non essendo previsto in alcun modo dalla normazione primaria una “cernita” nella trattazione prioritaria delle notizie di reato per gli uffici requirenti, essendo per contro previsti, dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p., criteri per l’organizzazione dei ruoli dei soli uffici giudicanti (per una puntuale ricostruzione degli interventi del CSM si legga il secondo pare del Consiglio sulla “riforma Cartabia” – ddl AC n.2435 - licenziato con delibera del 29.7.2021, da p. 13).
L’assoluta novità è invece nella “duplice copertura legislativa” ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi. Da un lato, infatti, il legislatore delegante prevede espressamente, non più come semplice facoltà, l’individuazione, secondo canoni di trasparenza e predeterminazione, delle notizie di reato da trattare con priorità negli uffici di Procura; dall’altro, prescrive che tale selezione avvenga nell’ambito dei “criteri generali” indicati dal Parlamento con legge.
Proprio su quest’ultimo punto si sono accentrate le critiche più preoccupate. Infatti, mentre la selezione operata dal procuratore della Repubblica nei progetti organizzativi sarebbe frutto di un concreto lavoro sui flussi delle notizie di reato in entrata, sulla definizione dei procedimenti e sullo studio dei mezzi per meglio fronteggiare le emergenze criminali in un determinato territorio, le indicazioni di priorità del Legislatore inevitabilmente decamperebbero dall’ambito meramente organizzativo degli uffici requirenti, per invadere quello dell’orientamento della funzione giudiziaria a secondo degli indirizzi politici delle variabili maggioranze parlamentari.
La comprensibile critica, tuttavia, non coglie pienamente quanto sia naturale ricondurre alla volontà del Parlamento una scelta di criteri generali per determinare le priorità nella trattazione di diverse tipologie di reati. Ciò che è penalmente rilevante, lo è, secondo la nostra Costituzione, per espressa previsione di legge. Sarebbe curioso che fattispecie di reato degradassero a fatti di rilevanza penale “non prioritaria”, a prescindere dal Parlamento.
Con spunto più radicale e provocatorio, in realtà, occorrerebbe riflettere su che cosa significhi “selezionare” le priorità, soprattutto con riferimento ai fascicoli ritenuti non prioritari, con particolare riferimento all’evento, non del tutto episodico, di estinzione dei reati per decorso del termine di prescrizione. Nell’eufemismo dei termini la norma è volta a garantire quel “corretto, puntuale, uniforme esercizio dell’azione penale”, tanto agognato dal legislatore del 2006. Nella pratica degli Uffici, tuttavia, è noto come l’azione penale non possa essere tempestivamente, efficacemente e uniformemente garantita, istruendo convenientemente tutte le notizie di reato che approdano negli uffici requirenti di primo grado. Conscio di questo assunto, tanto sperimentato quanto indicibile, da qualche decennio il legislatore cerca l’impossibile quadratura del cerchio. Se, da un lato, mantiene l’ossequio al sacrosanto principio di obbligatorietà dell’azione penale, presidio tanto di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, quanto di indipendenza dell’azione dell’Autorità Giudiziaria, dall’altro, si accinge a formalizzare una “obbligatorietà per priorità”, laddove la vera domanda rimane il destino di ciò che sarà indicato, de residuo, come secondario.
Il silenzioso ribaltamento “etico” nel processo di riforma della fiscalità internazionale: spunti a margine dell’accordo OCSE dell’8 ottobre 2021
di Francesco Pepe*
Sommario: 1. Premessa: l’inaspettata accelerazione nello sviluppo del progetto BEPS: l’accordo politico sui “due pilastri” dell’8 ottobre 2021. – 2. Le esigenze alla base dell’accordo: garantire alle market-jurisdictions il diritto di tassare imprese multinazionali ivi operanti indipendentemente da una presenza “fisica” nel territorio (Pillar One) ed assicurare una loro tassazione minima “globale” (Pillar Two). – 3. (segue): limiti e criticità dell’attuale accordo. – 4. Le cause “storiche” dell’accordo: la necessità “strategica” di reperire ingente gettito nella post-pandemia. – 5. Il ribaltamento “etico” sotteso ai nuovi moduli impositivi: il diritto internazionale tributario da argine al potere impositivo statale a “strumento di potenza” delle nazioni.
1. Premessa: l’inaspettata accelerazione nello sviluppo del progetto BEPS: l’accordo politico sui “due pilastri” dell’8 ottobre 2021
Se osservassimo la “cronologia” del processo di riforma della fiscalità internazionale che, da quasi 15 anni, si sta svolgendo sotto l’egida dell’OCSE (cd. progetto BEPS: Base Erosion and Profit Shifting), noteremmo subito una sua incredibile accelerazione a partire dalla fine del 2020 e, soprattutto, nel corso del 2021[1]. Incredibile perché – nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi dieci anni da parte dell’OCSE– fino a poco tempo fa i più ritenevano pressoché impossibile giungere ad un accordo su larga scala[2], salvo mutare radicalmente approccio al problema[3]. Troppe infatti le differenze tra sistemi, troppe le divergenze tra interessi nazionali, troppi gli aspetti tecnici apparentemente “di dettaglio”, ma che in realtà sottendevano un enorme impatto geopolitico, dunque fortemente conflittuali.
Eppure, tra luglio ed ottobre 2021, complice una inaspettata apertura degli Stati Uniti[4], ben 136 Paesi (compresi gli Stati membri dell’UE) hanno prestato adesione (per ora solo in termini politici) alla proposta di modifica delle regole della fiscalità “a due pilastri” (Two-Pillars); proposta avanzata ad inizio 2019, affinata nel corso del 2020 e resa più nitida nel recentissimo accordo dell’8 ottobre 2021[5]. È interessante osservare in cosa consista tale proposta e, soprattutto, perché proprio ora essa ha trovato un tale inaspettato riscontro internazionale.
2. Le esigenze alla base dell’accordo: garantire alle market-jurisdictions il diritto di tassare imprese multinazionali ivi operanti indipendentemente da una presenza “fisica” nel territorio (Pillar One) ed assicurare una loro tassazione minima “globale” (Pillar Two)
Le esigenze che essa intende soddisfare sono note. In primo luogo, superare il tradizionale criterio dell’ancoraggio “fisico” dell’impresa al territorio di uno Stato (attraverso la residenza fiscale o la “stabile organizzazione”) per la tassazione dei profitti ivi prodotti, criterio da decenni consacrato in pressoché tutti i sistemi nazionali e nei trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, ma non più adeguato in un’economia “digitalizzata”[6]. La “de-materializzazione” di molti beni e servizi consente infatti alle imprese di “de-territorializzarsi”, di operare cioè su più mercati, acquisendo da essi ampie quote di fatturato, senza alcuna necessità di collocare in loco proprie strutture; ciò che – de iure condito – impedisce agli “Stati-mercato” (market jurisdictions) di operare una qualche imposizione sui profitti ivi realizzati[7]. La proposta OCSE (oggi accolta) intende assicurare proprio a questi Paesi il diritto di tassare (in tutto o in parte) tali flussi di ricchezza, slegando il prelievo da una presenza “reale” dell’impresa nel proprio territorio. È questo l’oggetto specifico del cd. Pillar One, che ha trovato traduzione tecnica in una ideale suddivisione del “profitto globale” annuo dei gruppi multinazionali interessati[8] in varie quote, alcune delle quali sottoposte – ex se o a determinate condizioni – a tassazione nelle market-jurisdictions. Più esattamente, espunto l’ordinario margine di redditività (presuntivamente fissato al 10% del fatturato), il profitto residuale (residual profit) è poi ulteriormente suddiviso in due quote (del 25% e del 75%), la prima delle quali (Amount A) ripartita tra le diverse market-jurisdictions in proporzione al fatturato conseguito in ciascuna di esse; la seconda (Amount B) assegnata alla residence-jurisdiction o alla market-jurisdiction in base ai consueti criteri di territorialità (residenza fiscale, stabile organizzazione)[9].
La proposta e l’accordo dell’ottobre 2021 non si limitano però solo a questo. Accanto a tale aspetto – che attiene al “come” tassare le imprese multinazionali (soprattutto, ma non solo) “digitali” – essa stabilisce “quanto” tassare tali soggetti. In sede internazionale ed europea, infatti, altra spinosa questione (invero, più politica che tecnica) riguarda la cd. “concorrenza fiscale internazionale”: quella “corsa al ribasso” del prelievo domestico teso ad accaparrare investimenti e residenti (o, se si preferisce, capitali e capitalisti…)[10]. Contro tale fenomeno – esacerbato oltremodo dalla digitalizzazione dell’economia, dagli effetti perversi sul piano dell’equità fiscale, della sostenibilità del welfare state, quindi della “giustizia sociale”[11] – l’OCSE propone – in sostituzione delle eventuali digital taxes esistenti (che verrebbero infatti abrogate) – una “tassazione minima globale” (Global Minimum Tax: GMT) dei profitti conseguiti dalle multinazionali, sui quali si vuole far gravare comunque un prelievo (minimo) del 15%[12].
È questo l’oggetto del cd. Pillar Two, che assegnerebbe ad ogni Stato il diritto (dovere?) di applicare sui flussi reddituali “trans-nazionali” un sorta di sovra-tassazione interna a carattere “reattivo-compensativo”, solo cioè ove sul medesimo flusso lo Stato estero applicasse un’imposizione interna inferiore al 15%, e nella misura strettamente necessaria a compensare tale deficit. È evidente come, in tal modo, da un lato, verrebbero di fatto vanificate tutte quelle politiche nazionali di “captazione” fiscale attuate mediante prelievi inferiori alla soglia del 15%; dall’altro, ed in conseguenza di ciò, gli Stati sarebbero indotti ad allineare (quanto meno) a tale livello minimo l’imposizione domestica, ridimensionando di molto il fenomeno della “concorrenza fiscale internazionale”.
3. (segue): limiti e criticità dell’attuale accordo
Su tali proposte occorre però essere chiari: siamo ancora in una fase embrionale di sviluppo. Certamente, sapere che su tali linee di fondo vi sia un consenso diffuso è un enorme passo in avanti, specie se si ha a mente il perdurante “stallo” del decennio precedente. Tuttavia – come si suol dire e come specialmente avviene nel mondo del diritto – “è nei dettagli che il diavolo nasconde la propria coda”. C’è infatti una larga serie di punti ancora irrisolti, vari aspetti di carattere “tecnico” ancora da definire, ma sui quali si gioca la capacità della proposta non solo di superare lo stadio dell’accordo politico (soft law) e divenire atto giuridico vincolante (hard law), ma anche – ove approvata – di realizzare davvero i propri ambiziosi obiettivi[13].
Ad esempio, il riferimento alla sola “aliquota” nella configurazione del “minimo” imposto dalla GMT è – intuitivamente – in sé non significativo ed anzi ingannevole in presenza di meccanismi nazionali di calcolo delle basi imponibili tra loro divergenti. Per funzionare, una simile riforma imporrebbe cioè la fissazione di una qualche regola che renda omogenei tali basi a livello internazionale, o – in alternativa – che fornisca un criterio adeguato a raffrontare i livelli effettivi dei vari (e pur diversi) sistemi di tassazione domestica. Anche l’ipotesi di aggancio al consolidato civilistico (determinato secondo i principi contabili internazionali IAS/IFRS) non priva il tema di complessità, attesa l’ineliminabile presenza in ogni sistema impositivo di norme fiscali volte a stabilire (per ragioni di semplificazione, di cautela, di agevolazione, finanche di mero gettito) “variazioni” dell’imponibile rispetto al risultato contabile (cd. timing/permanent differences)[14]; o di norme finalizzare a definire i termini di “trasmissione” delle perdite tra periodi di imposta ai soli fini tributari (losscarry forward o carry back). Senza contare i rischi di doppia imposizione che verrebbero a crearsi dal combinato operare dei due “Pillars”, ben evidenziati in sede di analisi economico-finanziaria[15].
Si tratta, in tutta evidenza, di questioni – sì – “tecniche”, ma che incidono in “aree” regolative a forte conflittualità politica e che, quando le si dovrà affrontare concretamente, potrebbero paralizzare il processo di riforma[16], o innescare – in sede di negoziazione – “rappresaglie” di vario genere, come già avvenuto in passato, specie nelle relazioni tra USA e UE[17].
4. Le cause “storiche” dell’accordo: la necessità “strategica” di reperire ingente gettito nella post-pandemia
Ciò su cui – con un po’ meno incertezza – può invece farsi una riflessione riguarda le cause “storiche” del mutamento di approccio di buona parte della comunità internazionale e che ha trovato “epifania” nel recente accordo di ottobre 2021. Sebbene siano vari i fattori che hanno concorso a ciò, tuttavia è dato ravvisare in essi un “minimo comune denominatore”: la necessità degli Stati nazionali di reperire ingente gettito (potrebbe dirsi) “a qualunque costo”!
Una necessità sorta con la crisi finanziaria ed economica di inizio XXI secolo (prima quella statunitense dei sub-prime del 2009-2011, poi quella europea del debito sovrano del 2010-2011), ma amplificatasi oltremodo con la crisi da Covid-19, la quale ha assegnato a questa esigenza un rilievo non più solo “interno” (per la sostenibilità del welfare nazionale), ma anche “esterno” o – come forse più correttamente si dovrebbe dire – “strategico”. Come altrove osservato[18], in tale contesto l’acquisizione di risorse finanziarie finisce infatti per assumere la fattezza di “bisogno geo-politico fondamentale”, di priorità che ogni Stato deve soddisfare per “restare in piedi”, economicamente e politicamente, all’interno della comunità internazionale. Mostrarsi pagatori solvibili agli occhi dei mercati finanziari, nonché – per gli Stati membri dell’UE, coinvolti nel più grande piano di prestiti ed investimenti dalla fine del secondo dopoguerra (Next GenerationEU) – delle stesse istituzioni europee, rappresenterà nei prossimi anni un fattore determinante nella definizione del proprio “ruolo” e del proprio “potere negoziale” su scala europea e mondiale. E qui sta il punto.
Apparendo impensabile e contraddittoria l’idea di ottenere più gettito mediante un incremento della tassazione domestica su imprese, lavoratori e famiglie (l’immane sforzo finanziario serve a garantire la “ripresa” proprio di tali soggetti!), l’unica via politicamente praticabile è subito apparsa quella di una tassazione dei gruppi multinazionali, specie “digitali” (MNEs). La coscienza di come queste imprese non solo abbiano retto meglio la crisi Covid-19, ma a volte ne abbiano anche tratto ulteriore profitto, non poteva che far ravvisare proprio in esse il target fiscale (domestico ed internazionale) preferito.
Ed è esattamente in questa prospettiva che, dall’altro lato dell’Atlantico, si è posta anche la nuova amministrazione statunitense a guida Biden[19], la quale (contrariamente a quanto avvenuto sotto la presidenza Trump) ha infatti deciso non solo di modificare radicalmente ed in tal senso il proprio ordinamento fiscale interno, ma anche di sposare la proposta OCSE di riforma della tassazione internazionale a “due pilastri”, sbloccandone di fatto l’approvazione a livello internazionale[20]. Al di là dei dettagli “tecnici” della prefigurata riforma statunitense (che qui non possono essere trattati)[21], gli aspetti interessanti di questa inversione di rotta “globale”, a sommesso avviso di chi scrive, sono soprattutto due.
5. Il ribaltamento “etico” sotteso ai nuovi moduli impositivi: il diritto internazionale tributario da argine al potere impositivo statale a “strumento di potenza” delle nazioni
In primo luogo, potrebbe sostenersi che un simile approdo “politico” – oltre ad essere “nell’aria” da tempo (come confermato dal progetto BEPS e dai vari recenti tentativi nazionali di introdurre digital taxes) – rappresenta in qualche modo il (prevedibile?) frutto dell’ultimo stadio evolutivo del capitalismo di fine ‘900. Così come quest’ultimo, cullato per anni nel chiuso dello Stato, è via via cresciuto, si è emancipato dallo Stato e, globalizzandosi, ne ha eroso grandemente il potere[22]; analogamente, le MNEs (che di tale processo sono la plastica rappresentazione), una volta cresciute a dismisura nel mercato “globale” per ricchezza e potere (anche politico)[23], non potevano che divenire – prima o poi, agli occhi degli Stati – le “prede più ambite”, da cui trarre risorse finanziarie[24].
In secondo luogo, nel tentativo di “cacciare” tali prede, si adottano (e si accettano!) moduli impositivi sempre più spesso slegati dai tradizionali indici di capacità economica (patrimonio, reddito, consumo): ci si affida ad indici “lordi” di ricchezza (fatturato), ad elementi in sé “non economici” (come nelle digital taxes: dati trasmessi o scaricati, interazioni con un sito web, numero di utenti “attivi”, ecc…), a formule di quantificazione/imputazione di quote di profitto del tutto arbitrarie e probabilmente definite in funzione della sola bruta “fattibilità politica” (come gli Amount A ed Amount B sopra menzionati)[25]. Il che – si osservi – potrebbe interpretarsi come il sintomo (esteriore e superficiale) di un (silenzioso e sommerso, ma) radicale e progressivo ribaltamento della struttura “etica” dell’imposizione.
Il diritto internazionale tributario ha sempre funzionato prioritariamente come criterio di limitazione (e coordinamento) del (naturale ed originario) potere impositivo statale[26], in un certo senso ribadendo – seppur a livello sovra-statale e per finalità connesse allo sviluppo del commercio internazionale – la funzione “propria” del diritto in quanto tale e del diritto tributario in particolare: di strumento a tutela della libertà dei “governati” rispetto alla volontà ed al potere dei “governanti”. In tal senso, le costituzioni fiscali, evocando principi e concetti come “consenso all’imposta”, “capacità contributiva”, “ragionevolezza” e “congruità” dei presupposti, esprimevano essenzialmente degli argini al potere impositivo, tesi ad evitare che i governanti, nell’esercizio di quest’ultimo, potessero esercitare pretese vessatorie o “inumane” nei confronti dei governati[27]. Ciò tuttavia è avvenuto perché – fino ad oggi, in genere – il contribuente è sempre stato (implicitamente) apprezzato come parte debole del rapporto tributario, come quel soggetto che – in quanto “passivo”, esposto alla soggezione dell’autorità fiscale – appariva bisognoso di “tutela” e di “protezione”.
Il fatto è che questo presupposto “etico” oggi ha perduto la sua solidità, quanto meno in relazione ad una peculiare cerchia di contribuenti, ossia quelli operanti in una dimensione trans-nazionale. Che le MNEs non possano più apprezzarsi come “parti deboli” del proprio rapporto fiscale con i singoli Stati è evidente; anzi, che esse – per capacità di definire artificialmente il proprio prelievo (tax arbitrage) ovvero di evitarne sostanzialmente il peso (tax avoidance)[28] – oggi ne siano la “parte forte” è sotto gli occhi di tutti. La debolezza è cioè dello Stato e, di riflesso, dei suoi cittadini, privati di rilevanti quote di gettito, dunque di servizi pubblici (più) efficienti e di welfare (più) adeguato. Da qui si comprende l’intento non di arginare, ma di rafforzare verso tali soggetti il potere impositivo statale, andando (pragmaticamente) anche ben oltre gli schemi di tassazione consueti.
L’accordo dell’8 ottobre scorso sembra muoversi questa linea, la quale – ove dovesse trovare in futuro consacrazione in accordi formali, giuridicamente vincolanti – potrebbe creare un nuovo terreno “culturale” su cui implementare, anche nell’ambito della tassazione domestica, nuove tecniche di imposizione, eventualmente rispondenti a criteri maggiormente “pragmatici”, più di efficienza che di equità. Questa circostanza – nella misura in cui dovesse portare il legislatore nazionale ad allontanarsi troppo dai consueti canoni della politica fiscale – potrebbe tuttavia generare nuove spinose questioni di carattere sociale, politico e giuridico, di rilievo anche costituzionale, sul cui esito e sui cui rischi – come la Storia insegna[29] – nessuno può fare previsioni di sorta.
*Associato di Diritto tributario – Università degli Studi di Sassari
[1] Per una sintesi delle finalità e delle tappe di sviluppo di tale progetto, cfr. https://www.oecd.org/tax/beps/.
[2] Tra i tanti, T. Di Tanno, La difficile arte di tassare le imprese digitali, in lavoce.info, 3 novembre 2020, https://www.lavoce.info/archives/70345/la-difficile-arte-di-tassare-le-imprese-digitali/.
[3] In tal senso, sia consentito il rinvio a F. Pepe, Dal diritto tributario alla diplomazia fiscale. Prospettive di regolazione giuridica delle relazioni fiscali internazionali, Milano, 2020, spec. 159 ss.
[4] T. Di Tanno, S. Giannini, Tasse sulle multinazionali: uno spiraglio dall’America, in lavoce.info, 13 aprile 2021, https://www.lavoce.info/archives/73561/tassazione-delle-multinazionali-uno-spiraglio-dallamerica/.
[5] OECD-G/20 BEPS Project, Statement on a Two-Pillar Solution to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, 8 october 2021, https://www.oecd.org/tax/beps/statement-on-a-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-october-2021.htm.
[6] T. Di Tanno, 2023, cambia la tassazione delle multinazionali, in lavoce.info, 12 ottobre 2021, https://www.lavoce.info/archives/90194/2023-cambia-la-tassazione-delle-multinazionali/.
[7] Sul punto, ex multis, S. Cipollina, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, 27 ss.; L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, in Riv. dir. trib., 2018, I, 383.
[8] Quelli con volume di affari superiore a 20 miliardi di euro e con profitti superiori al 10% del fatturato, indipendentemente dal settore di attività, salve alcune esclusioni.
[9] Su queste criticità irrisolte, T. Di Tanno, S. Giannini, Tasse sulle multinazionali: uno spiraglio dall’America, cit.; T. Di Tanno, 2023, cambia la tassazione delle multinazionali, cit.
[10] Sul tema, si veda, specialmente, T. Dagan, International Tax policy. Between Competition and Cooperation, Cambridge, 2018.
[11] Su cui, specialmente, F. Gallo, Potestà normativa di imposizione, mercato e giustizia sociale, in Giur. comm., 2018, I, 371; G. Melis, Evasione ed elusione fiscale internazionale e finanziamento dei diritti sociali: recenti trends e prospettive, in Rass. Trib., 2014, 1283; A. Perrone, Tax competition e giustizia sociale nell’Unione europea, Milano, 2019.
[12] Sul tema, cfr. J. Becker, J. Englisch, Implementing an international effective minimum tax in the EU (June 23, 2021), https://ssrn.com/abstract=3892160.
[13] In tal senso, sebbene in relazione al precedente accordo del G-/ di giugno 2021, F. Gastaldi, M.G. Pazienza, A. Zanardi, Tassazione delle multinazionali: il sentiero stretto dell’OCSE, in lavoce.info, 6 luglio 2021, https://www.lavoce.info/archives/88357/tassazione-delle-multinazionali-il-sentiero-stretto-dellocse/.
[14] Su cui T. Di Tanno, S. Giannini, op. cit.
[15] Su cui F. Gastaldi, M.G. Pazienza, A. Zanardi, op. cit.
[16] Su questo rischio, seppur in relazione all’accordo del G-7 di giugno 2021, cfr. Y. Brauner, The Return of the Phoenix? The G-7 Countries’ Agreement on a 15% Minimum Tax, in Intertax, vol. 49, issue 10, 2021, 750 ss., spec. 752.
[17] M. Greggi, Usa-Ue: partita a scacchi sulle tasse sulle imprese, in lavoce.info, 2 settembre 2016, https://www.lavoce.info/archives/42637/usa-ue-partita-a-scacchi-sul-fisco/.
[18] Sia consentito il rinvio a F. Pepe, L’emergenza Covid-19 nell’Unione europea: verso una solidarietà tributaria “strategica”?, in Riv. dir. trib. suppl. online, 30 aprile 2020, https://www.rivistadirittotributario.it/2020/04/30/lemergenza-covid-19-nellunione-europea-verso-solidarieta-tributaria-strategica/.
[19] U.S. Department of the Treasury, The Made In America Tax Plan, April 2021, https://home.treasury.gov/system/files/136/MadeInAmericaTaxPlan_Report.pdf.
[20] Sul punto, L. Carpentieri, La proposta fiscale dell’Amministrazione Biden e l’ambizione di cambiare le regole del gioco: sarà davvero il tramonto del profit shifting delle multinazionali?, in Riv. dir. trib. suppl. online, 14 maggio 2021, https://www.rivistadirittotributario.it/2021/05/14/la-proposta-fiscale-dellamministrazione-biden-e-lambizione-di-cambiare-le-regole-del-gioco-sara-davvero-il-tramonto-del-profit-shifting-delle-multinazionali/.
[21] Sui quali si rinvia a R. Succio, Note minime di sintesi su alcuni aspetti tributari dell’American Jobs Plan, in Riv. dir. trib. suppl. online, 4 ottobre 2021, https://www.rivistadirittotributario.it/2021/10/04/note-minime-di-sintesi-su-alcuni-aspetti-tributari-dellamerican-jobs-plan/.
[22] C. Galli, Sovranità, Bologna, 2019, 109.
[23] Sul punto, anche per riferimenti, C. Focarelli, Economia globale e diritto internazionale, Bologna, 2016, 243-245.
[24] Su questi aspetti, per più approfondite osservazioni, sia consentito rinviare a F. Pepe, Dal diritto tributario alla diplomazia fiscale, cit., 157.
[25] F. Pepe, op. ult. cit., 151 ss.
[26] A. Fantozzi, K. Vogel, Doppia imposizione internazionale, in Dig. IV, disc. civ., sez. comm., vol. V, Torino, 1990, 190.
[27] W. Schön, Taxation and Democracy, in Tax Law Review, Vol. 72, 2018, https://ssrn.com/abstract=3267279.
[28] Su queste pratiche, ex multis P. Pistone, La pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, in F. Amatucci, R. Cordeiro Guerra (a cura di), L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, Canterano, 2016, 275 ss.
[29] C. Adams, For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità, trad. it. a cura di C. Ruffini, Macerata, 2016 (ed. orig. 2001).
Osservazioni sul disegno di legge delega di riforma del processo civile
di Giuliano Scarselli
Testo dell’audizione alla Camera dei Deputati sulla riforma del processo civile
1. Immagino che questa audizione sia finalizzata ad acquisire osservazioni tecniche specifiche, relative a singoli punti contenuti nel disegno di legge delega di riforma del processo civile.
A questo mi atterrò; mi siano tuttavia consentite alcune brevissime osservazioni preliminari.
a) La prima è che questa riforma non è pertinente, a mio parere, con l’obiettivo che intende perseguire, ovvero con l’esigenza di ridurre i tempi del processo.
Modificare il rito non serve per ridurre i tempi del processo, e le numerosissime riforme che si sono avute negli ultimi trenta anni lo dimostrano in modo inconfutabile.
Se vogliamo ridurre i tempi del processo, solo un intervento va posto in essere, ed è quello di aumentare il numero dei magistrati.
E’ una cosa così semplice che anche un bambino è in grado di capirla.
D’altronde, se a fronte di 2 milioni di nuove cause in Tribunale all’anno, abbiamo circa 10.000 magistrati, di cui parte sono addetti all’Ufficio della Procura della Repubblica, parte sono giudici che si occupano del penale, parte sono fuori ruolo o non attivi per ragioni varie, cosicché, si ritiene, che circa solo 3.000 magistrati, e non di più, si occupino, per tutti i gradi di giudizio, del contenzioso civile, non si vede proprio come i processi possano durare un tempo ragionevole, se 3.000 magistrati debbano far fronte ad un contenzioso di 2 milioni di cause ogni anno.
Ma su questo niente si trova nel disegno di riforma in commento.
b) Assai pericolose sono poi le novità in tema di Ufficio del processo.
La giustizia è amministrata in nome del popolo, e quindi non può essere delegata ad un team di giovani, per quanto coordinati da un magistrato, appena usciti dalle università, assunti a tempo determinato e con compensi minimi; la giustizia deve essere resa personalmente dai magistrati, secondo scienza e coscienza, così come è sempre stato.
E tanto è più pericoloso l’ufficio del processo, quanto più si penserà ad esso in termini di riduzione dei tempi processuali, perché ogni tempo guadagnato con esso equivarrà ad una semplificazione della funzione giurisdizionale.
I Tribunali non sono aziende, e l’idea che il primo obiettivo da perseguire sia solo, o soprattutto, quello della brevità dei tempi, attraverso una standardizzazione aziendalistica delle decisioni, costituisce, a mio parere, un vulnus.
c) La riforma della famiglia contiene anch’essa, a mio sommesso parere, aspetti preoccupanti.
Lunghissima oltre ogni misura, essa non rappresenta solo una riforma della procedura, bensì costituisce significativo intervento nei rapporti tra giudice e famiglia, immaginando una invadenza nella sfera dei privati che a mio parere, prima di essere approvata, necessitava di riflessioni che non vi sono state.
Peraltro, l’obiettivo doveva essere quello di estendere le regole del “giusto processo” ai giudizi dinanzi ai Tribunale per i minorenni; al contrario qui si sono estese le regole officiose del Tribunale per i minori a tutte le controversie di famiglia.
Non possono modificarsi i rapporti tra Stato e famiglia senza che ciò sia preceduto da idonea discussione; non possono darsi cambiamenti così forti e incisivi con decisioni unilaterali e frettolose.
d) Non condivisibile è altresì l’insieme della disciplina della mediazione e/o conciliazione.
Essa è onnipresente, non v’è momento del processo, fase, grado, nel quale non si faccia riferimento ad essa.
E’ una mediazione che si trova dappertutto, in ogni procedura, dinanzi ad ogni giudice.
Non è pensabile che le parti che vogliono giustizia, e chiedono che il giudice prenda una decisione, debbano in continuazione, e in innumerevoli e infiniti momenti, trovarsi dinanzi all’onere di dover mediare e/o conciliare, pena sempre minacce economiche più o meno dirette, o pena sopportazione di giudizi di rimprovero morale, come se l’esercizio del diritto di azione costituisse un capriccio.
La riforma non disciplina la mediazione solo al punto 4, dedicato ad essa, ma anche al punto 5. lettera l) per la conciliazione in prima udienza, e alla lettera m) per la facoltà del giudice di proporre una conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione, al punto 8 lettera l) per la conciliazione dinanzi al giudice dell’appello, al punto 18 lettera b) 1, circa i compiti degli addetti all’ufficio del processo, tra i quali vi è anche quello della “selezione dei presupposti di mediabilità della lite”, al punto 22, lettera b) sulle modifiche da apportare alla legge 24 marzo 2001 n. 89, al punto 23 lettera f) sui procedimenti in materia di persone e famiglia, che fa riferimento alla possibilità di avvalersi della mediazione familiare, lettera l) sui tentativi di conciliazione, lettere o) e p), ove il mediatore familiare è istituzionalizzato con un elenco presso ogni tribunale, ecc……
Alla fine, sembra quasi che il cuore del processo civile sia la mediazione, non il giudizio; ma ritenere che la tutela dei diritti avvenga in primo luogo mediando, e solo dopo con l’esercizio della funzione giurisdizionale è una svolta epocale, un mutamento forte dell’organizzazione sociale, che credo sia discutibile, e che personalmente non condivido.
2. Ciò premesso, vengo ai singoli punti:
- Al punto 5. lettera i1) si prevede che “nel corso dell’udienza di comparizione le parti devono comparire personalmente ai fini del tentativo di conciliazione previsto dall’art. 185 c.p.c.”
Poiché conciliare la lite è atto volontario, e poiché non mancano nel processo momento con i quali indurre le parti a conciliare, v’è da ritenere preferibile l’attuale disciplina dell’art. 185 c.p.c., in base alla quale la comparizione personale delle parti ai fini della conciliazione si ha solo in ipotesi di congiunta richiesta delle stesse.
Altrimenti questa novità rischia di ingolfare le prime udienze, come già avvenne con la riforma del 26 novembre 1990 n. 353, facendo partecipare all’udienza una miriade di parti senza esiti utili, e con evidente e consequenziale aggravio e dispendio di tempi processuali.
- Al punto 5. lettera l 2.2.) si prevede che il giudice, trattenuta la causa in decisione “assegni termini perentori non superiori a trenta e quindici giorni prima di tale udienza per il deposito rispettivamente delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, salvo che le parti non vi rinuncino espressamente”.
Questa svalorizzazione delle comparse conclusionali non può, a mio parere, trovare consensi.
La riduzione a metà dei termini per il deposito delle memorie non trova giustificazione alla luce del fatto che corre normalmente lungo tempo dall’udienza di chiusura dell’istruzione e quella di chiusura del giudizio; e può essere, invece, tale riduzione, lesiva del diritto all’azione e alla difesa.
Ne’ si vede perché la legge dovrebbe ricordare alle parti che possono rinunciare all’esercizio di questo importante diritto difensivo.
La disciplina attuale è preferibile.
- Al punto 17, lettera d), è previsto che gli atti giudiziari degli avvocati e dei giudici, debbano assicurare “la strutturazione in campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia”.
Si tratta di precisare che la strutturazione in campi può aver ad oggetto le sole informazioni formali del giudizio (nomi delle parti, indicazione dell’ufficio giudiziario, materia oggetto del contendere, ecc….) non i dati attinenti all’esercizio dell’azione o della funzione giurisdizionale.
Va escluso che le parti possano un domani trovarsi ad esercitare il diritto di difesa con l’obbligo di utilizzare moduli predisposti dal Ministero della Giustizia; gli strumenti telematici e/o informatici possono essere utilizzati per facilitare gli adempimenti pratici delle attività giudiziarie, ma, oltre ciò, essi non possono essere pensati ne’ per condizionare o limitare l’esercizio del diritto di azione da parte degli avvocati, ne’ per limitare e/o circoscrivere lo ius dicere del giudice.
- Al punto 18, lettera b) 1 è previsto che gli addetti alla struttura dell’ufficio del processo, fra i vari compiti, abbiano anche quello della “predisposizione di bozze di provvedimenti”.
Si tratta, a mio parere, di un compito da cancellare.
Ed infatti, se si instaurerà la prassi che i provvedimenti vengono redatti in bozza dagli addetti all’ufficio del processo, il rischio sarà quello che i giudici non scriveranno più i provvedimenti, ma solo correggeranno quelli scritti dai loro assistenti.
Si tratterebbe di una novità dirompente, poiché una cosa è studiare un fascicolo direttamente e redigere personalmente il consequenziale provvedimento, altra cosa farsi illustrare da un addetto i fatti di causa, lasciare a questi la redazione del provvedimento, e poi, se del caso, apporre delle correzioni.
Peraltro, così come gli addetti dell’ufficio del processo in cassazione non hanno questo compito (confronta infatti il punto lettera c) 2.2.), allo stesso modo ciò deve valere anche per la giustizia di merito, poiché anch’essa, resa sui diritti dei cittadini, merita eguale attenzione e dignità.
- Al punto 21, in tema di sanzioni processuali per abuso del processo, si legge: “prevedere il riconoscimento all’amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e conseguentemente, specifiche sanzioni a favore della cassa delle ammende”.
Altre sanzioni economiche sono poi sparsamente previste in questa riforma: al punto 23, nel processo in materia di famiglia, sono previste “sanzioni per il mancato deposito della documentazione”, e poi ancora “sanzioni per la mancata comparizione senza giustificato motivo”, ecc….
Osservo che in tutta la storia del processo civile fino ad oggi la responsabilità aggravata non è mai stata considerata illecito commesso contro l’amministrazione della giustizia, bensì, al più, contro l’avversario della lite; ed inoltre, se la responsabilità aggravata dovesse davvero assumere i connotati di un illecito amministrativo, allora questa dovrebbe necessariamente altresì essere disciplinata dalla legge nella sua tipicità, non rimessa alla discrezione del giudice con il generico concetto di “responsabilità aggravata”.
Non può ammettersi un illecito amministrativo rimesso a libera discrezione del giudice, privo di individuazione legale della fattispecie.
A maggior ragione ciò è inammissibile con riferimento al mondo giudiziario, che è un mondo di cose e idee del tutto relative, un mondo fatto di infinite sfumature di grigio, che taluni vedono più chiare, altri più scure.
Diceva Salvatore Satta che “se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece propria quella di essere un’opinione”.
Tutti possono errare nel muoversi nel mondo giudiziario, gli avvocati possono errare, ma anche i giudici possono farlo.
Mancini, ancor prima dell’unità d’Italia, scriveva che “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale” e che, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti” (in Mancini – Pisanelli – Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi, Torino, 1855, II, 9).
E dunque, terrorizzare i cittadini per le conseguenze economiche che l’aver adito il giudice possa avere, non è solo da considerare incostituzionale ai sensi dell’art. 24 Cost., ma incostituzionale anche ai sensi dell’art. 3 Cost., poiché impedisce soprattutto alle classi sociali più deboli di rivolgersi al giudice.
- Al punto 23, dedicato alla riforma dei processi in materia di famiglia:
- alla lettera b) prevede che “in presenza di allegazione di violenza domestica o di genere”, ecc……. discendano misure di salvaguardia delle vittime.
La norma è giustissima nella misura in cui tende a reprimere ogni forma di violenza, ma i provvedimenti restrittivi non possono discendere da una semplice allegazione e devono al contrario trovare riscontro in una prova, quanto meno sommaria e/o prima facie, della sussistenza della violenza allegata.
- alla lettera c) si prevede che, nei tribunali per i minorenni, il giudice relatore, ovvero un giudice monocratico, possa tenere udienza anche delegandola a giudici onorari, a seguito delle quali possono essere poi adottati provvedimenti decisori, anche provvisori.
La delicatezza dei provvedimenti, sconsiglia che questi possano essere decisi da un giudice monocratico.
- alla lettera f) si prevede che il ricorso introduttivo debba necessariamente indicare “un piano genitoriale che illustri gli impegni e le attività quotidiane dei minori, relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e ricreative, alle frequentazioni parentali e amicali, ai luoghi abitualmente frequentati, alle vacanze normalmente godute”.
V’è al contrario da ritenere che il sindacato sulla vita di una famiglia non possa spingersi fino a questi dettagli, e/o che lo Stato, tramite il giudice, non abbia il diritto di conoscere e decidere financo sulle vacanze, sullo sport, sui luoghi o le persone che si frequentano, ecc…
- al punto ff) si prevede che per questi processi si adottino “puntuali disposizioni per regolamentare l’intervento dei servizi socio-assistenziali o sanitari, in funzione di monitoraggio, controllo e accertamento”.
Ritengo sia disposizione generica e pericolosa, e che, tutto al contrario, si debbano invece indicare in modo specifico i casi, da considerare eccezionali, nei quali sia opportuno l’intervento socio-assistenziale, quelli nei quali sia necessario attivare il servizio sanitario e per quali finalità, infine precisando che tutti detti servizi non possono adempiere a funzioni di monitoraggio, e che comunque ogni dato deve esser se del caso trattato nel rispetto della riservatezza.
Premesse alla lettura della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. Terza, 20 ottobre 2021 n. 7045 sull’obbligo vaccinale.
di Stefania Caggegi
Indice: 1.- Premessa; 2.- Le coordinate di riferimento costituzionali: diritto alla salute e dovere di solidarietà; 3.- Le prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale anti covid-19; 3.1. (segue) in particolare: la sentenza Consiglio di Stato Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
1. Premessa.
L’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento dell’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde Covid-19 per accedere ai luoghi pubblici e da ultimo a quelli di lavoro [1] e la prospettata (seppur non attuata) introduzione dell’obbligo vaccinale generalizzato[2], hanno fatto tornare in voga nel nostro paese un dibattito giuridico che sembrava essersi esaurito negli anni ’90, quando la Corte Costituzionale si era occupata di affermare la legittimità dell’obbligo di vaccinazione contro il polio.
Ovviamente le due misure citate (certificazione verde e vaccinazione), seppur finalizzate al medesimo scopo di contrasto e/o contenimento della pandemia da Covid 19, hanno natura diversa.
Il meccanismo del c.d. green pass, prevede l’obbligo di possesso ed esibizione dell’attestazione per accedere ai luoghi pubblici e di lavoro, e si acquisisce alternativamente o tramite la vaccinazione, o tramite la sottoposizione ad un tampone rapido o per periodo limitato a seguito di guarigione da infezione, tutelando così la scelta dell’individuo di non sottoporsi a vaccinazione.
L’introduzione di un obbligo vaccinale generalizzato, per converso, eliminerebbe sotto questo profilo ogni possibilità di scelta.
Entrambe le misure sono state fortemente criticate muovendo dall’assunto che comporterebbero la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà personale e il diritto di autodeterminazione dell’individuo; ai quali si oppongono però altri diritti e valori, sempre costituzionalmente garantiti e di non minor rilevanza, quali il diritto alla salute di cui all’art. 34 Cost., considerato nella sua duplice sfera, individuale e collettiva, nonché il generale dovere di solidarietà nei confronti della collettività di cui all’art.2 Cost. [3].
2. Le coordinate di riferimento costituzionali: diritto alla salute e dovere di solidarietà.
L’art. 32 della Costituzione recita, com’è noto, che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il legislatore costituzionale ha, dunque, da un lato riconosciuto alla salute la qualifica di diritto fondamentale dell’individuo, dall’altro lo ha indissolubilmente legato anche all’interesse della collettività [4].
La sfera individuale del diritto alla salute si sostanzia nel diritto a che nessuno leda la salute psico-fisica del soggetto ed è strettamente ricollegato anche al diritto di autodeterminazione del singolo, mentre la sfera collettiva ricollega il diritto alla salute ad un dovere di solidarietà nei confronti della collettività, che impone di preservare tale diritto anche in una prospettiva che attenga all’insieme dei consociati.
La valutazione del diritto alla salute, considerato nella sua sfera collettiva, non può che essere ancorata, dunque, al generale principio di cui all’art. 2 della nostra Costituzionale, il quale da un lato riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali, dall’altro richiede ai consociati “l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” [5].
La richiesta di adempimento di tale generale dovere di solidarietà in tutti gli ambiti della vita del singolo, vale come principio cardine, su cui è improntata l’intera carta costituzionale, al punto che la solidarietà deve essere considerata “la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione” [6].
Ed è proprio considerare questo dovere di solidarietà come un qualcosa di inderogabile, al pari del riconoscimento dei vari diritti costituzionalmente tutelati, che consente all’osservatore di scorgere la concreta rilevanza, quasi palpabile, del diritto alla salute collettiva.
In presenza di un eventuale imposizione di un obbligo vaccinale generalizzato, o più in generale di trattamenti sanitari che mirano ad evitare il propagarsi di contagi, l’obbligo imposto è inevitabilmente finalizzato al più alto interesse di tutela dell’intera comunità, cui in adempimento del dovere di solidarietà collettiva ogni consociato deve tendere e che in ragione di ciò giustifica la soccombenza del diritto di scelta del singolo individuo.
Tale ragionamento applicato alla materia oggetto di trattazione porta a concludere che sia proprio su questo dovere di solidarietà che si fonda l’intero impianto giuridico che giustificherebbe l’imposizione dell’obbligo vaccinale anti covid 19, a maggior ragione in una situazione di emergenza pandemica, come quella a cui ancora oggi assistiamo, che mette (e che ha messo) seriamente a rischio la collettività tutta [7].
Qualunque materia tocchi più valori costituzionalmente sanciti e tutelati determina la necessità che gli stessi siano bilanciati e l’inevitabile soccombenza di alcuni in favore di altri.
In materia di obbligo vaccinale [8], come detto, viene in rilievo l’art. 32 Cost. che postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto alla salute della collettività.
A tal proposito, come anticipato in premessa, tocca scomodare risalente - ma evidentemente non risolutiva - giurisprudenza costituzionale. Difatti, già nel 1990 la Corte Costituzionale [9], nell’occuparsi dell’equa indennità dovuta dallo Stato per il caso di danno derivante, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 2043 c.c., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, aveva avuto modo di esprimersi in merito al contemperamento dei valori interessati dall’imposizione di un obbligo vaccinale, affermando che “l'imposizione ex lege di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, e purché esso non incida negativamente - salvo che in misura temporanea e tollerabile - sullo stato di salute del soggetto”, ciò in quanto è proprio lo scopo di preservare lo stato di salute degli altri che, in quanto attinente alla salute come interesse della collettività, giustifica la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.
Da lì in poi, la giurisprudenza costituzionale è stata sempre ferma nel riconoscere come l’art. 32 esiga l’inevitabile contemperamento degli interessi suddetti e nell’affermare la legittima imposizione dell’obbligo vaccinale, seppur a determinate condizioni, ovvero: se il prescritto trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. [10]
Da ultimo, la Corte Costituzionale [11], nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui non prevedeva l’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa anche di vaccinazioni raccomandate e non obbligatorie, ha ribadito il principio per il quale lo scopo principale deve sempre essere quello di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo e che dunque anche le terapie obbligatorie sono costituzionalmente legittime, ancorché siano quelle raccomandate ad esprimere maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale.
Come evidenziato l’imposizione di un determinato trattamento sanitario, in questo caso del vaccino anti covid 19, impatta in maniera diretta la vita del singolo cittadino, ragion per cui il legislatore costituzionale, a chiusura dell’art. 32, specifica che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Con questa disposizione viene disposta una chiara riserva di legge in materia sanitaria.
In generale, si ritiene che le materie coperte da riserva di legge possano essere disciplinate non solo dalla legge formale, ma anche da quegli atti normativi dell’esecutivo aventi forza o valore di legge e che quindi un decreto legge possa regolare legittimamente materie coperte da riserva di legge in quanto i contenuti del decreto vengono incorporati, in caso di conversione, in una legge formale del parlamento.[12]
Per la materia sanitaria il discorso è certamente più complesso, in quanto da un lato l’esercizio del potere legislativo deve essere preceduto e sorretto dalle risultanze della scienza [13], dall’altro appare più comprensibile il dubbio che l’imposizione di trattamenti sanitari obbligatori disposta con atti aventi forza di legge non soddisfi a pieno la riserva di legge di cui all’articolo 32 [14].
Rimane il fatto che nell’ipotesi di una imposizione di un obbligo vaccinale anti covid 19, la legittimità della formula legislativa utilizzata, avrebbe fondamento nella natura emergenziale della stessa, in quanto emanata per fronteggiare una pandemia senza precedenti [15].
3. Le prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale anti covid-19. Dall’inizio della pandemia la giurisprudenza amministrativa è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dei provvedimenti afferenti le misure di prevenzione e/o contrasto alla pandemia emanate dal governo nei vari settori, ad esempio la scuola o il sistema sanitario [16].
È interessante notare come in molte occasioni i Tribunali, nel decidere le varie controversie, abbiano colto l’occasione per richiamare i principi fondanti la legittimità dell’imposizione di un obbligo vaccinale – nei termini di cui ai precedenti paragrafi - in una prospettiva mirata a legittimare i c.d. “provvedimenti – covid 19”.
Ad esempio il Tar Lazio [17], chiamato a pronunciarsi sulla competenza statale della scelta tra terapie ammesse e non ammesse, o meglio tra trattamenti obbligatori e non obbligatori (oppure raccomandati, come nel caso dei vaccini), ha colto l’occasione per indicare esattamente l’approccio che deve accompagnare l’analisi di siffatta materia, specificando che questa impatta i principi fondamentali della materia «tutela della salute» e che la scelta in tale ambito costituisce il punto di equilibrio, in termini di bilanciamento tra valori parimenti tutelati dalla Costituzione (nonché sulla base dei dati e delle conoscenze scientifiche disponibili), tra autodeterminazione del singolo da un lato (rispetto della propria integrità psico-fisica) e “tutela della salute (individuale e collettiva)” dall’altro lato.
Sempre il Tar Lazio [18], interpellato questa volta sulla legittimità o meno delle misure introdotte dal legislatore nell’ambito scolastico, compie un ragionamento a contrario, negando il prospettato diritto del personale scolastico “a non essere vaccinato”, affermando con rigore e già nella fase cautelare del giudizio (sintomatico di quanto consideri rilevanti tali argomentazioni), che tale “diritto” - in disparte la questione della dubbia configurazione come diritto alla salute - non ha valenza assoluta né può essere inteso come intangibile, avuto presente che deve essere razionalmente correlato e contemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia e a quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza.
Anche il Tar Friuli Venezia Giulia [19], chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’obbligo vaccinale imposto al personale sanitario, richiama a fondamento del provvedimento la giurisprudenza costituzionale ormai cristallizzata nel ritenere legittima l’imposizione di un trattamento preventivo vaccinale, indicando quale elemento rilevante l’obbiettivo di tutela della salute pubblica attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale. È doveroso aggiungere che tale pronuncia è interessante da segnalare, non solo perché – come del resto le precedenti – è stata ispirata dalle risultanze della giurisprudenza costituzionale in materia di legittima imposizione dell’obbligo vaccinale, ma anche in ragione del fatto che, partendo da tale assunto, il Collegio ha svolto un’approfondita disamina sul rapporto tra l’aspetto scientifico e giuridico della materia, arrivando ad affermare, per primo, che il vaccino anti covid 19 non può più essere considerato sperimentale da quando è stato immesso sul mercato.
Leit motiv delle sentenze in materia di obbligo vaccinale pare dunque essere il bilanciamento tra diritto alla salute inteso nella sua sfera individuale e diritto alla salute della collettività, intesa come intera comunità nazionale, ma si badi non solo nazionale.
Difatti, già nel giugno scorso, il Consiglio di Stato [20] si è pronunciato sulla rilevanza delle misure emanate dal Governo per fronteggiare l’emergenza pandemica, in quanto misure coordinate a livello europeo, allargando il concetto di “salute pubblica” ad una dimensione sovranazionale, affermandone per tale via la natura non eludibile, anche per ciò che attiene la loro decorrenza temporale, in ragione del fatto che tutte mirano “a preservare la salute pubblica in ambito [appunto] sovra-nazionale”.
3.1. – (segue) in particolare: la sentenza Consiglio di Stato Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
Tra le più recenti pronunce si segnala la sentenza della Sezione Terza Consiglio di Stato, n. 7045 dello scorso 20 ottobre [21], resa con riferimento ad altra sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia che aveva dichiarato inammissibile il ricorso collettivo e cumulativo proposto contro gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane avevano dato applicazione all’obbligo vaccinale previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.
Dopo essersi pronunciato sugli aspetti processuali della causa trattata e aver ripreso e sviluppato più dettagliatamente le considerazioni svolte già dal Tar in merito all’aspetto scientifico della materia trattata, anche la Terza Sezione del Consiglio di Stato conclude che i vaccini anti covid-19 non possono essere considerati sperimentali.
Anche in questo caso, centrale nel ragionamento del giudice amministrativo è il richiamo al generale dovere di solidarietà e alla tutela del diritto alla salute inteso nella sua accezione collettiva: “il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco,”- si legge nella sentenza – “ è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco. Ciò non perché, come afferma chi enfatizza e assolutizza l’affermazione di un giusto valore concepito però come astratto bene, la persona receda a mezzo rispetto ad un fine o, peggio, ad oggetto di sperimentazione, in contrasto con il fondamentale principio personalista, a fondamento della nostra Costituzione, che vede nella persona sempre un fine e un valore in sé, quale soggetto e giammai oggetto di cura, ma perché si tutelano in questo modo tutti e ciascuno, anzitutto e soprattutto le più vulnerabili ed esposte al rischio di malattia grave e di morte, da un concreto male, nella sua spaventosa e collettiva dinamica di contagio diffuso e letale, in nome dell’altrettanto fondamentale principio di solidarietà, che pure sta a fondamento della nostra Costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma nel contempo richiede responsabilità all’individuo”.
L'orientamento sino ad ora emerso in seno alla giurisprudenza amministrativa non sembra dunque mettere in dubbio che la Costituzione possa legittimare l’introduzione nel nostro ordinamento la previsione dell'obbligo vaccinale, rimanendo con ciò escluso che la stessa scelta di introdurre l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass covid 19 in luogo di un obbligo vaccinale generalizzato possa esser stata dettata dalla paventata illegittimità costituzionale di un tale obbligo, e non piuttosto da una scelta prettamente politica.
***
[1] Il decreto legge 21 settembre 2021, n. 127 (“Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l'estensione dell'ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening”- GU n.226 del 21-9-2021) ha integrato il decreto legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, inserendo dopo l'articolo 9-quater gli articoli: 9-quinques; 9-sexies; 9- septes, ai sensi dei quali è stato disposto l’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde COVID-19 rispettivamente per tutti i lavoratori del settore pubblico, per tutti i magistrati nello svolgimento della loro attività all’interno degli uffici giudiziari e per i lavoratori del settore privato.
[2] Invero ad oggi disposto solo per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario dall’art. 4 del D.L. 1 aprile 2021, n. 44 (“Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”- GU Serie Generale n.79 del 01-04-2021) convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 2021, n. 76 (in G.U. 31/05/2021, n. 128).
[3] Sull’impronta solidaristica dei doveri costituzionali si veda tra tutti: A. RUGGERI, Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie nelle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Rivista AIC, 2017 pp. 1 ss. Sullo specifico tema del vaccino anti covid 19: A. RUGGERI, La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in dirittifondamentali 22 maggio 2021.
[4] Si veda in proposito: M. LUCIANI, A proposito del diritto alla salute, in Dir. soc., 1979, pp. 410 ss.; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, ivi, 1983, pp. 21 ss.; D. MORANA, La salute nella Costituzione italiana: profili sistematici, Milano, 2002; G. SCACCIA, Commento all’art. 32, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, I, Bologna 2018 pp. 214 ss.
[5] D. TEGA, Commento all’art. 2, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, I, Bologna, 2018, p. 27; E. ROSSI, Commento all’art. 2, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino 2006, p. 55.
[6] Corte Costituzionale, 28 febbraio 1992, n. 75.
[7] Per un’analisi approfondita del tema in relazione alla pandemia da Covid 19, si rinvia a Q. CAMERLENGO, L. RAMPA, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti covid 19, in Rivista AIC n. 3 del 30.06.2021, pp. 199 ss.; R.ROMBOLI, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in QuestioneGiustizia 2021. Con specifico riferimento al tema della solidarietà costituzionale, si veda, tra gli altri: B. CARAVITA, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in Federalismi.it 2020, p. 18; L. CUOCOLO, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: la reazione italiana, in I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19, in Osservatorio Emergenza Covid-19, Federalismi.it. In tema di vaccinazioni si veda, tra tutti: F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Milano, 2002, pp. 246 ss; F. GIUFFRÈ, La Corte costituzionale in cammino: da un modello casistico all’interpretazione della solidarietà, in Giur. cost., 1998, p. 1978, dove già affermava: «il comportamento volontario del cittadino, che si fa carico dei rischi della vaccinazione pur non essendone legalmente obbligato, non si mostra giuridicamente indifferente di fronte ai princìpi dell’ordinamento costituzionale, in quanto conforme all’atteggiamento di corresponsabilità e di cooperazione civica che scaturisce dal principio di solidarietà>>.
[8] In merito all’obbligo vaccinale in generale si veda, tra i molti: M. PLUTINO, Le vaccinazioni. Una frontiera mobile del concetto di «diritto fondamentale» tra autodeterminazione, dovere di solidarietà ed evidenze scientifiche, in Dirittifondamentali.it, 2017, pp. 1 ss., e M. TOMASI, Vaccini e salute pubblica: per-corsi di comparazione in equilibrio fra diritti individuali e doveri di solidarietà, in Dir. pubbl. comp. eur., 2017, pp. 455 ss.
[9] Corte Costituzionale n. 307 del 14.06.1990, Pubblicata in G. U. 27.06.1990; cfr. anche sentenza n. 258 del 1994, con la quale viene ripreso ed integrato il principio espresso con la sentenza n. 307/1990 cit., a sostegno della dichiarazione di inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della l. 27 maggio 1991 n. 165 (sulla vaccinazione obbligatoria contro l'epatite virale B) e delle leggi 4 febbraio 1966 n.51, 6 giugno 1939 n. 891, 5 marzo 1963 n. 292, 20 marzo 1968 n. 419 (sulla vaccinazione obbligatoria antipolio, antidifterica, ed antitetanica) sollevate in riferimento all'art. 32 della Costituzione.
[10] Corte Cost. n. 307/1990 cit.; n. 258/1994 cit.; n. 268/2017 e n. 5/2018, come richiamate in: Q. CAMERLENGO, L. RAMPA, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti covid 19, cit.; si veda anche: C. PINELLI, Gli obblighi di vaccinazione fra pretese violazioni di competenze regionali e processi di formazione dell’opinione pubblica, in Giur. Cost., 2018, pp. 38 ss.
[11] Corte Costituzionale 23 giugno 2020 n. 118.
[12] Sulla riserva di legge in generale: cfr. R. Guastini, Legge (riserva di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, IX, Torino 1994, pp. 163 ss.; F. Modugno, Le fonti del diritto, in Id. (a cura di), Diritto pubblico, Torino 2012, pp. 109 ss.
[13] Si veda in proposito a commento della sentenza n. 5 del 2018 A. IANNUZZI, L’obbligatorietà delle vaccinazioni a giudizio della Corte costituzionale fra rispetto della discrezionalità del legislatore statale e valutazioni medico-statistiche, in Consulta online, 2018, pp. 87 ss.; C. MAGNANI, I vaccini e la Corte costituzionale: la salute tra interesse della collettività e scienza nelle sentenze 268 del 2017 e 5 del 2018, in Forum di Quaderni costituzionali, Rassegna, 2018, pp. 1 ss. In merito alla rilevanza delle risultanze scientifiche e alla qualifica dei trattamenti come “sperimentali o non sperimentali”, si rinvia anche a Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.09.2021 n. 261, con la quale il Tribunale ha affermato in merito alla vaccinazione da covid 19 che “la “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata”(sentenza appellata e confermata nel merito da: Consiglio di Stato, sez. III n. 7045 del 20.10.2021. Per un’analisi critica del tema si veda: A. MANGIA, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Rivista AIC n. 3, 2021.
[14] In tal senso si veda: A. NEGRONI, Decreto legge sui vaccini, riserva di legge e trattamenti sanitari obbligatori, in ForumCostituzionale.it 26 maggio 2017.
[15] Sulla questione della legge emergenziale si veda, tra gli altri: M. BELLETTI, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, in Osservatorio Costituzionale, n. 3, 2020, cui si rinvia anche in riferimento alle note contenute.
[16] DECRETO-LEGGE 6 agosto 2021, n. 111 Misure urgenti per l'esercizio in sicurezza delle attività scolastiche, universitarie, sociali e in materia di trasporti. (21G00125) (GU Serie Generale n.187 del 06-08-2021).
[17] Tar Lazio – Roma, Sez. III, 02.10.2020 n.10047.
[18] TAR Lazio Decreto Presidenziale del 24.08.2021 n. 4450 e Tar Lazio, Sez. Terza Bis decreto del 02.09.2021 n. 4532.
[19] Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.09.2021 n. 261.
[20] Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3568 del 30 giugno 2021, conferma il disposto del Tar Lazio che aveva respinto un ricorso contro l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass come disciplinato dalla normativa al tempo della pronuncia.
[21] Consiglio di Stato, Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
[22] Così testualmente in: G.M. BRAVO, voce Anarchismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino 2014, p.13.
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