ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Osservazioni essenziali sulla dichiarata inammissibilità della proposta referendaria in materia di responsabilità civile dei magistrati (Corte costituzionale n.49/2022)
di Mario Serio
Sommario: 1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione - 2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale - 3. I termini del quesito referendario - 4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale - 5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche: la lezione inglese.
1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione
Parlare di responsabilità per l'esercizio di funzioni giudiziarie è terreno per sua natura ricco di risposte possibilmente antitetiche, divise come possono essere tra la propensione al principio di sostanziale immunità proprio di ordinamenti molto evoluti come quello inglese[1] e la speculare, pervicace ricerca di ragioni e condizioni per l'affermazione della responsabilità stessa.
La comparazione con il diritto inglese[2], che solo sommariamente questa sede consente di svolgere, immette l'osservatore in un duplice circuito di pensiero che, in linea astratta, ben potrebbe essere applicata all'ordinamento italiano (ed in parte, come l'indagine successiva sulla giurisprudenza costituzionale renderà evidente, è stata recepita). Il primo lato, che ha determinato il definitivo affrancamento del common law inglese dalle suggestioni tendenti ad ipostatizzare l'erroneità della decisione giudiziale nella persona di chi l'ha pronunciata decretandone una colpa fonte di responsabilità, va individuato nella liberatoria distinzione tra rimedio risarcitorio anticamente esperibile nei confronti del giudice errante - nel tempo abbandonato in conformità alla nuova ed adesiva coscienza sociale - e rimedio impugnatorio, a buona ragione elevato al livello della piena satisfatttività per la parte che dell'errore aveva patito le conseguenze pregiudizievoli. L'altro aspetto riguarda la ariosa esposizione della base in senso continentale “costituzionale” dell'immunità giudiziale compiuta dalla House of Lords in una pronuncia del 1975[3]. Essa prende corpo in rapporto alla posizione ordinamentale del Giudice, qualificato come “il depositario di una posizione soggettiva di natura pubblicistica diretta ad assicurare che l'amministrazione della giustizia non venga impedita dagli attacchi collaterali delle parti deluse[4]”. E con questa posizione, ancora perfettamente resistente ad onta del tempo trascorso perché espressiva del senso democratico attribuito in quell'ordinamento all'opera di amministrazione della giustizia, si avvera in forma stentorea la felice scissione tra la persona del giudice ed i suoi atti, rendendo indipendenti il destino dell'uno da quello degli altri.
Se, in linea generale e con il conforto dell'esperienza del common law inglese quale si è andata dispiegando in forma liberale dopo l'oscuro periodo della Star Chamber[5], appare ragionevole e storicamente accettato - e di recente costituzionalmente elevato al rango dei principii costituzionali grazie al Constitutional Reform Act del 2005[6] - attribuire all'atteggiamento immunitario il benefico scopo di non compromettere con indebite pressioni psicologiche l'attività di giudizio esercitata “intra vires” (escludendo dall'area di protezione quella posta in essere all'esterno di qualsiasi potere attributivo della competenza decisoria), non omogenea ed univoca si rivela la ricognizione dei moventi a predicare l'opposto regime, come dimostrano vicende periodicamente imposte all'attenzione del mondo del diritto in Italia. Ed infatti, tali moventi solo occasionalmente si radicano in riflessioni dallo spiccato significato giuridico, tra le quali potrebbe in via di ipotesi annoverarsi la domanda sulla congruità del trattamento differenziale riservato a magistrati e ad altri funzionari dello stato o di enti pubblici a mente dell'art. 28 Cost. o sulla razionalità della richiesta, “de iure condito” (legge 117/1988 con le successive modificazioni apportate dalla legge 18/2015) di un elemento soggettivo restrittivamente qualificato per l'affermazione della responsabilità dei primi rispetto a quella degli altri. Si tratta, al contrario, di interrogativi ricalcati su un'analisi non affetta da pregiudizi estranei al dominio delle analisi di natura concettuale ma piegata all'obiettivo dell'appiattimento su un'unica, unitaria ed indifferenziata base giustificativa della responsabilità di tutte le persone operanti nell'ambito dell'impiego pubblico. Nel tempo questo desiderio di omogeneità di regime normativo nei confronti di condotte produttive di un danno ingiusto a terzi (è sempre il paradigma della responsabilità aquiliana nella cornice degli artt. 2043 ss. cod. civ. quello in cui si inscrivono i tentativi al riguardo) si è espanso nel senso di racchiudere nel proprio perimetro di osservazione anche i casi di responsabilità di esercenti attività libero-professionali (medici, avvocati, etc.) e ponendo tali attività come parametro di riferimento di una sostanzialmente ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla categoria giudiziale che sfuggirebbe alla regola riassunta nella plebea espressione “chi sbaglia paga”. A misura che talune di queste prese di posizione popolari e di non scarso successo hanno preso piede, addirittura soppiantando quelle, maggiormente competitive, espresse in punto di razionalità del sistema, è nei relativi propugnatori arieggiata come soluzione riconformatrice del sistema quella dell'abrogazione delle norme limitative della responsabilità giudiziale.
2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale
La sentenza n. 49 del 2 marzo 2022 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile - per ragioni che si andranno qui man mano esponendo - la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione di alcune norme della legge 13 aprile 1988 n. 117 sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati offre un'utile rassegna delle questioni già sottoposte, in sede di esame della legittimità costituzionale del corpo normativo in questione o dell'ammissibilità di referendum abrogativi di parti di esso, alla cognizione della Corte stessa.
Il richiamo a tali precedenti ha costituito nell'occasione più recente il binario lungo il quale è scorso il convoglio che raccoglieva i principii fondamentali in materia di scopo della legge 117 del 1988 e di criteri cui necessariamente devono uniformarsi i quesiti referendari con propositi abrogativi.
Per quanto di utilità per il presente saggio si possono evocare i passaggi che seguono.
Il punto di diramazione dell'impostazione adottata dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza può con sufficiente certezza ravvisarsi nel motivato richiamo alla propria giurisprudenza, ed in particolare alla sentenza 38 del 2000 con la quale, nel dichiarare inammissibile altro quesito referendario sempre vertente su disposizioni della legge 117 del 1988 e tendente all'introduzione attraverso il voto popolare della responsabilità civile diretta dei magistrati, la Corte negò che “l'introduzione dell'azione diretta nei confronti del magistrato, accanto alla perdurante possibilità di proporre l'azione contro lo Stato, possa realizzarsi grazie a meccanismi di riespansione o autointegrazione dell'ordinamento attivati dall'eventuale abrogazione popolare”. Dell'importanza di questa statuizione, e della sua potenziale (poi effettivamente tradottasi in atto) decisività nella fattispecie si è resa conto la difesa dei proponenti il referendum odierno che, per sottrarsi alla precedente censura di difetto di chiarezza del precedente quesito, ha precisato che il successivo è ben in grado di esibire il proprio intento teleologico, consistente, appunto, nel raggiungimento del fine della previsione della responsabilità civile diretta degli appartenenti all'ordine giudiziario: si vedrà oltre che anche questa volta l'obiettivo è stato mancato.
Ulteriori fondamenti di un discorso di continuità vanno agevolmente colti nella citazione di quelle sentenze costituzionali (5 del 2015, 25 del 2011, 40 del 2000, 30 e 34 del 1997) le quali hanno concordemente sottolineato come la previsione normativa, attuata con la più volte menzionata legge 117 del 1988, di un'unica tipologia di azione diretta (quella verso lo Stato) preclude la possibilità che solo attraverso la via referendaria (e non quella legislativa) si introduca una seconda categoria di azioni risarcitorie, quelle dirette contro il magistrato. A questo ostacolo i proponenti hanno opposto -senza, tuttavia, cogliere nel segno, come apparirà chiaro più avanti - la tesi secondo cui “l'eliminazione dell'espressione “contro lo Stato” possa sprigionare un autonomo contenuto normativo, facendo riespandere la disciplina generale che prevede la coesistenza della disciplina dello stato e quella diretta del magistrato, discendente proprio dai citati art. 28 Cost. e D.P.R. n. 3 del 1957”: con ciò evidentemente riferendosi all'ipotesi di carattere eccezionale di responsabilità diretta del magistrato derivante dalla accertata commissione di un illecito penale ai sensi dell'art.13 della legge 117 del 1988.
La Corte si è mostrata particolarmente attenta, poi, in aderenza ai propri costanti orientamenti alle possibili, negative ricadute sull'ammissibilità dei quesiti referendari in generale della manipolazione della struttura linguistica dell'abroganda disposizione: esito da evitare in relazione al rischio che da essa possa prender vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo ed idoneo a stravolgere la funzione propria del referendum abrogativo (sentenze 10 del 2020, 46 del 2003, 50 e 38 del 2000, 26 del 1997).
In questa illustrazione preliminare al merito della sentenza di cui ci si occupa vanno ricordati i due seguenti, ulteriori dati, l'uno di carattere giurisprudenziale, l'altro di profilo normativo.
Partendo da quest'ultimo la Corte Costituzionale ha opportunamente ripercorso le tappe evolutive verso l'odierno regime in materia di responsabilità giudiziale, rammentando come il vigente assetto legislativo prenda le mosse dalle previsioni degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. le quali, bensì consentivano l'esercizio dell'azione diretta in ipotesi estreme nei confronti del magistrato, subordinandola, tuttavia, all'autorizzazione del Ministro della giustizia, per poi evolversi, a seguito della loro abrogazione con il referendum popolare del 1987, nella legge 117 del 1988 che preserva lo statuto costituzionale della magistratura attraverso l'introduzione di condizioni e limiti alla responsabilità civile dei magistrati e la previsione di un'azione di rivalsa dello Stato direttamente chiamato in causa e soccombente nei confronti del magistrato responsabile. Il sistema si è poi completato con la legge 18 del 2015 che ha ampliato le ipotesi di responsabilità civile del magistrato ed eliminato il filtro della previa dichiarazione di ammissibilità dell'azione ed ha configurato l'azione di rivalsa da parte dello Stato soccombente nel giudizio contro lo stesso direttamente proposto nei confronti del magistrato che abbia cagionato un danno ingiusto con dolo o negligenza inescusabile.
Venendo al riferimento effettuato nella sentenza 49 /2022 al proprio precedente più remoto tendente al coordinamento sistematico delle disposizioni, di rango costituzionale ed ordinario, aventi ad oggetto la responsabilità giudiziale la Corte Costituzionale si sofferma sulla propria, antecedente sentenza 2 del 1968 con cui, pur riconoscendo che la norma dell'art. 28 citato concerna anche i magistrati[7] si ammette che leggi ordinarie disciplinino variamente la responsabilità per categorie e situazioni, alla sola condizione che essa non sia sostanzialmente denegata, come avrebbe aggiunto la sentenza 385 del 1996.
3. I termini del quesito referendario
Tra gli altri quesiti referendari in materia di giustizia[8] quello che spiegabilmente suscitava maggior allarme per quanto di attinenza al mantenimento dell'impianto costituzionale che descrive e tutela la figura dell'appartenente (Giudice e Pubblico Ministero) all'ordine giudiziario, tratteggiandone lo statuto, era certamente la proposta di abrogazione[9] di varie disposizioni della legge 117 del 1988 che limitano allo Stato la legittimazione passiva nei giudizi promossi a seguito di atti o fatti riconducibili al magistrato ravvivati dal necessario sostrato soggettivo e produttivi di danno ingiusto. Il dichiarato fine perseguito dai proponenti era quello di dar vita ad un regime di responsabilità civile capace di concepire la possibilità che la persona lesa nella propria posizione soggettiva per effetto di atti compiuti nell'esercizio di funzioni giudiziarie agisca direttamente contro il magistrato autore degli stessi. La comune matrice del quesito referendario, formulato da alcune Regioni ad omogenea maggioranza politica (Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte) era data dalla tensione all'abolizione della norma speciale in virtù della quale l'azione di responsabilità giudiziale tipica va, salvo l'ipotesi eccezionale di fatti penalmente rilevanti di cui con sentenza definitiva il magistrato sia stato giudicato colpevole, promossa esclusivamente contro lo Stato, pur con la menzionata possibilità della rivalsa (punto 2.2. della sentenza). Nell'illustrare le ragioni a sostegno dell'ammissibilità del quesito i proponenti ne hanno sottolineato la chiarezza e coerenza, desumibile anche dal citato fine cui è diretto, positivamente apprezzabile anche alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, ha riconosciuto al legislatore la possibilità di “scelte plurime, anche se non illimitate” nonché “una valutazione discrezionale” (sentenze 26 del 1987 e 38 del 2000 ), nella logica del contemperamento delle contrapposte esigenze del soggetto ingiustamente danneggiato ad ottenere ristoro per i pregiudizio subìto e di quella della preservazione dell'indipendenza della magistratura (considerazioni che escluderebbero l'eventualità che in materia sia presente una disciplina costituzionalmente vincolata: punto 2.1 della sentenza).
4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale
Si è già fatto cenno nei paragrafi precedenti ad alcuni dei tratti fondativi della sentenza per quanto afferisce al contesto storico-normativo della vicenda dedotta con il quesito e ad alcuni basilari principii destinati ad ispirare il compito valutativo della Corte Costituzionale in frangenti simili.
Conviene adesso concentrarsi su quegli aspetti della pronuncia che, con rigoroso criterio logico, hanno assunto ad oggetto del giudizio il puntuale raffronto tra il modo di formulazione e l'obiettivo propostosi dal quesito e le regole proprie della fase di ammissibilità del referendum, tratte anche dalla necessaria previsione dello scenario normativo che si verrebbe a configurare nell'ipotesi di ammissione e celebrazione del referendum, con voto popolare di approvazione della proposta abrogativa.
La prima cura della sentenza è stata dedicata alla individuazione e successiva qualificazione, refluente sul giudizio di ammissibilità, della tecnica del “ritaglio” adottata nella prospettiva di abrogare alcune espressioni lessicali ricorrenti nelle numerose norme della legge 117 del 1988 oggetto del quesito al fine di consentire in definitiva che il magistrato possa essere citato direttamente nel giudizio civile risarcitorio da parte del danneggiato, così superando la vigente normativa che prevede forme di responsabilità del magistrato solo in sede di rivalsa da parte dello Stato, ove quest'ultimo sia stato condannato al risarcimento, mentre in caso di reato la responsabilità del magistrato non consegue ad un'azione intentata nei suoi confronti innanzi al giudice civile, se non per effetto di una previa condanna penale (punto 3 della sentenza).
In primo luogo, proprio alla stregua di quest'attività interpretativa, in ottica teleologico-effettuale, del quesito la Corte ne ha dichiarato l'inammissibilità, denunciandone un carattere manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo. Per spiegare questo delicatissimo e dirimente punto di vista la Corte si immerge nella storia normativa[10], di cui si è prima fornita una sintesi, che ha attraversato[11] il tormentato istituto della responsabilità giudiziale che ha trovato il proprio (sarebbe azzardato qualsiasi pronostico di definitività) approdo nella legge 18 del 2015,di cui si sottolinea la (indiretta, in verità) genesi nella nota sentenza della grande sezione della CGUE 13 giugno 2006 in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa[12]. Al riguardo, la completezza espositiva suggerisce di ridimensionare in queste pagine la pretesa necessarietà della portata causale della giurisprudenza comunitaria rispetto all'emanazione della legge[13]: a questa conclusione si perviene pianamente considerando quanto affermato da Cass. 20 ottobre 2016 n. 21246 che ha risolutamente negato che la disciplina della legge 117/1988 fosse incompatibile con l'ordinamento comunitario qualora la condotta contestata al magistrato non implichi l'applicazione, diretta o indiretta, del diritto dell'Unione.
Tornando alla censura di manipolatività e creatività rivolta dalla Corte Costituzionale al quesito referendario va lodata la conseguenzialità logica del ragionamento svolto. Esso muove dalla prefigurazione dello scenario in senso ampio normativo (o forse sarebbe più esatto dire dal vuoto o dall'aporia) che si presenterebbe agli occhi dell'interprete nel caso di introduzione, a cagione dell'ammissione e dell'approvazione con voto popolare del quesito, dell'azione civile diretta nei confronti del magistrato “senza alcun filtro” e cioè come semplice effetto meccanico dell'impiego “della cosiddetta tecnica del ritaglio” (punto 6 della sentenza). E' immediata la percezione, come acutamente osserva la Corte, che la conseguenza pratica sarebbe quella di creare un nuovo regolamento normativo del tutto indipendente da una deliberazione parlamentare, peraltro privo dei necessari requisiti di determinatezza (tempi, modi, condizioni, limiti) relativi alla concreta conformazione dell'azione diretta. In sostanza, ben può dirsi che si sarebbe dato vita ad un'“invenzione” legislativa effettuata al di fuori del canale parlamentare ed attraverso un'indebita usurpazione, nell'improprio teatro del referendum abrogativo, del potere legislativo ad opera del corpo elettorale. Di pari evidenza sarebbe l'assoluta insufficienza a riempire di compiuto e consentito spazio il vuoto lasciato dall'eventuale esito referendario, a colmare il quale non potrebbe di certo giovare il residuo impianto della legge 117 del 1988, nata ed elaborata con il contrario presupposto della tipicità della sola azione diretta nei confronti dello Stato e con la solo residuale previsione dell'azione di rivalsa nei confronti del magistrato (assoggettabile all'azione diretta, come già ribadito, nel solo caso di commissione di un illecito penale accertato nella competente ed irretrattabile sede). In sostanza, è facile osservare che al “ritaglio” tentato attraverso il quesito conseguirebbe un'autentica eterogenesi dei fini della residua legislazione, distolta dal suo coerente alveo originario e distorta verso fini logicamente inconciliabili, se non antitetici, rispetto ad esso. Assolutamente opportuna si rivela, da questo punto di vista, l'affermazione racchiusa a metà del punto 8 allorché si legge che “la responsabilità civile del magistrato, in quanto necessariamente subordinata alla introduzione legislativa di condizioni e limiti del tutto peculiari, non si presta alla piana applicazione della normativa comune vigente in tema di responsabilità dei funzionari dello Stato; sottraendosi, in caso di abrogazione referendaria, alla potenziale riespansione dei principi ai quali tale ultima normativa si conforma (già la sentenza n.468 del 1990 aveva sottolineato la coessenzialità di tali condizioni e limiti alla eventuale introduzione di un'azione diretta)”.
Conviene soffermarsi su questa affermazione di principio prima di guardarne le conseguenze dalla Corte Costituzionale tratte in punto di ammissibilità del quesito referendario.
Tirando le somme dalla proposizione prima riportata si deduce la intatta solidità dell'architettura concepita sul tema da Corte Costituzionale n.2 del 1968 (Sandulli Presidente, Branca redattore), articolata in una coppia di considerazioni: la peculiarità, di origine costituzionale, dell'istituto della responsabilità giudiziale; l'ineludibile esigenza che attorno al tema si crei un'armoniosa rete di coordinate disposizioni legislative rivolte allo scopo di individuare condizioni e limiti alla previsione di un'azione di responsabilità diretta nei confronti del magistrato.
Su queste inoppugnabili basi, al tempo stesso obbedienti alla logica argomentativa e fedeli alla costruzione costituzionale della Magistratura (art. 101 ss.), la sentenza 49/2022 definisce il quadro degli effetti dell'eventuale abrogazione delle norme citate nel quesito referendario, dichiarando il fallimento del relativo scopo in quanto inadatto a concepire con sufficiente adeguatezza “una seconda e differente forma processuale di responsabilità del magistrato” da accostare a quella unica (dello Stato in via diretta) voluta dal legislatore del 1988.
Tutti gli ulteriori argomenti adibiti dalla Corte Costituzionale a suffragio della irrimediabile distanza del quesito dal corteo di inveterati principii alla cui stregua valutarne l'ammissibilità sviluppano il tema dell'inefficacia della proposta abrogativa rispetto al fine perseguito di introduzione di una forma diretta di responsabilità giudiziale, di cui mancherebbero sia gli elementi strutturali sia i mezzi di coordinamento letterale, logico e sistematico con la coesistente responsabilità dello Stato (si veda in particolare il punto 9.3): analoghe critiche erano state indirizzate ad altra, precedente proposta abrogativa attraverso referendum dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 34 del 1997.
Proprio l'ineliminabile convivenza tra due forme di responsabilità (quella previgente dello Stato e quella di ipotetica nuova introduzione referendaria) gioca nel senso di appannare la possibilità di una scelta chiara e certa da parte dell'elettore che fosse chiamato ad esprimersi sul quesito (cui deve essere riconosciuta la facoltà di una scelta chiara nell'esercizio del suo potere sovrano di voto: Corte Costituzionale 39 del 1997) lasciandolo del tutto privo di razionali punti di riferimento circa il rapporto tra la responsabilità civile dello Stato e quella diretta del magistrato, in particolare rimanendo tutt'altro che sciolto il dubbio circa la natura solidale o sussidiaria della prima rispetto alla seconda, così incorrendo in un ulteriore profilo di oscurità già segnalato in occasione simile dalla sentenza costituzionale n. 26 del 1987 (punto 10.2).
Il serrato discorso condotto dalla sentenza ha condotto, pertanto, alla dichiarazione di inammissibilità sotto varii e concorrenti profili del quesito referendario: ma non è detto che questa pronuncia ne inibisca la futura riproposizione non sembrando cessati i profondi, reconditi moventi ispiratori ai quali si è alluso nella parte iniziale
5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche. La lezione inglese
L'elevato indice di frequenza della proposizione di quesiti referendari in materia di responsabilità civile dei magistrati con riguardo all'esercizio delle proprie funzioni e la focosissima vivacità del dibattito politico, non di rado tracimante nella frontale e sfrontata sfiducia nei confronti dell'intero ordine giudiziario, rappresentano sintomi non trascurabili e da non trascurare nel più vasto ambito della riconsiderazione in chiave critico-propositiva dell'odierna concezione dell'attività giurisdizionale e dei concreti modi di inverarla da parte dei singoli magistrati.
Sarebbe completamente estraneo ad uno studio, come il presente, dedicato al ragionato esame di un'importante e simbolicamente preziosissima pronuncia della Corte Costituzionale indugiare sulle molteplici spigolature che la complessa questione implica: in misura maggiore sconsiglia una simile distrazione intellettuale la spesso provocatoriamente ricercata ed amplificata natura politica (non sempre pensata in senso nobile) della genesi e delle possibili soluzioni di essa.
Ma un auspicio si può formulare, incoraggiato anche dalle lucide ed emotivamente distaccate ragioni addotte dalla Corte Costituzionale per dichiarare inammissibile il referendum di cui qui si è scritto.
Esso suona nel senso che accostarsi al tema della responsabilità giudiziale postula che un fondamentale presupposto venga accettato e collocato al centro della riflessione, al pari di quanto la ricca esperienza giuridica inglese insegna: la necessaria separazione concettuale e pratica da operare in sede processuale tra la persona e l'atto del magistrato. Cumulare o rendere indifferenziati i due aspetti conduce all'ineluttabile risultato di velare ogni indagine, lasciando che essa presti il fianco al fondato timore alla tentazione - intollerabile quando si discute attorno a valori costituzionali - della faziosità intellettuale. Il prezzo sarebbe troppo alto da pagare e la collettività che non può che guardare con quotidiana speranza alle vicende che si svolgono nel campo dell'amministrazione della giustizia non meriterebbe di vederselo addebitato. Esporre il provvedimento giudiziale che si assume iniquo o errato ad un ulteriore grado di giudizio e non l'autore a conseguenze processuali dirette (dal discorso esula, ovviamente, il problema delle ricadute in termini di considerazione professionale del magistrato) ed eccedenti lo scopo e l'esito del nuovo giudizio è la lezione che continua ad impartirci il common law inglese.
Bene ed utilmente si possono assumere come guida illuminante le parole di Lord Hailsham (al secolo Quintin Mc Garel Hogg, 1907-2001), illuminato giurista, giudice della Appellate Division della House of Lords e Lord cancelliere in governi conservatori, di tale risoluto carattere da esser temuto – secondo i suoi biografi – perfino da Margaret Thatcher, pronunciate nel corso di una lezione tenuta il 17 ottobre 1977 alla New Brunswick Law School[14]. Egli affermò[15] che l'indipendenza giudiziale è un grande bastione contro una concezione assolutistica della democrazia e rappresenta uno dei principii fondativi della libertà e della democrazia inglesi. Egli, pur non escludendo la legittimità della sottoposizione a critiche dell'operato dei giudici (cui saggiamente suggeriva di non cedere mai alla tentazione di rispondervi), concludeva nell'esemplare senso che al risultato dell'efficacia dell'azione giudiziale dovesse, comunque, tendersi senza alcun sacrificio della essenziale libertà di giudizio, fino a raggiungere anche le vette della creatività, in modo da difendere i diritti individuali contro i soprusi della burocrazia e della politica[16].
È insopprimibile il desiderio che parole e concetti così nobili possano risuonare sempre in ogni aula (parlamentare, giudiziaria) nella quale si dibatta del senso e dei limiti dell'attività giudiziale.
[1] Può essere utile il rinvio a Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile, 2017, pagg. 333 ss., nonché, al sempre mio, Riflessioni sulla responsabilità giudiziale in diritto comparato, in Europa e diritto privato, 1998, pag. 1149 ss.
[2] Per il raffronto con altri ordinamenti si può rinviare a Bairati, La responsabilità per fatto del giudice in Italia, Francia e Spagna, fra discipline nazionali e modello europeo, Napoli 2013.
[3] Avenson v Casson Beckman Rutley &Co. ( 1975 ) 3 WLR 823.
[4] “He is merely the repository of a public right which is designed to ensure that the administration of justice will be untrammelled by the collateral attacks of disappointed litigants”.
[5] Serio, Responsabilità o immunità, cit. pag. 337.
[6] Criscuoli-Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, II edizione, Milano, 2021, pag. 381 ss.
[7] Si ritenne, infatti, che andasse esclusa sia la legittimità di una negazione totale della responsabilità giudiziale sia la ragionevolezza di una siffatta ipotetica negazione e in sé, con riguardo anche al principio di eguaglianza, ed in rapporto al criterio di imputabilità per gli atti ed i provvedimenti posti in essere dai pubblici dipendenti ai sensi del testo unico n. 3 del 1957: v. sul punto, Serio, Riflessioni, cit., pag. 367 ss.
[8] Su cui si è soffermato criticamente Giovanni Verde nel suo Referendum: quesiti di difficile comprensione. Davvero utili ?, in Guida al diritto n.8 del 5 marzo 2022.
[9] La cui denominazione è stata integrativamente rivisitata dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione nei seguenti termini: “Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie”.
[10] Già in passato si è autorevolmente segnalata la doverosità di un soddisfacente e chiarificatore intervento legislativo: Bartole, Della responsabilità civile del giudice e di quella ( per inadempienza ) del legislatore ordinario, in Giur.it., 1976, I, 1135 ss.
[11] Anche per effetto dell'esame del tema generale da parte della restrittiva giurisprudenza di legittimità: da Cass.1722/1960 a Cass.1879/1982 secondo cui - in difformità da Cass.1916/1979 - nel precedente sistema descritto dalle norme processualcivilistiche “non sussiste coincidenza tra la responsabilità del funzionario e quella dello Stato per il quale egli agisce”: orientamento subito dopo seguito dal Tribunale di Roma con sentenza 29 settembre 1982 in Resp. civ. e prev. 1983, 222 con nota redazionale.
[12] È ben verificabile l'impatto inziale della riforma del 2015 in alcune pronunce della Cassazione nelle quali si sottolinea che la responsabilità del magistrato si configura come caratterizzata da un elemento soggettivo costituito da un'attività interpretativa abnorme, scorretta e tale da sconfinare nel libero arbitrio: Cass.7 aprile 2016 n. 6791 in Resp. civ. e prev., 2016, 1585 con nota di Giorgetti, Le fantasiosi interpretazioni dei giudici di merito vanno sanzionate.
[13] Sulla quale si vedano i primi commenti di Rosano, Rimaneggiamenti della legge sulla responsabilità civile dei magistrati: nuove questioni di legittimità costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, 920 ss. e Cortese - Penasa, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp .civ. e prev., 2015, 1026 ss.
[14] E pubblicate sotto il titolo Democracy and judicial independence, in U.N.B. Journal 1977, 7 ss.
[15] Si veda il mio Responsabilità o immunità giudiziale, citato, pag. 355.
[16] Op. ult. cit., pag. 17.
Interdittiva antimafia tra norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie (Nota a Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sulla legittimità costituzionale, euro unitaria ed internazionale delle norme in materia di interdittiva antimafia - 3. La necessità di riforma: uno sguardo al D.L. 6 novembre 2021, n. 152.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
L’interdittiva antimafia è manifestazione tangibile della volontà di recidere il rapporto tra organizzazioni criminali e cosa pubblica [1]. In tale complesso sistema va segnalata la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165.
I Giudici di Palazzo Spada hanno reso la sentenza in commento sulla riforma della pronuncia del Tar Latina, sez. I, n. 303/2020 che aveva rigettato il ricorso proposto dalla società ora appellante.
Quest’ultima aveva presentato domanda per il rilascio dell’autorizzazione a svolgere l’attività di facchinaggio all’interno del MOF (Mercato Ortofrutticolo di Fondi) nonché della possibilità di accedere al Mercato per i propri soci e dipendenti, depositando la documentazione richiesta e fornendo i dati necessari.
La MOF, al fine di tutelare la libertà delle attività commerciali all’interno del Mercato (oggetto di vari episodi di infiltrazione criminale), sottoscriveva protocollo di legalità con la Prefettura di Latina e, dunque, faceva richiesta di informazione antimafia alla Banca Dati Nazionale Antimafia; nelle more dell’esito, rilasciava in favore della società appellante l’autorizzazione richiesta per l’anno in corso.
La Prefettura, alla luce del protocollo di legalità, comunicava alla MOF di aver emesso provvedimento interdittivo antimafia nei confronti della detta società; tuttavia a tale informazione non seguiva alcun provvedimento da parte della MOF in quanto la società appellante non aveva presentato domanda di autorizzazione nei termini prescritti per l’anno d’interesse e, pertanto, non avrebbe comunque potuto operare all’interno del Centro Agroalimentare, in quanto non autorizzata.
La società presentava ricorso innanzi al TAR per il Lazio, sede di Latina, chiedendo l’annullamento, previa tutela cautelare, dell’informativa antimafia interdittiva, del protocollo di legalità per il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, della segnalazione all’Autorità Anticorruzione e della stessa annotazione nel Casellario Informatico dei contratti pubblici.
Il TAR accoglieva la domanda di tutela cautelare, con ordinanza che, appellata dal Ministero dell’interno, veniva poi annullata dal Consiglio di Stato. Successivamente, la società presentava ricorso per motivi aggiunti, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario. Ricorso principale e motivi aggiunti venivano poi entrambi rigettati.
La sentenza di merito veniva appellata sollevando anche alcune questioni di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 84, 85, 89 bis, 91 co.6 e 94 del D.Lgs. 159/2011 per violazione dei principi di uguaglianza, di solidarietà e di sussidiarietà, ex articoli 2, 3, 4, 22 e 118, ult. co. della Costituzione, e lamentando inter alia la violazione degli artt. 1 e 2 c.c., dell'art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, degli artt. 6 e 13 della CEDU.
Nel merito, chiedeva al Consiglio di Stato, accertata e dichiarata l'illegittimità della sentenza del TAR Lazio, nonché degli atti impugnati, di accogliere l’appello e, per l’effetto, i ricorsi introduttivo e per motivi aggiunti di primo grado ed annullare i provvedimenti con questi impugnati.
Il Consiglio di Stato, nel vagliare i motivi addotti dalla società appellante ed alla luce delle ampie deduzioni dell’appellato Ministero dell’interno circa le infiltrazioni mafiose in atto, riteneva l’appello non fondato al pari delle questioni di legittimità costituzionale e di legittimità sotto il profilo euro unitario ed internazionale pattizio e pertanto, definitivamente pronunciandosi, respingeva l’appello.
2. Sulla legittimità costituzionale, euro unitaria ed internazionale delle norme in materia di interdittiva antimafia
Preliminarmente la pronuncia in commento, richiamando consolidata giurisprudenza, rappresenta come l’interdittiva antimafia costituisca "una misura volta alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione" [2]. Il provvedimento prefettizio ha, dunque, il precipuo fine di prevenire possibili infiltrazioni mafiose nell’economia che inevitabilmente andrebbero a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione costituendo al contempo un presidio dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, previsti dall'art. 97 Cost. [3]. Dunque, le misure interdittive antimafia sono inserite a sistema per la tutela sia dello svolgimento di una effettiva concorrenza tra le imprese sia di un apprezzabile utilizzo delle risorse pubbliche [4].
Chiarita la condivisibile ratio ispiratrice dei provvedimenti interdittivi prefettizi, la complessa sentenza in commento si palesa di grande interesse nella parte in cui tratta le questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso le disposizioni dettate dal libro II del D.Lgs. 159/2011 ed in particolare, avverso gli artt. 84, 85, 89 bis, 91 co.6 e 94 del D.Lgs. nonché dei diritti fondamentali previsti dalla carta CEDU e dai protocolli addizionali [5].
Il Collegio, ritenendo tali censure infondate, precisava che secondo la normativa nazionale le misure interdittive antimafia si concretizzano, non nell’intervento su di “uno status generale di capacità giuridica” bensì, nella previsione di “limiti e divieti temporanei e specifici di contrattazione con la pubblica amministrazione e di esercizio di attività economiche sottoposte a vaglio autorizzativo a tutela di interessi pubblici generali” nonché a tutela della stessa possibilità di un loro libero esercizio da parte di tutti i competitoreconomici, nel rispetto dei principi di libertà d’iniziativa economica privata e di concorrenza sanciti dall’art. 41 della Costituzione e dal Trattato UE [6].
Pertanto, il giudice adito, richiamando un Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riconduce ad una incapacità di agire temporanea l’effetto dell’interdittiva, essendo previste, a suo avviso, adeguate misure per poter ristabilire le condizioni di affidabile partecipazione della società all’economia, nella sua espressione più libera e incondizionata da possibili infiltrazioni.
In realtà, lo studio della casistica degli ultimi anni ci mostra come tali misure non siano affatto temporanee in quanto revocate esclusivamente nel caso in cui affiorino nuovi elementi pro imprenditore, determinando inevitabilmente un illegittimo rovesciamento dell’onus probandi e causando conseguentemente un’inerzia procedimentale ingiustificata.
Inoltre, i giudici di Palazzo Spada ritengono che le misure interdittive, estranee al sistema sanzionatorio penale in ragione del loro carattere cautelare ed anticipatorio, sono sottoposte ai principi di legalità e del giusto procedimento ammnistrativo, secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità [7].
Invero, a parere di chi scrive, la misura interdittiva spiega i propri effetti in modo molto più incisivo per il destinatario rispetto a qualunque misura cautelare personale cui un soggetto possa essere attinto e da ciò si palesa la necessità di ancorare le garanzie che devono seguire e presupporre tali provvedimenti [8]. La portata di tali provvedimenti si comprende estendendo l’angolo di osservazione e interpretando gli effetti devastanti che produce nei confronti di soggetti terzi ovvero soggetti che lavorano presso l’impresa attinta dall’interdittiva che vedono limitato un proprio diritto fondamentale.
Ancora bisogna ricordare che la normativa antimafia non prevede una partecipazione necessaria del soggetto in fase procedimentale andando ad inficiare probabilmente la garanzia di una piena istruttoria assicurata solo da un effettivo contraddittorio delle parti [9].
Il Collegio, poi, richiama la Corte Costituzionale (n. 57 del 2020) che già respingeva i dedotti dubbi di incostituzionalità, affermando che: “...queste complesse valutazioni che – come si è rilevato - sono, sì, discrezionali, ma dalla forte componente tecnica, sono soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo. Di fatto è questa la portata delle numerose sentenze amministrative che si sono occupate dell’istituto. Esse non si limitano ad un controllo “estrinseco” e, pur dando il giusto rilievo alla motivazione, procedono ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza.”
Tuttavia, è discutibile sostenere che il Prefetto svolga attività di discrezionalità tecnica nell’emissione di un provvedimento interdittivo poiché esso si traduce in una valutazione di elementi di fatto, sovente di natura indiziaria e acquisiti a valle di un’attività istruttoria svolta talvolta rivalutando elementi già valutati in sede penale e da cui trae elementi che portano ad una decisione opposta in sede amministrativa.
È poco sostenibile, dunque, che la valutazione di fatti possa essere ricondotta nella discrezionalità tecnica e d’altro lato, appare ancor meno adeguata la limitazione che consegue a livello giurisdizionale poiché il giudice viene privato degli strumenti istruttori che permetterebbero di “investigare in autonomia” i fatti presupposti risalendo alla concreta portata [10].
Pertanto, è inevitabile rilevare come alla discrezionalità della Pubblica amministrazione nella materia in commento non segua una piena capacità istruttoria del giudice amministrativo realizzando sovente una ingiustificata compressione del diritto di difesa dell’operatore economico attinto dalla misura interdittiva.
Il collegio, allo stesso modo, ritiene infondate le violazioni sindacabili innanzi alla CEDU chiarendo che “in considerazione della natura non repressiva ma preventiva, e della varietà di comportamenti con cui le mafie ricercano attrattive occasioni di infiltrazione in società e relativi settori economici, il Consiglio di Stato ha ripetutamente – con la conferma della Corte Costituzionale adita in sede incidentale – affermato che la “tipizzazione giurisprudenziale”, in costante evoluzione, effettuata dal Supremo organo di giustizia amministrativa costituisce “parametro sufficientemente adeguato a evitare ogni pericolo di discrezionali se non arbitrarie azioni, nella vaghezza dei loro presupposti, da parte della autorità prefettizia nel definire i comportamenti sintomatici della infiltrazione mafiosa”. Sulla scorta di ciò, il Collegio adito esclude la pretesa irragionevole limitazione degli strumenti di tutela giurisdizionale dell’impresa sottoposta ad interdittiva antimafia in violazione delle norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie richiamate a tal fine.
E ciò dimostra che anche la discrezionalità ha un limite e che sarebbe finalmente opportuno introdurre in via legislativa una fase di partecipazione del destinatario dell’interdittiva affinché possa dimostrare le sue ragioni sin dalla sede procedimentale.
3. La necessità di riforma: uno sguardo al D.L. 6 novembre 2021, n. 152
A valle dell’orientamento giurisprudenziale e delle opposte posizioni della dottrina è evidente come la materia meriti una rimeditazione da parte del legislatore. Chi scrive, da tempo, sostiene che già in sede procedimentale la disciplina vada ripensata, estendendo garanzie e tutele al futuro destinatario del provvedimento interdittivo. Ciò che si richiede è un ancoraggio della disciplina ai principi dell’agire amministrativo.
L’esigenza della partecipazione effettiva mediante un contraddittorio procedimentale è stata finalmente colta con il D.L. 6 novembre 2021, n. 152 – G.U. 6 novembre 2021, n. 265 che all’art. 48 rubricato “Contraddittorio nel procedimento di rilascio dell'interdittiva antimafia” prevedendo che: “Il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione antimafia interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle misure di cui all'articolo 94-bis, e non ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento, ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa. Con tale comunicazione è assegnato un termine non superiore a venti giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, da effettuare secondo le modalità previste dall'articolo 93, commi 7, 8 e 9. In ogni caso, non possono formare oggetto della comunicazione di cui al presente comma elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l'esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose. La predetta comunicazione sospende, con decorrenza dalla relativa data di invio, il termine di cui all'articolo 92, comma 2. (…)”
Assistiamo ad una presa di posizione fortemente auspicata. È pur vero però che ciò non può soddisfare pienamente chi desidera un sistema giusto e lontano dallo Stato della Paura. Negli ultimi anni, si è abusato di uno strumento che per sua natura sacrifica (talvolta in modo sproporzionato) diritti fondamentali del destinatario.
Solo la proporzione è condizione di civiltà dell’azione amministrativa e pertanto bisogna allontanare ogni possibile ipotesi di riconduzione ad un sistema sciolto e fluido, seppur necessario al contrasto di organizzazioni mafiose che per natura sono mutevoli [11].
*Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il primo paragrafo a Renato Rolli e i restanti a Martina Maggiolini
[1] Si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in questa Rivista, 2020
[2] Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743
[3] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in questa Rivista, 3 luglio 2020
[4] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 31 dicembre 2014 n. 6465
[5] Si consenta in rinvio a R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), in questa Rivista, 2021
[6] V. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019
[7] v. F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico”, il diritto dell’economia, 2019
[8] Cfr. A. Longo, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, Nomos, 2020
[9] Cfr. M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[10] v. F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in www.giustamm.it, 6, 2018
[11] Cfr. Cons. St. 5 settembre 2019, n. 6105
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Renato Rordorf
1. Caro Renato, secondo Te, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
Confesso che in passato mi era capitato solo saltuariamente di imbattermi in citazioni tratte dal libro di Mazzini Dei doveri dell’uomo[1]¸ che però non avevo mai letto integralmente. L’iniziativa di Giustizia insieme mi ha spinto ora a farlo e ne sono davvero grato, perché è stata una lettura che non esiterei a definire appassionante. Le idee di Mazzini, ovviamente, si possono condividere o meno, e certamente oggi appaiono sotto molti aspetti alquanto invecchiate; ma quello che non si può non ammirare è la straordinaria passione, la forza morale, la sincerità ed il rigore che traspaiono dalle pagine di questo piccolo libro, tanto più ove si rifletta a come la vita stessa di Mazzini sia stata sino alla fine coerente con i principi che egli professava e quale prezzo egli abbia pagato per restarvi fedele.
Già solo per lo straordinario impegno civile di cui esse recano testimonianza credo che le pagine mazziniane meritino tuttora di essere lette e che si debba perciò rispondere positivamente alla domanda se vi sia ancora bisogno di riflettere sul tema dei doveri dell’uomo che vi è trattato. In una società oggi tendenzialmente apatica ed assai poco propensa ad impegnarsi per un qualche ideale, quelle pagine, anche laddove se ne dissenta, possono avere una benefica funzione di stimolo. D’altronde si tratta di un tema che investe, nella sua apparente semplicità ma nella sua reale complessità, il modo stesso degli uomini di stare in società: è quindi un tema che non esiterei a definire insito nel concetto di società civile e che perciò è attuale in ogni tempo.
Se poi guardiamo, in particolare, al tempo nostro, quello in cui ora viviamo, l’esigenza di riflettere sui doveri dell’uomo (e sulla loro inscindibile connessione con i diritti) mi pare ancor più evidente. Basterebbe a dimostrarlo la discussione che nel mondo intero ha suscitato la necessità di rendere doverosi determinati comportamenti per attenuare i rischi e gli effetti della pandemia da Covid-19 ed il loro non sempre facile contemperamento con i diritti di libertà di ciascuno. E’ poi appena il caso di aggiungere che il drammatico affacciarsi del pauroso spettro della guerra nel cuore stesso dell’Europa pone inevitabilmente milioni di persone di fronte a drammatici dilemmi morali, che naturalmente evocano il tema dei doveri verso la propria comunità di appartenenza e verso l’umanità intera. Proprio ciò su cui anche Mazzini, al tempo suo, si interrogava.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
Vi sono sparse un po’ in tutto lo scritto mazziniano espressioni che rivelano un’austera concezione della vita in cui la rivendicazione dei diritti ad opera dei singoli individui, alla ricerca del loro benessere materiale, è vista come manifestazione di egoismo e nuoce al progresso dell’umanità, mentre invece è l’ottemperanza ai doveri imposti da Dio che affratella gli uomini e costituisce la loro vera missione sulla terra.
Una contrapposizione tra diritti e doveri posta in termini così netti e radicali mi pare abbia perso molta della sua attualità: non giova e rischia di apparire alquanto forzata. Ogni diritto di cui taluno possa vantarsi titolare implica la pretesa di un altrui comportamento, attivo o omissivo, e pertanto si colloca sempre in un contesto di relazione con chi ha il dovere di rispettare l’altrui diritto. Non inganni la tradizionale distinzione tra diritti relativi e diritti assoluti, perché pure questi ultimi assumono rilievo solo quando vengano fatti valere nei confronti di qualcuno, anche se questo qualcuno potrebbe esser chiunque. Neppure il carattere universale dei diritti fondamentali dell’umanità, che non sono un astratto enunciato ma si sostanziano di volta in volta nella pretesa di ben specifici comportamenti e di ben precise forme di tutela, fa venir meno il loro legame con corrispondenti doveri: doveri che fanno capo anche ai governanti e comunque a tutti coloro che quei diritti sono tenuti a rispettare o cui spetta il compito di darvi effettiva attuazione. Diritti e doveri si pongono, quindi, necessariamente in un rapporto di complementarietà e costituiscono la trama giuridica di ogni consesso sociale. Al “diritto di avere diritti” (per riprendere qui la nota espressione di Rodotà), corrisponde specularmente il dovere di avere doveri, che rende ciascuno di noi responsabile versi gli altri dei propri comportamenti.
Ciò, peraltro, non esclude che in tale contesto, nel quale si rispecchia la complessità di qualsiasi forma di vita in comune, possa porsi anche la necessità di operare una qualche forma di bilanciamento, non soltanto tra diritti reciprocamente incompatibili e perciò confliggenti (come talvolta abbiamo visto accadere, ad esempio, nel contrasto tra diritto al lavoro e diritto alla salute ed alla tutela ambientale in presenza di impianti industriali inquinanti), ma anche tra diritti e doveri: si pensi all’obiezione di coscienza, invocando la quale taluno chieda di sottrarsi a determinati obblighi inerenti al suo stato professionale. Non credo esista per questo tipo di operazioni una bilancia universale, utilizzabile nel medesimo modo in ogni tempo ed in ogni luogo, perché il peso delle diverse esigenze in conflitto dipende anche dal contesto storico-sociale in cui ciascuna situazione si colloca. E se può certo predicarsi la primazia del valore della dignità umana, non è detto che sia sempre facile stabilire se o fino a qual punto in determinate circostanze quel valore sia davvero in gioco. Ma quel che vorrei qui soprattutto sottolineare è che anche la dignità non è qualcosa che appartenga unicamente all’individuo isolatamente inteso: la dignità dell’essere umano dipende anche dal suo sentirsi, per l’appunto, “umano”, cioè partecipe del destino comune dell’umanità e perciò solidale con essa (e qui mi pare davvero che le parole di Mazzini siano ancora attuali, ma ci tornerò). La dignità umana non si esaurisce nella rivendicazione di un diritto individuale, ma si manifesta anche nella capacità di assumere responsabilità verso gli altri. Indubbiamente ogni persona è titolare di una serie di diritti, che preservano la sua dignità e che possono essere concettualmente isolati, ma nella sua vita reale quella persona è inserita in una rete di rapporti nella quale vengono in evidenza le interrelazioni tra ciò che essa può o deve fare e ciò che deve attendersi che gli altri facciano per non spezzarli; rapporti se si prescindesse dai quali anche l’enunciazione della dignità dell’individuo rischierebbe di risolversi in mera retorica.
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Te la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
No, non credo che quella di Mazzini sia una domanda retorica. Più che volta a risolvere un ipotetico contrasto tra diritti e doveri mi pare, però, che essa riproponga per certi versi l’antico dramma di Antigone: il contrasto tra un diritto avvertito dal singolo (o da un gruppo di persone) come inestirpabilmente radicato nella natura umana ed il diritto positivo di uno Stato sovrano. Tema antichissimo, dunque, ma che ovviamente, nel pensiero di Mazzini, si colora con la tinta delle vicende storiche di cui egli stesso era stato ed ancora auspicava di poter essere protagonista: la realizzazione dell’Italia unita in forma repubblicana e la sua liberazione da regimi che egli considerava tutti variamente tirannici. Mazzini rivendica ripetutamente il diritto-dovere di ribellarsi alla legge ingiusta, in nome di una superiore legge dettata da Dio, che egli vede rispecchiata nella coscienza individuale e che dovrebbe incontrare progressivamente il consenso dell’umanità intera (o almeno della parte di essa sufficientemente educata ed istruita): è quello il tribunale al quale Mazzini immagina di dover ricorrere.
In questi termini il suo pensiero può effettivamente apparire superato, ma ciò non toglie l’attualità della domanda che egli si è posta, la quale suona quasi profetica se si pensa al lungo e difficile cammino che l’umanità ha dovuto percorrere per realizzare, a circa un secolo di distanza, quelle forme di giurisdizione sovranazionale volte alla tutela dei diritti fondamentali alle quali anche gli Stati (per la verità non tutti, e non senza riserve e resistenze) sono assoggettati. Ed è oggi anche a quelle giurisdizioni sovranazionali, in un dialogo costruttivo con gli organi di giustizia dei singoli Stati, che compete il compito di coniugare il piano della tutela dei diritti umani (individuali e collettivi) con quello dei doveri gravanti sui partecipanti al consesso sociale.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Te questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a Tuo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
Mi sembra che la componente deontica dei diritti fondamentali, ed in particolare della dignità, confermi quanto poc’anzi dicevo: che, cioè, la dignità umana non si esaurisce nell’astratta titolarità di un diritto o di un insieme di diritti dell’individuo ma implica un modo di stare in società e, quindi, anche la responsabile assunzione di doveri verso gli altri; ed il suo fare “sistema” comporta quella necessità di bilanciamento tra diritti e doveri cui sopra accennavo.
La particolare enfasi di Mazzini nel sottolineare l’importanza dei doveri, in qualche modo contrapponendoli ad una visione individualistica dei diritti, credo sia dovuta, per un verso, all’afflato religioso che permea il suo pensiero (forse non privo di influenze gianseniste derivanti dall’educazione materna) e, per altro verso, dall’impulso all’azione da cui quel pensiero è sempre costantemente animato. Per Mazzini i doveri discendono dal comandamento divino. Egli lo dice in modo assai perentorio: “L’origine dei vostri doveri sta in Dio”[2] e, commentando il precetto evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare, Mazzini non esita ad affermare che “Nulla è di Cesare se non in quanto conforme alla Legge Divina”[3]. Ma, poiché è Dio ad aver dato a ciascun popolo la propria patria, è dovere degli italiani battersi per l’unità nazionale. Tale concezione del dovere, nella visione mazziniana, è l’unica capace di saldare i legami sociali, e non soltanto prevale su qualsiasi pretesa di laicità dello Stato ma si contrappone esplicitamente tanto agli ideali liberali quanto a quelli del socialismo o del comunismo allora ancora agli albori.
Mi sembra chiaro che un’impostazione di tal genere difficilmente sarebbe accettabile al giorno d’oggi, in una società permeata di laicismo e che, dopo il tragico ventennio fascista, è assai restia a santificare la Patria. Ciò nondimeno, pur senza indulgere in anacronismi, nelle pagine mazziniane si possono tuttora cogliere spunti di notevole attualità. Mi pare di poterli scorgere, in particolare, nella sua critica al liberismo che, esaltando sopra ogni cosa la concorrenza, ponendo perciò gli uomini in perenne competizione tra loro e “dimenticando interamente la missione educatrice della società”, conduce “alla ineguaglianza ed all’oppressione dei più”; ed altrettanto attuale è l’osservazione secondo cui, ove riuscisse ad affermarsi, il comunismo condannerebbe “a pietrificarsi la società togliendole ogni moto e ogni facoltà di progresso”; donde la conclusione che di queste due ideologie la prima “ci ha dato tutti i mali dell’anarchia” e la seconda “ci darebbe l’immobilità e tutti i mali della tirannide”[4].
La Carta costituzionale, come è ben noto, ha realizzato una sintesi – direi una felice sintesi – tra culture politiche e filosofiche diverse, conciliando per quanto possibile gli ideali liberali con quelli del cristianesimo sociale e del marxismo. Anche il mazzinianesino, pur se espressione di un pensiero minoritario rispetto a quello che si esprimeva nei grandi partiti di massa, ha avuto il suo ruolo, come appare evidente a chiunque rilegga la straordinaria (ed ancora per molti aspetti modernissima) Costituzione della Repubblica Romana del 1849, di cui proprio Mazzini fu il principale ispiratore, la quale anticipa in diversi punti i contenuti della nostra Carta costituzionale. Non mi sembra perciò arbitrario ritrovare l’afflato mazziniano, tra l’altro, proprio nella formulazione dell’art. 2 della Costituzione, che affianca i diritti inviolabili della persona umana, come singolo e nelle formazioni sociali, ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Nella solidarietà si rispecchiano i molteplici legami esistenti tra i partecipanti ad un medesimo consesso sociale che, nel pensiero mazziniano, è prima di tutti quello nazionale, ma non inteso in contrapposizione con nazioni o etnie diverse, bensì destinato ad un’armonica convivenza con gli altri popoli nel comune sforzo di realizzare il Progresso dell’intera Umanità (parole tutte che Mazzini scrive sempre con iniziali maiuscole), da lui concepito quasi in chiave messianica. Oggi ci esprimeremmo con toni diversi, forse meno enfatici e profetici di quelli adoperati da Mazzini nel lontano 1860; ma non credo sia inattuale sostenere che la solidarietà evocata dal testo costituzionale implichi, al tempo stesso, tanto il riconoscimento delle radici identitarie su cui poggia la costruzione dello Stato nazionale quanto il sentirsi partecipi di un destino che accumuna tutto il genere umano. E chissà che anche Mazzini non avesse in mente quel bacio rivolto al mondo intero nell’Ode alla Gioia di Schiller (Diesen Kuß der ganzen Welt!), musicata da Beethoven, che tuttora non cessa di commuoverci e che, non casualmente, risuonò in piazza a Berlino all’indomani della caduta di quel muro che era divenuto simbolo di divisione tra gli uomini.
Ma la solidarietà resterebbe parola vuota, un’empatia fine a se stessa, se non la si intendesse anche come dovere di adoperarsi per favorire l’armonia tra i consociati e sforzarsi di migliorare lo stato della società in cui si vive. E’ quel medesimo dovere che, nei rapporti giuridici tra privati (ma anche tra privati e pubblica amministrazione), si traduce nell’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza, e che non si esaurisce nell’astenersi dal danneggiare illecitamente gli altri ma impone di farsi carico anche dell’altrui interesse e di proteggerlo almeno fin quando non pregiudichi ingiustificatamente il proprio. Il che, a ben guardare, non mi pare sia poi tanto distante dall’idea di dovere che Mazzini pone a fondamento del vivere in società, quando afferma che “Non basta il non nuocere: bisogna giovare ai vostri fratelli”[5].
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Te oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Ho già accennato al fondamento religioso (ma non certo confessionale) che ispira tutto il pensiero di Mazzini ed al carattere sacrale da lui attribuito ai doveri dell’uomo. È chiaro che, in società fortemente laiche quali sono attualmente le nostre, almeno nel cosiddetto mondo occidentale, una simile impostazione ha ben poca presa. Vi sono pagine mazziniane che oggi davvero ci sembrano assai lontane, quali ad esempio quelle nelle quali egli evoca il “Dio lo vuole” delle Crociate per farne il grido nazionale del popolo italiano in cerca di unità[6]. Vorrei però sottolineare che, pur non senza forse qualche contraddizione, al pensiero di Mazzini era completamente estranea qualsiasi forma di fondamentalismo. Egli è chiarissimo nell’affermare che “Nessuno ha diritto di persecuzione, d’intolleranza, di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose: nessuno, fuorché la grande pacifica voce dell’Umanità, ha il diritto di frapporsi tra Dio e la vostra coscienza”[7]. Direi che la sua è un’impostazione schiettamente giusnaturalistica, ed è proprio a quest’impostazione che si collega la primazia dell’imperativo morale in nome del quale Mazzini considera doveroso ribellarsi alla legge degli uomini, se essa appare ingiusta dinanzi al tribunale della propria coscienza e nel confronto con quella legge del Progresso dell’Umanità di cui gli sembra di scorgere l’impronta nel corso della storia: il “disegno provvidenziale che governa il mondo e che è via via rivelato dalle ispirazioni del Genio virtuoso e dalle tendenze dell’Umanità nelle epoche diverse della sua vita”[8]. Parole che forse al nostro orecchio di uomini del ventunesimo secolo appaiono arcaiche, un po’ sopra le righe, se non proprio del tutto stonate, perché ci sentiamo probabilmente più vicini al pessimismo leopardiano che non alla fede nella manzoniana provvidenza o nelle magnifiche sorti e progressive. E, tuttavia, credo che su quelle parole, liberate dalla polvere del tempo e spogliate della loro veste retorica, si debba continuare a riflettere, soprattutto dopo che le drammatiche esperienze dei totalitarismi novecenteschi hanno mostrato come sia pericoloso rompere ogni legame tra il diritto e la morale e quale grande valore possa risiedere nella disobbedienza civile in determinate situazioni storiche, che purtroppo non è escluso possano ripresentarsi nemmeno nell’epoca in cui viviamo, nella quale non mancano nuovi esempi di totalitarismo.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Te, come può concretizzarsi questa riflessione?
Torno a dire che vi è una necessaria interdipendenza tra diritti e doveri, che concorrono entrambi a formare la trama del tessuto sociale. Ciò non toglie che, a seconda delle circostanze e delle esigenze suggerite dal momento storico, si possa esser portati a porre l’accento più sugli uni o più sugli altri. Nel caso di Mazzini è evidente che la particolare accentuazione dei doveri dell’uomo nasceva anche dalla volontà di esortare alla lotta per realizzare l’unificazione nazionale in forma repubblicana, con tutto l’impegno ed i sacrifici che questo necessariamente comportava.
Mazzini, come ho già ricordato, non nega però affatto l’importanza dei diritti individuali, ai quali anzi riconosce un fondamento giusnaturalistico, soprattutto valorizzandoli come diritti di libertà, e proprio alla libertà dedica pagine molto eloquenti nelle varie declinazioni che essa può assumere – libertà di pensiero, di stampa, di associazione, ecc. – in termini che palesemente richiamano la già citata Costituzione della Repubblica romana del 1849 e che non mancheranno di riecheggiare poi nella vigente Costituzione italiana.
L’aspetto di maggiore interesse del pensiero mazziniano, a questo riguardo, mi sembra però consista nella ripetuta affermazione secondo cui senza libertà non esiste morale, perché non v’è assunzione di responsabilità, ma le libertà di cui ciascuno dispone non sono fine a se stesse, non hanno lo scopo di soddisfare gli interessi materiali dei singoli, ma vanno usate – doverosamente usate – per la realizzazione del bene comune. La libertà, insomma, “non deve mai degenerare in un fatale egoismo”[9]. Sta qui, mi sembra, il nesso indissolubile che Mazzini individua tra diritti (individuali) e doveri (verso la collettività).
Su come si configuri questo nesso si può, ovviamente, discutere assai a lungo, giacché ne sono evidenti le implicazioni ideologiche e politiche. Quel che mi pare però fuor di dubbio è che siamo in presenza di problemi attualissimi, perché, a fronte dell’indubbia esigenza di assicurare una più forte tutela ai diritti fondamentali della persona umana, che si è andata manifestando sin dall’indomani della seconda guerra mondiale, sono a mano a mano emerse preoccupazioni per un uso talvolta strumentale ed eccessivamente aggressivo di quei medesimi diritti, intesi quasi a modo di scudi o di lance in una guerra di tutti contro tutti nella quale solo le istanze del singolo contano davvero ed ognuno ha qualcosa da rivendicare ma nessuno si sente obbligato ad assumere responsabilità verso gli altri. Di certo quel che Mazzini auspicava non era un mondo popolato in prevalenza da consumatori sospettosi e risentiti, bensì una società di cittadini consapevoli del proprio ruolo e partecipi della cosa pubblica.
La contrapposizione tra l‘io ed il noi è tuttora al centro anche del dibattito sociologico: non la si può certo affrontare qui in poche righe, ma credo di poter dire che la riflessione di Mazzini conservi a questo riguardo un notevole margine di attualità proprio nella misura in cui richiama al dovere sociale di non ipostatizzare i diritti dell’individuo ma di calarli nel contesto del vivere in comune. Ed un’eco di questa riflessione mazziniana mi pare d’altronde si possa rintracciare anche nel dovere imposto ad ogni cittadino dal secondo comma dell’art. 4 della Costituzione: “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.”
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritieni dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
A queste domande mi pare di avere già in precedenza almeno in parte risposto. Aggiungerei solo che l’esaltazione mazziniana del concetto di patria è ovviamente da collocare in un contesto storico – correva l’anno 1860 – nel quale la lotta per realizzare l’unità nazionale era al suo culmine ed il patriottismo ne era uno dei principali moventi ideali. E’ fatale che oggi le pagine dedicate da Mazzini ai doveri verso la Patria siano lette con occhi diversi, soprattutto dopo che il patriottismo ha costituito uno dei principali strumenti retorici del regime fascista ed in un momento in cui la bandiera dei diversi nazionalismi viene da molte parti agitata in contrapposizione ai valori fondanti dell’Unione europea. Ma, come ho già avuto occasione di sottolineare prima, il concetto mazziniano di patria non implica alcuna chiusura verso l’esterno ma si coniuga, ed è in certo senso subordinato, ad un valore più alto, facente capo all’intera Umanità, che impone a ciascuno di intervenire “ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide”[10].
E qui di nuovo giova richiamare la Costituzione della Repubblica romana del 1849, che nel quarto dei suoi Principi fondamentali propugnava sì l’italianità, ma dopo avere solennemente affermato che la Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli. Né va dimenticato che già in precedenza Mazzini, dopo la Giovine Italia, aveva dato vita anche alla Giovine Europa, uno dei primi tentativi di fondare un’istituzione sovranazionale tesa all’affermazione di ideali democratici. Troppo poco, ovviamente, per farne un predecessore delle odierne istituzioni europee, ma non è male tenerlo presente per ricordarsi che all’origine di queste non v’è solo un’anima mercantile.
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni Ti suscita questa affermazione, da magistrato e da giurista?
Anche qui mi pare che sia necessario scrostare la patina antica che ricopre alcune espressioni mazziniane per farne emergere i contenuti tuttora moderni. La definizione della donna come “Angelo della famiglia” e l’invocarla con i termini di “Madre, sposa, sorella” attribuendole la funzione di “carezza della vita” e “dolcezza consolatrice”[11] mal si conciliano con il pensiero femminista sviluppatosi in epoca successiva. Una volta però riconosciuto che simili espressioni, al pari di quelle dedicate più in generale alla santità della famiglia, sono manifestazioni di una cultura ancora pressocché universalmente diffusa quando Mazzini scriveva quelle pagine, val piuttosto la pena di soffermarsi su altri passaggi che, a quei tempi, dovevano apparire assai meno scontati. Così è, soprattutto, per l’inequivocabile negazione di ogni superiorità dell’uomo nei confronti della donna, che Mazzini non esita a definire un “lungo pregiudizio” alimentato da “una educazione diseguale e una perenne oppressione di leggi”[12]; ed egli è chiarissimo nel predicare la necessità che l’eguaglianza tra l’uomo e la donna, pur nella diversità delle rispettive finzioni, deve sussistere “nella vita civile e politica”, quasi fossero “le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere”[13]. Sarebbe di certo esagerato fare di Mazzini un campione del femminismo, ma è innegabile il suo impegno per l’emancipazione della donna, che non a caso è invocata quasi a mo’ di suggello (accanto a quella dell’operaio) proprio nella conclusione del suo scritto.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Tuo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La solidarietà tra le persone umane non è solo, per così dire, orizzontale: non è un legame che si istituisce solamente tra contemporanei. V’è anche una solidarietà verticale, ossia intragenerazionale, che ci rende guardiani e tutori del mondo in cui viviamo, del quale non possiamo disporre a nostro piacimento perché non è opera nostra ma lo abbiamo ereditato dai nostri padri e siamo tenuti a renderlo fruibile per i nostri figli e nipoti.
Già per questo il secondo comma dell’art. 9 della Costituzione impegnava sin dall’origine la Repubblica a tutelare il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione, ma ciò appare adesso ancor più evidente con l’aggiunta del nuovo terzo comma, che, nel prescrivere la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, fa espresso riferimento proprio all’interesse delle future generazioni. La medesima logica ispira le modifiche recentemente apportate all’art. 41 della Costituzione, che consente di porre limiti all’iniziativa privata non più solo quando questa possa recare danno alla libertà, alla sicurezza ed alla dignità umana, cioè a valori radicati soprattutto nel presente, ma anche se dovesse risultare dannosa per la salute e per l’ambiente. Ed il riferimento all’ambiente, ora ripetuto anche nel comma successivo a proposito delle finalità perseguite dai controlli e dai programmi economici disposti dal legislatore, nuovamente suggerisce una visione di più lungo respiro nella quale anche la tutela delle generazioni avvenire è compresa.
Senza bisogno di sacralizzare la natura e di indulgere in visioni vagamente panteistiche, a me sembra che stia proprio lì – nei doveri che la condizione di esseri mortali ci impone verso i nostri discendenti – il solido fondamento del principio di salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema che si è inteso introdurre negli artt. 9 e 41 della Costituzione.
La sensibilità ecologica è particolarmente avvertita ai giorni nostri. I movimenti giovanili se ne sono fatti interpreti in diverse parti del mondo e, sia pure con difficoltà e non senza resistenze e contraddizioni, essa si sta diffondendo anche tra i governanti, come in Italia è confermato dal larghissimo consenso parlamentare che le suaccennate modifiche costituzionali hanno riscosso.
Anche a questo proposito, però, mi sembra che il pensiero di Mazzini, pur senza volerlo forzatamente attualizzare, offra delle suggestioni e degli spunti che non vanno trascurati. Mi riferisco, in particolare, alle molte pagine mazziniane in cui è evocata l’idea di un’Umanità in cammino, del lascito delle generazioni precedenti di cui noi fruiamo e dei conseguenti doveri e responsabilità che ci competono verso quella stessa Umanità, quale sarà formata da coloro che ci seguiranno. Parlare di un Mazzini ambientalista sarebbe manifestamente esagerato, ma non è invece fuor di luogo evidenziare che i doveri dell’uomo ai quali egli è così attento sono anche verso le future generazioni.
[1] G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Rizzoli, Milano, 2021
[2] Ibidem, pag. 38.
[3] Ibidem, pag. 44.
[4] Ibidem, pagg.50-51.
[5] Ibidem, pag. 51.
[6] Ibidem, pag. 45.
[7] Ibidem, pag. 94.
[8] Ibidem, pag. 99.
[9] Ibidem, pag. 95.
[10] Ibidem, pag. 66.
[11] Ibidem, pag. 75.
[12] Ibidem, pag. 77.
[13] Ibidem, pag. 78.
QUALE GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DOPO IL CASO RANDSTAD ITALIA?
Il Comitato di redazione della sezione Diritto e Processo Amministrativo della Rivista incontra
FRANCO DE STEFANO, LUIGI MARUOTTI e RICCARDO VILLATA
per discutere della sentenza CGUE 21 12 2021 C- 497/20 – Randstad Italia spa.
L’interferenza delle regole del giudizio amministrativo impugnatorio sul giudizio di l.c. in via incidentale (nota a Corte cost., 21 dicembre 2021, n. 248)
di Flaminia Aperio Bella e Alessandra Coiante[1]
Sommario: 1.Premessa: la vicenda e la rimessione alla Corte costituzionale - 2. La dichiarazione di inammissibilità per insufficiente motivazione in punto di rilevanza - 3. Il potere del giudice di sollevare ex officio questioni di legittimità costituzionale e le peculiarità del processo amministrativo - 4. La distinzione tra atto meramente confermativo e conferma propria e i riflessi sugli oneri deduttivi del ricorrente - 5. Riflessioni conclusive: alla ricerca di un equilibrio tra oneri deduttivi e rilevabilità d’ufficio della q.l.c.
1. Premessa: la vicenda e la rimessione alla Corte costituzionale
Nella pronuncia che si annota la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile, per insufficiente motivazione in punto di rilevanza, la q.l.c. dell’art 2, co. 9, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) nella parte in cui subordina la proposizione delle azioni civili nei confronti dei commissari straordinari delle banche alla previa autorizzazione della Banca d’Italia, formula alcune interessanti considerazioni sul rapporto tra atti meramente confermativi e atti di conferma, soffermandosi sugli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente a fronte di questi ultimi e giungendo a conclusioni che producono specifici riflessi sul rapporto tra giudizio amministrativo e giudizio costituzionale con particolare riferimento al tema della rimessione d’ufficio, da parte del giudice amministrativo, di questioni di legittimità costituzionale.
La questione sottoposta all’attenzione della Corte trae origine dall’impugnazione – davanti al TAR rimettente (TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 10 febbraio 2020, n. 1770) – di due provvedimenti con cui il Governatore della Banca d’Italia aveva negato al ricorrente l’autorizzazione a procedere, richiesta ai sensi del citato art. 72, comma 9, t.u.b., nei confronti di alcuni commissari straordinari nominati dalla stessa Banca.
In particolare, con il ricorso introduttivo, il ricorrente chiedeva l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del provvedimento con cui era stata negata l’autorizzazione, prospettando, altresì, profili di illegittimità costituzionale della suddetta disposizione.
La ricorrente, vedendosi poi respinta l’istanza cautelare, proponeva appello al Consiglio di Stato che, invece, con remand cautelare, ordinava alla Banca d’Italia il “pronto riesame” dell’istanza di autorizzazione rivoltale, alla luce dei motivi illustrati nel ricorso. Insorgendo con motivi aggiunti contro il provvedimento con cui la Banca d’Italia confermava il diniego, la ricorrente riproduceva solo in parte i motivi originari, e in particolare non riproponeva la censura di illegittimità costituzionale, incentrando le proprie contestazioni sulla violazione di legge (compresa quella dell’art 72, co. 9 cit.) l’eccesso di potere, e l’elusione dell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato.
Il TAR, esaminando il merito della questione, rigettava sia il ricorso originario che il motivo aggiunto con sentenza parziale diffusamente motivata; tuttavia, ritenendo meritevoli di “favorevole apprezzamento” le questioni di compatibilità costituzionale prospettate dalla ricorrente, sollevava contestualmente q.l.c. del richiamato art. 72, co. 9 in riferimento agli artt. 3, 24, 28, 47, 97, 101, 102, 103, 111, 113 e 117, comma 1, Cost.. Argomentando in punto di rilevanza, il giudice a quo evidenziava che gli atti impugnati «costituirebbero applicazione diretta della norma sospettata di illegittimità costituzionale» e, stante l’infondatezza delle altre censure, «l’accoglimento del gravame potrebbe derivare esclusivamente dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunciata», per caducazione della fonte normativa presupposta e conseguente illegittimità derivata degli atti impugnati.
2. La dichiarazione di inammissibilità per insufficiente motivazione in punto di rilevanza
In via preliminare, la Corte si sofferma sulla questione dell’ammissibilità della q.l.c. sollevata con sentenza parziale, rilevando che, per costante giurisprudenza della stessa Corte[2], l’utilizzo della forma della sentenza parziale (o non definitiva), in luogo dell’ ordinanza, come atto di instaurazione del giudizio di legittimità costituzionale, non influisce di per sé sull’ammissibilità delle questioni con essa proposte, sempre che il giudice a quo, indipendentemente dal nomen iuris, dopo la positiva valutazione concernente la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni stesse, da un lato, abbia disposto la sospensione del procedimento e la trasmissione del fascicolo, ai sensi dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87 e, dall’altro, non abbia, con lo stesso provvedimento, definito integralmente il procedimento principale.
Quest’ultima eventualità, infatti, ha come conseguenza l’esaurimento della potestas iudicandi del giudice rimettente, situazione che osterebbe alla proposizione della questione di legittimità costituzionale in via incidentale.
Proprio su tale ultimo punto la Banca d’Italia, costituita in giudizio, eccepiva che il TAR, essendosi già pronunciato con sentenza sulla legittimità di entrambi i provvedimenti impugnati, avrebbe già fatto applicazione della norma censurata, consumando così il proprio potere decisorio e rendendo la proposizione delle questioni inammissibile per difetto di rilevanza.
La Corte ha tuttavia dichiarato le questioni inammissibili per ragioni “parzialmente diverse e più articolate di quelle prospettate dalla parte costituita”.
In primo luogo, la Consulta ha analizzato il rapporto intercorrente tra i due provvedimenti di diniego e le censure sollevate avverso gli stessi nel procedimento principale.
Contro il primo provvedimento, infatti, la parte ricorrente avrebbe dedotto motivi volti a contestare, sia il “cattivo esercizio” del potere di autorizzazione da parte della Banca d’Italia (sotto i profili della violazione di legge e dell’eccesso di potere), sia “l’esistenza stessa del potere”, deducendo anche l’illegittimità costituzionale della norma che lo conferisce. Contro il secondo e nuovo provvedimento di diniego, invece, la ricorrente riproponeva la censura di violazione di legge ed eccesso di potere, ma non quella di illegittimità costituzionale della norma attributiva del potere, in luogo della quale veniva lamentata l’elusione dell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato. Da ciò emergerebbe, nelle parole della Corte, la mancanza di “un autonomo motivo volto a denunciare un vizio di “illegittimità derivata”, scaturente dalla contrarietà a Costituzione della norma di cui il provvedimento stesso ha fatto applicazione”.
Proseguendo la propria argomentazione, la Consulta ha cura di precisare che, nell’ipotesi in cui nel giudizio a quo si fosse discusso esclusivamente del primo provvedimento, “sarebbe agevole osservare che la circostanza che il rimettente abbia negato, con sentenza, il “cattivo esercizio” del potere non escluderebbe che gli resti, comunque sia, da decidere sul motivo relativo all’esistenza del potere: prospettiva nella quale la potestas iudicandi del giudice a quo – contrariamente a quanto sostenuto dalla Banca d’Italia – non risulterebbe esaurita”. La presenza del secondo provvedimento di diniego, tuttavia, impedirebbe di poter concludere in tal senso.
Il TAR rimettente, infatti, avrebbe errato nel non chiarire se il secondo provvedimento avesse natura di atto meramente confermativo – con il quale la p.A. si limita semplicemente a ribadire la volontà espressa in un precedente provvedimento – ovvero di conferma in senso proprio, atto che, invece, va a sostituire in toto il provvedimento originario.
Poiché, secondo la Corte, nel caso di specie si verserebbe nella seconda ipotesi, con conseguente integrale sostituzione del primo provvedimento, il TAR si sarebbe dovuto occupare dei soli motivi proposti avverso il secondo provvedimento, non comprensivi della denuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 79, co. 9, t.u.b. e dichiarati comunque non fondati con sentenza parziale. Tale ultima evenienza avrebbe pertanto portato all’esaurimento “del potere decisorio del rimettente, il quale, non avendo più alcunché su cui pronunciare, non potrebbe sollevare ormai le questioni neppure d’ufficio”.
Di conseguenza, il giudice a quo avrebbe dovuto motivare, in sede di rilevanza, perché sarebbe stato ancora tenuto ad occuparsi – anche dopo la pronuncia di merito emessa – dell’originario secondo motivo di ricorso contro il primo provvedimento di diniego (unico motivo teso a far valere un vizio di “illegittimità derivata”). Tale lacuna si è invece tradotta “in una insufficiente motivazione in punto di rilevanza” che ha portato la Corte a dichiarare inammissibili le questioni così sollevate.
3. Il potere del giudice di sollevare ex officio questioni di legittimità costituzionale e le peculiarità del processo amministrativo
La pronuncia in commento riporta alla luce alcune questioni di particolare rilievo legate al rapporto tra il processo amministrativo, tradizionalmente considerato di tipo impugnatorio, e la possibilità per il giudice amministrativo di proporre d’ufficio questioni di legittimità costituzionale.
Non solo. Nel caso di specie, la problematicità della relazione tra giudizio amministrativo e giudizio di l.c. in via incidentale si è poi intrecciata con l’ulteriore questione della consumazione del potere decisorio del giudice rimettente, discesa da una certa lettura degli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente nel caso di impugnazione di atti di conferma c.d. in senso proprio.
Occorre, dunque, ripercorrere le richiamate tematiche al fine di verificare se i nodi posti dalla fattispecie ricordata e sciolti dalla Consulta si prestassero o meno a soluzioni alternative.
Come noto, secondo quanto stabilito dall’art. 1 l. cost. n. 1/1948 (del quale l’art. 23, comma 3, l. 87/1953 costituisce “semplice reiterazione”)[3], le questioni di legittimità costituzionale in via incidentale possono essere sollevate su istanza di parte oppure rilevate d’ufficio dal giudice.
Tuttavia, la dottrina, già prima dell’inizio del funzionamento della Corte costituzionale, aveva iniziato a interrogarsi sui riflessi che la possibilità di rilevare ex officio una q.l.c. avrebbe potuto avere sul processo amministrativo, tradizionalmente di natura impugnatoria[4].
Nel processo civile, infatti, ove vige il principio del iura novit curia (art. 113 c.p.c.), il giudice, pur essendo vincolato all’allegazione dei fatti prospettati dalle parti nel rispetto del principio della domanda (art. 112 c.p.c.), può (recte: deve) provvedere alla corretta qualificazione giuridica della fattispecie, anche in difformità dalla qualificazione della domanda dedotta dalle parti[5].
Nel processo amministrativo, invece, vi è un affievolimento del principio del iura novit curia dal momento che il giudice non può conoscere se non dei vizi dell’atto dedotti dalle parti (il ricorrente principale e, eventualmente, il ricorrente incidentale) negli atti introduttivi (salvo il caso dei motivi aggiunti), risultando così vincolato alle norme di cui le parti deducono la violazione[6]. Tale vincolo ai vizi-motivi prospettati dalle parti affievolisce, senza dubbio, il potere da detenuto dal giudice amministrativo rispetto a quello, che spetta al giudice civile, di estrarre il fatto dedotto nella causa petendi e di ricondurlo a una fattispecie normativa differente da quella indicata dalle parti.
Questa peculiarità ha catalizzato le riflessioni di dottrina e giurisprudenza nello stabilire se e in che misura la natura impugnatoria del processo amministrativo, e il ricordato affievolimento del margine di manovra del giudice amministrativo rispetto alle disposizioni oggetto del giudizio, potessero essere d’ostacolo alla proposizione d’ufficio di questioni di legittimità costituzionale.
Sul punto è intervenuta, sin da subito, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, stabilendo che il potere di rilievo ex officio di una q.l.c. è attribuito (anche) al giudice amministrativo da una norma costituzionale e il suo esercizio non può essere ostacolato dalla presenza di “principi di legge ordinaria, secondo i quali il Consiglio di Stato può decidere solo sui motivi dedotti dal ricorrente”[7], precisando anche che il suddetto potere è stato “conferito dalla norma costituzionale senza limitazione alcuna” e può essere esercitato “non solo per risolvere dubbi sulla giurisdizione o sui presupposti processuali, ma anche per risolvere quelli concernenti il merito della controversia, cioè la legittimità dell'atto impugnato”.
Come osservato in dottrina[8], a seguito di tale pronuncia, l’attenzione degli studiosi si è spostata sulla possibilità per il g.a. di sollevare d’ufficio una q.l.c. “senza limitazione alcuna”. Una prospettiva definita “più radicale”[9] giungeva a una negazione del sollevamento ex officio della questione di costituzionalità nel giudizio amministrativo, imponendo che la rimessione alla Corte costituzionale fosse sempre subordinata a una specifica doglianza contenuta nel ricorso, poiché, diversamente, si sarebbe rischiato di minare l’integrità del principio dispositivo nel processo amministrativo[10].
Altra parte della dottrina, accogliendo invece una prospettiva “più ragionevole”[11], pur negando la necessità di specifici motivi di ricorso diretti a contestare la l.c. di una data norma come presupposto per l’attivazione del controllo di costituzionalità, ha comunque evidenziato l’esistenza di possibili problemi di armonizzazione e coordinamento tra la natura impugnatoria del giudizio amministrativo e la proposizione ex officio di questioni di legittimità costituzionale[12].
Anche a fronte di queste frizioni interpretative, il giudice amministrativo, nel corso degli anni, ha riconosciuto la propria legittimazione a sollevare q.l.c. d’ufficio, tentando sempre di bilanciare tale potere officioso con la natura stessa del processo amministrativo.
Così se, da un lato, è stato affermato che l’interrogativo in questione costituisce una “anacronistica problematicità”[13], dal momento che la l. cost. n. 1/1948, non prevede alcuna distinzione tra g.a. e g.o., e che “il giudice amministrativo ha, come qualsiasi altra autorità giurisdizionale, il potere di sollevare di ufficio nel corso del giudizio la questione concernente la legittimità costituzionale della norma sulla cui applicazione si controverte”[14]; dall’altro è stato specificato che “nel giudizio amministrativo la q.l.c. sollevabile d’ufficio è solo quella la cui fondatezza può essere rivista come rilevante in quanto strumentale alla positiva definizione delle censure concretamente svolte in ricorso, mentre non può investire aspetti ulteriori che non siano stati dedotti in controversia”[15].
Dunque, se è pacifico che il giudice amministrativo possa sollevare d’ufficio q.l.c., è altrettanto pacifico che una q.l.c. potrà essere sollevata d’ufficio soltanto sulla base delle norme fatte valere nell’atto introduttivo e in eventuali motivi aggiunti e non su altre norme che tali atti non menzionano[16].
Più in particolare, sono state evidenziate due condizioni – una in positivo e una in negativo – per il corretto esercizio del suddetto potere officioso.
Si è così ritenuto che il g.a. è legittimato a sollevare q.l.c. d’ufficio ogni qualvolta debba fare applicazione della stessa norma illegittima (e quindi quando la norma è stata oggetto di un vizio di legittimità dedotto dalle parti e risulta così indispensabile ai fini della definizione della controversia), ma non può sollevare d’ufficio q.l.c. dopo aver deciso il merito del giudizio, posto che, così facendo, ossia applicando la norma sospettata d’illegittimità costituzionale, renderebbe non più rilevante la soluzione della q.l.c. per la definizione del giudizio a quo, andando così incontro a una dichiarazione di inammissibilità della questione per esaurimento del potere decisorio del giudice rimettente[17].
4. La distinzione tra atto meramente confermativo e conferma propria e i riflessi sugli oneri deduttivi del ricorrente.
Dal momento che la carenza di motivazione stigmatizzata dalla Consulta nella propria statuizione di inammissibilità muove dalla qualificazione del secondo diniego come atto di conferma e da una certa lettura degli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente in caso di relativa impugnazione, corre l’obbligo, a questo punto, di approfondire la distinzione tra atti meramente confermativi e atti di conferma propria.
La distinzione, di origine giurisprudenziale, risale alla stessa istituzione della giurisdizione amministrativa[18], rispondendo all’importante esigenza di impedire l’elusione della perentorietà del termine di ricorso[19].
È principio recepito in giurisprudenza che l’impugnazione in via principale di un atto meramente confermativo è inammissibile e tardiva, trattandosi di atto avente valore meramente dichiarativo e ricognitivo di un effetto e di una lesione già prodotti da un provvedimento precedente, che rimane comunque efficace anche dove i primi fossero annullati[20].
Altrettanto condiviso, in linea di principio, è che la distinzione tra atto meramente confermativo e atto di conferma in senso proprio riposa nello svolgimento, quanto al secondo, di una rinnovata valutazione e ponderazione, ovvero un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento[21]: in una parola, in una nuova istruttoria[22]. Segnatamente, il provvedimento di conferma ricorre quando si procede a un riesame della precedente decisione, valutando nuovamente gli elementi di fatto acquisiti ovvero acquisendone di nuovi, come pure ponderando una seconda volta gli interessi coinvolti; invece si ha atto meramente confermativo nel caso in cui è ribadita la decisione assunta nell’atto precedente, senza alcuna rivalutazione degli interessi, né nuovo apprezzamento dei fatti[23].
Caratteristica effettuale della conferma è di “sostituire l’atto confermato, rendendo improcedibile per difetto di interesse il ricorso originariamente proposto contro quest’ultimo”[24].
Senonché, al di là delle affermazioni di principio, la giurisprudenza anche recente dimostra che la distinzione tra atti meramente confermativi e provvedimenti di conferma risulti, nella pratica, tutt’altro che agevole. Così, la “mobilità” che i concetti di nuova valutazione e nuova istruttoria dimostrano di avere in concreto, in una con l’applicazione del principio per cui la natura dell’atto prescinde dal nomen utilizzato e va desunta dalle sue caratteristiche concrete, dà luogo a esiti applicativi difformi dalla (apparentemente monolitica e lineare) distinzione di principio[25].
La complessità della distinzione si aggrava quando il secondo provvedimento intervenga su ordine del giudice. In tal caso, infatti, l’ordine giudiziale (sub specie cautelare) dovrebbe fungere da parametro per verificare il margine di manovra residuo in capo all’amministrazione, incidendo sulla capacità dell’atto assunto in relativa esecuzione e riproduttivo del contenuto di quello previamente emesso a dare luogo o meno alla sostituzione di quest’ultimo.
Il tema si intreccia con il delicato nodo del rapporto tra pronunce cautelari “atipiche” e nuovo esercizio del potere[26]. È noto, infatti, che uno dei principali problemi teorici posti dalla progressiva apertura a misure cautelari diverse dalla mera “sospensiva” è stato, specialmente in riferimento alla tecnica del c.d. remand[27], quello di minare alla strumentalità propria della fase cautelare rispetto al merito, sollecitando l’adozione di un nuovo provvedimento sostitutivo del precedente e quindi potenzialmente satisfattivo dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio. Per quanto qui interessa, il problema attiene specialmente al caso in cui il provvedimento assunto all’esito dell’ordine giudiziale confermi il dispositivo del precedente, risultando, dunque, non satisfattivo per il ricorrente e suscettibile di ulteriore impugnazione. Gli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente variano, infatti, a seconda della natura che si intenda attribuire al secondo atto e, quindi, dei relativi effetti.
Come riconosciuto dalla giurisprudenza più risalente, occorrerebbe guardare all’intensità del contenuto ordinatorio della pronuncia cautelare per stabilire se la relativa esecuzione determini o meno improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso originario[28].
Con specifico riferimento alla tecnica cautelare dell’“accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame” la giurisprudenza maggioritaria si è progressivamente allineata nell’affermare che il suo proprium risiederebbe nel “rimettere in gioco l’assetto degli interessi definito con l’atto impugnato, restituendo alla pubblica amministrazione l’intero potere decisionale iniziale, senza pregiudicarne il risultato finale”[29], sicché il relativo ossequio produrrebbe sempre atti espressivi di nuove, autonome, scelte discrezionali dell'Amministrazione, in presenza delle quali non potrebbe che realizzarsi una sostituzione dell'atto impugnato, con conseguente improcedibilità del ricorso originario.
Al di là di questo orientamento più rigido, non mancano pronunce che, pur inserendosi nel filone che riconosce al remand l’effetto di rimettere integralmente nelle mani della p.A. il potere di ri-pronunciarsi alla luce dei vizi illustrati nel ricorso e ritenuti prima facie fondati, fanno salvo il caso in cui il nuovo provvedimento sia “meramente confermativo del precedente”[30], così dimostrando di disconoscere un netto automatismo tra esecuzione del remandcautelare e sopravvenuta carenza di interesse al ricorso originario. A ciò si aggiunga il recente orientamento che, con specifico riguardo all’esecuzione dell’ordine cautelare di riesaminare la vicenda alla luce della censura di difetto motivazionale, qualifica il nuovo atto alla stregua di una convalida del vizio di motivazione, con conseguente inidoneità a determinare l’improcedibilità del ricorso introduttivo[31].
In ultima analisi i riferiti orientamenti introducono dei fattori di complessità nella (apparentemente lineare) distinzione tra atto meramente confermativo e conferma propria, con specifico riferimento agli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente.
È di tutta evidenza, infatti, che altro è proporre motivi aggiunti contro un atto che, pur confermando il dispositivo del precedente, lo abbia integralmente sostituito, con conseguente onere di riproporre specificamente tutti i vizi dedotti contro il provvedimento originario (oltre alla contestazione di eventuali vizi propri), al prezzo di non vederli trattati in sede di definizione del giudizio, altro è impugnare (cautelativamente) un nuovo provvedimento meramente ripetitivo della decisione contenuta nel primo provvedimento, che, se non destinato ad essere automaticamente caducato per effetto della caducazione del primo, quanto meno legittima a limitare le (pur tuzioristiche) censure a vizi di invalidità derivata, oltre alla eventuale contestazione di vizi propri.
5. Riflessioni conclusive: alla ricerca di un equilibrio tra oneri deduttivi e rilevabilità d’ufficio della q.l.c.
I precedenti rilievi dimostrano che l’assioma per cui un provvedimento di conferma propria determina sempre la sostituzione del provvedimento originario si dimostra, nella pratica, meno controllato e consolidato di quanto sembri. Ciò è vero anzitutto perché la distinzione tra conferma e atto meramente confermativo risulta concretamente disagevole; né il problema è risolto nel caso in cui nuovo provvedimento sia assunto a valle di remand cautelare, residuando, anche in tale ipotesi, margini per l’adozione di atti meramente confermativi. In secondo luogo, ove lo consentano il tipo di vizio denunciato nel ricorso e i caratteri del nuovo provvedimento assunto su ordine cautelare, potrebbe ricorrere una convalida, a sua volta inidonea a generare la sostituzione del provvedimento originario (e la conseguente l’improcedibilità del ricorso introduttivo).
Ne risulterebbe scalfita la nettezza dell’affermazione della Consulta che “i soli motivi di ricorso di cui il TAR rimettente doveva occuparsi erano quelli formulati in confronto [al secondo diniego, n.d.r.], ossia i motivi aggiunti”[32], a sua volta ricavata dal carattere “sostitutivo…del provvedimento originario” del nuovo provvedimento assunto su remand cautelare, per la sua natura di conferma in senso proprio.
Se si condivide tale assunto, condividendosi, perciò, che il TAR poteva considerarsi legittimato a un approccio non formalistico, considerandosi investito dell’integralità delle censure mosse contro il primo e il secondo diniego, l’atteggiamento aperturista e attento al principio dispositivo dimostrato dalla Consulta nel respingere l’eccezione di consumazione del potere decisionale per accoglimento con sentenza parziale delle censure contenute nel ricorso originario[33] non aveva ragione di venire meno per il solo fatto che la censura di illegittimità costituzionale non era stata riprodotta nei motivi aggiunti contro il secondo diniego.
La Corte finisce, invece, con l’accogliere appieno l’eccezione che dichiara di respingere, concludendo che l’infondatezza dei motivi aggiunti sancita con sentenza parziale “implicherebbe l’esaurimento del potere decisorio del rimettente, il quale, non avendo più alcunché su cui pronunciare, non potrebbe sollevare ormai le questioni neppure d’ufficio”.
Val la pena, in conclusione, mettere in luce un’aporia: o si ammette o si nega che la sentenza parziale di accoglimento dei motivi determini l’esaurimento del potere decisorio, con conseguente difetto di rilevanza. Una volta escluso tale affetto, la semplice deduzione tempestiva della violazione di una norma della cui illegittimità costituzionale il decidente dubiti, vieppiù se, come nella specie, si tratti della norma attributiva del potere, dovrebbe aprire la strada al sollevamento ufficioso della q.l.c., la cui definizione diviene ex se indispensabile per la definizione del giudizio e dunque rilevante.
La prospettiva proposta, indubbiamente orientata ad allargare le maglie del controllo di legittimità in via incidentale, oltre a non essere estranea alla giurisprudenza costituzionale, che, con molteplici strategie, ha spesso cercato di aumentare le proprie possibilità di cancellare norme incostituzionali[34], preserva l’effettività del giudizio impugnatorio, scongiurando letture formalistiche che, in ultima analisi, aggravano l’onere deduttivo del ricorrente senza avvantaggiare il sistema.
[1] Benché il lavoro sia il frutto di una riflessione comune ed indivisa, i parr. 1-3 sono da attribuire ad Alessandra Coiante e i parr. 4 e 5 a Flaminia Aperio Bella.
[2] La Corte richiama, in particolare, le seguenti pronunce: n. 179 del 2019, n. 126 e n. 116 del 2018, n. 275 del 2013 e n. 94 del 2009.
[3] Il riferimento va, evidentemente, rispettivamente, alle “Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale” e alle “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, ove si legge che «La questione di legittimità costituzionale può essere sollevata, di ufficio, dall’autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio».
[4] V. Andrioli, Profili processuali del controllo giurisdizionale delle leggi, in Atti del I Convegno Internazionale di diritto processuale civile (1950), Padova, 1953. Per approfondimenti su tale ricostruzione v. N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, in federalismi.it, n. 6/2021, 97 ss., spec. 105 nonché amplius Id., Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, Torino, 2008, 30 ss.
[5] In altre parole, il giudice del processo civile è libero di applicare le norme di diritto che meglio ritiene adattabili al caso concreto, ossia di mutare la qualificazione giuridica o il nomen iurs ma con il limite di non sostituzione dell’azione proposta con una diversa fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi. Cfr. A. Carratta, C. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, XXIV ed., 99 ss.
[6] M. Nigro, Giustizia amministrativa, IV ed., 1994, 256 ss.
[7] Cons. St., Ad. Plen., 8 aprile 1963, n. 8, in Giur. Cost., 1963, 1214 ss.
[8] N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale, cit., 105 nonché Id., Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, cit., 30 ss.
[9] N. Pignatelli, Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, op.cit., 30 ss.
[10] In questo senso F. La Valle, La rilevanza nel giudizio amministrativo della incostituzionalità delle leggi, in Giur.it., 1964, 75.
[11] N. Pignatelli, ult. op. cit., 33 ss.
[12] S. Lessona, Riflessi sul giudizio amministrativo della “cessazione di efficacia” pronunciata dalla Corte costituzionale, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, Firenze, 1969, 353.
[13] TAR Lombardia, Milano, 21 ottobre 2002, n. 1510, in Trib. Amm. Reg., 2002, I, 4318.
[14] Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 1999, n. 138 in Foro Amm. 1999, 355; Cons. Stato 1999, I, 220; Giur. it. 1999, 1312, che ha poi specificato – in linea con la Plenaria richiamata – che: “Secondo l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, il cui disposto è reiterato dall'art. 23, comma III, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la questione di legittimità costituzionale può essere "rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso del giudizio". Una formulazione così ampia e incondizionata indica che il potere di sollevare d'ufficio la questione compete in eguale misura ad ogni giudice senza limitazione alcuna, e cioè non solo per risolvere dubbi su questioni pregiudiziali rilevabili d'ufficio, ma anche per risolvere il merito della controversia. Deve escludersi che l'esercizio in concreto di tale potere, che ha fonte in una norma costituzionale, trovi ostacolo nei principi di legge ordinaria, secondo i quali il giudice amministrativo decide solo sui motivi dedotti dal ricorrente. Vero è, invece, che l'ambito dei poteri di cognizione del giudice amministrativo trova definizione nel quadro normativo complessivo, quale definito, in primo luogo, dalle norme di rango costituzionale”; e che: “(…) va considerato che il giudice, quando si esprime sul provvedimento impugnato, è chiamato, sia pure in modo indiretto ed implicito, a fare applicazione della norma nella quale esso trova legittimazione. In ciò trova giustificazione sul piano sostanziale l'attribuzione del potere di sollevare d'ufficio la questione, ove sussistano dubbi sulla costituzionalità della norma, o di prendere atto della incostituzionalità già dichiarata”.
[15] Cons. Stato, sez. IV, 9 marzo 2012, n. 1349. Nel caso di specie era stato evidenziato che non poteva considerarsi ammissibile una la q.l.c. “sollevata indipendentemente dall'impugnazione dell'atto che implica attuazione della norma di legge che si assume contraria al dettato costituzionale, non essendo notoriamente consentita, nel vigente ordinamento, la diretta sollecitazione, nei confronti del giudice delle leggi, a una pronuncia di verifica della costituzionalità della norma”.
[16] Cfr. N. Pignatelli, ult. op. cit., 37.
[17] Cfr. N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, op.cit., 110 ove l’A. specifica la questione riportando il seguente esempio: “nell’ipotesi in cui il ricorrente impugni un provvedimento con il motivo I per violazione della norma x e il giudice adotti una sentenza non definitiva di rigetto del motivo I, sollevando contestualmente questione di legittimità costituzionale sulla medesima disposizione x, la questione di legittimità costituzionale dovrà ritenersi inammissibile per esaurimento del potere decisorio, posto che la suddetta disposizione x, oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, risulterebbe già applicata e quindi e irrilevante ai fini del giudizio costituzionale; in questa logica può dirsi che il giudice amministrativo non può sollevare questione di legittimità costituzionale dopo aver deciso il merito del giudizio, pur con sentenza non definitiva”.
[18] Cons. Stato, Sez. IV, 21 gennaio 1892, che dichiarò inammissibile il ricorso proposto contro “la risoluzione, provocata da una seconda istanza, la quale non sia che la ripetizione o la conferma della precedente”, citata in P. Stella Richter, L’inoppugnabilità, Molano, 1970, 237.
[19] In dottrina, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, 2 ed., Torino, 2017, 711 ss. dove si sottolinea che la distinzione, creata dalla giurisprudenza per l’esigenza pratica di evitare l’elusione del termine di proposizione del ricorso, non manca di destare problemi applicativi.
[20] Ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2011, n. 28, in Foro amm. CdS 2011, 194; Id. Sez. V, 21 agosto 2009, n. 5018, ivi, 2009, 1737.
[21] Da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 491.
[22] Individuano il proprium dell’atto di conferma rispetto a quello meramente confermativo nell’apertura di una nuova istruttoria, ex pluribus, Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385; Cons. Stato, Sez. I, 18 febbraio 2021, n. 238; Cons. Stato, Sez. II, 12 giugno 2020, n. 3746; Id., Sez. V, 17 aprile 2020, m. 2447; Id., 11 ottobre 2019, n. 6916.
[23] Negli esatti termini Cons. Stato, Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 491. In senso similare, per l’affermazione che “ricorre un atto meramente confermativo nel caso in cui l’amministrazione ribadisca la decisione assunta nei suoi precedenti atti, senza né rivalutare gli interessi coinvolti né compiere un nuovo apprezzamento dei fatti con una nuova istruttoria; ricorre invece un provvedimento di conferma quando l’amministrazione stessa procede ad un riesame delle proprie precedenti decisioni, valutando nuovamente gli elementi di fatto acquisiti, acquisendone di nuovi, oppure riconsiderando gli interessi coinvolti” Cons. Stato, Sez. IV, 7 maggio 2021, n. 3579; Id. Sez. III, 2 novembre 2020 n. 6723; Id., 9 luglio 2014 n. 3491; Id. Sez. IV 10 dicembre 2009 n. 3491.
[24] C. cost., n. 248/2021 in commento, pt. 5. Nei medesimi termini già Cons. Stato, Sez. IV, 23 aprile 2020, n. 2570; Id. Sez. I, n. 238/2021, cit.
[25] Per l’affermazione della natura di atto di conferma autonomamente impugnabile di un provvedimento con cui l’ANAC, sollecitata a riesaminare un proprio provvedimento (su cui peraltro era disceso il giudicato), dichiarava espressamente che “non si rinviene alcuna rilevante sopravvenienza di fatto che imponga una rivisitazione del provvedimento”, aggiungendo che non “si rinvengono i presupposti per il riesame della delibera a suo tempo assunta e per l’apertura di una nuova istruttoria neppure con la sola finalità di rimodulare le sanzioni da irrogare”, cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. V, n. 491/2022 cit.
[26] Tema che, come acutamente osservato, riflette più in generale i rapporti tra giudice amministrativo e pubblica amministrazione: A. Travi,Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti fra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 1997, 168 ss. Sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, per tutti, E. Follieri, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981; F.G. Scoca, Processo cautelare amministrativo e Costituzione, in Dir. proc. amm., 1983; R. Villata, La Corte costituzionale frena bruscamente la tendenza ad ampliare la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi, in Dir. proc. amm., 1991, 619 ss.; M.A. Sandulli (a cura di) Le nuove frontiere del giudice amministrativo tra tutela cautelare ante causam e confini della giurisdizione esclusiva, Milano, 2004; Id., I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in Foro amm. TAR, 2009; Id., La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 4, 2010. Per un lavoro monografico R. Leonardi, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla l. n. 205 del 2000 al codice del processo amministrativo, Milano, 2011. Tra le opere collettanee M.P. Chiti, La tutela cautelare, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, in S. Cassese (diretto da), Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2013, pp. 153 ss., nonché, se si vuole F. Aperio Bella, Il procedimento cautelare in M.A. Sandulli (a cura di) Il nuovo processo amministrativo. Studi e contributi, II, Milano, 2013, 161 ss.
[27] Si intende fare riferimento alla prassi processuale con cui il g.a., sulla scorta della cognizione sommaria propria della fase cautelare, ordina alla p.A. di riesaminare la situazione alla luce dei motivi di ricorso. Nel rinviare, per una disamina generale delle caratteristiche di tale tecnica cautelare, alla dottrina citata supra, si veda anche C. Cacciavillani, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l'inerzia della p.A., in Dir. proc. amm., 1, 2002, 91 ss. qui spec. par. 8 nonché, per una recente analisi dei problematici riflessi che l’utilizzo del remandproduce ove solleciti il riesercizio di poteri “consumati” per decorso degli specifici termini imposti dal legislatore, M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria tra procedimento e processo, in Dir. e Soc., 2, 2020, 195 ss., qui 218-219.
[28] Così ad es. Cons. Stato, Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2838, pur resa in un caso di sospensione del provvedimento negativo, in cui si legge “come autorevolmente precisato dalla stessa Adunanza Plenaria di questo Consiglio (27 febbraio 2003, n. 3), l’improcedibilità del ricorso può discendere solo dall’adozione da parte dell’Amministrazione di provvedimenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli imposti dalla necessità di dare esecuzione alla misura cautelare; per contro, la mera esecuzione di un provvedimento cautelare, non presentando profili di discrezionalità nell’an, non comporta il venir meno della res litigiosa”. Con specifico riferimento al confronto tra le tecniche del remand cautelare e dell’ordinanza a contenuto positivo v. R. Garofoli, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in Dir. proc. amm., 2002, 4, 857 ss.
[29] In termini, ex multis, TAR Lazio, sez. II-bis, 7 aprile 2014, n. 3758, secondo cui “essendo il remand una tecnica di tutela cautelare che si caratterizza proprio per rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto gravato, restituendo, dunque, all’Amministrazione l’intero potere decisionale iniziale, senza tuttavia pregiudicarne il risultato finale (…) il provvedimento sopravvenuto deve essere inteso come espressione dell’esercizio di funzione amministrativa e non di mera attività esecutiva della pronuncia giurisdizionale (cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, 2 ottobre 2007, n. 9660; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, sent. 21 settembre 2004, n. 6570; da ultimo, TAR Lazio, Sez. II quater, sentenze 2 luglio 2007, nn. 5890 e 5891)”.
[30] Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2006 n. 5396; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 17 maggio 2013, n. 1326, più di recente TAR Napoli, Sez. V, 9 giugno 2021, n. 3909.
[31] Così TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 14 giugno 2021, n. 7056, che, ripercorrendo l’insegnamento di Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385, in questa Rivista con nota di F. Aperio Bella, Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio, in tema di convalida del vizio di motivazione, ne fa discendere che l’integrazione della motivazione del diniego originario a opera del secondo atto “non costituisc[e] l’esito di una rinnovata istruttoria e di valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine’, essendosi l’amministrazione limitata a esplicitare ‘con maggiore chiarezza’ i fatti, già acquisti al procedimento, idonei a fondare il diniego di nulla osta”, ciò che attribuisce al provvedimento sopravvenuto la natura di atto di convalida, con conseguente necessità di verificare “la legittimità del diniego ‘come convalidato’”, senza potersi dichiarare l’improcedibilità del ricorso introduttivo.
[32] C. cost., n. 248/2021 in commento, pt. 6.
[33] Ragionando in termini ipotetici e ipotizzando di dover valutare esclusivamente il diniego impugnato con ricorso introduttivo la Consulta afferma, infatti “Qualora nel giudizio a quo si discutesse esclusivamente di tale provvedimento, sarebbe agevole osservare che … la circostanza che il rimettente abbia negato, con sentenza, il “cattivo esercizio” del potere non escluderebbe che gli resti, comunque sia, da decidere sul motivo relativo all’esistenza del potere: prospettiva nella quale la potestas iudicandi del giudice a quo – contrariamente a quanto sostenuto dalla Banca d’Italia – non risulterebbe esaurita” (pt. 4).
[34] Si pensi, oltre alla definizione elastica di “giudice” e di “giurisdizione” ai fini dell’individuazione dei soggetti legittimati a promuovere questioni di l.c. in via incidentale, al più recente argomento della “zona franca” o “zona d’ombra”, ossia alla necessità di non lasciare zone sottratte al controllo di costituzionalità dell’ordinamento, utilizzato dalla Consulta per espandere il proprio controllo di l.c. (per più ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali sia consentito rinviare a F. Aperio Bella, “Ceci n’est pas une note de jurisprudence”: riflessioni a margine del tentativo dell’AGCM di farsi giudice a quo, in Dir. e Soc., 2, 2018, 281 ss.).
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