ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La giustizia civile al tempo della pandemia (Sulla approvazione da parte del Senato del ddl 21 settembre 2021)
di Giuliano Scarselli
“Se Dio ci inviasse di sua mano i nostri governanti, converrebbe prestar loro obbedienza di gran cuore”.
(Blaise Pascal, citato da Lodovico Mortara, ne La lotta per l’eguaglianza, 1888)
Sommario: 1. Premessa. Le recenti vicende - 2. Segue: una brevissima sintesi delle novità più rilevanti - 3. Il nuovo processo civile nello spirito della pandemia - 4. Sull’art. 2 Costituzione.
1. Premessa. Le recenti vicende
Questa la breve, recentissima storia, del nostro processo civile.
Il Governo nomina una commissione affinché rediga un progetto di riforma.
La commissione, evidentemente formata da giuristi non invisi al Governo se da questo nominati, redige in poco tempo il progetto, ma il Governo lo condivide solo in parte, e quindi lo recepisce non integralmente.
Lo stesso presidente di quella commissione, in più di una occasione, ha modo di sottolineare che la prima riforma da fare per ridurre i tempi del processo è quella di aumentare il numero dei magistrati; ma di questa cosa nessuno parla, e niente in tal senso è previsto da questo progetto, che dovrebbe essere finalizzato, appunto, a contenere la durata del contenzioso civile.
Il progetto, così recepito e così confezionato, è reso pubblico, ed esso riceve critiche piuttosto numerose e conformi, tanto dalla dottrina, quanto dall’avvocatura, e da parte della magistratura.
Altri processualisti, in quei giorni, ribadiscono che per ridurre i tempi del processo la prima cosa da fare è, ovviamente, quella di aumentare il numero dei giudici.
Il Governo, tuttavia, non si preoccupa, se non marginalmente, di queste critiche e di questi commenti, e presenta in modo sostanzialmente invariato il suo progetto di riforma al Senato.
Arrivato al Senato, il Senato è tenuto ad approvare il progetto senza discussione parlamentare, in quanto su esso viene messa da parte del Governo la fiducia.
In questo modo, e in queste condizioni, il Senato, approva il disegno di legge delega di riforma del processo civile in data 21 settembre 2021; il tutto, sia consentito, in una situazione che può apparire grottesca, poiché ai sensi dell’art. 76 Cost., una legge delega dovrebbe essere una legge con la quale il Parlamento delega il Governo a fare un decreto legislativo nel rispetto di certi principi; qui è il Governo che, imponendo la legge al Parlamento, di fatto delega sé stesso a fare quella medesima cosa.
E, sempre al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega viene riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662.
Questo unico articolo approvato dal Senato è lungo ben 39 pagine!
E ora noi, cosa dovremmo fare?
Dovremmo fare l’esegesi delle norme e valutare se esse si applicano in un certo modo piuttosto che in un certo altro?
Dovremmo procedere, con libertà di spirito interpretativo, a dare la nostra visione di questa riforma?
Io non lo farò.
Io credo che in un contesto del genere non sia dignitoso farlo.
Qualcosa che nasce così, a mio parere, impedisce ogni commento ermeneutico; non si può discutere delle piccole cose senza tenere in considerazione le più grandi.
Quando qualcuno chiederà ad un giurista come funziona una certa norma processuale, o un certo istituto processuale, il giurista dovrà solo rispondere che non lo sa, e che cose del genere non devono essere chieste a lui ma a chi esercita il potere.
2. Segue: una brevissima sintesi delle novità più rilevanti
L’unica cosa che mi sento di dire è che questo processo mi sembra proprio il processo civile del tempo della pandemia.
Con la pandemia, i principi etico/giuridici che si sono affermati sono noti, e credo possano riassumersi con l’idea che il bene comune prevale sempre, necessariamente ed inevitabilmente, sui diritti della persona.
Questa regola, penso, a breve si estenderà dal diritto pubblico a quello privato, e si applicherà conseguentemente anche al processo civile, che infatti mi sembra già scritto in più di un punto in suo ossequio.
Precisamente:
- è stata estesa e rafforzata la mediazione, anche nella sua condizione di procedibilità della domanda, e anche nelle ipotesi in cui la stessa sia demandata al giudice; ad essa sono poi stati riconosciuti incentivi ed agevolazioni fiscali; inoltre si è di nuovo prevista, come già senza successo era stato previsto con la riforma del ’90, l’obbligatorietà della presenza della parte in prima udienza ai fini della conciliazione, e si è altresì previsto che il giudice possa, oltreché mandare sempre in mediazione le parti, anche formulare proposte di conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione.
- Si sono poste in essere nuove contrazioni del diritto all’azione e alla difesa, inasprendo ulteriormente le preclusioni, e prevedendo che gli atti introduttivi del giudizio, citazione e comparsa di risposta, debbano già indicare in modo specifico i mezzi di prova e i documenti offerti in comunicazione; si è poi portato a ipotesi residuale la stesura delle comparse conclusionali e di replica, da scriversi “salvo che le parti non vi rinuncino espressamente” e comunque in termini ridotti rispetto agli attuali; si è previsto che gli atti del processo siano strutturati entro campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della Giustizia, il che non esclude che i difensori si vedano a breve costretti a scrivere gli atti riempendo moduli prestabiliti.
- Si è previsto che la responsabilità aggravata processuale danneggia l’Amministrazione della giustizia, e quindi che v’è la necessità di dare nuove sanzioni, oltre quelle che già vi sono in base al raddoppio del contributo unificato e agli artt. 96 e 283, 2° comma c.p.c., a favore della cassa delle ammende contro chi “abusi” del diritto di azione e di difesa; si sono poi previste sanzioni per chi rifiuti ispezioni sul proprio corpo o sulle proprie cose (art. 118 c.p.c.) o rifiuti la consegna di documenti che abbia in possesso (art. 210 c.p.c.).
- Si sono ancora ridotti i casi nei quali il Tribunale pronuncia in composizione collegiale, e si è potenziato e interamente ri-disciplinato il c.d. Ufficio del processo, che certamente sarà utile strumento per agevolare il lavoro del giudice, ma che di fatto consiste nell’assunzione a tempo determinato e con minima retribuzione, di giovani laureati senza alcuna esperienza professionale, ai quali poi vengono demandati compiti centrali della funzione giurisdizionale, quali quelli di studiare il fascicolo, fare ricerche di giurisprudenza e indicare i precedenti, scrivere (in bozza) i provvedimenti giudiziali, assistere il giudice nell’assunzione dei mezzi di prova e nelle verbalizzazioni, selezionare i presupposti di mediabilità della lite.
- Si è creato il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che assegna alla stessa compiti che prima non aveva, e che tende da una parte ad una gerarchizzazione della funzione giurisdizionale fino ad oggi inesistente, e dall’altra a limitare la possibilità dei cittadini di ricorrere in cassazione per far valere propri diritti a fronti di processi conclusi e già esaminati dal giudice del merito.
- Nei processi in materia di famiglia, tra le infinite novità che si sono date, e che certo non possono essere esaminate in questa sede, si è previsto che con il ricorso introduttivo del giudizio le parti debbano depositare “un piano genitoriale che illustri gli impegni e le attività quotidiane dei minori, relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e ricreative, alle frequentazioni parentali e amicali, ai luoghi abitualmente frequentati, alle vacanze normalmente godute”.
3. Il nuovo processo civile nello spirito della pandemia
Se v’è una linea che mette insieme tutti questi punti, questa è quella di una sempre maggiore incidenza del pubblico sui diritti e sulla vita delle persone.
Da ragazzo, negli anni ’70, nei movimenti studenteschi ai quali prendevo parte, si diceva: “Il personale è politico”; e qui mi sembra che il concetto sia interamente rinato e tornato.
Non so, forse mi sono fissato con questo tema, però invito tutti, come dicevano certi nostri filosofi del passato, ad avere occhi per il lontano e il lontanissimo.
Sembra che ormai l’idea che il processo civile, nel rispetto dei principi classici (o, se si vuole, liberali) della domanda, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di disponibilità delle prove, ecc………, non abbia più il compito di attuare i diritti soggettivi dei privati, ovvero di attribuire, secondo il monito di Giuseppe Chiovenda, a chi ha un diritto praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, ma piuttosto quello di gestire e valutare le posizioni dei litiganti in un’ottica più generale, ove tutto è dato e/o riconosciuto solo entro certi limiti.
La parte, precisamente - sembra e si ha la sensazione- non deve insistere oltre una certa misura nella tutela dei suoi diritti, ne’ avere sicuro e libero accesso alla decisione giurisdizionale, perché ciò costituisce atteggiamento egoistico/individuale in contrasto con lo spirito che oggi deve invece darsi nelle relazioni intersoggettive.
La parte, tutto al contrario, deve preferibilmente mediare, ovvero trovare un accordo che soddisfi l’esigenza del contenimento delle liti, e ciò anche a costo di qualche sacrifico individuale, perché compito primario dell’ordinamento, prima ancora che la tutela dei diritti, è quello di ridurre la durata dei processi del 40%.
Se poi, al contrario, la parte sceglie di volere in tutti modi il riconoscimento giudiziale del suo diritto, va da sé che questo non gli può essere impedito, tuttavia è giusto che per questa sua scelta asociale gli si riservino delle difficoltà: l’esercizio della difesa dovrà così trovare dei limiti, e sempre questa parte potrà essere rinviata dinanzi ad un mediatore, la gestione e l’indirizzo del processo spetterà interamente al giudice, la funzione giurisdizionale non potrà essere nella sua interezza resa da magistrati ordinari e togati e vi provvederà, in gran parte, per ragioni di economia, l’ufficio del processo, i mezzi di impugnazione saranno limitati e misurati, soprattutto vi saranno sanzioni e spese da pagare per ogni abuso e per ogni eccesso.
Ripeto: forse esagero, ma preferisco esagerare piuttosto che far finta di non aver capito.
E mi diverte pensare che, se un qualunque giurista del passato dovesse, per caso, tornare nel nostro mondo, e vedere l’attuale processo civile, rileverebbe senza dubbio questo dato, e ne rimarrebbe certamente sorpreso.
Solo noi non siamo più in grado di accorgersi di nulla perché ormai ci siamo abituati a tutto, remissivi e silenziosi, pronti solo a fare resilienza, ovvero ad adeguarci a qualunque cosa ci venga imposta.
4. Sull’art. 2 Costituzione
Aggiungo, a chiusura di questa breve riflessione, che, al fine di giustificare questo nuovo modo di interpretare il mondo, sempre più spesso, e anche in ambito di diritto privato, si è menzionato l’art. 2 Cost, e il dovere di solidarietà che incombe su tutti i consociati.
Io credo, però, fermo il valore della solidarietà, che certamente non può essere messo in discussione, che si tratti di un richiamo spesso fatto in modo non corretto e non appropriato, e che niente abbia invece a che fare con questo nuovo mondo il nostro art. 2 Cost.
L’art. 2 Cost., giova a questo fine ricordare, riconosce e garantisce, in primo luogo, “I diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali”, e solo dopo prosegue affermando: “e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”.
Emerge, così, in modo chiaro, che la norma pone prima i “diritti inviolabili dell’uomo” e solo dopo “l’adempimento dei doveri inderogabili”; e i diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti con priorità “come singolo”, e solo dopo nelle “formazioni sociali”.
E nessuno, credo, vorrà mettere in dubbio che i nostri costituenti, nello scrivere la norma, non pesarono bene, e dopo lunghe discussioni, le parole da usare, e soprattutto il loro ordine nella composizione del testo normativo.
E se noi oggi, al contrario, invertiamo completamente l’ordine di cui all’art. 2 Cost., e diamo priorità non più all’uomo e alla sua umanità bensì allo Stato, e chiediamo l’adempimento dei doveri prima del riconoscimento dei diritti, e anzi usiamo la solidarietà come strumento di negazione dei diritti, e asseriamo a questo fine che i diritti dei singoli, in tanto esistono in quanto resistenti ad un giudizio di bilanciamento di contrapposti interessi, ove, sempre e sistematicamente, ogni interesse pubblico è considerato non solo prevalente su quello privato, bensì legittimato, a discrezione, ad invadere gli spazi e gli ambiti dell’autonomia privata, allora noi andiamo a comporre un nuovo ordine delle cose, e ci poniamo in disarmonia con la nostra stessa storia, che, dall’umanesimo al rinascimento passando per l’illuminismo e la rivoluzione francese, ha creato una civiltà che, appunto, mette l’uomo al centro del sistema.
E in tutto questo, si badi, il processo civile non ha un ruolo secondario.
Se ai cittadini va riconosciuta una zona di non-invadenza, e questa zona di non-invadenza costituisce l’ambito dei suoi diritti soggetti, e questi diritti soggettivi, per rimanere integri e tali, devono essere assicurati, in modo pieno e libero, dal processo civile, va da sé che il processo civile deve continuare ad avere quell’assetto che ha avuto fino ad oggi.
Ove il processo civile, tutto al contrario, dovesse perdere questa sua identità e non rispondere più a questo compito perché la sua durata deve ridursi del 40%, allora i diritti soggettivi dei cittadini rischieranno di non esistere più, allora i privati non avranno più alcuna zona di non-invadenza, allora tutto diventerà incerto e nebuloso.
E credo che, se non ci mettiamo ora e subito a difendere i nostri diritti - forse anche a fronte di rischi che al momento sono lontanissimi - probabilmente, poi, diventerà più difficile poterlo fare.
Il lavoro dello spirito dopo Max Weber. Riflessioni di un giurista pratico sul lavoro libero e fondamento della giustizia*
di Francesco Perrone
Sommario: 1. Il fondamento della giustizia - 2. L’ordine teleologico della comunità politica - 3. Etica del capitalismo e spirito - 4. Il fondamento oggettivo della libertà - 5. Il problema del volontarismo - 6. Il riduzionismo quantitativo - 7. La crisi identitaria delle democrazie in Occidente - 8. Homo oeconomicus e homo politicus.
1. Il fondamento della giustizia
Il saggio di Massimo Cacciari Il lavoro dello spirito (Adelphi, 2020) elabora il tema cruciale del fondamento del lavoro libero (geistige Arbeit) nel capitalismo contemporaneo. La questione interpella anche il giurista, sollecitando la riflessione sul risvolto etico e ontologico di tale analisi filosofica. Etico in quanto appartiene alla sfera del dover essere l’imperativo che impone alla comunità politica di garantire la libertà del lavoro. Ontologico in quanto tale imperativo, se scollegato da un ancoraggio razionale che valga a radicare tale libertà come ordine oggettivo della realtà, verrebbe ridotto a flatus vocis dalla potenza delle tecniche economiche, finanziarie, geopolitiche, biotecnologiche di cui il sistema capitalistico (e invero non solo) si serve per attuare il proprio fine.
Il tema della libertà del lavoro è un punto critico per la civiltà occidentale. Il lavoro è la dimensione privilegiata in cui la persona si esprime come homo faber e si avvale della tecnica nel compimento del proprio destino di libertà. Al contempo il lavoro è un’acqua perigliosa, che espone l’essere umano al rischio d’essere ridotto egli stesso a mezzo per il conseguimento di fini a sé estranei e di divenire strumento nelle mani di una volontà tecnica volta al potenziamento indefinito di sé stessa (Emanuele Severino, Téchne. Le radici della violenza, BUR, 2010).
Il lavoro dello spirito approfondisce una peculiare linea di sviluppo del tema analizzato in Il destino di Dike (Massimo Cacciari, in Elogio del diritto, La nave di Teseo, 2019) su se e dove debba essere ricercato il fondamento di ogni giustizia: antico nodo che il giurista contemporaneo, sempre più costretto nel ruolo di tecnico del diritto e perito dell’interpretazione, ha espunto dal proprio orizzonte di riflessione.
Certamente, fintantoché una comunità politica condivide un sistema di riferimento valoriale sufficientemente perspicuo, alla scienza giuridica è concesso l’atteggiamento minimalista di chi si autodefinisca come portatore di una tecnica avalutativa e assiologicamente neutrale. Come osservato da Nicolò Lipari, quando vi sia sostanziale equilibrio tra “testi dettati e valori radicati”, diventa nei fatti indifferente l’approccio ermeneutico (giuspositivista, realista, giusnaturalista) impiegato dal tecnico del diritto, in quanto il risultato di giustizia sostanziale concretamente non muta (Nicolò Lipari, Elogio della giustizia, il Mulino, 2021).
Diversamente accade quando una comunità politica viva una crisi identitaria sui fondamenti costitutivi della polis (Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, 1994; L’Arcipelago, Adelphi, 1997). L’assalto portato al Congresso USA il 6 gennaio 2021, la crisi del rapporto tra laicità di Stato e pluralismo culturale e religioso in Francia (caso Mila), il disorientamento progettuale che ha frantumato l’institution building in Afghanistan, il progressivo tramonto a Hong Kong del principio di preminenza della personalità individuale, sono solo alcune delle faglie su cui la postura culturale delle democrazie occidentali rischia di sgretolarsi.
Lo smarrimento di fini ultimi condivisi pone il giurista dinanzi all’ineludibile insufficienza di ogni teoria che riduca la giustificazione della norma a pura questione procedurale. Il giurista del lavoro – in realtà ogni giurista – è sempre più tentato dalla seducente idea che la procedura di costituzionalizzazione (nazionale, eurounitaria, convenzionale) dei diritti fondamentali assicuri al diritto un fondamento ultimo e stabile: come se le costituzioni non potessero essere modificate per vie più o meno legali o fattuali, la tutela dei diritti non potesse degradarsi da fine dell’ordinamento a tecnica di governo in competizione con tecniche concorrenti, e i diritti costituzionalizzati, plasmati nel loro contenuto per factum principis, non potessero divenire strumento di auto accrescimento della stessa volontà autoritativa che ha imposto il “proprio” sistema costituzionale.
Nessuna speculazione giuridica su originarismo o evoluzionismo costituzionale basterebbe da sola a porre il sistema dei diritti fondamentali davvero al riparo dagli attacchi volontaristici delle nuove “sovranità popolari” di cui le mutevoli maggioranze parlamentari (anche a Bruxelles-Strasburgo) sono espressione, qualora la si immaginasse assolta da un’idea di ordine anticipante capace di giustificare i sistemi normativi anche costituzionali, di legittimare la giurisdizione e di fondare gli atti di governo politico, economico, tecnologico. I processi storici non mancano mai, prima o poi, di spogliare la “sovranità popolare” del manto delle astratte definizioni politologiche, per disvelarne la nudità nella dimensione fattuale in cui i poteri autenticamente sovrani dimostrano la propria effettività.
Di ciò offre prova l’impasse in cui oggi versano le istituzioni dell’Unione europea, imbrigliate nell’arduo tentativo di ricomporre l’ordine a fronte delle regressioni di sistema che, in taluni Stati membri, erodono le strutture portanti del rule of law, in special modo l’indipendenza della funzione giudiziaria. Uno sguardo disincantato costringe ad ammettere che, qualora non si disinceppassero i meccanismi istituzionali di sanzione (la procedura dell’art. 7 TUe, i procedimenti giurisdizionali dinanzi alla Corte di giustizia Ue), tali opzioni di politica interna, definitivamente tradotte in atti consolidati di governo efficaci nello spazio e nel tempo, finirebbero prima o poi per concorrere alla definizione degli standard delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri (art. 6 TUe). Il peso condizionante di tali standard, per quanto “degradati”, sarebbe tanto più influente sul complessivo assetto costituzionale europeo quanto più dette opzioni politiche si diffondessero ulteriormente nella prassi legislativa ed amministrativa nello spazio eurounitario senza incorrere in effettive sanzioni ripristinatorie.
Analogamente, i livelli di protezione assicurati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono fisiologicamente permeabili rispetto al complessivo trend dei variabili standard di fatto applicati dagli Stati, i quali dispongono, e talvolta si appropriano, di un tanto più ampio margine di apprezzamento quanto più è esiguo il grado di consensus circa il contenuto sostanziale irrinunciabile di un determinato diritto fondamentale. Tanto che formale menzione al margine di apprezzamento è ora contenuta nel Preambolo della Cedu in forza dell’art. 1 del Protocollo n. 15, in vigore dall’1 agosto 2021. Lo stesso metodo c.d. “autonomo” d’interpretazione delle clausole Cedu richiede che la ricostruzione dei concetti giuridici convenzionalmente rilevanti – quali “indipendenza del potere giudiziario”, “accusa penale”, “diritto alla vita” – trovi mediazione nella ricognizione comparativa del significato concretamente assunto da tali nozioni nei diversi Stati membri del Consiglio d’Europa (cfr., amplius, Stefano Piedimonte Bodini, Metodo comparativo nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo: la teoria, la pratica ed il ruolo della Divisione Ricerca, in Questione Giustizia, speciale n. 1/2019, http://www.questionegiustizia.it/speciale/2019-1, nonché, ibidem, Francesco Perrone, I rapporti della divisione ricerca della Corte Edu: metodo di lavoro e profili di criticità).
Ciò a ulteriore dimostrazione che non esiste livello normativo di garanzia che le procedure di costituzionalizzazione siano di per sé sole in grado di mettere al riapro dalle spinte erosive scaturenti dal fondo delle pratiche di governo burocratico-legislative.
2. L’ordine teleologico della comunità politica
Nell’Occidente contemporaneo il giurista, anche il giudice, è percepito ed essenzialmente si percepisce come tecnico del diritto e perito dell’interpretazione del ius positum (Natalino Irti, Il destino di Nomos, in Elogio del diritto, 2019), qualunque sia il sistema normativo (legale, costituzionale, eurounitario, convenzionale) assunto come termine di più diretta referenza interpretativa-applicativa (cfr., sul sito di Labour Law Community, Qual è l’identità del giudice del lavoro oggi? Le visioni di tre giudici a confronto, https://www.labourlawcommunity.org/dialoghi/la-giustizia-del-lavoro/; Gustavo Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, 2021).
Ciò è il prodotto culturale del geometrismo con cui la dottrina illuministica sulla divisione dei poteri, specialmente nella sua declinazione giacobina (Augustin Cochin, L’esprit du jacobinisme, Presses Universitaires de France, 1979), è stata metabolizzata negli ordinamenti europei di diritto continentale, e della conseguente esclusione dalla iurisdictio di qualunque competenza nella selezione dei fini cui l’ordinamento è orientato. Ma è anche un riflesso del più complessivo processo di secolarizzazione che, nella postmodernità, ha eletto la cultura tecnica a forma privilegiata del sapere, necessariamente quantitativo e deterministico, in quanto tale unico affidabile e capace di garantire il meccanismo di funzionamento dello Stato liberaldemocratico e tecnologico.
Tuttavia, il giudizio di bilanciamento dei diritti, struttura logico-argomentativa di aggiudicazione tradizionalmente riservata alla giustizia costituzionale, ha sempre più permeato, e oggi capillarmente conforma la logica decisionale dei giudici comuni grazie alla pervasività della crescente integrazione tra giurisdizioni nazionali e Corti europee. La logica strutturale del giudizio di bilanciamento assume che il sistema costituzionale (nazionale, eurounitario, convenzionale) non individui punti di equilibrio rigidi e testuali, ma ne rimetta la dinamica concretizzazione alle autorità investite della relativa competenza legislativa, amministrativa, giurisdizionale. La necessità che tale processo di concretizzazione trovi compimento secondo linee di sviluppo razionali, al riparo da arbitrii soggettivistici (cfr. Intervista a Fabrizio Amendola, https://www.labourlawcommunity.org/author/fabrizio-amendola/), necessariamente reclama la precostituzione di un sistema assiologico capace di indicare i fini ultimi cui l’ordinamento complessivamente tende.
Tra diritti economici e di ritti sociali peculiarmente vige un equilibrio dinamico di interessi in opposizione (Silvana Sciarra, Solidarity and Conflict. European social Law in Crisis, Cambridge University Press, 2018), la cui composizione razionale non è attuabile se non è determinato il fine cui il sistema sociopolitico nel suo complesso tende. Ogni tentativo razionale d’armonizzazione della libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost., art. 16 CdfUe) con la tutela dei diritti sociali disvela l’intrinseco teleologismo in cui l’attività di bilanciamento dei diritti si struttura. La distribuzione delle risorse tra impresa e lavoratore, tra individui produttivi e individui bisognosi d’assistenza, spetta a ciascuno secondo i propri meriti (come sostenuto dal retore Callicle in Platone, Gorgia, Bompiani, 2001, 484 C, 491 D; Michael Young, The Rise of the Meritocracy, Pelican Book, 1958) o a ciascuno secondo i propri bisogni (Atti degli Apostoli, 4, 35)?
Non è la ratio legis di una specifica norma a indicare se e in che misura l’uno o l’altro dei due criteri distributivi debba trovare applicazione e prevalere, bensì il modello di giustizia sociale che una determinata comunità si pone il fine di realizzare.
Analogamente, in assenza di un modello antropologico in funzione del quale una comunità orienti il fine del proprio essere civitas, come è possibile armonizzare da un lato il diritto alla vita del minore in stato vegetativo e il diritto alla vita familiare anche dei genitori (unitamente al portato di responsabilità giuridiche e morali ad esso connesse), dall’altro lato la pretesa dello Stato di imporre una propria dottrina su cosa sia la dignità umana, su se e come “valga la pena” impiegare le risorse pubbliche nel servizio sanitario? (Corte Edu, Parfitt c. Regno Unito, 20 aprile 2021, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-209750)
In questo angusto anfratto della legalità si annida il rischio dell’arbitrio che si rimette al decisore quando una comunità politica non abbia la libertà d’immaginare o di riconoscere il proprio telos. Sono le dottrine dello Stato totalitarie a teorizzare l’appropriazione esclusiva della disponibilità del telos in capo al detentore del potere, e il conseguente disconoscimento di qualsivoglia principio d’ordine capace di limitare e d’orientare la pretesa d’assolutezza della volontà del sovrano.
3. Etica del capitalismo e spirito
È il problematico nodo d’intersezione tra libertà del lavoro, potenza della tecnica e ordine fondativo della giustizia l’attualissimo tema su cui Massimo Cacciari in Il lavoro dello spirito concentra il proprio fuoco. La sensibilità del giuslavorista consapevolmente votato al fine pratico della scienza giuridica è fortemente sollecitata dall’inattesa centralità che tale scritto restituisce allo spirito: da algoritmo di frequenze neurali (secondo la riduzione predicata dalle neuroscienze), al ruolo di soggetto che agisce il lavoro intellettuale.
Il saggio assume quale punto di riferimento concettuale la riflessione di Max Weber sullo spirito del lavoro intellettuale che il sociologo tedesco, in due conferenze tenute a Monaco di Baviera nel 1917 e nel 1919 (Die geistige Arbeit als Beruf), identifica nella professione scientifica e nella professione politica (Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it., Mondadori, 2006). Alla base della riflessione weberiana sul rapporto tra lavoro e capitalismo (Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-1905) vi è l’assunto che quest’ultimo abbia derivato dall’etica del protestantesimo il proprio spirito. È il riconoscimento, anche nel capitalismo, di una propria dimensione spirituale a rendere disperato il tentativo di trovare una via definitiva di riconciliazione razionale, e praticamente agibile, tra lavoro libero e sistema capitalistico, realtà nella loro essenza irriducibili, in quanto entrambe espressione di uno spirito, e al contempo inconciliabili, in quanto orientate a finalità irrimediabilmente incomponibili.
Massimo Cacciari, in Il lavoro dello spirito, fa un passo oltre l’orizzonte weberiano, promuovendo il ruolo dello spirito da attributo del capitalismo – in L’etica protestante è il capitalismo ad avere uno spirito – a quello di soggetto agente della storia, essendo lo spirito il soggetto che “lavora”. Nel pensiero cacciariano il capitalismo non ritrova in sé alcuna dimensione spirituale per una ragione costitutiva: la macchina capitalistica assume quale proprio fine la produzione del profitto (cfr. Benjamin Franklin in Necessary Hints to Those who Would be Rich, 1736 e in Advice to a Young Tradesman, 1748), non la libertà della persona. Essa anzi mira per natura ad inglobare qualunque lavoro, manuale e intellettuale, politico e scientifico, nel proprio sistema organizzativo, annientandone lo spirito in funzione della sua riduzione a tecnica, di cui il capitalismo si avvale utilitaristicamente – così come avviene per la tecnica economica, la tecnica finanziaria, la tecnologia – in assenza di un fine che sia al di là del suo stesso attuarsi.
Ciò non esclude che il capitalismo abbia un proprio ethos, che si compie nell’asservimento delle tecniche, incluso il lavoro umano di qualunque natura esso sia, in funzione della generazione di un profitto. Il lavoro dello spirito è ben lungi dal denunciare l’assenza di etica nel capitalismo. L’opera semmai afferma la scissione di ogni possibile legame tra etica del capitalismo e spirito, rifiuta l’idea che il capitalismo possieda o possa appropriarsi di uno spirito per erigere sé stesso a religione. Non è concepibile l’asservimento del lavoro libero, quando sia autenticamente tale in quanto agito dallo spirito, in funzione del perseguimento dei fini propri di un sistema che spirituale non è.
Tale posizione radicale pone l’Occidente contemporaneo dinanzi ad uno sconcertante interrogativo: residua un piano di possibile integrazione in concerto del lavoro libero nel sistema economico organizzato, ovvero ogni sforzo è destinato a fallire nell’insanabile lacerazione che oppone libertà dello spirito ed etica capitalistica?
La questione è evidentemente cruciale in un tempo in cui il capitalismo ha dato storicamente prova di essere l’unico sistema di organizzazione economica capace di finanziare gli onerosissimi costi della democrazia. Il dilemma weberiano non può allora restare senza ricomposizione, pena la degradazione della libertà dal piano della realtà dell’essere a mera rappresentazione astratta, disancorata dalla storia e ridotta a ideologia, o forse a vaneggiamento.
La riflessione cacciariana non spinge l’analisi sino alla questione sul come, nella pratica, il lavoro dello spirito possa essere integrato nel sistema economico e rendersi produttivo senza che ne sia intaccata la natura libera. Essa tuttavia individua con nitidezza il principio d’ordine capace di validare la via d’uscita dall’impasse weberiano, ricostruendo rigorosamente l’ordine spirituale e oggettivo di gerarchia tra libertà del lavoro, potenza politica, scientiam facere e governo delle tecniche. Si ritrova quindi la fondazione dell’ordine assiologico chiamato a governare ogni processo di bilanciamento tra esigenze tecniche del capitalismo (in primis l’organizzazione dei fattori della produzione), dignità della persona e libertà del lavoro (artt. 1, 3 e 4 Cost.; artt. 1, 15 e 31 CdfUe; punto 26 del preambolo Cse; artt. 4, 23, 26 Cse).
È interessante riscontare, su questo tema cruciale per la civiltà occidentale, un significativo punto di convergenza tra pensiero laico e il magistero dell’enciclica Laborem exercens (Giovanni Paolo II, Paoline Editoriale Libri, 1982). Quest’ultima, approfondendo l’ultrasecolare analisi sociale intrapresa nella Rerum Novarum (1891) e rinnovata nella Quadragesimo Anno (1931), col ricordare che “il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro”, già aveva affermato il “principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale” (cfr. anche Giovanni Paolo II, Centesimus annus, Paoline Editoriale Libri, 1995; Luigi Mengoni, Mario Napoli, Il lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, 2004).
4. Il fondamento oggettivo della libertà
Max Weber riconosce che il capitalismo ha un proprio spirito, così come il protestantesimo ha la sua etica. In entrambi gli ordini – quello socioeconomico e quello religioso – assume centralità il valore esistenziale dell’agire umano. Il termine utilizzato da Weber per indicare la professione è Beruf (Gaetano Vardaro, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Lorenzo Gaeta, Anna Rita Marchitiello, Paolo Pascucci (a cura di), Itinerari, Franco Angeli, 1989), che è anche il vocabolo impiegato da Lutero nella propria traduzione in tedesco della Bibbia per significare il concetto di “vocazione”. Beruf è intrinsecamente legato al concetto di “chiamata a”, al compimento di un destino esistenziale di libertà spirituale di cui il lavoro è estrinsecazione (sul rapporto tra lavoro e dimensione vocazionale della persona cfr. Francesco, Fratelli tutti, Marsilio, 2020, n. 162).
Weber, frutto maturo del positivismo, ha operato in un contesto culturale fortemente influenzato, per contrapposizione, dall’idealismo tedesco, che è il terreno filosofico nel quale la stessa filosofia marxiana affonda criticamente le proprie radici. A fronte di un così forte termine di referenza concettuale, che concepisce la storia quale sviluppo fenomenologico dello spirito che si fa assoluto, sembra riduttivo intendere nella riflessione di Massimo Cacciari la parola spirito - “l’operare di tutti e di ciascuno” nella definizione di Hegel - in senso neutro alla stregua di semplice sinonimo di intelletto, o peggio ancora nell’accezione moralistica di un non ben identificato afflato sentimentalistico.
È invece riconoscibile una peculiare connessione tra l’analisi cacciariana e il tema epocale con cui l’Europa contemporanea è chiamata a confrontarsi: quale sia il rapporto esistente tra ragione, giustizia e ontologia. E infatti al di fuori di una filosofia dello spirito o, potremmo dire in via più generale, di una filosofia del principio, capace di legare con vincolo di necessità i sistemi etico-assiologici all’essere, non scorgo alcuna possibilità di sintesi, ma semmai contrapposizione di opposti o, al più, giustapposizione di visioni non comunicanti e di volontà irrelate. Nella postmodernità tale concorso non dia-logante di volontà può assumere molti nomi, come società liquida o relativismo, la cui unica etica possibile è l’utilitarismo. Unico punto di ammissibile contatto, temporaneamente non bellicoso ma reso precario dalla preminenza teleologica della prefigurazione dell’utile, è la tecnica contrattuale, contingente incontro di volontà il cui inadempimento ben può essere utilitaristicamente giustificato dall’opportunità di rottura efficiente del vincolo, come predetto dalle tecniche di Law & Economics (Adalberto Perulli, Intervista a Massimo Cacciari, https://www.labourlawcommunity.org/news-eventi/llc-interviews-series-adalberto-perulli-intervista-massimo-cacciari/; John Cartwright, Contract Law: An Introduction to the English Law of Contract for the Civil Lawyer, Hart Publishing, 1957).
Lo scontro tra volontà oppositive - tra il sé e ciò che è radicalmente altro da sé - è deflagrazione, puro scontro violento, da cui vincitori e vinti sono ugualmente travolti (Simone Weil, L’Iliade, o il poema della forza, Les Cahiers du Sud, 1943). Non è un caso che in tutte le città, a Roma come a Parigi, il campo marzio sia situato al di fuori dal perimetro della civitas, cioè fuori dallo spazio politico-relazionale. Nemmeno ritengo immaginabile che dal nulla prodotto dal conflitto assoluto possa sorgere una qualunque sintesi. Nel sistema hegeliano l’aporia della sintesi trova soluzione grazie all’azione del principio spirituale d’ordine che gli è immanente, atteso che il di più che emerge nella sintesi è frutto non del mero conflitto tra tesi e negazione della tesi (a, non a), che in sé condurrebbe al reciproco annichilimento, ma dell’arricchimento che la realtà, tramite la contraddizione, vive nell’inveramento dello spirito. Nel pensiero classico Polemos, dio della forza oppositiva, è sì “padre di tutte le cose”, ma in quanto osservante dell’ordine indiviso del logos eracliteo. Polemos è il rimedio tramite il quale l’ordine dialogico, in quanto costitutivo dell’essere, impone la connessione tra i distinti che rifiutino di relazionarsi e pretendano di rimanere nella separatezza assoluta (Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, 132).
Per contro, una visione liquida o relativistica della realtà non dispone di strumenti capaci di fondare una compiuta etica della libertà, necessariamente oggettiva e relazionale (dia-logica). In sé è flatus vocis l’aforisma kantiano, ricorrente in John Stuart Mill (On Liberty, John W. Parker and Son, 1859) e Martin Luther King, secondo cui la libertà dell’uno finisce dove inizia quella dell’altro: al di fuori di un principio d’ordine nel quale ritrovare il fine cui tende la libertà di ciascuno non mi sembra consentito individuare, senza cadere nell’arbitrio, alcun punto di bilanciamento tra la libertà propria e la libertà altrui, né addivenire a una sintesi della giustapposizione delle volontà individuali che affermino la pretesa di assolutezza del potere d’azione di ciascuna. Inesorabilmente, la visione “liquida” della realtà confonde la libertà con la potenza d’azione, decompone il piano oggettivo dell’etica a quello puramente soggettivo dell’arbitrio, ove la libertà degrada a fare ciò che si ha il potere materiale di fare.
Una società appagata dal torpore relativistico non ammette né pace, né armonia, ma al più tolleranza, la quale è atto della volontà non fondato su alcuna ragione, e quindi arbitrio (Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, 145).
Nelle società democratiche si affida alla logica del bilanciamento dei diritti il compito di governare il conflitto che fatalmente si instaura tra la vocazione al lavoro libero e la pretesa (giuridicamente tutelata) di perseguire un profitto avvalendosi di lavoro comandato, mattone costitutivo della produzione organizzata nel sistema capitalistico. Tuttavia, l’intero meccanismo di tutela dei diritti fondamentali rischia di ridursi a techne, come tale facilmente strumentalizzabile in funzione di fini estranei a sé, qualora ab-solto da un principio d’ordine capace di fondarne oggettivamente la giustificazione.
È questo il piano ove si celebrano le nozze (o si consuma il divorzio) tra diritto e etica: non la posizione di valori “sovrani” quale fine ultimo della volontà di chi dispone del potere nomopoietico (il legislatore ordinario, quello costituente, il potere esecutivo-amministrativo, il giudice), ma il riconoscimento in un principio anticipante (“sottano”, citando l’ironica intelligenza di Gustavo Zagrebelsky) che riflette la dialogicità della propria natura sull’ordine legittimo delle cose. Per contro, il disconoscimento di ogni principio d’ordine fondativo preclude a qualunque dottrina sui diritti umani ogni possibilità di trovare giustificazione diversa dal puro presupposto giuspositivista, e di sottrarsi al portato volontaristico che esso sottende (cfr. Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990). Ecco che si ridurrebbe a inutile snobismo la pretesa di liquidare come pittoresche stravaganze le visioni estreme di pensatori estremi come Julius Evola (Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, 1978) o Alain de Benoist (Au-delà des droits de l’homme. Pour défendre les libertés, Éditions Krisis, 2004).
5. Il problema del volontarismo
Lo stesso utilitarismo hobbesiano resta puro polemos disgregativo se svincolato dal principio d’ordine di cui pacta sunt servanda è espressione. Tale principio assiologico trascende – mi sembra oltre la ferrea logica hobbesiana – l’etica puramente utilitaristica, che di per sé sola legittima la rottura di ogni patto. Esso anzi è intrinseca contraddizione della legge che governa lo stato di natura. La stessa società contrattualistica del “patto sociale”, nelle sue varie declinazioni hobbesiane, spinoziane o lockiane, e al di là di ogni pedanteria critica circa la realtà o metaforicità del patto, non può trovare realizzazione storica al di fuori di un ordine che valga a fondarla al di là del puro stato di natura (fondamentale sul tema, con prospettiva parzialmente diversa, John Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press, 1971).
Nella critica di Cacciari lo Stato di diritto, perduto il senso del principio, è lo Stato che considera sopra di sé la pura forma del contratto. All’esito del processo di costituzionalizzazione che ha elevato il contratto a ente fondativo del diritto pubblico, la rimozione dell’arché è il sacrificio che la postmodernità ha offerto sull’altare di ciò che Paolo Perulli definisce il “dio contratto” (Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020).
Nell’era del capitalismo le stesse potenze politiche, che Alessandro Aresu minuziosamente descrive nel loro incessante contrattare con le concorrenti potenze economiche, finanziarie, tecnologiche, geopolitiche (Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, 2020), si relativizzano in una dinamica contingente di reciproco dominio-asservimento che contraddice la natura spirituale e libera del lavoro politico (cfr., su ruolo della comunità internazionale e concezioni economiciste, Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, Paoline Editoriale Libri, 1998).
La società politica contemporanea, perduta la fiducia di poter ordinare la civitas su assetti regolativi di principio, affida la propria funzionalità organizzativa all’efficienza tecnica di “accordi parzialmente teorizzati” (Cass R. Sunstein, Designing democracy: what constitutions do, Oxford University Press, 2001), a tecniche di negoziazione che prefigurano l’elusione della discussione sugli aspetti sostanziali che la comunità politica non è in grado ricondurre ad uno spirito condiviso, e quindi di armonizzare. Ecco abbracciata, per questa via, la nuova “religione nichilista” (Walter Benjamin Capitalismo come religione, in Alfabeta 2, 6 dicembre 2014).
L’immanenza della matrice contrattualistico-utilitaristica nell’etica del capitalismo è in stretta connessione con la questione del volontarismo. Nella logica capitalistica è la primazia della volontà orientata al profitto a trovare affermazione. La volontà si fa tecnica (“la tecnica è volontà” secondo Emanuele Severino) e avoca a sé, riducendolo a tecnica, ogni tipo di lavoro umano, in primis quello scientifico, la cui produttività viene inglobata nel ciclo economico in funzione strumentale rispetto alla redditività del capitale. Il lavoro politico è coartato nel ruolo di tecnica anticiclica (Cacciari), degradato dalla funzione spirituale che gli è propria di pontifex tra principio d’ordine e comunità a strumento servente di un fine contingente ad esso estraneo.
È sul modo in cui concepisce il rapporto tra volontà e principio d’ordine che una comunità politica decide il proprio destino. Quando la volontà si volge al principio ordinante, il Beruf politico è capace di salvaguardare la propria autonomia spirituale e d’orientare il sapere scientifico alla libertà della persona umana tramite il governo della tecnica. Se è invece la volontà di chi dispone del maggior potere d’azione sul mondo (la techne) ad imporre la strumentalizzazione del lavoro umano in funzione di fini estranei alla struttura dialogica del principio, anche il lavoro politico seguirà il destino della de-spiritualizzazione, e il lavoro scientifico opererà disumanizzato e de-personificato.
La primazia della volontà sull’ordine razionale della realtà è l’assunto fondativo di ogni totalitarismo. L’assolutezza del potere si impone in modo tanto più estremo quanto più essa sia in grado di affermare la realizzazione di sé quale fine ultimo dell’esercizio della potestas, anziché tendere all’armonizzazione delle relazioni politiche, economiche e sociali secondo l’ordine dia-logico della persona umana. La costruzione di un proprio linguaggio autorappresentativo (Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 1998), di una neolingua (George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Secker & Warburg, 1949), è la techne privilegiata con cui il potere totalitario costringe la realtà ai dettami della propria volontà (come l’appropriazione di un Lebensraum) e ai vincoli delle autorappresentazioni (l’autopercepita appartenenza alla razza ariana o la discendenza dal popolo mitico di Thule), sopprimendo la natura dialogica dell’essere.
Non è un caso che Il trionfo della volontà, terribile capolavoro cinematografico di Reni Riefensthal, è il titolo assegnato al più noto filmato di propaganda nazista.
6. Il riduzionismo quantitativo
Un arcigno ostacolo culturale alla rifondazione del rapporto assiologico tra libertà oggettiva, volontà e tecnica è rappresentato dal quantitativismo scientifico, che nella postmodernità si è imposto quale preteso fondamento di ogni possibile forma di conoscenza razionale. Le tecniche, ognuna prodotto applicativo di una scienza particolare, si ergono a sistemi autosufficienti di governo della natura, svincolati da qualunque principio d’ordine che stia “oltre” il segmento di realtà suscettibile di quantificazione. Nemmeno lo sconvolgimento subito nel corso del ‘900 dai concetti di spazio-tempo e di causa-effetto a seguito delle scoperte della fisica subatomica è valso a mettere radicalmente in discussione il convincimento quantitativistico-deterministico diffuso nell’immaginario di larga parte del mondo scientifico, e le ricadute antropologiche che ne conseguono (Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, 1970).
Secondo una potente interpretazione, il riconoscimento dei numeri quali elementi costitutivi dell’essere varrebbe a qualificare la scienza contemporanea quale sapere intrinsecamente platonico (Cacciari), proprio in quanto la matematizzazione è espressione del métron su cui il mondo classico, a partire dalla tradizione pitagorica, fonda l’ordine razionale della realtà (Platone, Timeo, Bompiani, 2000).
È anche vero, tuttavia, che l’idea che la matematizzazione sia espressione o struttura costituente di un principio d’ordine cosmico fondativo non appartiene, ubiquitariamente, al pensiero scientifico contemporaneo in quanto tale. E in effetti lo stesso Massimo Cacciari distingue la matematizzazione propria della scienza platonica dal calcolo meramente quantitativo.
La degradazione a techne della stessa matematizzazione e la riduzione della realtà a mera somma di quantità sono precipui aspetti della weltanschauung postmoderna. La disgregazione degli oggetti nelle loro quantità costitutive elementari è il risultato cui il metodo analitico intrinsecamente tende (ἀνα + λύσις, λύειν, sciogliere). La riduzione quantitativa, in sé considerata, è scioglimento dei legami e, in ultima istanza, scomposizione dell’intero in frammenti irrelati, come tali strumentalizzabili in funzione di qualunque fine voglia porsi una volontà orientata a un’etica puramente utilitaristica.
Appartiene alla comune esperienza l’impatto metodologico che il modello di ragionamento analitico deduttivo ha prodotto anche sulla scienza giuridica, dalla logica tomistica all’ideologia illuministica del giudice bocca della legge, sino alle aporie del geometrismo giuridico kelseniano. E tuttavia nel Signore degli anelli Gandalf il grigio (il mago buono) mette in guardia Saruman (il mago buono diventato cattivo, “il saggio che ha abbandonato la ragione per la pazzia”) ammonendolo che è folle colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è (sulla rilevanza nella modernità dell’idea di adaequatio tra ragione individuale e natura cfr. Maurizio Manzin, La natura (del potere) ama nascondersi, in Francesco Cavalla (a cura di), Cultura Moderna e interpretazione classica, Cedam, 1997).
Il matematismo quantitativo è, in fin dei conti, un’eredità fraintesa di Voltaire, al quale Nietzsche significativamente dedica Umano troppo umano, opera che segna l’apertura alla nuova era della volontà di potenza, liberata da ogni principio autoritativo. Così, la derisione delle superstizioni medievali (non di rado create dall’immaginario dei moderni e attribuite per transfer al pensiero degli antichi), e in genere metafisiche, è diventata nel positivismo ottocentesco vera e propria postura filosofica (“Keine Metaphysik mehr!”). Se l’illuminismo ha avuto quantomeno il merito storico di recuperare la ragione al centro dell’esperienza umana, alla sua propaggine positivista va addebitato il demerito di aver generato la superstizione del riduzionismo quantitativo e idolatrato il dogmatismo dell’intelletto.
Pur a fronte della critica epistemologica mossa alle scienze galileiane dalla filosofia novecentesca (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it., Il Saggiatore, 2015), l’immaginario dei contemporanei è diffusamente suggestionato dalla distorsione quantitativistica. Ciò emerge con evidenza nel best seller di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow The grand design (Transworld, 2010). I due scienziati, mossi dal dichiarato intento di dimostrare la non necessità fisica di qualunque principio divino e in genere metafisico a fondamento ultimo dell’essere, sembrano davvero convinti che il gioco-esperimento digitale di Conway sia in grado di offrire una riprova empirica dell’autosufficienza cosmogonica del modello d’automa deterministico-quantitativo. Invero, lo scritto altro non è se non una riedizione aggiornata del famoso saggio di Hawking Dal big bang ai buchi neri (1988), con l’aggiunta di una sorta di prefazione filosofica la quale, muovendo da alcune rapide suggestioni sugli elementi (principi materiali) presocratici e sugli atomi democritei, salta a piè pari 2500 anni di storia del pensiero occidentale per proporre una rifondazione della fisica quantitativa come nuova filosofia dell’essere (la questione della scienza come compimento della metafisica è posta semmai da Martin Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere, 1969. Il tema ha origini antiche: sul rapporto tra episteme e metafisica come ricerca del principio e della causa cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, 2000).
Così, una significativa componente della weltanschauung contemporanea, disconoscendo ogni “platonicità” nella matematizzazione della realtà, erige una cortina ferrea tra reale e “chimerico” (Auguste Comte, Discorso sullo spirito positivo, trad. it., Laterza, 1985).
La tracimante diffusività del riduzionismo quantitativo non può non contaminare anche la dimensione antropologica. Ne costituisce manifestazione, nella forma più estrema, il dramma delle due guerre mondiali, ove lo stesso individuo guerriero ha cessato di essere qualità (si pensi al valore dell’antico cavaliere medievale, come Dante Alighieri a Campaldino, o del samurai giapponese), per diventare mera quantità nella guerra di trincea, e più ancora sotto i bombardamenti di massa che hanno colpito i civili a Dresda come a Londra. Sciocca, ma non stupisce, che nei rapporti degli ufficiali della prima guerra mondiale le perdite umane in battaglia siano contabilizzate algebricamente allo stesso modo delle perdite di cannoni, derrate alimentari, animali da carico (Alessandro Barbero, Caporetto, Laterza, 2017).
Con coerenza estrema, l’antropologia nazista ha generato il modello d’individuo “non completamente nato” (Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes, 2019), che è entità irrelata, segregata sia dal mondo esterno, sia dal proprio mondo interiore tramite una pelle che opera come “corazza” difensiva-segregativa. Il nazista è unità numerica perfettamente disgregata e segregata da qualunque forma di dia-logos con ogni altro umano.
Le guerre mondiali sono state un’esperienza collettiva di dissolvimento dell’esistenza individuale, unico valore posseduto dal soldato sul campo di battaglia, a mera quantità irrelata. Su tale sostrato esperienziale il pensiero esistenzialista ha prodotto una rappresentazione dell’essere umano quale entità ridotta a pura esistenza, condannata all’assurdo in quanto incapace di relazione sensata – di diálogos – con sé stessa e con l’altro (Albert Camus, L’Étranger, Gallimard, 1942). Inevitabilmente, l’enfer, c’est les autres (Jean-Paul Sartre, Huis clos, 1943).
Sono innumerevoli i contesti, seppur meno estremi, in cui l’Occidente ha vissuto esperienze di disumanizzazione del lavoro e di riduzione dell’umano a mera quantità, come nelle catene produttive delle prime rivoluzioni industriali o, talvolta, nelle contemporanee catene transnazionali del valore. Non è un caso che il positivismo, emblematicamente, sia divenuto la bandiera filosofica della borghesia capitalistica ottocentesca, del pensiero economico liberista e della sua rivoluzione tecnico-industriale.
7. La crisi identitaria delle democrazie in Occidente
Quando le comunità politiche affrontano una crisi d’identità, le forme di pensiero “debole” esercitano una particolare capacità di fascinazione (Gianni Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, 1983). Nel dopoguerra, la capacità delle democrazie europee di riconoscersi nei propri fondamenti costituitivi è stata ripetutamente messa in crisi da una molteplicità di fattori d’innesco (l’esaurimento dell’ordine di Jalta, la fine delle ideologie, i nuovi fenomeni migratori, la crisi demografica, i “sovranismi”, lo stallo nel processo d’integrazione europea). Specularmente, nel momento in cui la democrazia ateniese ha raggiunto l’apice del proprio splendore, la concezione socratico-platonica del logos è entrata in competizione con il nuovo approccio etico utilitaristico delle emergenti scuole retoriche e sofistiche (Platone, La Repubblica, Bompiani, 2009; Gorgia, Laterza, 1997; Protagora, Bompiani, 2001; Minosse, La Vita Felice, 2015).
Il pensiero “forte” socratico fonda la disposizione armonica (kòsmos) della società e delle leggi (nomoi, nomizomena) nell’ordine pregiuridico e prepolitico del logos. Finché la comunità ateniese si è riconosciuta nel principio già presocratico di corrispondenza tra pensiero ed essere (cfr. Platone, Lettera VII), la buona legge non poteva essere intesa quale mera deliberazione della polis, bensì tou ontos exeuresis, “scoperta di ciò che è” (Minosse, 315 A). Coerentemente, nei dialoghi platonici giovanili l’osservanza delle leggi è considerata atto giustizia in sé (Platone, Critone, Bompiani, 2000), essendo le leggi manifestazione armonica dell’ordine cosmico presupposto.
In Gorgia, dialogo di quasi un decennio successivo al Critone, Platone appare irrimediabilmente sconcertato dall’incomprensibile messa a morte del maestro. Qui, l’identificazione spirituale con la polis è radicalmente messa in dubbio, tanto che Socrate questa volta sente il dovere di distinguere le leggi giuste, espressione del logos, da quelle ingiuste, puro strumento di dominio. Per contro il retore Gorgia, maestro del nuovo corso della democrazia, è fermo assertore del predominio della volontà sull’essere, e considera la retorica “il più grande bene” proprio in quanto techne capace di conferire “il potere di dominare sugli altri nella propria città” (Gorgia, 452 D, 456 C). Invero Gorgia, con sorprendente attualità, si atteggia ancora a dottrinario di transizione, vittima del suo stesso moralismo. In alcuni passi del dialogo egli sembra ancora diviso tra l’affermazione incondizionata della nuova potenza volontaristica e il legame con i vecchi schemi, che lo imbrigliano nella contraddizione di chi ancora sente il bisogno di proclamare, a dispetto dei presupposti da cui egli stesso muove, che la retorica sia arte della persuasione “sul giusto e sull’ingiusto” (Gorgia, 460 C).
Il processo di separazione dal principio dialogico trova compimento nella figura di Callicle, spregiudicato discepolo di Gorgia, appartenente ad una generazione formatasi in un contesto culturale e politico fortemente “secolarizzato” e spiritualmente distaccato da ogni idea condivisa di principio d’ordine. Il giovane retore non ha remore nel condurre il ragionamento del maestro alle estreme conseguenze. Nella sua visione, le leggi della polis sono stabilite dagli uomini deboli per spaventare i più forti, in modo che quest’ultimi non abbiano più di loro. Esse sono quindi per ciò solo contrarie alla natura. Secondo natura è invece giusto che chi è più potente abbia di più di chi è meno potente, l’uguaglianza è per i deboli (Gorgia, 483 C). Ecco esplicitato, in poche parole, il nucleo di ogni dottrina sulla violenza tirannica, divenuta costume politico nell’età dell’imperialismo ateniese (Tucidide, Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Marsilio, 1991; Platone, Gorgia, 492 C, 508 A). Tanto che Callicle evoca senza imbarazzo la necessità correzionale del “menar botte” (Gorgia,485 D, 521 A-D).
Massimo Cacciari individua nel pensiero classico e nel cristianesimo due elementi strutturali della civiltà occidentale (v. anche, seppur in diversissima prospettiva, James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2005). La civiltà europea ha intessuto queste due tradizioni culturali in un sorprendente e potentissimo intreccio identitario. Come in origine la paideia greco-platonica è stata il veicolo concettuale privilegiato per la costituzione teologica del protocristianesimo (Werner Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, trad. it., Bompiani, 2013), così non vi è oggi meandro della weltanschauung dell’Europa contemporanea che non sia plasmato, razionalizzato, concettualizzato e vivificato (per mimesi o contrapposizione) dalle radici strutturali di tali tradizioni del pensiero europeo. Rivolgendo l’attenzione a un particolare profilo d’analisi, Paolo Perulli in Il debito sovrano sviscera i fittissimi intrecci che, nella visione del mondo occidentale, legano etica politico-economica e pensiero teologico-religioso.
Nel solco di questa tradizione culturale il principio d’ordine, seppur trascendente, non assume la forma di ombra metafisica relegata nell’arcano imperscrutabile, e nemmeno di mistero (μυστήριον) nel senso esoterico antico (Edgar Wind, Misteri pagani nel rinascimento, Adelphi, 1971). Esso, in quanto mistero semmai nel significato assunto nella teologia cristiana neotestamentaria (Gv, 15, 15), è per natura accessibile alla conoscenza umana, certo secondo prospettive particolari, ma pur sempre veritative in quanto fondate sull’essenziale natura dialogica che l’essere persona e il principio-logos condividono. L’incarnazione del logos (σὰρξ ἐγένετο, Gv, 1, 14) è omousia (della stessa sostanza) del Padre, e al contempo riflette l’immagine dell’uomo, essendo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn, 1, 26-27). Così, come l’uomo è ragione e parola, così è ragione, parola e persona il principio-logos (Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, 2005).
Nella condivisione di tale natura dialogica trova fondamento un atteggiamento gnoseologico intrinsecamente ottimista: è aperta alla comprensione umana una naturale porta d’accesso al principio d’ordine che anticipa la realtà, giustifica la morale, fonda la giustizia, indica il fine delle leggi e ne orienta l’interpretazione.
8. Homo oeconomicus e homo politicus
Come mostrato nel mito fondativo di Prometeo (Platone, Protagora. Laterza, 1996, 315 A-326 A; Esiodo, Teogonia, BUR, 1984; Eschilo, Prometeo incatenato, La Vita Felice, 1996), la tecnica senza diritto distrugge l’essere umano, (Werner Jaeger, Elogio del diritto, trad. it., La nave di Teseo, 2019; Sofocle, Antigone, vv. 364-371), così come il diritto senza giustizia si trasforma esso stesso in tecnica distruttiva. Massimo Cacciari esclude radicalmente che il capitalismo possa essere espressione di uno spirito. Il capitalismo è ciò che è e non può che essere, portando con sé la propria ineluttabile etica utilitaristica. Una volta escluso che l’operari scientifico abbia in sé “a che fare con idee di salvezza, di libertà, di felicità” (Cacciari, Il lavoro dello spirito, 37-38), proprio in quanto estraneo a ogni giudizio sul valore delle finalità universali, come può l’homo oeconomicus trasformarsi in homo politicus? Come può fondarsi una società politica in cui non sia la volontà di profitto (la techne economica) ad asservire strumentalmente il lavoro scientifico e il lavoro politico, ma sia il Beruf politico ad orientare il sapere scientifico al governo di una civitas che pone la libertà della persona umana come fine e subordina la techne a puro mezzo (cfr. sul tema la prospettiva di Benedetto XVI, Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, 1999)?
La trasformazione dell’homo oeconomicus, de-umanizzato dal dominio dalla tecnica o ridotto esso stesso a strumento tecnico, in homo politicus, relazionale, dialogico e votato all’esercizio libero della ragione, richiama ineludibilmente la contemporaneità al recupero di un principio d’ordine condiviso, capace di fondare il concetto di libertà come ordine oggettivo della realtà e capace di orientare l’applicazione delle leggi secondo una teleologia che sfugga dall’arbitrio dei soggettivismi individuali o “partitici”. È il dia-logos tra i distinti l’unico fondamento possibile di una pace che non sia fatua tolleranza, istinto alla decreatio (Simone Weil) o immobilità impersonale dell’essere (Parmenide), salvo ammetterne il compimento nella forma più radicale della caritas cristiana (Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, 155), la quale connette a sé il nemico (il completamente altro da sé) nell’abbraccio non regredibile dell’agàpe-amore (Lc, 6, 27-38).
Ecco quindi la radicale questione identitaria sulla quale la contemporaneità europea sfida il giurista: se sia egli un perito della tecnica giuridica, istituzionalmente indifferente alla questione del fondamento di principio del diritto, ovvero se egli sia un professionista del lavoro dello spirito, come tale chiamato a porsi in incessante relazione dialogica con l’ordine oggettivo di libertà che costituisce l’essenza giustificativa della giurisdizione, del sistema normativo e della comunità politica.
Non rientra nelle forze del giurista offrire una risposta compiuta alla poderosa questione. Egli è chiamato a fare la propria parte, unitamente ai filosofi, agli scienziati, ai politici.
* La presente riflessione trae origine dalla lettura di Il lavoro dello spirito di Massimo Cacciari (Adelphi, 2020), di Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina di Alessandro Aresu (La nave di Teseo, 2020) e di Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo di Paolo Perulli (La nave di Teseo, 2020), nonché dalle analisi sviluppate dai tre autori nel seminario Il capitalismo dopo Max Weber, Università Ca' Foscari Venezia, 19 marzo 2021, a cura di Adalberto Perulli. Lo scritto è già apparso, nel suo contenuto essenziale, sul sito web di Labour Law Community. Ringrazio il Prof. Luca Ratti, l’Avv. Vincenzo Poso, la Prof. Marta Ferronato, il Prof. Gianandrea Di Donna, il Prof. Andrea Sitzia per aver condiviso con me i loro arricchenti punti di vista sui temi che questo scritto percorre.
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI – ultima parte - La funzione organizzativa del Csm, i progetti organizzativi e le proposte di riforma.
di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. La funzione organizzativa del Csm e le Procure della Repubblica. L’evoluzione normativa e le proposte pendenti di riforma dell’ordinamento giudiziario - 2. L’effettività del sistema tabellare. – 3. Le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario.
1. La funzione organizzativa del Csm e le Procure della Repubblica. L’evoluzione normativa e le proposte pendenti di riforma dell’ordinamento giudiziario
Come si è ricordato, anteriormente alla riforma dell’ordinamento giudiziario il Consiglio superiore della magistratura - alla luce della normativa primaria e secondaria sviluppatasi nel tempo[1] e sfociata, da ultimo, nell’art. 7 ter ord. giud. che peraltro recepiva le indicazioni elaborate dallo stesso Consiglio – era venuto definendo i propri spazi di intervento anche in relazione alle modalità di esercizio del potere del Procuratore della Repubblica nei rapporti con i sostituti e nell’esplicazione più tipicamente organizzative, allo scopo di dare attuazione ai principi costituzionali inerenti alla figura del pubblico ministero e, in particolare, agli artt. 105 e 112 della Cost. Il Csm aveva pertanto precisato nelle proprie circolari che - nel rispetto di un procedimento volto a garantire, come per gli uffici giudicanti, il contraddittorio degli interessati e ad acquisire il parere del Consiglio giudiziario - anche per gli uffici delle Procure dovessero essere formulati i programmi organizzativi, con le indicazioni relative alla loro composizione complessiva, a quella degli eventuali gruppi di lavoro specializzati per la trattazione di materie richiedenti particolari tecniche di indagine e/o la conoscenza di settori specialistici, all’assegnazione dei procedimenti ai gruppi di lavoro ed ai singoli magistrati, alle funzioni delegate ai procuratori aggiunti, ai turni d’udienza. Per quanto concerne l’enunciazione di criteri relativi alla assegnazione degli affari, era stato chiarito da tempo che il potere di direzione e di organizzazione dell’ufficio spettante al Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 70 ord. giud., e la circostanza che in base a tale norma egli esercitasse personalmente le funzioni attribuite al pubblico ministero dal codice di procedura penale e dalle altre leggi, quando non avesse designato altri magistrati addetti all’ufficio, non escludeva che anche per gli uffici del pubblico ministero fossero da indicare criteri organizzativi idonei ad individuare in modo oggettivo e predeterminato quali affari il Procuratore della Repubblica intendesse riservare a se stesso, e quali invece delegare ai sostituti dell’ufficio, che l’assegnazione di un determinato affare in deroga i criteri organizzativi indicati richiedesse una motivazione espressa e che la revoca della designazione dovesse essere non solo sottoposta all'obbligo di motivazione[2], ma anche giustificata da determinati presupposti, in coerenza con i principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento dell’amministrazione, posti a garanzia dell’autonomia e indipendenza riconosciute dalla Costituzione a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario, nell’interesse primario della collettività.
Nella circolare sulla formazione delle tabelle relativa al biennio 2006/2007, che raccoglieva e sviluppava tali indicazioni, veniva tra l’altro precisato che, pur rientrando l’assegnazione degli affari nella responsabilità del dirigente dell’ufficio, non fossero ammissibili parametri genericamente equitativi o tali da realizzare una discrezionalità incontrollata del dirigente; che i criteri di assegnazione degli affari potessero essere derogati, con provvedimenti adeguatamente motivati, in presenza di esigenze di servizio, ivi comprese quelle di riequilibrio dei carichi di lavoro, ovvero in considerazione della specifica professionalità richiesta dalla trattazione di singoli affari; che fossero adottati gli opportuni accordi tra Procuratore della Repubblica, Presidente della sezione GIP o magistrato incaricato della direzione della medesima e Presidente del Tribunale allo scopo di permettere la tendenziale continuità nella designazione del sostituto, finalità cui era correlata anche la previsione che nel corso delle indagini preliminari la sostituzione del magistrato designato dovesse essere adeguatamente motivata con riferimento ad esigenze oggettive e verificabili, e che ove la sostituzione non fosse stata richiesta o condivisa dal sostituto designato, il provvedimento di sostituzione, corredato delle osservazioni dei magistrati interessati e del parere del Consiglio giudiziario, dovesse essere immediatamente trasmesso al Consiglio superiore della magistratura. Nei par. 63-65 veniva quindi descritto il procedimento - analogo a quello già esaminato per gli uffici giudicanti – concernente il deposito dei criteri organizzativi, le eventuali osservazioni dei magistrati dell’ufficio, il parere del Consiglio giudiziario e la successiva trasmissione al Csm, alla cui approvazione l’efficacia del programma era subordinata.
Tale quadro si è successivamente modificato con la riforma dell’ord. giud. e la soppressione dell’art. 7 - ter, terzo comma ( v. par. 4 LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI - prima parte- Il sistema tabellare di Gianfranco Gilardi), mantenuta ferma anche dopo che la legge 269/2006, aveva fatto venir meno alcune delle più vistose accentuazioni in senso gerarchico delle Procure della Repubblica contenute nel testo originario del d. lgs. 106 /2006, i cui profili di illegittimità costituzionale erano stati ribaditi nella risoluzione urgente del 5 luglio 2006 con la quale il Csm aveva evidenziato altresì le ricadute negative della nuova disciplina sull’efficienza degli uffici[3].
La riforma dell’ordinamento giudiziario ha comportato l’estromissione del Csm dal procedimento di definizione dell’assetto organizzativo delle Procure, salva la previsione che i progetti organizzativi, ivi compresi quelli regolanti l’assegnazione dei procedimenti, siano comunicati al Consiglio. Ciò tuttavia non ha precluso gli spazi per un’interpretazione costituzionalmente orientata, come il Csm ha avuto modo di chiarire con la ricordata risoluzione del 12 luglio 2007, i cui principi sono stati poi ripresi nella delibera dell’11 ottobre 2007 ed ai quali la circolare sulla formazione delle tabelle relative al triennio 2009/2011 fece esplicito richiamo all’art. 128 (“per l’organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero occorre fare riferimento alla risoluzione consiliare del 12 luglio 2007 ed alla Circolare per l’organizzazione degli Uffici Giudiziari per il biennio 2006-2007 esclusivamente nelle parti compatibili con il Decreto Legislativo n. 106 del 2006”)[4].
Dopo essersi occupato della materia in altri documenti[5], il CSM è da ultimo intervenuto in argomento con la Circolare approvata il 6 dicembre 2020 mediante la quale, muovendo dai principi costituzionali di cui agli artt. 105, 107, 108 e 112 Cost., dalle delibere del 2007 e del 2009 e dall’analisi delle problematiche emerse nell’applicazione della circolare del 2017, si è proceduto ad una incisiva opera di riscrittura della materia.
Nella consapevolezza che gli aspetti organizzativi costituiscono una componente essenziale ai fini dell’esercizio imparziale ed effettivo dell’azione penale, della celerità dei procedimenti e del diritto di difesa, si è posta particolare attenzione:
- all’interpello come strumento per l’assegnazione dei magistrati ai gruppi di lavoro, per l’assegnazione degli incarichi di coordinamento ai Procuratori aggiunti e per gli incarichi di collaborazione. Al riguardo sono stati contestualmente indicati i criteri di valutazione (anche con riferimento all’assegnazione alla DDA, per la quale viene valorizzata l’esperienza giudiziaria, nonché quella non giudiziaria, ove particolarmente formativa;- al metodo partecipato per l’adozione del progetto organizzativo, valorizzando a tal fine la centralità dell’assemblea dei magistrati come momento preliminare e necessario di condivisione del progetto organizzativo ed il confronto con il dirigente del corrispondente ufficio giudicante;
- alla regolamentazione delle funzioni semidirettive, con la previsione altresì dell’obbligo di svolgimento di una quota di lavoro “giudiziario” in senso stretto per i procuratori aggiunti e del divieto di esonero per i magistrati con funzioni di collaborazione non titolari di funzioni semidirettive;
- alla trasparenza ed imparzialità nell’attività del dirigente;
- alla previsione di espressi criteri per l’assegnazione degli affari, la coassegnazione e l’autoassegnazione, ed alla necessità di specifica motivazione in caso di deroga a criteri automatici di assegnazione;
- alla qualificazione del “visto” come manifestazione delle competenze organizzative del dirigente e quindi come strumento di conoscenza e informazione sulle attività dell’ufficio;
- all’individuazione di criteri predefiniti per l’assegnazione dei magistrati alle DDA e per le coassegnazioni dei procedimenti di competenza della DDA;
- alla definizione del ruolo dei Consigli giudiziari;
- alla regolamentazione dell’organizzazione della DNAA, anche con riferimento alla assegnazione dei magistrati ai gruppi di lavoro, alla assegnazione degli affari ed al ruolo dei Procuratori aggiunti.
È inoltre da segnalare, anche per il rilievo che la questione è tornata ad assumere nell’ambito delle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario[6], la disposizione di cui all’art. 3, ove è tra l’altro disposto che il “Procuratore della Repubblica, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei parametri fissati dall’art. 132-bis disp. att. c.p.p. e delle altre disposizioni in materia, può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. Indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili” e che nell’elaborazione dei criteri di priorità, egli “cura l’interlocuzione con il Presidente del tribunale ai fini della massima condivisione, ed opera sia tenendo conto delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti, sia osservando i principi enunciati nelle delibere consiliari del 9 luglio 2014 e dell’11 maggio 2016 in tema, rispettivamente, di “criteri di priorità nella trattazione degli affari penali” e di “linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti” [7].
2. L’effettività del sistema tabellare
Come osservato, anche dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario resta saldo il postulato su cui poggia il sistema tabellare, quello cioè che l’organizzazione del lavoro giudiziario deve ispirarsi all’esigenza, comune a ogni ramo della pubblica amministrazione, di garantire il buon funzionamento e l’imparzialità del servizio e, insieme, di assicurare che lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali avvenga al riparo da ogni condizionamento non solo esterno, ma anche interno alla magistratura.
L’esperienza ormai pluridecennale in materia tabellare, le direttive sempre più precise dettate dal Csm, i controlli esercitati dai consigli giudiziari, la partecipazione al procedimento tabellare realizzata attraverso le osservazioni dei magistrati, un’intensa attività di formazione a livello sia centrale sia decentrato, alcune pronunce della Corte costituzionale hanno contribuito, nel corso del tempo, a radicare la consapevolezza del valore fondante del principio del giudice naturale e, insieme, la consapevolezza circa la validità delle regole tabellari quale strumento di equa e razionale organizzazione del lavoro giudiziario. Di tale crescita costituisce parte importante il diretto coinvolgimento dei dirigenti degli uffici nella stessa formazione delle circolari sulle tabelle, la cui elaborazione viene preceduta ormai da diversi anni da appositi incontri con i dirigenti medesimi al fine di raccoglierne proposte e suggerimenti, nella convinzione che “l’autogoverno implica il contributo responsabile di tutti gli operatori del sistema – giustizia” e che “proprio la condivisione delle scelte organizzative si traduce in garanzia di buon funzionamento ed efficienza degli Uffici giudiziari”[8].
Ma, se ciò è vero, bisogna aggiungere che ai principi enunciati ed alle regole dichiarate non corrisponde ovunque un’immagine simmetrica della realtà. Si deve infatti assistere ancora oggi (benché molto meno che in passato) ad uffici nei quali la vita si svolge al di fuori di occasioni di confronto sullo stato dei servizi, i problemi organizzativi, gli orientamenti giurisprudenziali e le novità normative, e nella mancanza, a volte, anche delle forme più elementari di controllo e di vigilanza. Le prescrizioni relative a parti ordinamentali di fondamentale importanza, come le riunioni interne alle sezioni ex art. 46-quater ord. giud. o i monitoraggi necessari anche per dar corso ad eventuali riequilibri dei ruoli, restano spesso lettera morta.
Vi sono proposte tabellari che evidenziano non soltanto carenze di capacità organizzativa e progettuale, ma persino – e prima ancora – mancanza di conoscenza della realtà di fatto, conoscenza che costituisce il presupposto indispensabile di ogni meditata proposta. Le regole tabellari restano spesso prive di attuazione e le delibere del Consiglio, che dovrebbero servire a farle rispettare, non solo arrivano spesso in ritardo ma, una volta adottate, restano non di rado lettera morta. Piuttosto che di carenza di regole, si deve parlare di una loro diffusa ineffettività, con conseguenze negative per la corretta gestione del sistema di autogoverno ed il funzionamento organizzativo della giurisdizione.
Di ciò è ben consapevole il Csm che più volte ha messo in evidenza la progressiva formazione di uno iato tra realtà effettiva degli uffici (l’organizzazione concreta ed operativa) e realtà “virtuale” sottoposta al controllo tabellare, sottolineando come il dilatarsi dei tempi di esame delle proposte e delle variazioni abbia fatto sì che il controllo del Consiglio finisse con il concentrarsi su un assetto dell’organizzazione spesso non più attuale in quanto superato da una molteplicità di modifiche, provvisorie o anche definitive, nel frattempo intervenute, o come in altri casi la dilatazione dei tempi avesse indotto alcuni dirigenti a non adottare variazioni (salvo procedere in via di fatto suscitando anche contenziosi all’interno degli uffici) nonostante l’insorgere di situazioni che richiedevano tempestivi interventi. I rimedi adottati per superare tali inconvenienti, come ad esempio l’introduzione della procedura semplificata per le proposte costituenti riproduzione di quelle che abbiano già conseguito l’integrale approvazione del CSM, o la previsione di esecutività delle proposte organizzative sulle quali sia intervenuto un parere favorevole unanime del consiglio giudiziario[9] hanno certamente contribuito ad accelerare la definizione di un gran numero di proposte, ma a tale vantaggio si è accompagnato l’effetto negativo di trascurare le verifiche sostanziali in ordine alla concreta gestione degli uffici ed alla qualità delle scelte organizzative[10].
Un sistema tabellare caratterizzato da ampi margini di ineffettività dei controlli rischia conseguenze gravi non solo sul piano della buona organizzazione ma anche, e correlativamente, con riguardo al principio del giudice naturale, la funzionalità del servizio costituendo un elemento intrinseco della naturalità del giudice, da intendere (anche alla luce del canone costituzionale della durata ragionevole del processo) come garanzia dell’insieme delle condizioni preordinate all’attuazione di diritti, nella consapevolezza che ciò che conta per la corretta amministrazione della giustizia non è tanto – come accennato - la selezione dei più «bravi», quanto un sistema idoneo ad assicurare che ogni magistrato, nel contesto di un’organizzazione adeguata, assolva ai propri compiti con capacità e impegno, quale che sia la funzione in concreto esercitata.
Restituire effettività al sistema dei controlli significa recuperare chiarezza in ordine ai fini e, prima ancora, in ordine all’oggetto stesso dei controlli. Il sistema tabellare, infatti, altro non è che uno strumento per rispondere nel modo più razionale ed efficace possibile alla domanda di giustizia presente o prevedibile in ciascuna realtà territoriale; e nel corso degli anni – parallelamente al recupero della centralità della questione organizzativa, cui ha dato impulso anche l’apporto di studiosi di scienze dell’organizzazione[11]- si è venuta sempre più precisando l’idea che le proposte tabellari debbono costituire un vero e proprio progetto organizzativo funzionale a questo obiettivo, che i dirigenti degli uffici giudiziari hanno il dovere di perseguire in modo da coniugare il principio del giudice naturale con la funzionalità del servizio.
Questa concezione è venuta maturando nel contesto di una più generale riflessione circa l’importanza strategica di una svolta sul piano organizzativo, che nella realtà di molti uffici ha visto diffondersi il fermento degli Osservatorii e dei protocolli per le udienze[12]; ha portato al recepimento a livello normativo dell’idea dell’Ufficio per il processo, costituente in gran parte l’esito di questi fermenti e di un dibattito maturato in alcuni ambiti associativi; ha trovato specifiche enunciazioni nell’esperienza del Csm, che a partire dalla circolare relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari per il biennio 2002/2003 ha fatto esplicito richiamo, tra l’altro, al principio della ragionevole durata del processo ora anche formalmente enunciato dall’articolo 111 della Costituzione ed ha successivamente introdotto le Commissioni per l’analisi dei flussi e delle pendenze e le ulteriori innovazioni richiamate supra, al par. 2.
Anche nel cantiere delle proposte governative in corso per migliorare il funzionamento della giustizia gli interventi non sono stati limitati alla consueta opera di “novellazione” della disciplina processuale che ha visto un progressivo accumulo di norme e di riti il cui effetto, anziché aiutare a risolvere i problemi, è stato quello di complicarli rendendo sempre più difficoltosa l’attività degli interpreti e degli operatori, ma, a differenza di quanto accaduto in tante altre occasioni, sono stati inseriti in un quadro più articolato e complesso di misure destinate a comporre nel loro insieme il disegno riformatore; e ciò nella consapevolezza della necessità di evitare l’equivoco “per il quale l’obiettivo di una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta, possa essere raggiunto solo attraverso interventi riformatori sul rito del processo o dei processi”, essendo necessario muoversi seguendo tre direttrici tra loro inscindibili e complementari: il “piano organizzativo”, la “dimensione extraprocessuale” e quella “endoprocessuale”[13].
La “nuova” professionalità verso cui spingono anche le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario è, come io credo, anche quella legata all’idea del governo autonomo realizzato nei fatti come strumento di responsabilizzazione collettiva capace di dare risposta ai tanti colleghe e colleghi che chiedono di poter svolgere dignitosamente il proprio lavoro, nella certezza di contare su condizioni organizzative adeguate, su uno sviluppo della vita professionale presidiato da regole certe ed effettivamente applicate, su un contesto capace di distinguere i meritevoli dagli incapaci, con organi del governo autonomo dediti, al centro ed in periferia, a svolgere in modo rigoroso ed imparziale i propri compiti, con dirigenti impegnati a difendere l’indipendenza degli uffici da ogni interferenza e nell’assicurare le regole di buona amministrazione, con l’opera di tutti i magistrati nell’essere custodi e garanti di queste regole e dei propri doveri senza chiudere gli occhi sui fenomeni di inefficienza, di malcostume e disimpegno che purtroppo non mancano e che non di rado per colpa di pochi espongono al discredito l’intera magistratura. Di tutto ciò è parte essenziale il sistema tabellare, che sta anche a tutti noi rendere sempre più rispondente alla sua funzione ed ai suoi scopi[14].
3. Le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario
Com’è noto, nel corso delle presente legislatura il Consiglio dei Ministri - nella precedente composizione governativa – ha approvato in data 7 agosto 2020 il “Disegno di legge recante deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati, e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” (c.d. ddl “ Bonafede”) contenente numerose previsioni, anche in materia tabellare, in particolare per ciò che concerne:
* la reintroduzione [art. 2, secondo comma lettere a) e d)] del procedimento tabellare per quanto concerne i progetti organizzativi degli uffici di Procura, sia pure con gli adattamenti suggeriti dalle peculiarità degli uffici;
* la semplificazione della procedura di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti (e delle relative modificazioni), con la previsione che essi debbano intendersi approvati qualora il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità ovvero – in caso di parere non unanime del Consiglio giudiziario – qualora il Consiglio Superiore non si esprima <<in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario [art. 2, secondo comma lett. e)”[15] ;
* la previsione inerente alla possibilità che il dirigente dell’ufficio, all’esito del quadriennio, si limiti a confermare, con provvedimento motivato, il progetto organizzativo previgente (ipotesi questa già prevista a norma dell’art. 7 della vigente circolare sull’Organizzazione degli Uffici di Procura), ferma tuttavia - è da ritenere - la necessità che il progetto sia comunque trasmesso all’organo consultivo e, successivamente al CSM;
* la durata del periodo di efficacia delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, stabilita in quattro anni;
* la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli Giudiziari di partecipare alle discussioni ed assistere alle deliberazioni relative alle valutazioni di professionalità dei magistrati, peraltro senza diritto di voto, secondo una scelta in base alla quale - come si legge nel parere del CSM - il legislatore delegante <<sembra aver voluto contemperare l’esigenza di consentire ai componenti laici, compresi gli avvocati, che, nella quotidianità del loro lavoro, sono i primi destinatari dell’azione giudiziaria e sono, quindi, in grado di apprezzare la professionalità di un magistrato, di prendere parte alla fase di valutazione, con quella di evitare che nel procedimento siano veicolati elementi ulteriori (e non verificati) rispetto a quelli già acquisiti, comprendenti, peraltro, anche le eventuali segnalazioni effettuate dagli avvocati, per il tramite del Presidente del Consiglio dell’Ordine, ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. b)>> (3, comma 1 del ddl);
* la riduzione a 37 del numero dei magistrati facenti parte della pianta organica dell’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione.
Le previsioni contenute nel ddl “Bonafede”[16] sono state modificate dalla Commissione nominata con decreto ministeriale del 26 marzo 2021 per elaborare proposte di interventi relativi alla riforma dell’ordinamento giudiziario, e presieduta dal Prof. Massimo Luciani. In particolare, per quanto concerne l’art. 2, comma 2 del dll d.d.l. AC 2681, dedicato alle tabelle di organizzazione degli uffici, la Commissione ha confermato la scelta del di reintrodurre i progetti organizzativi degli uffici requirenti, ma ha proceduto “ad una riscrittura delle sue disposizioni con l’obiettivo, da un lato, di coordinare i vari documenti di organizzazione degli uffici giudiziari (documenti organizzativi generali, progetti tabellari e progetti organizzativi, programmi di gestione) e, dall’altro, di rendere più omogenee e snelle le relative procedure di approvazione”. In particolare, alle lett. a) e b), la Commissione ha indicato “la necessità di un significativo ripensamento dei contenuti delle proposte tabellari” e con riferimento ai contenuti dei progetti organizzativi degli uffici di procura ha mantenuto “il riferimento ai criteri di priorità, specificando, tuttavia, che essi devono essere stabiliti dalla legge”. Inoltre, è stata prevista “la necessità di definire i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione “in tutti i casi” di dissenso tra magistrato e procuratore” (cfr. la relazione della Commissione).
Il nuovo comma 2 dell’art. 2 è stato quindi formulato prevedendo che, nell’esercizio della delega, il decreto o i decreti legislativi di attuazione siano adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
“a) prevedere che il presidente della corte d’appello trasmetta le proposte tabellari corredate da documenti organizzativi generali, concernenti l’organizzazione delle risorse e la programmazione degli obiettivi di buon funzionamento degli uffici, anche sulla base dell’accertamento dei risultati conseguiti nel quadriennio precedente; stabilire che tali documenti siano elaborati dai dirigenti degli uffici giudicanti, sentito il dirigente dell’ufficio requirente corrispondente e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati;
“b) prevedere che i suddetti documenti possono essere modificati nel corso del quadriennio anche tenuto conto dei piani di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, e dei programmi di cui all’articolo 37 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111; b) individuare, anche riformulando le relative disposizioni degli articoli 7-bis e 7-ter del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, il contenuto minimo delle proposte tabellari di cui alla lettera a);
“c) prevedere che il procuratore generale trasmetta i progetti organizzativi corredati da documenti organizzativi generali concernenti i criteri di organizzazione delle risorse e di programmazione degli obiettivi di buon funzionamento degli uffici; prevedere che tali documenti siano elaborati dai dirigenti degli uffici requirenti sentito il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e il presidente dell’ordine degli avvocati; prevedere che tali documenti possano essere modificati nel corso del quadriennio anche tenuto conto dei piani di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240;
“d) prevedere che il progetto organizzativo, corredato dal documento organizzativo generale, sia approvato con decreto del Ministro della Giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura, previo parere dei consigli giudiziari;
“e) stabilire che il Consiglio superiore della magistratura definisca i princìpi generali per la redazione del documento organizzativo generale e per la formazione del progetto organizzativo con cui il procuratore della Repubblica determina i criteri di cui all’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106;
“f) stabilire che il progetto organizzativo contenga in ogni caso:
“1) la costituzione dei gruppi di lavoro ove la disponibilità di risorse umane lo consente, nel rispetto della disciplina della permanenza temporanea nelle funzioni, e i criteri di designazione dei procuratori aggiunti e di assegnazione dei sostituti procuratori a tali gruppi, che valorizzino il buon funzionamento dell’ufficio e le attitudini dei magistrati;
“2) i criteri di assegnazione e di coassegnazione dei procedimenti e le tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione dei procedimenti sono di natura automatica;
“3) le misure organizzative dell’ufficio, che tengano conto degli eventuali criteri di priorità indicati dalla legge per la trattazione dei processi;
“4) i compiti di coordinamento e direzione dei procuratori aggiunti;
“5) i compiti dei vice procuratori onorari e le attività loro delegate;
“6) il procedimento di esercizio delle funzioni di assenso alle misure cautelari;
“7) i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione e la motivazione del provvedimento di revoca in tutti i casi di dissenso fra il magistrato e il procuratore della Repubblica;
“8) per le procure distrettuali, l’indicazione dei criteri per il funzionamento e l’assegnazione dei procedimenti della direzione distrettuale antimafia e delle sezioni antiterrorismo;
“9) l’individuazione del procuratore aggiunto o comunque del magistrato designato come vicario, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, con la specificazione dei criteri che ne hanno determinato la scelta;
“10) i criteri ai quali i procuratori aggiunti e i magistrati dell’ufficio si attengono nell’esercizio delle funzioni vicarie o di 16 magistratura non si esprima in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario, al quale devono essere allegati le osservazioni eventualmente proposte dai magistrati dell’ufficio e l’eventuale parere contrario espresso a sostegno del voto di minoranza. coordinamento o comunque loro delegate dal capo dell’ufficio;
“g) prevedere che i documenti organizzativi generali degli uffici, le tabelle e i progetti organizzativi siano elaborati, con cadenza quadriennale, secondo modelli standard stabiliti con delibera del Consiglio superiore della magistratura e trasmessi in via telematica; prevedere altresì che i pareri dei consigli giudiziari siano redatti secondo modelli standard, contenenti i soli dati concernenti le criticità, stabiliti con delibera del Consiglio superiore della magistratura.» coordinamento o comunque loro delegate dal capo dell’ufficio”
Sotto il profilo organizzativo occorrerà inoltre tener conto anche delle proposte elaborate da un’altra Commissione ministeriale (quella presieduta dal Prof. Francesco Paolo Giuseppe Luiso) con il compito di apportare emendamenti al ddl 1662/S/XVIII (“Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”) presentato al Senato, sempre nel corso della presente legislatura ed in altra composizione governativa, il 9 gennaio 2020.
Inserendo, infatti, previsioni (art 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies) che non figuravano nel ddl appena citato, ma che attengono ad una scelta ritenuta fondamentale sia nelle dichiarazioni programmatiche della Ministra Cartabia[17], sia nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[18], viene introdotta una dettagliata normativa in ordine all’”Ufficio per il processo”[19], indicandosi che, nell’esercizio della delega, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’ufficio per il processo istituito presso i tribunali e le corti d’appello vengano adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
* prevedere che l’ufficio per il processo, sotto la direzione e il coordinamento di uno o più magistrati dell’ufficio, sia organizzato individuando i requisiti professionali del personale da assegnare a tale struttura facendo riferimento alle figure già previste dalla legge nonché ad ulteriori professionalità da individuarsi, in relazione alla specializzazione degli uffici, sulla base di progetti tabellari o convenzioni con enti ed istituzioni esterne, demandati ai dirigenti degli uffici giudiziari;
* prevedere che all’ufficio per il processo siano attribuiti, previa formazione degli addetti alla struttura:
- compiti di supporto ai magistrati, comprendenti, tra le altre, le attività preparatorie per l’esercizio della funzione giurisdizionale quali lo studio dei fascicoli, l’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, la selezione dei presupposti di mediabilità della lite, la predisposizione di bozze di provvedimenti, il supporto nella verbalizzazione; la cooperazione per l’attuazione dei progetti organizzativi finalizzati a incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, ad abbattere l’arretrato e a prevenirne la formazione;
- compiti di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici;
- compiti di coordinamento tra l’attività del magistrato e l’attività del cancelliere;
- compiti di catalogazione, archiviazione e messa a disposizione di precedenti giurisprudenziali;
- compiti di analisi e preparazione dei dati sui flussi di lavoro;
e prescrivendosi che:
anche per la Corte di cassazione sia costituita, presso ogni sezione e presso le sezioni unite, la struttura organizzativa denominata “ufficio per il processo”, in relazione alla quale:
* individuare i requisiti professionali (anche diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti dall’articolo 16-octies, del decreto-legge n. 179/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221/2012, in coerenza con la specificità delle funzioni della Corte di legittimità) del personale che dovrà esservi assegnato[20], ed a cui attribuire, sotto la direzione e il coordinamento del Presidente o di uno o più magistrati da lui delegati, compiti:
- di assistenza per l’analisi delle pendenze e dei flussi delle sopravvenienze;
- di supporto ai magistrati, comprendenti, tra l’altro, la compilazione della scheda del ricorso, corredata delle informazioni pertinenti quali la materia, la sintesi dei motivi e l’esistenza di precedenti specifici, lo svolgimento dei compiti necessari per l’organizzazione delle udienze e delle camere di consiglio, anche con l’individuazione di tematiche seriali, lo svolgimento di attività preparatorie relative ai provvedimenti giurisdizionali, quali ricerche di giurisprudenza, di legislazione, di dottrina e di documentazione; contribuire alla complessiva gestione dei ricorsi e relativi provvedimenti giudiziali;
- di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici;
- di raccolta di materiale e documentazione anche per le attività necessarie per l’inaugurazione dell’anno giudiziario;
che presso la Procura generale della Corte di Cassazione siano istituite una o più strutture organizzative denominate “Ufficio spoglio, analisi e documentazione”, in relazione alle quali:
* individuare i requisiti professionali (anche diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti dall’articolo 16-octies, del d.l. n. 179/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221/2012, in coerenza con la specificità delle attribuzioni della Procura generale in materia di intervento dinanzi alla Corte di Cassazione) del personale che dovrà esservi assegnato[21] ed a cui attribuire, sotto la supervisione e gli indirizzi degli Avvocati generali e dei magistrati dell’ufficio, compiti:
- di assistenza per l’analisi preliminare dei procedimenti che pervengono per l’intervento, per la formulazione delle conclusioni e per il deposito delle memorie dinanzi alle Sezioni unite e alle Sezioni semplici della Corte;
- di supporto ai magistrati comprendenti, tra l’altro, l’attività di ricerca e analisi su precedenti, orientamenti e prassi degli Uffici giudiziari di merito che formano oggetto dei ricorsi e di individuazione delle questioni che possono formare oggetto del procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge previsto all’articolo 363 del codice di procedura civile;
- di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici;
- di raccolta di materiale e documentazione per la predisposizione dell’intervento del Procuratore in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
[1] Cfr. per richiami la risoluzione del Csm in data 12 luglio 2007 (“Disposizioni in materia di organizzazione degli uffici del Pubblico Ministero a seguito dell’entrata in vigore del D.L.vo 20 febbraio 2006 n. 106”).
[2] Secondo quanto, peraltro, già prescritto in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 1973.
[3] Sul nuovo assetto delle Procure, durante l’iter e dopo la riforma dell’ordinamento giudizio cfr., tra gli altri, Borraccetti, Il dirigente dell’ufficio di Procura dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario, in Questione Giustizia, 2008, 7 ss.; Idem, Note sulla controriforma annunciata del pubblico ministero, in Questione Giustizia, 2003, 680 ss.; Monetti, Spunti sulle valutazioni di professionalità dei capi degli uffici di procura, in Questione Giustizia, 2007, 677 ss.; Messineo, L’organizzazione del Pubblico Ministero, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Nannucci, L’organizzazione degli uffici di Procura, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Menditto, L’organizzazione delle Procure nella stagione della controriforma, in Questione Giustizia, 2006, 890 ss.; Amato, Procuratore e sostituti, scelte di facciata, in Guida al diritto, 2006, n. 43, 37; Albamonte, Uffici inquirenti, ecco da dove si riparte. Il procuratore capo resta padre – padrone. Interventi marginali, risultati deludenti. Al Pm serve più tutela, in Diritto e giustizia, 2006, n. 42, 115; Amato, Così il procuratore della Repubblica diventa manager della sua struttura, in Guida al diritto, 2006, 16, 22; Melillo, L’organizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero, in Il nuovo ordinamento giudiziario, a cura di D. Carcano, 2006, Milano, 217; Mura, L’ufficio del pubblico ministero, in Dir. pen. e proc., 2006, 154; Gianfrotta, L’organizzazione degli uffici del Giudice e del PM e i tempi del processo, anche nelle prospettive di riforma dell’Ordinamento giudiziario, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema: Tempo e processo penale, Roma, 10 – 12 aprile 2006; Monetti, Organizzazione del pubblico ministero e poteri di amministrazione della giurisdizione, (orientamenti del Consiglio d’Europa e situazione italiana), in Questione giustizia, 2001, 195 ss.; Diotallevi, L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero (nuovi criteri di interpretazione dell’art. 70 ordinamento giudiziario o coerente rivisitazione della disciplina esistente?), in Questione giustizia, 2000, 721. In argomento cfr. altresì, più recentemente, P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione Giustizia, 18 dicembre 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php
[4] Cfr., per la disciplina di dettaglio, il testo della circolare.
[5] Si segnalano, tra quelli degli ultimi anni, la risoluzione del 9 luglio 2014 sui “Criteri di priorità nella trattazione degli affari penali”, la delibera su “Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti” (risposta a quesito dell’11 maggio 2016); la circolare in tema di organizzazione degli uffici di Procura del 16 novembre 2017 (con la quale il CSM, nell’ambito delle sue funzioni regolamentari, ha ribadito la necessità che il potere di organizzazione dell’ufficio affidato dalla legge al procuratore della Repubblica venga esercitato secondo forme procedimentali chiare e trasparenti, condensate in particolare negli artt. 8 e 9 della circolare, in direzione di un modello di ufficio caratterizzato da criteri di efficienza, trasparenza ed efficacia, indipendenza dei magistrati del pubblico ministero, valorizzazione della loro professionalità, rispetto delle regole del giusto processo, per garantire al meglio il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale) ed alcuni provvedimenti successivi riguardanti le procure minorili.
[6] Nell’articolo 2, secondo comma del ddl AC 2681 (ddl “Bonafede”) è previsto tra l’altro che il progetto di organizzazione relativo all’ufficio del pubblico ministero contenga anche l’indicazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari. La Commissione ministeriale presieduta dal prof. Luciani (infra, par. 13) ha ritenuto di mantener fermo il riferimento ai criteri di priorità, “specificando, tuttavia, ch’essi devono essere stabiliti dalla legge” (così la Relazione) La formula con cui la proposta viene tradotta nell’articolato (i progetti organizzati dovranno tener conto “degli eventuali criteri di priorità indicati dalla legge per la trattazione dei processi” lascia il dubbio se -fermi i criteri di priorità stabiliti dalla legge – sia possibile individuarne ulteriori base all’orientamento consolidato nella normativa regolamentare del CSM: cfr., infra, la nota che segue).
[7] Negli ultimi anni il Consiglio Superiore della Magistratura è intervenuto in più occasioni sul tema dei criteri di priorità degli affari penali, con un insieme di indicazioni ai dirigenti degli uffici utili a razionalizzare la trattazione dei procedimenti e l'impiego delle risorse disponibili. Nella risoluzione del 9 luglio 2014, richiamati i precedenti consiliari, e sottolineata l'urgenza di regolare situazioni che, in quanto caratterizzate “da una oggettiva impossibilità di tempestiva trattazione di tutti i procedimenti penali pendenti, richiedono l'adozione di moduli organizzativi adeguati, al fine di evitare o la mera casualità nella trattazione degli affari (e quindi il rifiuto di ogni razionalizzazione del lavoro) oppure l'adozione di criteri di fatto disomogenei all'interno dello stesso ufficio, non verificabili e perciò più esposti ad abusi e strumentalizzazioni ", individuò una possibile soluzione organizzativa consistente nel collocare “il rischio prescrizione su di un piano paritario (e non più oggettivamente preminente, come nell’ottica abbracciata dalla risoluzione del 13 novembre 2008) rispetto agli altri criteri di individuazione di priorità ulteriori rispetto a quelle legali, costituiti dalla gravità e dalla concreta offensività del reato, dalla soggettività del reo, dal pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dall’interesse (anche civilistico) della persona offesa”: ferma restando l’esigenza di celere trattazione delle priorità legali, e la necessità di evitare qualsiasi “forma di definitivo “accantonamento” di procedimenti (così abbandonando intere categorie di reati ad un destino certo di estinzione per prescrizione)” .
L’individuazione di tali priorità (ulteriori rispetto a quelle legali), sino ad allora lasciata esclusivamente al prudente apprezzamento del singolo giudicante, avrebbe dovuto essere filtrata con atti di indirizzo rimessi alla responsabilità del capo dell'ufficio e da emanare dunque, in primo luogo. in occasione della formazione delle tabelle di organizzazione dell'ufficio e delle tabelle infradistrettuali, previo coordinamento nell’ambito della conferenza distrettuale di tutti gli uffici giudicanti e requirenti del distretto e con la partecipazione dei presidenti degli ordini forensi territoriali, o di loro delegati. Quanto agli uffici requirenti, in assenza di un sistema di tipizzazione delle priorità legislativamente predeterminato, l’individuazione di linee guida finalizzate a scongiurare l'insorgenza di ingiustificate disparità nel concreto esercizio dell'azione penale avrebbe dovuto “essere rimessa ai singoli dirigenti delle Procure della Repubblica, tenendo conto dei criteri adottati dai corrispondenti uffici giudicanti”.
Sul tema il Consiglio è tornato con la risoluzione del 17 giugno 2015 in materia di “ buone prassi “ e con quella dell’11 maggio 2016 ("Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti") in cui si osserva che le scelte organizzative e di priorità dei dirigenti degli uffici "costituiscono una corretta risposta di I efficienza, razionalità, trasparenza ed efficacia della funzione giudiziaria, pienamente rispettosa dei relativi valori costituzionali ed attuativa del principio di obbligatorietà dell'azione penale alle condizioni date", e viene sottolineata la necessità che i criteri siano adottati in sintonia tra gli uffici requirenti e giudicanti; e tali linee sono state ribadite, con un’articolata serie di indicazioni, nella circolare del 16 novembre 2017 relativa all'organizzazione degli uffici di Procura.
Sui criteri di priorità e, più in generale, di organizzazione del lavoro nelle Procure, cfr., tra gli altri, Nuovo – Pignatone, L’assegnazione dei procedimenti, i criteri di priorità, la specializzazione delle funzioni, la gestione delle misure cautelari, il coordinamento con il Tribunale, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riconversione da magistrati giudicanti a direttivi requirenti, Roma 17 – 18 marzo 2008; Nannucci, L’organizzazione degli uffici di Procura, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Petrillo, L’organizzazione dell’ufficio. Criteri di distribuzione del lavoro. La misurazione della produttività. La gestione del personale, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema L’organizzazione del lavoro dei magistrati del settore penale, Roma, 21 – 23 novembre 2005; Mannucci Pacini, L’organizzazione della Procura della Repubblica di Torino: criteri di priorità o esercizio discrezionale dell’azione penale?, in Questione giustizia, 2000, 175 ss.; Ichino. Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Questione giustizia, 1997, 287 ss.
Più recentemente Salvi, Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del pubblico ministero, in Questione Giustizia, 7 giugno 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/discrezionalita-responsabilita-legittimazione-democratica-del-pubblico-ministero; Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, ivi, 3 giugno 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/per-una-cultura-della-discrezionalita-del-pubblico-ministero: Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi ed esercizio dei poteri di vigilanza, in Diritto penale contemporaneo; Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali nelle delibere del Csm e nelle pronunce della sezione disciplinare, in Foro it., 2015, III, p.48, a cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia.
[8] Così, ad esempio, la premessa alla circolare sulla formazione delle tabelle per il triennio 2009/2011. Vedi, già, la Risoluzione del 20 aprile 2000 sulle “problematiche applicative della circolare sulle tabelle del biennio 2000/2001; risposte ai quesiti posti dagli uffici giudiziari”.
[9] Cfr., attualmente, l’art. 24 della circolare sulla formazione delle tabelle per il triennio 2029 - 2022: supra, par. 5, lett. c).
[10] La disposizione del ddl “Bonafede” (art. 2, secondo comma lett. e) che mira a semplificare la procedura di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, prevedendo che esse debbano intendersi approvate qualora il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità, mira indubbiamente a farsi carico dei problemi emersi nell’esperienza concreta in cui l’esame dei progetti organizzativi da parte del CSM avviene spesso a distanza di molto tempo dalla rispettiva formazione. Tale disposizione, tuttavia, finirebbe per incidere anche sulle prerogative dell’organo di governo autonomo, di cui non può escludersi (come viene osservato nel parere del CSM richiamato nello scritto Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc, supra, nota 9) una valutazione discordante dal parere adottato, seppure all’unanimità, dall’organo consultivo territoriale; e ciò significa non soltanto indebolire le funzioni di controllo del CSM, ma determinare un potenziale “vulnus” a quell’esigenza di unitarietà dei principi organizzativi cui è preordinato il potere regolamentare del CSM nella materia in esame. Appare dunque più congrua la soluzione, più sopra richiamata, di collegare al parere unanime del consiglio giudiziario non l’approvazione, ma l’esecutività delle tabelle.
Ad analoghi rilievi si presta la previsione del ddl secondo cui, nel caso in cui le tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti ed i progetti organizzativi degli uffici requirenti abbiano ricevuto un parere favorevole non unanime del Consiglio giudiziario, i relativi provvedimenti dovrebbero considerarsi approvati, qualora il Consiglio Superiore non si esprima <<in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario>>. Proprio in considerazione dei tempi normalmente lunghi che occorrono al Consiglio per procedere all’esame dei provvedimenti tabellari, il meccanismo del silenzio-assenso finirebbe per tradursi, nella maggior parte dei casi, in un’approvazione definitiva senza che, di fatto, il CSM abbia avuto la possibilità di svolgere le proprie funzioni di controllo.
[11] Cfr., ad es, Zan, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003, Idem, Tecnologia, organizzazione e giustizia. L’evoluzione del processo civile telematico, Bologna, 2004. Cfr, pure, AA.VV., Processo e organizzazione. Le riforme possibili per la giustizia civile, a cura di Gilardi, Milano, 2004; I magistrati e la sfida della professionalità, a cura di Bruti Liberati, in Le proposte della magistratura, Milano, 2003; Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini – Verardi, in Quaderni di Questione giustizia, Milano, 2001; L’organizzazione della giustizia: servizio o disservizio? a cura di De Ruggiero – Pinto, in Quaderni di Questione Giustizia, Milano, 1994.
[12] Su cui vedi Gilardi, Dialogo processuale e buone relazioni tra giudici e avvocati, in Questione Giustizia, 2007, fasc. 5; Breggia, Prassi e norme tra cultura e diritto, Caponi, L’attività degli Osservatorii sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, Gilardi, Appunti su una storia breve ma intensa, tutti in Questione Giustizia, 2006, 965 ss.; Cataldi, Giustizia civile, proposte di riforme e protocolli per la gestione delle udienze, ivi, 2006, fasc. 3; Breggia, L’autoriforma possibile, in La magistratura, 1/2 del 2005, 56 ss. ove è riportato anche il testo dei protocolli per le udienze elaborati da alcuni Osservatorii. Gli Osservatorii – oltre ai siti specifici di ciascuno – hanno anche un sito comune cui è possibile attingere per l’ampia raccolta di materiale elaborato in un periodo ormai molto ampio di intensa attività, ivi compresa una raccolta comparata dei vari protocolli curata alcuni anni fa dall’avv. Berti Arnoaldi Veli.
L’importanza degli Osservatorii quali tramite di una migliore organizzazione è stata chiaramente riconosciuta dal Csm, il quale al punto 2 a) della premessa della circolare relativa alla formazione delle tabelle per il triennio 2009/2001 ha previsto espressamente che il presidente del tribunale, all’interno del documento organizzativo generale, illustri il contenuto di eventuali incontri, finalizzati alla predisposizione della proposta tabellare, “con esponenti della società civile quali ad esempio rappresentanti delle istituzioni territoriali, delle organizzazioni sindacali, degli osservatori per la giustizia civile e per la giustizia penale”.
[13] Così le dichiarazioni programmatiche con le quali la Ministra Cartabia, all’indomani del suo insediamento, ha sottolineato la priorità dell’”azione riorganizzativa della macchina giudiziaria e amministrativa”.
[14] Come è stato osservato da Minniti, L'organizzazione del lavoro negli uffici giudiziari, in Questione Giustizia, n. 4/2008, per riformare l’0rganizzazione della giustizia non bastano le norme, le competenze, il riferimento ai diritti ed ai doveri, ma occorrono anche “altre parole ed altri concetti e, più precisamente, quelli per il cui tramite vengono evocate le relazioni tra soggetti che muovono verso obiettivi comuni, che fanno riferimento agli strumenti di coordinamento, ai risultati programmati e progressivamente verificati, alle prassi condivise, al presidio del risultato”, alla “responsabilità sociale della funzione giurisdizionale come sistema”.
[15] Per alcune considerazioni critiche sul punto nel parere del CSM. La disposizione del ddl “Bonafede” (art. 2, secondo comma lett. e) che mira a semplificare la procedura di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, prevedendo che esse debbano intendersi approvate qualora il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità, mira indubbiamente a farsi carico dei problemi emersi nell’esperienza concreta in cui l’esame dei progetti organizzativi da parte del CSM avviene spesso a distanza di molto tempo dalla rispettiva formazione. Tale disposizione, tuttavia, finirebbe per incidere anche sulle prerogative dell’organo di governo autonomo, di cui non può escludersi (come viene osservato nel parere del CSM richiamato nello scritto Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc, supra, nota 9) una valutazione discordante dal parere adottato, seppure all’unanimità, dall’organo consultivo territoriale; e ciò significa non soltanto indebolire le funzioni di controllo del CSM, ma determinare un potenziale “vulnus” a quell’esigenza di unitarietà dei principi organizzativi cui è preordinato il potere regolamentare del CSM nella materia in esame. Appare dunque più congrua la soluzione, più sopra richiamata, di collegare al parere unanime del consiglio giudiziario non l’approvazione, ma l’esecutività delle tabelle. Ad analoghi rilievi si presta la previsione del ddl secondo cui, nel caso in cui le tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti ed i progetti organizzativi degli uffici requirenti abbiano ricevuto un parere favorevole non unanime del Consiglio giudiziario, i relativi provvedimenti dovrebbero considerarsi approvati, qualora il Consiglio Superiore non si esprima <<in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario>>. Proprio in considerazione dei tempi normalmente lunghi che occorrono al Consiglio per procedere all’esame dei provvedimenti tabellari, il meccanismo del silenzio-assenso finirebbe per tradursi, nella maggior parte dei casi, in un’approvazione definitiva senza che, di fatto, il CSM abbia avuto la possibilità di svolgere le proprie funzioni di controllo.
[16] Su cui cfr. le considerazioni contenute nel parere del CSM richiamato nel mio Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc, citato in nota 9.
[17] Cfr. il mio ADR e proposte di riforma per la giustizia civile, in Questione Giustizia, 9 aprile 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/adr-e-proposte-di-riforma-per-la-giustizia-civile .
[18] Premesso che i progetti presentati nell'ambito del Recovery Plan <<consentono di declinare sotto diversi aspetti l’azione riorganizzativa della macchina giudiziaria e amministrativa: il rafforzamento della capacità amministrativa del sistema, che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie, e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche, diverse da quelle di natura giuridica, essenziali per attuare e monitorare i risultati dell’innovazione organizzativa; il potenziamento delle infrastrutture digitali con la revisione e diffusione dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e di trasmissione di atti e provvedimenti>>, nel PNRR l’innovazione fondamentale sotto il profilo organizzativo viene individuata nella piena attuazione dell’Ufficio del processo (introdotto nel sistema in via sperimentale con il d.l. n. 90/2014 e convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114/2014) ed il cui scopo è quello di <<affiancare al giudice un team di personale qualificato di supporto, per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio e in tutto ciò che può velocizzare la redazione di provvedimenti>>, offrendo <<un concreto ausilio alla giurisdizione>> capace di determinare <
Nel documento si specifica che le risorse, reclutate a tempo determinato con i fondi del PNRR, saranno impiegate dai Capi degli Uffici giudiziari secondo <<un mirato programma di gestione idoneo a misurare e controllare gli obiettivi di smaltimento individuati>>, che saranno create <<apposite figure professionali con specifiche mansioni e compiti (addetti all’ufficio del processo, operatori data entry etc.>> e che <<nel lungo periodo, al fine di non disperdere lo sforzo e i risultati conseguiti con lo straordinario reclutamento temporaneo di personale>>, verrà verificata la possibilità di rendere operativa in via permanente la struttura organizzativa così costituita al fine di mantenerne inalterata composizione e funzione.
Alle risorse reclutate con contratto a tempo determinato nell’ambito del Recovery saranno poi riconosciuti titoli preferenziali e una riserva di quota nei concorsi che verranno effettuati dal Ministero e da altre pubbliche amministrazioni; ed allo scopo di garantire la speditezza del reclutamento, l’Amministrazione procederà alle assunzioni mediante concorsi pubblici per soli titoli, da svolgere su basi distrettuali.
[19] L’ufficio per il processo (“UPP”) trova attualmente disciplina in una serie frastagliata e disomogenea di testi di legge e di provvedimenti di normativa secondaria, richiamati nella relazione della Commissione ministeriale. Per contributi sul tema, anteriori alle proposte in considerazione, cfr. tra gli altri M. Ciccarelli, I mobili confini di un possibile Ufficio per il processo, in Questione Giustizia, 25 novembre 2020 https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-mobili-confini-di-un-possibile-ufficio-per-il-processo; Braccialini, L’Ufficio per il processo tra storia, illusioni, delusioni e prospettive, in Questione Giustizia, 1 giugno 2020 (http://questionegiustizia.it/articolo/l-ufficio-per-ilprocesso-tra-storia-illusioni-delusioni-e-prospettive_01-06-2020.php) nonché il documento in data 2 aprile 2021 di AreaDG “Dieci proposte per la riforma della Giustizia civile” (https://www.areadg.it/articolo/dieci-proposte-per-la-riforma-della-giustizia-civile).
[20] Dovrà esservi destinato personale assunto a tempo determinato, all’esito di adeguata selezione, tra: coloro che abbiano conseguito il titolo di dottore di ricerca in materie giuridiche o economiche; assegnisti di ricerca nelle stesse discipline; coloro che, presso la Corte di cassazione o gli uffici giurisdizionali di merito, abbiano svolto con profitto il tirocinio formativo a norma dell’articolo 73 d.l.n. 69/2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/2013 o la formazione professionale dei laureati a norma dell’articolo 37, comma 5, del d.l. n. 98/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111/2011; avvocati iscritti all’albo da non più di cinque anni, i quali, durante il periodo di impegno presso la Corte di cassazione, vengono sospesi o cancellati dall’albo, con possibilità di reiscrizione al termine del periodo; i laureati da un numero limitato di anni, anche in possesso di titoli specifici post lauream. Della struttura dovranno far parte, altresì, coloro che svolgono, presso la Corte di cassazione, il tirocinio formativo a norma dell’articolo 73 del d.l. n. 69/2013 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/2013 o la formazione professionale dei laureati a norma dell’articolo 37, comma 5, d.l.n. 98/2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111/2011; personale amministrativo con competenze specifiche, anche informatiche.
[21] Si tratta di personale analogo a quello previsto per la Corte di cassazione (cfr. G.Gilardi, La gestione degli uffici giudiziari a Milano, in Questione Giustizia, 1986, 331 ss.).
Le Sezioni Unite (sent.n.24413/2021) si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro
di Rita Russo
Sommario: 1. L’ordinanza di rimessione e le ricadute sistemiche delle modifiche normative introdotte con il D.L. 130/2020 - 2. La protezione umanitaria e la sua evoluzione - 3. Il giudizio di comparazione attenuato - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’ordinanza di rimessione e le ricadute sistemiche delle modifiche normative introdotte con il D.L. 130/2020
Con la sentenza depositata il 9 settembre 2021 (n. 24413) le sezioni unite della Suprema Corte tornano a pronunciarsi sulla protezione umanitaria, uno dei temi più complessi del sistema di asilo.
Con ordinanza n. 28316/2020 la sezione sesta (prima civile) aveva rimesso gli atti, evidenziando quale questione di massima di particolare importanza la configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, alla stregua del testo del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, "quando sia stato allegato ed accertato il "radicamento" effettivo del cittadino straniero, fondato su decisivi indici di stabilità lavorativa e relazionale, la cui radicale modificazione, mediante il rimpatrio, possa ritenersi idonea a determinare una situazione di vulnerabilità dovuta alla compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU, sulla base di un giudizio prognostico degli effetti dello "sradicamento" che incentri la valutazione comparativa sulla condizione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza, con attenuazione del rilievo delle condizioni del paese di origine non eziologicamente ad essa ricollegabili".
Le ragioni di tale rimessione sono riferite alla centralità assunta dall’art. 8 della Convenzione Edu (tutela della vita privata e familiare) e alle ricadute sistematiche delle modifiche introdotte dal D.L. 130/2020 che all'art.19 introduce un ulteriore divieto di respingimento “quando ciò comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute”.
In altre parole ci si chiede se anche la “vecchia” protezione umanitaria, definita dal testo dell’art. 5 previgente alle modifiche introdotte dal D.L. 113/2018 e applicabile a tutte le domande proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) del medesimo decreto legge, debba essere oggi riletta, alle luce delle ultime modifiche legislative e assegnando all’art 8 della Convenzione Edu un particolare rilievo.
La questione non è di poco momento, perché se da un lato la giurisprudenza di legittimità è salda nell’attribuire rilevanza ai legami familiari ai fini della valutazione del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari[1], un approccio ermeneutico ancora più centrato sull’art. 8 consentirebbe di estendere la misura protettiva anche ad altri aspetti della vita privata che non costituiscono relazioni familiari e cioè a tutti quei casi in cui il radicamento del soggetto del territorio determina “una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all'inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell'alveo applicativo dell'art. 8”.
Si consideri inoltre che, utilizzando il parametro dell’art. 8 della Convenzione Edu anche lo stesso concetto di relazione familiare si amplia, perché il riferimento non è solo alla idea di famiglia fondata sul matrimonio di cui all’art 29 Cost. ma a quello più ampio e mobile dato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; ciò in particolare è rilevante per le famiglie di fatto, per le unioni same sex, e per i c.d. legami limping (come i rapporti tra genitori intenzionali e figli non biologici che non trovano riconoscimento giuridico, ma potrebbero comunque avere un solido rapporto de facto)[2].
L’ordinanza di rimessione, nell’ottica di una lettura unitaria della protezione residuale, propone, in sostanza, di intendere la vulnerabilità meritevole di protezione come perdita di ciò che lo straniero sarebbe costretto a lasciare in Italia, a nulla rilevando ciò che egli troverebbe nel suo Paese di origine.
Le sezioni unite, tuttavia scelgono di porsi in linea di continuità con la precedente giurisprudenza, precisando che per ricostruire i confini della protezione umanitaria (quella cioè definita dall’art 5 nella formulazione previgente al D.L. 113/2018) non possono utilizzarsi argomentazioni fondate sulla nuova disciplina (D.L. 130/2020) - quand'anche centrata sulle implicazioni sistematiche (invece che sui diretti effetti dispositivi) della stessa, diversamente si andrebbe contro l’espressa disposizione di legge che individua i procedimenti nei quali la disciplina dettata dallo stesso decreto trova applicazione. Si afferma così con estrema chiarezza che non è possibile ricostruire la disciplina applicabile ad una determinata fattispecie sulla base di disposizioni che a tale fattispecie risultino ratione temporis inapplicabili.
Ciononostante, le sezioni unite rendono importanti precisazioni sulla protezione umanitaria (nel testo dato dall’art 5 del D.lgs. 286/1998 anteriore al DL 113/2018) chiarendo in relazione a quali parametri debba accertarsi quella condizione di vulnerabilità idonea a fondare il rilascio del permesso di soggiorno.
2. La protezione umanitaria e la sua evoluzione
Distinta dalla protezione internazionale in senso stretto, che comprende le misure del rifugio e della protezione sussidiaria, la protezione umanitaria è una protezione nazionale, e non è regolata dal diritto dell'Unione Europea, che si limita a lasciare agli Stati membri la facoltà di riconoscerla.
La Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.12.2008, all'art. 6, par. 4, prevede infatti che gli Stati possano rilasciare in qualsiasi momento, "per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura", un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno è irregolare. L'art. 3 della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13.12.2011 (c.d. direttiva "qualifiche") consente l'introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché non incompatibili con la direttiva medesima.
Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha sottolineato come gli Stati membri possano riconoscere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa Europea, purché non modifichino i presupposti e l'ambito di applicazione della disciplina derivata dell'Unione[3].
È bene però chiarire che la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una protezione “caritevole”, ma come una misura di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale [4].
Si è quindi affermato che questa misura è una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, riferibile a un “catalogo aperto” legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano potevano avere l’eziologia più varia, senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria [5].
Nella elaborazione giurisprudenziale della protezione umanitaria segna uno spartiacque la sentenza della Suprema Corte n. 4455/2018, la quale elabora la regola del giudizio di comparazione, secondo il quale il giudice deve operare una valutazione comparativa al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[6].
Questo principio è stato poi confermato e ulteriormente precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 2945/2019, ove si rileva che nell’individuare i presupposti utili per il riconoscimento della protezione umanitaria non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l'alimentano. In particolare, osserva la Suprema Corte “gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali”[7]. Ne consegue che, l'apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni e che si tratta di una misura che le cui basi normative non sono affatto fragili, ma “a compasso largo” atteso che l'orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell'art. 8 della Convenzione Edu, promuove l'evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l'attuazione. Snodo fondamentale di questa sentenza pertanto è la presa di posizione contro la pretesa di rendere tipiche le misure di protezione, ma al tempo stesso il rigoroso richiamo ai diritti umani e non a qualsivoglia pretesa di stabilizzazione sul territorio.
Questi principi chiaramente segnano uno spartiacque rispetto alle prime prassi di riconoscimento di protezione umanitaria su base eccessivamente discrezionale per il solo fatto del radicamento, o solo in ragione delle criticità del paese di provenienza e legano la protezione umanitaria non solo all’art. 10, ma anche all’art. 2 Cost. Sicché dal 2018 in poi la protezione umanitaria seppure misura atipica, resta saldamente ancorata ai valori costituzionali e non a ragioni “caritatevoli” o a discrezione assoluta del giudice.
Nonostante questa elaborazione rigorosa, la rilevanza statistica di questa misura ha contribuito a diffondere l’idea che la protezione umanitaria fosse riconosciuta con eccessiva larghezza a migranti meramente economici ovvero anche a soggetti immeritevoli, e da qui il progetto di abrogarla, realizzato con il decreto sicurezza del 2018.
Con il D.L. 113/2018 abolendo la dicitura “motivi umanitari” nell’art. 5 comma 6 del D.lgs. 286/1998 il legislatore ha chiaramente espresso un disfavore verso un eccessivo uso della discrezionalità, - pur se invero già destinata ad essere temperata dalla applicazione dei principi sopra enunciati - nel manifesto intento di tipizzare le misure di protezione complementare; tuttavia al tempo stesso l’autorevole richiamo del Presidente della Repubblica ha chiarito che lo Stato non si può esimere dalla tutela di diritti costituzionalmente protetti (o protetti da convenzioni internazionali).
Ed invero, un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, non può considerarsi interamente attuativo dei principi costituzionali, con la conseguenza che all’indomani dell’emanazione del D.L. 113/2018 si è da molti ipotizzato un ritorno all’applicazione diretta dell’art 10 Cost. [8].
Sul punto è comunque nuovamente intervenuto il legislatore e nell’attuale versione dell’articolo 5, comma 6, T.U.I., che non ripristina quella parte di testo che costituiva il principale fondamento della protezione umanitaria “a catalogo aperto” ma tuttavia richiama di nuovo espressamente gli obblighi costituzionali e internazionali, sembra superata l’idea della tassatività e tipicità legislative delle misure di protezione, sul presupposto che la varietà della situazioni umane comportano casi nei quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali e complementari tipizzate dal legislatore.
Se di una tipizzazione si può oggi parlare, essa deve intendersi come delimitata non strettamente dalle ipotesi legislative, ma dalle norme di rango superiore a quelle legislative e cioè dalla Costituzione, dalle norme eurounitarie e dal paramento interposto della Convenzione Edu.
Nello stesso senso oggi si esprimono anche le sezioni unite, le quali con la sentenza in esame osservano che con la reintroduzione, nell'art. 5 T.U.I., della clausola di salvaguardia del rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, il D.L. n. 130 del 2020 ha rinforzato l'attuazione del diritto costituzionale di asilo di cui all'art. 10 Cost., comma 3. A questo richiamo infatti non può attribuirsi altro senso, se non lo si voglia degradare a mero orpello retorico, che quello di segnalare la possibilità di situazioni nelle quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali introdotte dal D.L. n. 113/2018 e incrementate dallo stesso D.L. n. 130/2020.
3. Il giudizio di comparazione attenuato
In questo quadro normativo così variegato, la sentenza in esame conferma - ai fini della interpretazione dell’art. 5 comma 6 cit. ratione temporis applicabile alle domande introdotte prima del 5 ottobre 2018 - la validità del giudizio di comparazione, criterio già elaborato dalla prima sezione nel 2018, rendendo però delle importanti precisazioni.
Si è affermato che la necessità di una comparazione discende, nella prospettiva della sentenza n. 4455/2018, dal rilievo che "i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un'effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)" implicitamente valorizzando, e ciò nella medesima prospettiva successivamente recepita dal D.L. n. 130 del 2020, il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8 della Convenzione Edu, quale prerequisito di una "vita dignitosa"; diritto, che peraltro è inscindibilmente connesso alla dignità della persona, riconosciuto nell'art. 3 Cost., ed al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell'art. 2 Cost.
Così richiamati i parametri costituzionali, le sezioni unite hanno ulteriormente confermato l’orientamento già espresso nel 2019, e cioè il collegamento tra la tutela umanitaria e i diritti fondamentali riconosciuti alla persona umana dalla Costituzione e dalle Carte internazionali.
Con la sentenza odierna tuttavia, si fa un ulteriore passo avanti, affermando che per centrare il focus della comparazione sul rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo quali definiti nelle Carte sovranazionali e nella Costituzione italiana, viene in primo luogo in rilievo il disposto dell'art. 8 della Convenzione Edu, centrale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e la condizione di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia.
L’art. 8 della Convenzione Edu non tutela solo le relazioni familiari ma anche la vita privata dell’individuo e come ha chiarito la Corte di Stasburgo[9], e tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono fanno parte integrante della nozione di "vita privata" ai sensi dell'art. 8, indipendentemente dall'esistenza o meno di una "vita familiare".
La protezione offerta dall'art. 8 concerne, dunque, l'intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia; relazioni familiari, ma anche affettive e sociali, come le esperienze di carattere associativo che il richiedente abbia coltivato, le relazioni lavorative ma anche in genere le relazioni economiche (come i rapporti di locazione immobiliare). Tutti questi aspetti, che in una parola sola possono definirsi come “radicamento” nel contesto sociale, concorrono a comporre la "vita privata" di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, "sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Questa notazione consente alla Corte di recuperare il riferimento all’art. 2 Cost., nella necessaria considerazione della dimensione costituzionale nazionale del diritto alla protezione umanitaria, funzionale ad illuminare il senso della valutazione comparativa che i giudici di merito dovranno svolgere ai fini del riconoscimento del diritto al soggiorno per motivi umanitari.
Le indicazioni date dalla Suprema Corte ai giudici di merito sono piuttosto specifiche: si afferma infatti che deve essere valutato non solo il rischio di danni futuri - legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine - ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita.
Particolare attenzione merita poi il recepimento e l’ulteriore elaborazione di un orientamento che si era già affermato nelle sezioni semplici con riferimento ai soggetti che sono specialmente vulnerabili per avere subito esperienze traumatiche, anche nei paesi di transito[10]: la regola della comparazione attenuata o, come la chiamano le sezioni unite, la relazione di proporzionalità inversa. Le sezioni unite non si limitano a condividere il principio, ma lo sussumo in termini generali quale paradigma del giudizio di comparazione; la regola travalica quindi i confini della casistica legata ai traumi severi (violenze sessuali, torture) e diviene principio di diritto potenzialmente applicabile ad ogni caso in cui l’esperienza di radicamento si connoti per la sua intensità.
Si conferma dunque il principio che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l'esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato; con la precisazione, tuttavia, che tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alle condizioni soggettive e oggettive del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano.
Se vi è un radicamento forte sul territorio le condizioni soggettive e oggettive del paese di origine assumono una rilevanza minore; non va dunque considerato se le condizioni del paese di origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali in evidenza, ma se lo è il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che l’interessata ha conseguito in Italia e ciò che irrimediabilmente perderebbe tornando nel paese di origine.
In sintesi il principio di diritto è formulato nel senso che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d'origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione Edu, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno.
Non manca neppure una indicazione casistica, perché la Corte esemplifica cosa debba intendersi per radicamento. Il livello elevato d'integrazione effettiva nel nostro Paese è desumibile da indici socialmente rilevanti e tra essi la titolarità di un rapporto di lavoro, anche se a tempo determinato, la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento.
4. Considerazioni conclusive
Nella sentenza in esame si percepisce e si apprezza lo sforzo per dare indicazioni chiare ai giudici di merito sui presupposti per riconoscere il permesso di soggiorno per motivi umanitari, elaborando dei principi che possono, con gli opportuni aggiustamenti, tornare utili anche nella futura applicazione della protezione complementare ai sensi dell’art 5 comma 6 come modificato dal D.L. 130/2020.
Sebbene la Corte esplicitamente dichiari che sta applicando la previgente normativa, senza considerare le ricadute sistemiche della modifica legislativa, è tuttavia evidente che il riferimento all'art. 8 della Convenzione Edu, bilanciato anche da un forte richiamo ai principi costituzionali nazionali, può costituire un trait d'union con le (future) elaborazioni giurisprudenziali sulla protezione complementare.
In sintesi, sono due i tratti salienti della sentenza: la conferma del criterio del giudizio di comparazione con la importante precisazione della regola della proporzionalità inversa, che opera in senso bidirezionale e cioè sia quando vi è un importante il radicamento sul territorio italiano, sia quando è grave la lesione dei diritti fondamentali che ricorrente rischia nel paese di origine; e la indicazione casistica sugli indici di integrazione sociale. In particolare merita attenzione l'affermazione che anche un contratto di lavoro a tempo determinato - poiché questa è la modalità odierna di accesso al lavoro più frequente - può costituire un indice di integrazione sociale, così come altri rapporti economici e non economici quali l'associazionismo o la titolarità di un contratto di locazione; particolare importanza poi, nell'ambito dei rapporti familiari, è data alle famiglie con figli, specie ove questi siano inseriti nel sistema scolastico nazionale, anche semplicemente per la scuola materna.
La sentenza rappresenta quindi uno snodo fondamentale per raggiungere una apprezzabile uniformità sui criteri da applicare alla protezione umanitaria, onde evitare da un lato una indiscriminata estensione della misura, che resta pur sempre uno strumento a tutela dei diritti fondamentali e non una forma di sanatoria degli ingressi illegali nel paese; dall’altro scongiurare l’eccessivo rigore, soprattutto nell’accertare la gravità della lesione dei diritti fondamentali nel paese di origine, con il conseguente rischio di sovrapporre la misura di protezione complementare alle protezioni c.d. maggiori, privandola così della sua autonomia.
[1] Cass. civ. sez. II Ord. n. 5506 del 26/02/2021; Cass. civ. sez. I, Ord. n. 1347 del 22/01/2021
[2] Si veda ad es. Corte EDU Paradiso e Campanelli c. Italia, 27/1/2015 e sullo stesso caso Corte EDU Grande Camera, 24/1/2017 entrambe in hudoc.echr.coe.int. La Corte riconosce che può essere tutelata anche la vita familiare di fatto tra uno o due adulti ed un minore, pur in assenza di un legame biologico o di un chiaro fondamento normativo, purché sussistano però legami personali genuini (relazione familiare de facto) Sulle relazioni omoaffettive si veda Corte EDU 24/6/2010, Schalk e Kopf c. Austria, hudoc.echr.coe.int
[3] CGUE 9.11.2010, Germania c. B. e D., C-57/09, C-101/09, in https://curia.europa.eu
[4] Cass., sez. un., n. 19393 del 09/09/2009
[5] Cass. civ. sez. I, Ord. n. 23604 del 09/10/2017; Cass. civ. sez. I n. 28990 del 12/11/2018; Cass. civ. sez. I , Ord. n. 1104 del 20/01/2020.
[6] Cass. civ. sez. I n. 4455 del 23/02/2018.
[7] Cass. civ. sez. un. n. 29459 del 13/11/2019
[8] Sul punto si rinvia a R. Russo I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti, in questa Rivista, 10 gennaio 2020.
[9] Corte EDU EDU 14/02/2019 Narijs c. Italia, in hudoc.echr.coe.int
[10] Si veda Cass. civ. sez. I - Ord. n. 1104 del 20/01/2020, citata dalle stese sezioni unite: “Il confronto tra il grado di integrazione effettiva raggiunto nel nostro paese e la situazione oggettiva del paese di origine deve essere effettuato secondo il principio di "comparazione attenuata", nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il "secundum comparationis", non potendo, in particolare, escludersi il rilievo preminente della gravità della condizione accertata solo perché determinatasi durante la permanenza nel paese di transito”. In senso conforme: Cass. civ. Sez. VI- I, Ord. n. 8990 del 31/03/2021; sez. I, Ord. n. 13565 del 02/07/2020; sez. I, Ord. n. 13096 del 15/05/2019; sez. VI -I, Ord. n. 12649 del 12/05/2021.
Il problematico obbligo di green pass per lavoratori pubblici e privati (magistrati compresi)
di Marcello Basilico
Preceduto da spifferi e anticipazioni, è entrato in vigore il decreto legge che vincola i lavoratori pubblici e privati a dotarsi del certificato verde per accedere ai luoghi di lavoro. È una disciplina non del tutto consonante con quella dei lavoratori della scuola, che ha fatto da apripista in materia. Il legislatore dimostra così ancora una volta di procedere per approssimazioni progressive. In questo quadro le misure per gli uffici giudiziari e per i magistrati non si distinguono per chiarezza di contenuti e d’intenti.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il decreto legge - 3. L’obbligo di certificazione nei luoghi di lavoro - 4. L’obbligo di certificazione per i lavoratori della PA - 5. L’obbligo per i magistrati - 6. Obblighi ed esenzioni per il personale operante negli uffici giudiziari diverso dai magistrati.
1. Introduzione
È legge l’obbligo di green pass nel mondo del lavoro, nella pubblica amministrazione e, per potere accedere agli uffici giudiziari, per i magistrati. Sulla Gazzetta Ufficiale del 21 settembre è stato infatti pubblicato il decreto legge 127/2021 intitolato “Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde Covid-19 e il rafforzamento del sistema di screening”.
2. Il decreto legge
Il testo del provvedimento abbraccia vari aspetti della battaglia pubblica anti Covid. La tecnica legislativa continua a essere quella della sovrapposizione normativa, attraverso interpolazioni di (o rinvii a) disposizioni precedenti. Fatti salvi il 6 e l’8 del d.l. 127/2021, tutti gli altri articoli contengono soltanto modifiche o integrazioni di discipline già vigenti[1]. Come sempre ne deriva il risultato di una lettura faticosa cui seguono operazioni d’interpretazione inevitabilmente complicate.
Oltre alle misure dettate per i luoghi di lavoro pubblici e privati, il decreto contiene alcune norme di rilievo generale: l’obbligo di somministrazione di test antigienici rapidi e a prezzo calmierato per farmacie e strutture sanitarie convenzionate, autorizzate o accreditate (art. 4); modifiche a validità e durata delle certificazioni verdi (art. 5); adozione di misure per sport e attività del tempo libero (artt. 6 e 8); potenziamento del servizio di contact center per le certificazioni verdi.
Traspare anche da queste disposizioni l’idea dell’estensione graduale del green pass, individuato come strumento primario di contrasto alla pandemia, sempre più a fianco del cittadino nelle sue occupazioni primarie e nel suo tempo extralavorativo .
Significative appaiono sotto questo profilo la nuova calibrazione dell’efficacia della certificazione rispetto alle previsioni del d.l. 52/2021, che già erano state riadattate in sede di conversione con la legge n. 87 del 17 giugno scorso, e le previsioni di nuove spese dedicate ai tamponi rapidi gratuiti.
Questi ultimi sono previsti sino al 31 dicembre prossimo per coloro che non possano vaccinarsi o completare la vaccinazione sulla base della certificazione medica idonea, prescritta dall’art. 3, terzo comma, d.l. 105/2021 (conv. nella legge 126/2021) e rilasciata secondo i criteri stabiliti dal Ministero della salute[2].
Pur se previsto dunque per casi ancora eccezionali, l’accesso gratuito ai test antigenici rappresenta una prima e probabilmente provvisoria risposta alla questione – posta con toni apparentemente vibranti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori – del “chi pagherà” i tamponi ai quali dovranno sottoporsi i dipendenti che dal 15 ottobre volessero accedere ai loro luoghi di lavoro senza essersi vaccinati. Va ricordato che, ai sensi dell’art. 9, secondo comma, d.l. 52/2021 (conv. in l. 87/2021), la certificazione verde Covid-19 attesta l’effettuazione con esito negativo al virus SARS-CoV-2, del test antigienico, rapido o molecolare, in alternativa al completamento del ciclo vaccinale e all’avvenuta guarigione da Covid con contestuale cessazione dell’isolamento prescritto.
3. L’obbligo di certificazione nei luoghi di lavoro
La novità di maggiore impatto nel d.l. 127 è costituita dall’introduzione dell’obbligo di green pass per chi svolga un’attività lavorativa presso la pubblica amministrazione o in settori privati.
Per i lavoratori pubblici l’osservanza della prescrizione (art. 1, primo comma) condiziona l’accesso “ai luoghi di lavoro, nell’ambito del territorio nazionale, in cui il predetto personale svolge l’attività lavorativa”; per quelli privati (art. 3, primo comma) l’obbligo è posto per accedere “ai luoghi in cui la predetta attività è svolta”. La differenza testuale nelle due norme è solo apparente. In entrambe non sembra tenersi conto del lavoro a domicilio, in modalità agile o smart working. Si direbbe che l’obbligo possa essere escluso per chi renda la prestazione nell’abitazione e comunque non in presenza di altri lavoratori, risultando ingiustificato sulla base della finalità che si vede enunciata in premessa di ambedue le disposizioni.
Sono tenuti a possedere e, a richiesta, esibire il green pass non solo i lavoratori subordinati, ma tutti i soggetti che negli ambienti predetti svolgano un’attività di lavoro, di formazione o di volontariato, “anche sulla base di contratti esterni” (secondo comma degli artt. 1 e 3).
Quest’ultima, atecnica, espressione evoca il lavoro reso a vantaggio di terzi soggetti. Essa consente dunque di ritenere compresi tra i destinatari del precetto anche i lavoratori impiegati in somministrazione o in esecuzione di appalto che operino comunque nei luoghi individuati dal primo comma degli artt. 1 e 3. Il riferimento alla casistica contrattuale in cui si registra la scissione tra datore e utilizzatore della prestazione è confermato dal quarto comma dei due articoli, che obbliga i “rispettivi datori di lavoro” – diversi da quelli del primo comma – a esercitare verifiche autonome sul possesso della certificazione da parte dei propri dipendenti.
L’estensione colma una lacuna, avvertita dalla gran parte dei commentatori, presente nella disciplina relativa agli ambienti sanitari, giacché all’obbligo di vaccinazione introdotto per i professionisti e gli operatori del settore non corrispondevano obblighi o oneri di sicurezza in capo a quanti, pur non rientrando nelle categorie individuate, frequentavano stabilmente gli stessi luoghi di lavoro. Il pensiero correva ai lavoratori delle mense ospedaliere o delle imprese di pulizia in appalto.
Le disposizioni dell’art. 4 d.l. 44/2021 (conv. 77/2021) erano tese, del resto, a individuare le categorie di lavoratori obbligati; gli interventi normativi successivi, a cominciare dalla disciplina scolastica[3], identificano invece la platea dei soggetti obbligati (al green pass) per settori di attività: ecco un altro, ennesimo, indice dell’avanzamento progressivo del legislatore nella predisposizione delle misure emergenziali all’interno del mondo del lavoro.
Il d.l. 127/2021 ripropone l’esenzione dall’obbligo per i soggetti ai quali sia preclusa, per apposita certificazione medica, la facoltà di vaccinarsi (terzo comma degli artt. 1 e 3). Ripropone altresì l’apparato di disposizioni inaugurato per il settore scolastico, in punto di obblighi di verifica in capo ai datori di lavoro (quarto comma degli artt. 1 e 3) e di sanzioni amministrative a carico di coloro – lavoratori e datori – che abbiano violato le prescrizioni loro rispettivamente imposte (art. 1, settimo e ottavo comma; art. 3, ottavo e nono comma).
Vengono inoltre replicate, sul fronte del rapporto lavorativo, l’equivalenza tra assenza ingiustificata e difetto del green pass nonché la scelta di neutralità di tale condotta sul piano disciplinare (sesto comma degli artt. 1 e 3).
Ha invece rilievo disciplinare – oltre a essere sanzionato in via amministrativa, come detto – la differente condotta di accesso al luogo di lavoro in assenza di certificazione (art. 1, settimo comma; art. 3, ottavo comma).
Questo comportamento avrebbe trovato una sanzione già in base alle norme comuni, realizzando la violazione dei doveri di diligenza enucleati dall’art. 2104 c.c. e dei più generali doveri di collaborazione connessi alle modalità della prestazione. Pur tuttavia la precisazione pare opportuna al fine di sgombrare il campo da equivoci rispetto al trattamento della (diversa) fattispecie della mancata titolarità della certificazione.
Soltanto per i dipendenti d’imprese con meno di quindici dipendenti, però, scatta dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata la sospensione dal servizio (e dalla retribuzione). L’art. 3, settimo comma, con l’espressione “può sospendere”, sembra rimettere alla facoltà del datore un intervento che invece nell’ambito scolastico e universitario l’art. 9-ter, secondo comma, d.l. 52/2021 rende automatico.
Per tutti gli altri lavoratori privati e per quelli pubblici non è invece previsto un provvedimento di sospensione. A livello retributivo l’effetto non è diverso, giacché per ogni giorno di assenza conseguente alla mancanza di green pass non spetta comunque il compenso.
4. L’obbligo di certificazione per i lavoratori della PA
L’art. 1 d.l. 127/2021 ha cura di precisare – principalmente mediante il richiamo agli artt. 1, secondo comma, e 3 del d. lgs. 165/2001 – che il nuovo obbligo vale per tutti gli enti pubblici e per tutto il personale pubblico, sia esso contrattualizzato o meno. Si cerca d’includere in un regime analogo persino i soggetti titolari di cariche elettive o istituzionali di vertice nonché gli organi costituzionali (art. 1, undicesimo e dodicesimo comma).
La portata totalizzante di queste misure rende ancora più sintomatico il fatto che si sia voluta inserire una disciplina speciale per i magistrati negli uffici giudiziari (art. 2), tanto più se si considera che, altrimenti, essi sarebbero stati indubitabilmente assoggettati al regime pubblicistico generale.
Quest’ultimo merita ancora qualche annotazione, prima di soffermarsi sulla posizione del personale di magistratura.
Va innanzi tutto rimarcata, tenuto conto della tempistica che generalmente connota l’attività in molte Amministrazioni, l’imminenza del termine del 15 ottobre, entro cui ogni ente dovrà approntare l’organizzazione delle verifiche, prevedendo se possibile controlli “al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro” e individuando con atto formale i soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni di rilievo amministrativo. La scadenza appare ancora più ravvicinata se si considerano la tendenziale omogeneità delle modalità organizzative (art. 1, quinto comma, seconda parte) e l’invarianza finanziaria prevista per gli interventi organizzativi che si renderanno necessari (art. 1, tredicesimo comma).
Per espressa previsione (art. 1, decimo comma), nei confronti dei magistrati collocati fuori ruolo presso altre amministrazioni pubbliche si applicano le disposizioni dettate per la magistratura dall’art. 2. Ciò denota in primo luogo l’attenzione riservata dal legislatore alla categoria indipendentemente dal luogo di prestazione effettiva dell’attività. Quand’anche l’assimilazione dei fuori ruolo fosse dettata da preoccupazioni di parità di trattamento, si potrebbe dubitare della sua ragionevolezza, poiché, in materia di sicurezza e prevenzione del pericolo di diffusione del contagio, la loro situazione non è automaticamente assimilabile a quella dei magistrati in servizio negli uffici giudiziari.
La medesima norma del decimo comma consente inoltre di escludere, per ragionamento a contrario, che nei confronti del personale alle dipendenze di altre Amministrazioni e collocato fuori ruolo valgano disposizioni diverse da quelle generali.
5. L’obbligo per i magistrati
Tutti i magistrati, non solo quelli ordinari e non solo quelli professionali, sono tenuti a possedere la certificazione verde per accedere agli uffici giudiziari (art. 2, primo e quarto comma).
Come per gli altri lavoratori, l’assenza dall’ufficio per difetto di certificazione configura assenza ingiustificata, con perdita della retribuzione (secondo comma). La norma merita due rilievi.
Il primo – estensibile a ogni lavoratore di categoria dirigenziale e comunque non tenuto all’osservanza di un orario di lavoro o a obblighi di presenza – attiene all’accertamento dei casi di “assenza dall’ufficio conseguente alla carenza ..” del green pass: è evidente infatti che tale verifica sarà difficile quando il lavoratore non sia chiamato da impegni cogenti in ufficio; la violazione sarà più facilmente accertabile quando tali impegni siano previsti. Il caso più eclatante è rappresentato per il magistrato dalla presenza in udienza. Potrebbero rivelarsi fonte d’incertezza i turni di reperibilità, quando in concreto egli non venga chiamato ad accedere all’ufficio.
Può non essere superfluo sottolineare che siffatte considerazioni hanno lo scopo di testare la tenuta d’una disposizione nel quadro normativo o rilevarne profili di controvertibilità interpretativa o applicativa. Hanno dunque l’ambizione di fornire un contributo schiettamente giuridico, senza con ciò assecondare e, tanto meno, suggerire possibili comportamenti speculativi. Riteniamo al contrario che l’emergenza pandemica, prima ancora che la disciplina e l’onore che si richiedono a quanti esercitano pubbliche funzioni, ci richiami tutti ad atteggiamenti improntati alla massima solidarietà ed al più rigoroso senso di responsabilità
Il secondo rilievo deriva dalla mancata riproposizione, nella norma dell’art. 2, secondo comma, che qualifica l’assenza come “ingiustificata”, della puntualizzazione “senza conseguenze disciplinari”, presente invece nelle omologhe disposizioni degli artt. 1 e 3, rispettivamente per gli altri dipendenti pubblici e per i lavoratori privati.
Si potrebbe ipotizzare che l’omissione sia collegata alla tipicità degli illeciti disciplinari del magistrato. Nel catalogo dettato dal d. lgs. 109/2006, non c’è la fattispecie dell’assenza ingiustificata, che invece è sistematicamente contemplata nei codici disciplinari delle altre categorie di lavoratori. Ciò renderebbe superflua la precisazione che il legislatore ha viceversa ritenuto di dovere inserire negli altri articoli del decreto.
Questa possibile spiegazione non è tuttavia rassicurante, poiché la mancanza del certificato verde potrebbe pur sempre configurare per il magistrato, in presenza d’un precetto positivo che lo renda obbligatorio, “grave violazione di legge determinata da .. negligenza inescusabile” (lett. g) o “grave inosservanza delle .. disposizioni sul servizio giudiziario” (lett. n) o sottrazione ingiustificata all’attività di servizio (lett. r), a seconda delle situazioni in cui venga accertata[4].
È noto peraltro che il legislatore non ha voluto attribuire rilevanza disciplinare alla violazione dell’obbligo di certificazione – al pari, secondo la gran parte dei commentatori[5], di quello di vaccinazione, laddove prescritto – per la considerazione attribuita alle ragioni personalissime che possono indurre taluni a sottrarvisi; tali ragioni a oggi sono state ritenute meritevoli di qualche tutela, sebbene soccombenti nel bilanciamento con le esigenze di salute pubblica espressamente salvaguardate dalla legge.
In questo quadro normativo, l’attribuzione di rilevanza disciplinare solo all’omissione del magistrato appare irragionevole, poiché risulta difficile giustificarla in base a ragioni oggettive – quali il rilievo costituzionale della sua funzione e l’essenzialità del servizio giudiziario – quando l’identico comportamento di ogni altro funzionario pubblico ne risulti esentato.
Va aggiunto che invece l’accesso del magistrato privo di green pass all’ufficio giudiziario configura illecito disciplinare, punito con la sanzione non inferiore alla censura. Si tratta al contempo di una violazione sanzionata anche in via amministrativa. Salvo che per il diretto richiamo all’art. 12 d. lgs. 109/2016, queste specifiche norme dettate per i magistrati (art. 2, terzo e sesto comma) non si discostano sostanzialmente da quelle dettate in generale per il personale pubblico.
Ai magistrati onorari si applica, in quanto compatibile, il medesimo regime sanzionatorio (art. 2, quarto comma). In tal modo il legislatore finisce per accomunarli al regime, espressamente qualificato come “disciplinare”, dei magistrati togati. Il criterio di compatibilità non è idoneo a segnare una demarcazione chiara tra le due categorie. Pertanto è verosimile che in questo passaggio normativo si rinvenga un altro tassello nella costruzione giuridica che vedrebbe attribuita agli onorari, per comparazione con l’attività e la disciplina dei magistrati ordinari, la qualità di lavoratori professionali, se non addirittura subordinati.
Il procuratore generale presso la corte d’appello è individuato come responsabile della sicurezza tenuto a verificare il possesso della certificazione da parte di tutti i magistrati ordinari del distretto. Perché tale previsione abbia una sua effettività il quinto comma dell’art. 2 prevede che egli possa avvalersi di propri delegati. Si può immaginare che nei circondari diversi da quello in cui ha sede la corte d’appello il PG si affiderà soprattutto ai procuratori della Repubblica i quali si troveranno dunque ad organizzare sul territorio, a loro volta, i controlli e a individuare le figure titolate alla contestazione degli illeciti.
Per i magistrati onorari, così come per il personale amministrativo, il responsabile della sicurezza coinciderà invece con quello già presente nei rispettivi uffici giudiziari.
6. Obblighi ed esenzioni per il personale operante negli uffici giudiziari diverso dai magistrati
Il personale amministrativo non è più inserito espressamente dal decreto legge, diversamente da quanto riportava il testo circolante in bozza alla vigilia, tra i lavoratori tenuti al green pass per accedere agli uffici giudiziari. L’obbligo gli deriva dunque dalla norma generale relativa a tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
In realtà, se preso alla lettera, l’ultimo comma dell’art. 2 parrebbe esentare pure gli addetti alle cancellerie (“Le disposizioni del presente articolo non si applicano ai soggetti diversi da quelli di cui ai commi 1 e 4 – rispettivamente magistrati professionali e magistrati onorari - n.d.r. – ivi inclusi ..”). La norma va però necessariamente coordinata con quella dell’art. 1, primo comma, anche perché non vi sarebbe ragione per ritenere dispensato il solo personale amministrativo del comparto giustizia da un obbligo altrimenti generalizzato nella P.A.; per converso il carattere apparentemente drastico dell’ultimo comma dell’art. 2 si spiega con la finalità di escludere tutte le categorie elencate nella sua parte terminale.
Per il personale di cancelleria è dunque nell’art. 1 che si rinviene la disciplina attinente i poteri e le responsabilità datoriali nonché le conseguenze delle violazioni in materia.
In virtù dell’esplicita previsione dell’art. 2, quinto comma, il Ministero della giustizia è l’unico dicastero cui sia affidato il potere di adottare modalità ad hoc. Per tutte le altre Amministrazioni, in base al quinto comma dell’art. 1, spetta invece alla Presidenza del Consiglio provvedervi.
Si auspica che il Ministro della giustizia assolva al compito, non agevole, con l’attenzione richiesta dalla parcellizzazione delle strutture giudiziarie sul territorio e dalla storica inadeguatezza del patrimonio immobiliare che vi è dedicato.
La delicatezza di questo compito rischia di essere incrementata dal vero punto dolente della disciplina concernente gli uffici giudiziari: l’esenzione dall’obbligo di green pass per tutti i professionisti che giornalmente praticano Tribunali, Corti e Procure e, tra costoro, soprattutto degli avvocati.
Le ragioni dell’esclusione possono ricercarsi nella loro qualità professionale, che li distingue rispetto ad un contesto normativo tutto impostato sulla relazione tra datore e lavoratore subordinato. La portata persuasiva dell’argomento si affievolisce al cospetto dell’inclusione tra i soggetti obbligati dei magistrati onorari, che – al netto delle rivendicazioni di categoria e di alcuni riconoscimenti giudiziari allo stato non definitivi – operano in presenza di vincoli contrattuali ancor meno stringenti.
Senza inseguire l’ipotesi, malignamente sussurrata, che con l’esonero si sia inteso eliminare possibili pretesti per istanze di rinvio basate sull’indisponibilità della vaccinazione, è più verosimile ritenere che la scelta legislativa sia dipesa dal fatto che l’avvocatura, al pari degli ausiliari del magistrato, non è incardinata in seno all’organizzazione dell’apparato amministrativo che presiede alle verifiche e alle contestazioni degli illeciti.
Questa spiegazione, pur se credibile, rappresenta tuttavia un vulnus per quanti – non solo all’interno dell’avvocatura – vedono nella figura del difensore una componente ineliminabile non del solo momento processuale, ma dell’intero assetto giudiziario.
In ogni caso, più che indagare le ragioni di una siffatta soluzione normativa, importa qui valutarne gli effetti. Il numero degli avvocati che hanno motivo di accedere agli uffici giudiziari rimane, anche dopo l’informatizzazione di molte attività, elevatissimo; in molti processi esso è preponderante rispetto a quello del personale di magistratura e amministrativo.
È quindi evidente che gli obiettivi di tutela della salute pubblica e di mantenimento di condizioni di sicurezza adeguate sarebbero molto più facilmente perseguibili vincolando la componente forense agli stessi o ad obblighi analoghi a quelli prescritti per i pubblici dipendenti. L’immagine di un’aula affollata da pochi giudici e cancellieri muniti di certificazione verde e di una moltitudine di avvocati e parti che ne siano potenzialmente sprovvisti contrasta in modo lampante con le finalità enunciate nella norma.
Allo stato attuale, non resta che confidare nella capacità dell’Amministrazione giudiziaria di allestire spazi convenienti per garantire le migliori misure di prevenzione dei pericoli di contagio, nel breve periodo fino alla conclusione del periodo emergenziale (15 dicembre). Inevitabile sarà il ricorso ancora massiccio, laddove possibile, ai meccanismi alternativi di trattazione, la cui utilizzabilità è stata ancora prorogata dell’art. 7, primo comma, d.l. 105/2021, e che peraltro sono stati concepiti soprattutto per le udienze meno affollate.
Le incertezze legate all’evoluzione del quadro pandemico e le difficoltà applicative della nuova disciplina rendono tutt’altro che improbabile l’introduzione di modifiche rilevanti e nuove misure in sede di conversione. Non è peraltro marginale il rilievo per cui la conversione avverrà a meno di un mese dalla scadenza attuale del periodo emergenziale.
[1] In particolare gli artt. da 1 a 3 del d.l. 127/2021 introducono altrettanti articoli (da 9-quinquies a 9-septies) al d.l. 52/2021, conv. nella legge 87/2021, secondo la tecnica già adottata nel 10 settembre 2021, n. 122, per il settore scolastico. Nel presente scritto si preferisce comunque riferire della disciplina in commento citando gli articoli dell’ultimo d.l., menzionando espressamente gl’innesti nel d.l. 52 quando opportuno.
[2] Allo stato è la circolare del Ministero della Salute del 4 agosto 2021 sulle certificazioni di esenzione alla vaccinazione anti Covid-19, aventi validità sino al 30 settembre.
[3] D.l. 122/2021, già menzionato nella nota 1.
[4] Cfr. art. 2 d. lgs. 109/2006.
[5] Per una rassegna della dottrina sul punto mi permetto di rinviare al mio precedente intervento Il punto sulla disciplina dell’obbligo vaccinale, in questa rivista, pubblicato il 15 giugno 2021.
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